Monir Shahroudy Farmanfarmaian
Ester Rizzo

Martina Zinni

 

Monir Sharhroudy è stata sicuramente un’artista che è riuscita a creare una mirabile fusione tra l’artigianato tradizionale iraniano e l’astrazione moderna tramite l’incorporazione di motivi geometrici negli specchi a mosaico: un perfetto connubio tra arte persiana e astrazione occidentale. Monir, inoltre, ha espresso la sua vena artistica anche tramite tessuti, assemblaggi scultorei, tappeti e gioielli.

Donne in astrazione

Era nata il 16 dicembre del 1922 a Qavzin, città religiosa ubicata sull’altopiano centrale dell’Iran. Crebbe in seno a una famiglia colta e in un’antica casa colma di dipinti murali, di vetri colorati e di usignoli. Sin dall’infanzia dimostrò una spiccata sensibilità artistica e i familiari le concessero di fruire di lezioni di disegno tramite un tutor. La sua curiosità per l’arte occidentale la spingeva a studiare ogni piccolo dettaglio delle cartoline illustrate che provenivano da un’altra parte di mondo. Dopo aver frequentato la facoltà di Belle Arti dell’Università di Teheran, nel 1944, durante la Seconda guerra mondiale, si trasferì a New York per perfezionare i suoi studi alla Cornell University e in seguito alla Parsons School of Design e all’Art Students League. In realtà lei avrebbe voluto proseguire la formazione a Parigi ma il conflitto mondiale in corso glielo impedì.

La sua nuova vita americana le offrì occasioni di scambi e di crescita culturale. Fu amica di Joan Mitchell, Andy Warhol, Jackson Pollock, Milton Avery e di Louise Nevelson. Quest’ultima, figura femminile emblematica dell’Arte del Novecento, era una scultrice ucraina naturalizzata americana la cui arte scaturiva dall’assemblaggio di mobili e suppellettili usate, soprattutto in legno. Da ognuna di queste conoscenze Monir apprendeva avidamente nuovi stili e nuove prospettive artistiche. Per un certo periodo fu anche freelance e collaborò come illustratrice di moda con varie riviste, tra cui Glamour. Nel 1950 convolò a nozze con l’artista iraniano Manoucher Yektai ma il matrimonio fu breve; infatti, divorziarono dopo appena tre anni di vita in comune. Si risposò con Abol-Bashar Mirza Farmam Framaian, membro di una delle più antiche famiglie persiane in cui si annoverano nella dinastia anche principi. Con lui visse fino al 1991, anno in cui restò vedova e con due figlie.

Ritornata definitivamente in Iran nel 1992, proseguì a lavorare nel suo Paese d’origine fino alla morte avvenuta il 20 aprile del 2019. La sua è stata definita un’arte multidimensionale che «incorpora una svariata gamma di influenze compositive che partono comunque quasi sempre dalla geometria». Lei stessa dichiarò:

«il mio lavoro si basa in gran parte sulla geometria che inizia sempre con un unico punto e da lì può spostarsi in un cerchio. Oppure un punto può diventare tre che portano ad un triangolo, o quattro a un quadrato, cinque un pentagono… un esagono, un ottagono e così via: è infinito».

Giochi di specchio e disegni, 2004-2016 Terza famiglia, 2011 Fontana Khayyam

Quando intorno agli anni Settanta si recò in visita alla moschea di Shah Ceragh, a Shiraz, fu rapita dall’alta cupola ricoperta di minuscoli specchi: un’antica decorazione denominata ainh-kari. Questa decorazione si diffuse intorno al 1500 in Iran quando spesso il vetro importato dall’Europa arrivava frantumato per la difficoltà dei trasporti in quei tempi. Quella cupola magnifica e luminosa costituì un punto di svolta nel suo percorso artistico:

«Lo spazio stesso sembrava in fiamme, le lampade ardevano in centinaia di migliaia di riflessi… era un universo a sé stante, l’architettura trasformata in performance, tutto movimento e luce fluida, tutti i solidi fratturati e dissolti in splendore nello spazio, in preghiera. Ero sopraffatta».

Avvalendosi dell’aiuto di artigiani iraniani creò una serie di mosaici tagliando gli specchi in varie forme secondo un mestiere tradizionale che si tramandava di padre in figlio. Il miracolo artistico che Monir Sharhroudy riuscì a compiere fu quello, comunque, di creare opere artistiche che avevano radici iraniane ma che al contempo si intrecciavano ad altre culture.

Le sue composizioni hanno sempre ricevuto ampi consensi e il plauso della critica. Nel 1958 ricevette una medaglia d’oro al padiglione iraniano della Biennale di Venezia. Molte sue opere si possono ammirare al Museo d’Arte Contemporanea di Teheran e al Metropolitan Museum of Art di New York. Tantissime mostre temporanee dei suoi lavori sono state accolte al MoMA e al Guggenheim di New York, al Victoria & Albert Museum di Londra e in altri prestigiose istituzioni di Boston, Chicago, Huston, Parigi, Vienna, Porto, Beirut, Tokyo, Dubai. Il 16 dicembre del 2017, a Teheran, nei giardini dello storico parco Negarestan è stato inaugurato il Monir Museum, il primo museo iraniano interamente dedicato a una donna artista che raccoglie 51 opere da lei stessa donate. Nel 2014 è stato prodotto, con il sostegno dell’Iran Heritage Foundation, un docufilm dal titolo Monir che racconta la storia di questa grande artista attraverso filmati e interviste d’archivio per arrivare agli ultimi anni della sua attività e agli ultimi progetti a cui si dedicava. In una delle interviste dichiarò:

«Io non sono un’intellettuale. Osservo molto. Qualsiasi cosa io realizzi è grazie ai miei occhi. Per un certo periodo viaggiare mi ha aiutato molto. Osservare diversi Paesi e diverse culture ha creato su di me una sorta di intelligenza ottica».

Molti critici e critiche d’arte sono concordi nell’affermare che la sua arte evoca una danza di luce, che suscita meraviglia e al contempo induce alla riflessione e alla contemplazione.

Il linguaggio dei simboli

Traduzione francese

Lucrezia Pratesi

Monir Shahroudy fut sans aucun doute une artiste qui réussit à créer une admirable fusion entre l’artisanat traditionnel iranien et l’abstraction moderne, en incorporant des motifs géométriques dans des miroirs en mosaïque : une parfaite alliance entre l’art persan et l’abstraction occidentale. Monir exprima également son talent artistique à travers les textiles, les assemblages sculpturaux, les tapis et les bijoux.

Femmes en abstraction

Elle naquit le 16 décembre 1922 à Qavzin, une ville religieuse située sur le plateau central de l’Iran. Elle grandit au sein d’une famille cultivée, dans une ancienne maison ornée de peintures murales, de vitraux colorés et peuplée du chant des rossignols. Dès l’enfance, elle manifesta une sensibilité artistique marquée, et sa famille lui permit de prendre des cours de dessin avec un précepteur. Sa curiosité pour l’art occidental la poussait à étudier chaque détail des cartes postales illustrées venues d’un autre coin du monde. Après avoir fréquenté la faculté des Beaux-Arts de l’Université de Téhéran, elle s’installa à New York en 1944, pendant la Seconde Guerre mondiale, afin de poursuivre ses études à la Cornell University, puis à la Parsons School of Design et à l’Art Students League. En réalité, elle aurait souhaité poursuivre sa formation à Paris, mais le conflit mondial en cours l’en empêcha.

Sa nouvelle vie américaine lui offrit de nombreuses occasions d’échanges et d’enrichissement culturel. Elle se lia d’amitié avec Joan Mitchell, Andy Warhol, Jackson Pollock, Milton Avery et Louise Nevelson. Cette dernière, figure féminine emblématique de l’art du XXe siècle, était une sculptrice d’origine ukrainienne naturalisée américaine, dont les œuvres naissaient de l’assemblage de meubles et d’objets domestiques usagés, souvent en bois. De chacune de ces rencontres, Monir absorbait avidement de nouveaux styles et de nouvelles perspectives artistiques. Pendant un certain temps, elle travailla aussi en freelance comme illustratrice de mode pour divers magazines, dont Glamour. En 1950, elle épousa l’artiste iranien Manoucher Yektai, mais le mariage fut de courte durée : ils divorcèrent après seulement trois ans de vie commune. Elle se remaria ensuite avec Abol-Bashar Mirza Farmanfarmaian, membre de l’une des plus anciennes familles persanes, où l’on comptait également des princes. Elle vécut avec lui jusqu’en 1991, année de son veuvage, avec deux filles à charge.

De retour définitivement en Iran en 1992, elle continua à travailler dans son pays natal jusqu’à sa mort, survenue le 20 avril 2019. Son art a été défini comme un art multidimensionnel qui « incorpore une large gamme d’influences compositionnelles, presque toujours fondées sur la géométrie ». Elle-même déclara:

«Mon travail repose en grande partie sur la géométrie, qui commence toujours par un seul point, et de là peut se déployer en un cercle. Ou bien un point peut devenir trois, formant un triangle ; quatre, un carré ; cinq, un pentagone… un hexagone, un octogone, et ainsi de suite: c’est infini».

Jeux de miroir et dessins, 2004-2016 Troisième famille, 2011 Fontaine Khayyam

Vers les années soixante-dix, lors d’une visite à la mosquée Shah Cheragh à Shiraz, elle fut profondément fascinée par la grande coupole recouverte de minuscules miroirs : une ancienne décoration appelée ainé-kari. Cette technique se diffusa en Iran autour de 1500, lorsque le verre importé d’Europe arrivait souvent brisé à cause des difficultés de transport. Cette coupole magnifique et lumineuse constitua un tournant dans son parcours artistique:

«L’espace lui-même semblait en feu, les lampes brûlaient dans des centaines de milliers de reflets… c’était un univers à part, l’architecture transformée en performance, tout n’était que mouvement et lumière fluide, les formes solides se fracturaient et se dissolvaient en splendeur dans l’espace, en prière. J’étais submergée».

Avec l’aide d’artisans iraniens, elle réalisa une série de mosaïques en découpant les miroirs selon un savoir-faire traditionnel transmis de père en fils. Le miracle artistique accompli par Monir Shahroudy fut de créer des œuvres profondément enracinées dans la culture iranienne tout en s’ouvrant à d’autres influences culturelles.

Ses compositions furent toujours accueillies avec enthousiasme et louées par la critique. En 1958, elle reçut une médaille d’or au pavillon iranien de la Biennale de Venise. Nombre de ses œuvres sont visibles au Musée d’Art Contemporain de Téhéran et au Metropolitan Museum of Art de New York. De nombreuses expositions temporaires de ses travaux ont été présentées au MoMA et au Guggenheim de New York, au Victoria & Albert Museum de Londres, ainsi que dans d’autres prestigieuses institutions à Boston, Chicago, Houston, Paris, Vienne, Porto, Beyrouth, Tokyo et Dubaï. Le 16 décembre 2017, à Téhéran, dans les jardins du parc historique Negarestan, a été inauguré le Monir Museum, premier musée iranien entièrement consacré à une femme artiste, réunissant 51 œuvres qu’elle avait elle-même offertes. En 2014, un documentaire intitulé Monir a été produit avec le soutien de l’Iran Heritage Foundation. Ce film retrace la vie de cette grande artiste à travers des images d’archives et des entretiens, jusqu’aux dernières années de sa carrière et à ses projets ultimes. Dans l’une de ces interviews, elle affirma:

«Je ne suis pas une intellectuelle. J’observe beaucoup. Tout ce que je réalise vient de mes yeux. Voyager m’a beaucoup aidée pendant un certain temps. Observer différents pays et différentes cultures m’a donné une sorte d’intelligence optique».

De nombreux critiques d’art s’accordent à dire que son œuvre évoque une danse de lumière, suscitant à la fois l’émerveillement, la réflexion et la contemplation.

Le langage des symboles

Traduzione spagnola

Laura Cavallaro

Monir Sharoudy fue sin duda una artista que logró crear una admirable fusión entre la artesanía tradicional iraní y la abstracción moderna mediante la incorporación de motivos geométricos en los espejos en mosaico: una perfecta unión entre el arte persa y la abstracción occidental. Además, Monir expresó su vena artística a través de tejidos, ensamblajes escultóricos, alfombras y joyas.

Mujeres en abstracción

Nació el 16 de diciembre de 1922 en Qazvín, una ciudad religiosa situada en la meseta central de Irán. Se crió en el seno de una familia culta y en una antigua casa llena de pinturas murales, vidrieras de colores y ruiseñores. Desde la infancia demostró una marcada sensibilidad artística y su familia le permitió recibir clases de dibujo con un tutor. Su curiosidad por el arte occidental la llevaba a estudiar con atención cada pequeño detalle de las postales ilustradas que llegaban de otras partes del mundo. Tras cursar sus estudios en la Facultad de Bellas Artes de la Universidad de Teherán, en 1944, durante la Segunda Guerra Mundial, se trasladó a Nueva York para perfeccionar su formación en la Cornell University y, posteriormente, en la Parsons School of Design y en la Art Students League. En realidad, ella habría querido continuar sus estudios en París, pero la guerra mundial en curso se lo impidió.

Su nueva vida en Estados Unidos le ofreció oportunidades de intercambio y crecimiento cultural. Fue amiga de Joan Mitchell, Andy Warhol, Jackson Pollock, Milton Avery y Louise Nevelson. Esta última, una figura femenina emblemática del arte del siglo XX, era una escultora ucraniana nacionalizada estadounidense cuya obra surgía del ensamblaje de muebles y utensilios usados, sobre todo de madera. De cada una de estas amistades Monir aprendía con avidez nuevos estilos y nuevas perspectivas artísticas. Durante un tiempo trabajó también como independiente, colaborando como ilustradora de moda para diversas revistas, entre ellas Glamour. En 1950 contrajo matrimonio se casó con el artista iraní Manoucher Yektai, pero el matrimonio fue breve: se divorciaron tras apenas tres años de vida en común. Posteriormente se casó con Abol-Bashar Mirza Farman Farmaian, miembro de una de las familias persas más antiguas, en cuya dinastía se contaban incluso príncipes. Vivió con él hasta 1991, año en que enviudó y se quedó con dos hijas.

Regresó definitivamente a Irán en 1992, siguió trabajando en su país natal hasta su muerte, que ocurrió el 20 de abril de 2019. Su arte ha sido definido como multidimensional, ya que «incorpora una amplia gama de influencias compositivas que parten casi siempre de la geometría». Ella misma declaró:

«Mi trabajo se basa en gran parte en la geometría, que siempre comienza con un único punto, y desde ahí puede expandirse en un círculo. O bien un punto puede convertirse en tres, que forman un triángulo, o cuatro, que hacen un cuadrado, cinco, un pentágono… un hexágono, un octágono, y así sucesivamente: es infinito».

Juegos de espejos y dibujos, 2004-2016 Tercera familia, 2011 Fuente Khayyam

Cuando en los años setenta visitó la mezquita de Shah Cheragh, en Shiraz, quedó fascinada por la alta cúpula recubierta de diminutos espejos: una antigua decoración llamada ainh-kari. Esta ornamentación se difundió alrededor del año 1500 en Irán, cuando con frecuencia el vidrio importado de Europa llegaba roto debido a las dificultades del transporte en aquellos tiempos. Aquella cúpula magnífica y luminosa representó un punto de inflexión en su trayectoria artística:

«El espacio mismo parecía estar en llamas; las lámparas ardían en cientos de miles de reflejos… era un universo propio, la arquitectura transformada en una actuación, todo movimiento y luz fluida, todos los sólidos fracturados y disueltos en esplendor en el espacio, en oración. Estaba agobiada».

Con la ayuda de artesanos iraníes creó una serie de mosaicos cortando los espejos en distintas formas, siguiendo un oficio tradicional transmitido de padres a hijos. El milagro artístico que Monir Sharoudy consiguió fue el de crear obras con raíces iraníes que, al mismo tiempo, se entrelazaban con otras culturas.

Sus composiciones siempre recibieron gran reconocimiento y elogios de la crítica. En 1958 obtuvo una medalla de oro en el pabellón iraní de la Bienal de Venecia. Muchas de sus obras pueden admirarse en el Museo de Arte Contemporáneo de Teherán y en el Metropolitan Museum of Art de Nueva York. Numerosas exposiciones temporales de sus trabajos han sido acogidas por el MoMA y el Guggenheim de Nueva York, el Victoria & Albert Museum de Londres y otras prestigiosas instituciones de Boston, Chicago, Houston, París, Viena, Oporto, Beirut, Tokio y Dubái. El 16 de diciembre de 2017, en Teherán, en los jardines del histórico parque Negarestan, se inauguró el Museo Monir, el primer museo iraní dedicado por completo a una mujer artista, que alberga 51 obras donadas por ella misma. En 2014 se produjo, con el apoyo de la Iran Heritage Foundation, un documental titulado Monir, que narra la historia de esta gran artista a través de grabaciones y entrevistas de archivo hasta llegar a los últimos años de su vida y a los proyectos finales en los que trabajaba. En una de las entrevistas afirma:

«No soy una intelectual. Observo mucho. Todo lo que realizo es gracias a mis ojos. Durante un tiempo, viajar me ayudó mucho. Observar distintos países y culturas desarrolló en mí una especie de inteligencia óptica».

Muchos críticos de arte coinciden en afirmar que su obra evoca una danza de luz, que provoca asombro y, al mismo tiempo, invita a la reflexión y la contemplación.

El lenguaje de los símbolos

Traduzione inglese

Syd Stapleton

Monir Sharhroudy was certainly an artist who managed to create an admirable fusion of traditional Iranian craftsmanship and modern abstraction through the incorporation of geometric patterns in mosaic mirrors - a perfect blend of Persian art and Western abstraction. Monir also expressed her artistic vein through textiles, sculptural assemblages, carpets and jewelry. 

Women in abstraction

She was born on December 16, 1922, in Qavzin, a religious town located on Iran's central plateau. She grew up in the bosom of an educated family and in an old house filled with wall paintings, stained glass and nightingales. From childhood she demonstrated a keen artistic sensibility, and family members granted her drawing lessons through a tutor. Her curiosity for Western art drove her to study every little detail of picture postcards that came from another part of the world. After attending the Faculty of Fine Arts at the University of Tehran, she moved to New York in 1944 during World War II to further her studies at Cornell University and later at Parsons School of Design and the Art Students League. She actually wanted to continue her education in Paris but the ongoing world conflict prevented her from doing so.

Her new American life offered her opportunities for exchange and cultural growth. She was friends with Joan Mitchell, Andy Warhol, Jackson Pollock, Milton Avery and Louise Nevelson. The latter, an emblematic female figure in twentieth-century art, was a naturalized Ukrainian American sculptor whose art stemmed from assembling used furniture and furnishings, mostly made of wood. From each of these acquaintances Monir eagerly learned new styles and new artistic perspectives. For a time she also freelanced and worked as a fashion illustrator with various magazines, including Glamour. In 1950 she married Iranian artist Manoucher Yektai but the marriage was short-lived; in fact, they divorced after just three years of living together. She remarried Abol-Bashar Mirza Farmam Framaian, a member of one of the oldest Persian families in which princes are also counted in the dynasty. She lived with him until 1991, when she was widowed with two daughters.

She returned permanently to Iran in 1992 and continued to work in her home country until her death on April 20, 2019. Hers has been called a multidimensional art that "incorporates a diverse range of compositional influences that almost always start from geometry, however." She herself stated:

«My work is largely based on geometry that always begins with a single point and from there can move into a circle. Or one point can become three leading to a triangle, or four to a square, five a pentagon ... a hexagon, an octagon and so on: it's infinite».

Mirror games and drawings, 2004-2016 Third family, 2011 Khayyam fountain

When she visited the Shah Ceragh Mosque in Shiraz around the 1970s, she was enraptured by the high dome covered with tiny mirrors: an ancient decoration called ainh-kari. This decoration spread around 1500 in Iran when glass imported from Europe often arrived shattered due to the difficulty of transportation in those times. That magnificent, luminous dome constituted a turning point in her artistic journey:

«The space itself seemed to be on fire, the lamps blazing in hundreds of thousands of reflections...it was a universe unto itself, architecture turned into performance, all movement and fluid light, all solids fractured and dissolved into splendor in space, into prayer. I was overwhelmed.».

Enlisting the help of Iranian craftsmen, she created a series of mosaics by cutting mirrors into various shapes according to a traditional craft passed down from father to son. The artistic miracle that Monir Sharhroudy managed to accomplish, however, was to create artistic works that had Iranian roots but at the same time were intertwined with other cultures.

Her compositions always received wide acclaim and critical acclaim. In 1958 she received a gold medal at the Iranian pavilion of the Venice Biennale. Many of her works can be seen at the Tehran Museum of Contemporary Art and the Metropolitan Museum of Art in New York. Many temporary exhibitions of her work have been welcomed at MoMA and the Guggenheim in New York, the Victoria & Albert Museum in London, and other prestigious institutions in Boston, Chicago, Huston, Paris, Vienna, Porto, Beirut, Tokyo, and Dubai. On December 16, 2017, in Tehran, the Monir Museum, Iran's first museum entirely dedicated to a woman artist, was inaugurated in the gardens of the historic Negarestan Park, collecting 51 works donated by her. In 2014, a docufilm entitled Monir was produced with the support of the Iran Heritage Foundation, which tells the story of this great artist through archival footage and interviews to get to the last years of her work and the last projects to which she devoted herself. In one of the interviews she stated:

«I am not an intellectual. I observe a lot. Whatever I accomplish is through my eyes. For a time traveling helped me a lot. Observing different countries and different cultures has created a kind of optical intelligence for me».

Many critics and art critics agree that her art evokes a dance of light, which arouses wonder and at the same time induces reflection and contemplation.

The language of symbols