Rosa Luxemburg
Sara Balzerano



Giulia Tassi

 

Ci sono storie che andrebbero raccontate dalla fine, dall’ultimo atto, dall’istante immobile e sospeso che precede la chiusura del sipario. Sono semi, queste storie, germogli non ancora spuntati che hanno il destino di servire nel futuro, generazione e generazione, ancora e ancora, preziosi come le provviste inaspettate in un inverno rigido e interminabile. La fine di questa storia, la zolla di terra che copre l’ultimo scampolo di sole è il 15 gennaio 1919. Siamo a Berlino. Un uomo e una donna vengono prelevati da squadracce paramilitari nel quartiere di Wilmersdorf e condotti all’Hotel Eden. Qui vengono interrogati, torturati e uccisi. Lui, fucilato; lei, picchiata con il calcio delle armi e poi finita con un colpo alla testa; tutti e due sono poi gettati nelle fangose e gelide acque del Landwehrkanal. I nomi di questo uomo e questa donna sono Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Entrambi cittadini tedeschi. Entrambi fondatori della Lega di Spartaco — lo Spartakusbund — il movimento della sinistra radicale marxista sorto in Germania nel 1916 e nucleo embrionale di quello che sarà poi il Kommunistische Partei Deutschlands, il Kpd. Entrambi radicali, in un mondo ancora traballante e impolverato da ciò che ne restava dopo la mattanza della Prima guerra mondiale. Entrambi rivoluzionari, decisi a cambiare le vecchie rovine sulle quali, ormai, non poggia più nulla, se non idee e voci che il movimento della storia, orizzontale e verticale, sta cacciando via. Entrambi in prima fila, sul campo, nella regìa e nelle strade, affinché alle parole seguano azioni che mostrino quanto puro e reale sia il loro impegno. Ma lei è anche altro. È talmente tanto altro che le definizioni sembrano contraddirla perché essa stessa pare contraddirsi, pur rimanendo sempre salda e ferma nei princìpi e nei valori che sorreggerà e che la sorreggeranno per tutta la vita. Sarà indipendente e militerà in un partito; esprimerà le sue idee chiaramente e convintamente e non penserà mai di organizzare queste stesse idee in una forma sistemica; sarà una rivoluzionaria marxista e sarà una convinta pacifista nello stralcio di secolo che pare essersi dimenticato il silenzio di grida e armi; lotterà, contro i suoi compagni di lotta, per difendere la sua autonomia di pensiero e i suoi sentimenti di totale amore verso il mondo.

Comunque la si osservi, la si legga e la si conosca, Rosa Luxemburg ci appare come una sfumatura della tinta ben più complessa e preziosa che è stata. Nasce a Zamość, una città della Polonia sudorientale, nel voivodato di Lublino, il 5 marzo del 1871. La sua famiglia è di fede ebraica ashkenazita, agiata, con il padre commerciante di legname, di idee liberali, e la madre, donna religiosa e profondamente istruita che la indirizza allo studio della Torah e alla lettura dei grandi classici delle letterature polacca e tedesca. La sua infanzia, dunque, vive e respira già di altro, di libri e di cultura. E la piccola Rosa sembra raccogliere a piene mani questa compresenza e commistione: impara a leggere e a scrivere in tenera età e da autodidatta, e darà sempre alla scrittura una funzione di assoluta preziosità, tanto che, in una lettera del 23 giugno 1898 indirizzata a Robert Seidel, afferma: «Sono scontenta della maniera in cui la maggioranza dei membri del Partito scrive i propri articoli. Sono tutti così convenzionali, così legnosi, così stereotipati. […] Quando scrivo, mi impongo di non dimenticare mai di guardarmi dentro e di entusiasmarmi per quello che sto dicendo».

La politica la accompagna praticamente sempre: già nel 1884, mentre frequenta un liceo femminile di Varsavia, si avvicina al gruppo clandestino rivoluzionario Proletariat e, per sfuggire all’arresto dei suoi membri, nel 1889 attraversa il confine austro-ungarico nascosta in un carro di fieno. Si trasferisce quindi in Svizzera e a Zurigo frequenta prima la facoltà di filosofia e poi quella di giurisprudenza, nel 1892, dove si laurea nel 1897 con la tesi Die industrielle Entwicklung Polens (Lo sviluppo industriale della Polonia). Accanto a questi studi, però, Rosa Luxemburg segue anche corsi di matematica e — soprattutto — di botanica. E così sarà per il resto della sua vita. Alle barricate e alle piazze affianca l’amore e il bisogno fisico della natura, anche se questa le mostra quanto l’essere umano sia niente al suo confronto: «Credo che al cospetto del mare, di fronte alla sua perpetua, immutabile, sublime indifferenza non si possa che esseri colti dallo sconvolgente sentimento della propria nullità. […] È il nemico della vanità umana che è convinta di essere qualcosa e d’improvviso invece collassa nel nulla». Alle gonne infangate dell’eterno cammino verso uguaglianza e giustizia, affianca il desiderio di vedere i propri vestiti sporchi semplicemente di colori, olii e pastelli: «Ah, Dudu, se per due anni potessi dedicarmi solo alla pittura! Mi divorerebbe completamente. Non andrei a lezione da nessun pittore e non chiederei neppure consigli, vorrei imparare solo dipingendo e facendo magari qualche domanda a te di tanto in tanto. Ma questi sono sogni vani, non posso farlo. La mia miserabile pittura non serve a nessuno, e invece dei miei articoli le persone hanno bisogno». Alle sbarre serrate di una prigione contrappone il senso di libertà che sente invaderla al solo pensare alla vita, al fatto di esserlo ancora, viva, a ciò che fuori da quelle nere mura di costrizione la sta aspettando: «Me ne sto qui, ad esempio, in questa cella oscura, sopra un materasso duro come la pietra, intorno a me nell’edificio regna come di regola un silenzio di tomba, sembra di essere rinchiusi in un sepolcro: attraverso la finestra si disegna sul soffitto il riflesso della lanterna accesa l’intera notte davanti al carcere. Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza; oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sente risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell’esistenza. Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigionia invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità».

È una donna libera, Rosa Luxemburg, indomita, mai remissiva, che sa andare anche contro i suoi stessi compagni quando si sente spodestata del proprio ruolo, della parola, della propria personalità: «Devo ammettere che a Jena ero furiosa con lei perché si era preso la briga di volermi difendere e la sua strategia tutta sbagliata mi ha causato più danni che altro. Voleva difendere la mia morale e per questo ha sacrificato la mia posizione politica. Ha fatto l’esatto contrario di quello che doveva. La mia morale non ha bisogno di alcuna difesa» (lettera a Konrad Haenisch, 2 dicembre 1911). Non ha mai sopportato l’addomesticazione del pensiero femminile, né da parte del partito né da parte degli uomini che la affiancano nella sua vita. Ecco cosa scrive a Leo Jogiches, conosciuto in Svizzera nel 1890: «Tu non ti accorgi affatto che tutta la tua corrispondenza ha un carattere disgustoso: il tono generale è quello di una predica noiosa e pedante, come le lettere del maestro a un caro alunno… Questa è la conseguenza di un tuo vecchio vizio che ha rovinato completamente la nostra convivenza, cioè il tuo vizio di far da mentore, per cui ti senti continuamente chiamato a insegnarmi e a fare sempre e in tutto la parte del mio maestro… Di fronte a questo, non posso che limitarmi a scrollare le spalle».

Il riscatto non lo cerca soltanto per le classi povere e sfruttate, ma anche per la natura in tutte le sue forme. Difende le ragioni degli ultimi e delle ultime, che sia in una cella o su una barricata. Combatte per cancellare brutture e orrori. E sa godere del più piccolo segnale che l’esistenza che le respira intorno le manda da cogliere. Pare vedere nel fermo immagine del carcere un sipario pronto a schiudersi su uno spettacolo sempre nuovo. Fa della gioia un’arte, di essa gode e si stupisce, e la mangia e la assapora, e sa, vuole, che essa sia per tutti e tutte. Si batte per la bellezza. Per la verità, che è bellezza. Per l’uguaglianza, che è bellezza. Per la giustizia, che è bellezza. Per la bellezza fine a sé stessa, che riesce a pareggiare — forse e in una qualche maniera — i conti che, nel calcolo del capitalismo e della guerra, non tornano mai. È un’aquila, così come Lenin l’ha definita, perché dell’aquila ha lo sguardo dall’alto, lo slancio di reni che le permette di volare dal battuto impervio e insanguinato della strada alle vette pulite e fresche, lì dove c’è ossigeno e fiato profondo. Eppure, anche lei che si indica come una cinciallegra — tanto da chiedere a una sua amica che sulla propria lapide sia inciso solo zvì zvì, il verso di questo piccolo uccellino — non sbaglia. Perché questo passero è intelligente e intraprendente, chiacchierone ed esploratore, e prezioso, poiché avverte col suo canto le persone di un pericolo imminente, prevedendo così il futuro. E cos’è una rivoluzionaria se non questo? E cosa fa una donna che cerca, sa, trova la felicità ovunque, se non questo? Rosa Luxemburg spende la propria vita nel tentare di combattere le sofferenze altrui, mentre lei, le proprie, non le esibisce mai, celandole nel pudore e nella speranza. Eppure, per la crudele ironia di cui a volte la vita si ammanta, le barbarie che soffre per mano dei suoi assassini sono invece ben visibili sul suo corpo martoriato. Ci sono storie che devono essere raccontate dalla fine, dall’ultimo atto, dall’istante immobile e sospeso che precede la chiusura del sipario. Di Rosa Luxemburg, quel 15 gennaio 1919 non rimane che una scarpa, raccolta da mano anonima e misericordiosa, e salvata dalla fanghiglia che la stava ricoprendo.

Quella scarpa ha bloccato l’ingranaggio del sipario, ha permesso al sole di arrivare e far germogliare il seme che si è provato a far seccare per sempre. «Vede, dappertutto è la felicità, se ne può trovare e raccogliere un po’ a ogni angolo della strada, e di continuo ci viene ricordato che la vita è bella e ricca».

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

There are stories that should be told from the end, from the last act, from the motionless and suspended instant that precedes the closing of the curtain. They are seeds, these stories, not yet sprouted shoots that have a destiny to serve in the future, generation after generation, again and again, as precious as unexpected supplies in a harsh and interminable winter. The end of this story, the lump of earth that covers the last remnant of the sun, is January 15, 1919. We are in Berlin. A man and a woman are picked up by paramilitary squads in the Wilmersdorf neighborhood and taken to the Eden Hotel. There they are interrogated, tortured and killed. He, shot; her, beaten with the butts of guns and then finished with a blow to the head. Both are then thrown into the icy, muddy waters of the Landwehrkanal. The names of this man and this woman are Karl Liebknecht and Rosa Luxemburg. Both German citizens. Both founders of the League of Spartacus - the Spartakusbund - the movement of the radical Marxist left born in Germany in 1916 and the embryonic nucleus of what would later become the Kommunistische Partei Deutschlands, the KPD. Both radicals, in a world still shaken and ravaged as a consequence of the slaughter that was the First World War. Both revolutionaries, determined to change the old ruins on which, by now, nothing rests, except ideas and voices that the movement of history, horizontal and vertical, is chasing away away. Both on the front lines, in the field of action, in the leadership and on the streets, such that their words are followed by actions that show how pure and real their commitment is. But she is also something else. She is so much more that definitions seem to contradict themselves, because she seems to be a contradiction herself, always remaining steadfast and firm in the principles and values ​​that she will uphold and that will sustain her throughout her life. She will be independent and will be active in a party; she will express her ideas clearly and with conviction, yet will never think of organizing these same ideas in a systemic form. She will be a Marxist revolutionary and she will also be a convinced pacifist at the turn of a century that seems to have forgotten that angry voices and weapons could be silent. She will fight, against her fellow fighters, to defend her autonomy of thought and her feelings of total love for the world.

However you look at her, read her and get to know her, Rosa Luxemburg will appears to us in much more complex and precious shades of color. She was born in Zamość, a city in southeastern Poland, in the Voivodeship (Duchy) of Lublin, on March 5, 1871. Her family was of the Ashkenazi Jewish faith, prosperous, her father a timber merchant of liberal ideas, and her mother, a religious and deeply educated woman who directed her to the study of the Torah and the reading of the great classics of Polish and German literature. Thus, her childhood already lived and breathed that “something else” - books and culture. And the little Rosa seemed to fully absorb and reflect this mixture. She learned to read and write at an early age, and as a self-taught person always had within her writing an absolute and precious independence, so much so that in a June 23, 1898 letter that she addressed to Robert Seidel, she said, «I am dissatisfied with the way in which the majority of Party members write their articles. They are all so conventional, so wooden, so stereotypical. […] When I write, I make it my duty never to forget to look inside myself and get excited about what I'm saying.»

She was almost always engaged in, and by, politics. Already in 1884, while attending a girls' high school in Warsaw, she joined with the underground revolutionary group Proletariat and in 1889, to escape the arrest of its members, she crossed the Austro-Hungarian border hidden in cartload of hay. She then moved to Switzerland and in Zurich she first attended the faculty of philosophy and, in 1892, that of law, where she graduated in 1897 with the thesis Die Industrielle Entwicklung Polens (The Industrial Development of Poland). Alongside these studies, however, Rosa Luxemburg also followed courses in mathematics and - above all - in botany. And she would for the rest of her life. Alongside the barricades and city squares she combined a love of and a physical need for nature, even if this showed her how much the human being is nothing in comparison. «I believe that in the presence of the sea, in the face of its perpetual, immutable, sublime indifference one cannot but be caught by the overwhelming feeling of one's own nothingness. [...] It is that enemy, human vanity, that is convinced of being something and then suddenly collapses into nothingness.» Alongside the muddy skirts of the eternal journey towards equality and justice, she also had the desire to see her clothes simply dirty with colors, oils and pastels: «Ah, Dudu, if I could only devote myself to painting for two years! It would consume me completely. I would not go to any painter’s class and I would not even ask for advice. I would like to learn only by painting and maybe by asking you a few questions from time to time. But these are empty dreams, I can't do it. My miserable painting is of no use to anyone, and instead, people need my articles.» To the locked bars of a prison, she contrasted the sense of freedom that she felt invading her just thinking about life, the fact that she is still alive, and with what is waiting for her outside those constraining black walls. «I am here, for example, in this dark cell, on a mattress as hard as stone, a grave-like silence reigns around me in the building as a rule, it seems like being enclosed in a tomb. Through the window the light of a lantern, lighted whole night in front of the prison, is shining on the ceiling. From time to time we hear the distant gloomy rattle of a train passing in the distance, or, closer, just under the window, the guard who clears his throat and stretches his legs slowly by taking a few steps with his boots. The sand screeches so desperately, under those boots, that in the dark and humid night you can hear all the echoing desolation and despair of existence. I lie here, alone, in silence, wrapped in these multiple black sheets of darkness, of boredom, of winter captivity - and meanwhile my heart beats with an incomprehensible and unknown inner joy, as if I were walking in the radiant sun. on a flowery meadow. And in the dark I smile at life, as if I were aware of some secret enchantment capable of unraveling every sad and evil thing and turning it into splendor and happiness.»

Rosa Luxemburg lived as a free woman, indomitable, never submissive, who also knew how to Stand up against her own companions when she feels dispossessed of her role, of speech, of her personality: "I must admit that I was furious with you in Jena precisely because, while you undertook to defend me, with your totally inappropriate strategy you stabbed me right in the back. You meant to defend my “morality” and to that end surrendered my political position; it was the worst possible way to proceed. My “morality” needs no defense.” (Letter to Konrad Haenisch, December 2, 1911). She never permitted the domestication of female thought, either by the party or by the men who were alongside her in her life. Here is what she wrote to Leo Jogiches, who she knew in Switzerland, in 1890: «You do not realize at all that all your correspondence has a disgusting character: the general tone is that of a boring and pedantic sermon, like the teacher's letters to a dear pupil. ... This is the consequence of an old vice of yours that has completely ruined our relationship, that is your vice of being a mentor, for which you feel continually called to teach me and always and in everything play the part of my teacher ... at this, I can only shrug my shoulders.»

She sought redemption not only for the poor and exploited classes, but also for nature in all its forms. She defended reason to the end, whether in a cell or on a barricade. She fought to erase ugliness and horrors. And she knew how to enjoy the smallest sign that the existence that breathed around her sent for her to grasp. She seemed to see in the still image of the prison a curtain ready to open on an ever new spectacle. She made joy an art, she enjoyed it and was amazed, and ate it and savored it, and she knew it was, wanted it to be, for everyone. She fought for beauty. For the truth, which is beauty. For equality, which is beauty. For justice, which is beauty. For beauty as an end in itself, which would equalize - perhaps and in some way - the accounts that, in the calculations of capitalism and war, never add up. She was an eagle, such as Lenin defined, because an eagle has the view from above, the impulse of adrenaline, that allows it to fly from the bloody beaten path to the clean and fresh peaks, where there is oxygen to breathe free. This is not wrong, even if she saw herself as a small songbird, the tomtit - so much so that she asked one of her friends to have only “zvì zvì” (a tomtit’s song) engraved on her tombstone. Because this small bird is intelligent and resourceful, talkative and an explorer, and precious, as it warns people of imminent danger with its song, thus foreseeing the future. And what is a revolutionary if not this? And what is a woman who seeks, and finds happiness everywhere, if not this? Rosa Luxemburg spent her entire life trying to fight the sufferings of others, while she never exhibited her own sufferings, hiding them with modesty and with hope. Yet, in the cruel irony with which life sometimes wraps itself, the barbarity she suffered at the hands of her murderers was clearly visible on her martyred body. There are stories that must be told from the end, from the last act, from the motionless and suspended instant that precedes the closing of the curtain. Of Rosa Luxemburg, that January 15, 1919, all that remained was a shoe, picked up by an anonymous and merciful hand, and saved from the mud that was covering it.

That shoe blocked the gears of the curtain, it allowed the sun to arrive and sprout the seed that they tried to stamp out forever. «Look, happiness is everywhere, you can find and collect a little on every street corner, and we are constantly reminded that life is beautiful and rich.»

 

Traduzione spagnola
Daniela Leonardi

Hay historias que habría que contar desde el final, desde el último acto, el instante inmóvil y suspendido que precede al cierre del telón. Son semillas, estas historias, brotes por nacer que tienen el destino de servir en el futuro, generación tras generación, una y otra vez, tan valiosos como las provisiones inesperadas en un invierno rígido e interminable. El final de esta historia, el terrón de tierra que cubre la última franja de sol es el 15 de enero de 1919. Estamos en Berlín. Un hombre y una mujer son detenidos por escuadrones paramilitares en el barrio de Wilmersdorf y conducidos al hotel Edén. Ahí son interrogados, torturados y asesinados. Él, fusilado; a ella, la golpearon con la culata de las armas y luego la mataron con un tiro en la cabeza; luego los dos son arrojados en las fangosas y heladas aguas del Landwehrkanal. Los nombres de este hombre y esta mujer son Karl Liebknecht y Rosa Luxemburg. Ambos ciudadanos alemanes. Ambos fundadores de la Liga de Espartaco –el Spartakusbund– el movimiento de izquierda marxista radical surgido en Alemania en 1916 y el núcleo embrionario de lo que luego será el Kommunistische Partei Deutschlands, el KPD. Ambos radicales, en un mundo todavía inestable y polvoriento por lo que quedaba de él después de la matanza de la Primera Guerra Mundial. Ambos revolucionarios, decididos a cambiar las viejas ruinas sobre las que ya no descansa nada, sino ideas y voces que el movimiento de la historia, horizontal y vertical, está desterrando. Ambos en primera fila, en los lugares de mando y en las calles, para que a las palabras sigan acciones que muestren cuán puro y real es su compromiso. Pero ella es mucho más. Es hasta tal punto mucho más que las definiciones parecen contradecirla porque ella misma parece contradecirse, aunque siempre se mantiene sólida y firme en los principios y en los valores que sostendrá y que la sostendrán durante toda su vida. Será independiente y militará en un partido; expresará sus ideas con claridad y convicción y nunca pensará en organizar estas mismas ideas de una manera sistémica; será una revolucionaria marxista y será una convencida pacifista en ese recorte de siglo que parece haber olvidado el silencio de gritos y armas; luchará, contra sus compañeros de lucha, para defender su autonomía de pensamiento y sus sentimientos de total amor hacia el mundo.

Se mire como se mire, se lea como se lea y se conozca como se conozca, Rosa Luxemburg se nos aparece como un matiz de lo que realmente fue, algo mucho más complejo y valioso. Nació en Zamość, una ciudad del sureste de Polonia, en el voivodato de Lublin, el 5 de marzo de 1871. Su familia era de fe judía ashkenazita, acomodada, con el padre comerciante de madera, de ideas liberales, y su madre, mujer religiosa y profundamente instruida que la dirigió al estudio de la Torá y a la lectura de los grandes clásicos de las literaturas polaca y alemana. En su infancia, pues, vivió y respiró ya otras cosas, libros y cultura. Y la pequeña Rosa parece recoger a manos llenas esta conmoción y mezcla: aprende a leer y a escribir a temprana edad y como autodidacta, y dará siempre a la escritura una función de absoluto valor, tanto que, en una carta del 23 de junio de 1898 dirigida a Robert Seidel, afirma: «Estoy descontenta con la forma en que la mayoría de los miembros del Partido escribe sus artículos. Todos son tan convencionales, tan adustos, tan estereotipados. [...] Cuando escribo, me obligo a no olvidarme nunca de mirarme dentro y entusiasmarme por lo que estoy diciendo».

La política la acompaña prácticamente siempre: ya en 1884, mientras frecuentaba un liceo femenino de Varsovia, se acercó al grupo clandestino revolucionario Proletariat y, para escapar del arresto de sus miembros, en 1889 cruzó la frontera austrohúngara escondida en un carro de heno. Luego se trasladó a Suiza y en Zúrich asistió primero a la facultad de filosofía y luego, en 1892, a la de derecho, donde se graduó en 1897 con la tesis Die industrielle Entwicklung Polens (El desarrollo industrial de Polonia). Junto a estos estudios, sin embargo, Rosa Luxemburg también siguó cursos de matemáticas y –sobre todo– de botánica. Y así será el resto de su vida. A las barricadas y a las plazas une el amor y la necesidad física de la naturaleza, aunque ésta le muestra que el ser humano no es nada en comparación con ella: «Creo que ante la presencia del mar, ante su perpetua, inmutable y sublime indiferencia, no se puede más que percibir el estremecedor sentimiento de la propia nulidad. [...] Es el enemigo de la vanidad humana que está convencida de ser algo mientras que, de repente, colapsa en la nada». A la ropa manchada por el eterno camino hacia la igualdad y la justicia, acompaña el deseo de ver sus vestidos sucios simplemente de colores, aceites y pasteles: «¡Ah, Dudu, si durante dos años pudiera dedicarme solo a la pintura! Me devoraría por completo. No iría a clase con ningún pintor y ni siquiera pediría consejos, solo aprendería pintando y quizás haciéndote algunas preguntas de vez en cuando. Pero estos son sueños vanos, no puedo hacerlo. Mi miserable pintura no le sirve a nadie, y en cambio las personas necesitan mis artículos». A los barrotes cerrados de una prisión contrapone el sentido de libertad que siente que la invade con solo pensar en la vida, en el hecho de estar todavía viva, a lo que afuera de esos negros muros de constricción la está esperando: «Estoy aquí, por ejemplo, en esta celda oscura, sobre un colchón duro como la piedra, a mi alrededor en el edificio reina como siempre un silencio de tumba, parece que esté encerrada en un sepulcro: a través de la ventana se dibuja en el techo el reflejo de la linterna encendida toda la noche delante de la prisión. De vez en cuando se oye, sombrío, el ruido de un tren que pasa a lo lejos; o, más cerca, justo debajo de la ventana, el guardia que se aclara la voz y para estirar las piernas hace lentamente unos pasos con sus botas. La arena chirría tan desesperadamente, bajo esos pasos, que en la noche oscura y húmeda se oye resonar toda la desolación y el desaliento de la existencia. Estoy aquí tumbada, sola, en silencio, envuelta en estas múltiples y negras sábanas de la oscuridad, del aburrimiento, de la prisión invernal –y mientras tanto mi corazón late de una alegría interior incomprensible y desconocida, como si caminara bajo el sol radiante en un prado de flores. Y en la oscuridad sonrío a la vida, como si conociera algún secreto mágico capaz de destripar todas las cosas tristes y malvadas y convertirlas en esplendor y felicidad».