Mercedes Sosa
Sara Balzerano


Giada Ionà

 

Haydeé Mercede Sosa nasce con la finestra aperta. Era così che allora si veniva al mondo in Argentina, a Tucumán. Con la finestra aperta e senza pretese. Ma quei vetri spalancati sono la genetica di una voce da Pachamama, ctonia e pellegrina, destinata ad andare e raccontare l’identità, il destino, il dolore e la speranza di tutta una terra, di tutto un popolo. E la genetica è forse anche nella data, il 9 luglio del 1935, giornata in cui l’Argentina festeggia e ricorda la propria indipendenza. Come può dunque il primo vagito esimersi dal diventare grido unanime di resistenza e rivoluzione?

Non può, anche se Mercedes Sosa si opporrà, almeno all’inizio, alla condivisione della propria voce con altri e altre che non siano sé stessa e la sua famiglia, egoista del dono che invece poi farà al mondo ultimo, quello del buio e del margine, quello della polvere e del sangue, regalandogli alla fine la via d’uscita e il riconoscimento dei canti e della musica.

Un mondo che ella stessa conosce perfettamente, perché da lì viene, lì nasce e vive, almeno fino al suo successo, inaspettato e in parte non voluto. Sarà, infatti, solo la responsabilità di dare parola e visibilità agli uomini e alle donne nei cui confronti la Storia pare soffrire di afasia che la manterrà sul palcoscenico: «un giorno, dopo tanti spettacoli in giro per il mondo – dice lei –, mi portò [Pocho Mazzitelli, ndr] in banca perché vedessi i dollari che avevo guadagnato grazie al mio lavoro. Mi impressionò così tanto che dovetti uscire subito per andare a vomitare, perché io i dollari li ho odiati per tutta la vita». È un’idealista, Mercedes Sosa, nel significato più alto e nobile che il termine può assumere. Ed è, di conseguenza, una comunista. La madre, Ema del Carmen, presta servizio in case facoltose nelle quali prepara pasti abbondanti e succulenti, ma alla propria famiglia fa spesso mangiare pane e risata. Il padre, Ernesto Quiterio Sosa, fa lo stivatore al porto, il borsettaio, l’operaio in segheria, l’alimentatore di caldaie in uno zuccherificio, e ciò che porta a casa, oltre a un salario misero, è l’amaro gusto di una società che dà il dolce solo a chi può permetterselo. Nonostante questo, la giovinezza di Sosa è piena di allegria e serenità.

«Ci mancava tutto ma era come se non ci mancasse niente».

Il primo approccio “pubblico” alla musica avviene nel 1950, con la partecipazione a un concorso organizzato da LV12, un’emittente locale. Quando il padre ascolta la voce della figlia va su tutte le furie: troppa è la vergogna, troppo poco il decoro, e si fa promettere che mai più accadrà una cosa del genere. C’è però la genetica delle finestre aperte e del 9 luglio, e pochi giorni dopo, a casa della famiglia Sosa, bussa il direttore della radio. La giovane Mercedes ha vinto il primo premio e un contratto: cantare una volta alla settimana per duecento pesos, lo stipendio che Ernesto Quiterio guadagna in un intero mese. L’uomo si arrende. Nasce Gladys Osorio. Solo che Gladys Osorio è Mercedes e Mercedes odia cantare per qualcun altro che non sia la sua famiglia. I soldi però servono e allora si ingoia il malessere e ci si esibisce. Almeno finché a Tucumán non arriva Oscar Matus. Matus è un chitarrista e compositore, e crede fermamente che il folklore debba allontanarsi dalla natura e donarsi all’essere umano. Sosa, che sta per sposarsi con un altro, ne rimane folgorata. In breve tempo, i due si innamorano. E il loro sodalizio, sentimentale e artistico, segnerà la nascita della musica popolare dell’intera America Latina. Basta con l’imitazione posticcia di canti sempre uguali a sé stessi. Le melodie e le parole possono assumere una dignità del tutto nuova. Nuova e necessaria: quella della lotta e della resistenza. I canti nazionali argentini possono e devono essere canti politici. Canti che si dividono per unire, che rappresentano le molteplici realtà locali e regionali divenendo, così, un ecumenico inno di umanità. È una vera e propria rivoluzione.

Il progetto, che prende il nome di Nuevo Cancionero, è presentato ufficialmente l’11 febbraio 1963, nel salone del circolo dei giornalisti di Buenos Aires, città nella quale Sosa e Matus sono andati a vivere in cerca di fama e fortuna. La carriera di entrambi, però, stenta a decollare: i due lavorano di giorno in una portineria e di notte si esibiscono nei locali. Talmente pesante è l’indigenza che nel 1962 avevano anche deciso di lasciare l’Argentina. Insieme al figlioletto Fabián, si erano trasferiti in Uruguay, dove stava nascendo proprio in quel periodo un nuovo movimento artistico, molto simile al Nuevo Cancionero argentino, intorno a nomi quali Eduardo Galeano e Mario Benedetti. Lì effettivamente un certo successo arriva. A mancare, però, è il battesimo artistico dell’Argentina. Così, nel 1965, Mercedes Sosa, spinta dal folclorista Jorge Cafrune, e con un biglietto pagato grazie alla colletta di alcuni amici, partecipa al Festival Nacional de Folklore, a Cosquín, cittadina nella provincia di Córdoba. Lei è ancora la ragazzina timida di Tucumán, che odia esibirsi in pubblico. Quando è il suo momento — vestita di un poncho, con i lunghi e neri capelli lasciati sciolti, accompagnata soltanto dal bombo legüero, lo strumento di percussione andino — e iniziano le note e le parole di Canción del derrumbe indio, nella sala si fa un silenzio netto e denso.

E mentre gli organizzatori si indignano, riconoscendo in lei tematiche e simpatie comuniste, il pubblico è completamente e perdutamente ammaliato. Per la prima volta, uomini e donne del popolo argentino hanno potuto ascoltare la voce della loro Pachamama e in essa riconoscersi e ritrovarsi. Al festival seguono alcuni dischi, come Romance de la muerte de Juan Lavalle, Yo no canto por cantar, Para cantarle a mi gente. Arrivano i primi soldi che però non bastano per uscire dallo stato di indigenza nel quale Sosa e Matu hanno vissuto finora. L’uomo è inoltre geloso del successo di Mercedes. Diventa violento e la donna è costretta a fuggire insieme al figlio, di pensione in pensione, cantando nei locali notturni della capitale per mantenere entrambi, almeno finché non deciderà di lasciare il piccolo a Tucumán, a casa dei propri genitori. Il matrimonio con Matu finisce così, con una Mercedes Sosa sprofondata in una solitudine sia artistica che affettiva dalla quale faticherà a uscire. Lo farà, ovviamente, grazie alla musica e grazie anche a un nuovo amore. Con Pocho Mazzitelli, infatti, secondo marito e suo manager, nasce l’artista internazionale.

Mercede Sosa, la Negra, calca i palcoscenici di Miami, Lisbona, Porto, Roma, Varsavia, Leningrado, Baku e Tbilisi: «la mia esistenza è stata questo: un inesausto viaggio per le città di tutti i continenti». Poco prima dell’uscita del suo nuovo album, Mercedes Sosa, dedicato ai poeti latinoamericani come Pablo Neruda e Víctor Jara, a seguito del colpo di Stato del 24 marzo 1976, in Argentina si instaura la dittatura del generale Jorge Rafael Videla. La censura, che sempre e da sempre ha colpito la cantante, diventa più aspra e asfissiante. Come se non bastasse, nel 1978 muore nel giro di una settimana il suo amato compagno per un tumore al cervello. Otto mesi dopo, durante un concerto a La Plata, viene arrestata e trattenuta insieme al pubblico presente per qualche ora, liberata grazie alle pressioni internazionali. In breve tempo, tutti i suoi spettacoli sono cancellati, la sua voce sparisce dalla radio e i suoi dischi dai negozi. Il regime sta provando a cancellare la cantora del popolo argentino:

«Mi tornano in mente le immagini della sera in cui mi arrestarono a La Plata. Era tutto preparato, la polizia organizzò l’azione e l’esercito circondò il posto. Dovevano entrare mentre cantavo Cuando tenga la tierra. Mi sforzai e la cantai, stavo quasi per cantare El mundo prometito a Juanito Laguna, quando arriva Fabían disperato e mi grida: Mercedes, scendi dal palco! Avevamo già la polizia addosso».

Le azioni di repressione non colpiscono soltanto lei, ma anche il suo pubblico, le persone che la amano e la seguono. Il messaggio è chiaro: deve andarsene. Nel 1979, la Negra va in esilio in Spagna, poi a Parigi. Canta in Germania e in Giappone. E ovunque le sue canzoni raccontano l’oppressione e la lotta, la schiavitù e la libertà, il potere ingiusto e gli uomini e le donne che a esso si oppongono. Non serve capire le parole. Ovunque la sua voce, che esce suono e arriva in ogni angolo, diventa liquida e lambisce e occupa spazi, si fa infine roccia e massa, terra sulla quale arrampicarsi per respirare l’ossigeno dell’orgoglio e della rivoluzione. Sarà soltanto nel 1982 che potrà tornare in Argentina. La dittatura è ormai agli sgoccioli, ma i militari per le strade ancora sparano e la censura ancora morde feroce.

«Mi chiamo Mercedes Sosa, sono argentina», dirà la cantante al grande concerto a Buenos Aires, organizzato per il suo rientro. E mentre fuori dal teatro l’esercito dà voce alle armi, sul palcoscenico lei canta tutto il suo repertorio, molto del quale ancora vietato. Ripeterà lo spettacolo per tredici sere, iniziando sempre con il brano Todavía cantamos, una dedica ai tanti desaparecidos, suoi fratelli e sue sorelle, ingoiati dalla follia e dall’odio umani. Con il ritorno della democrazia, l’impegno politico e sociale di Sosa non si ferma. Continuerà a cantare e a viaggiare per il mondo, battendosi, anche grazie alla sua musica, per la depenalizzazione dell’aborto, contro le dittature, per la verità sui desaparecidos, per la pace e i diritti civili, per la salvaguardia dell’ambiente. Nel 1997, parteciperà, in veste di Vice Presidente della Commissione per la stesura della Carta della Terra, al convegno in cui viene stilato un documento per la Tutela dell’Ambiente.

La Negra si spegne nella capitale argentina il 4 ottobre del 2009, a causa di un’insufficienza renale. Nel “Salone dei passi perduti” viene allestita la camera ardente e il governo indice tre giorni di lutto nazionale. Simbolo dell’America Latina, Mercedes Sosa è stata la Cantora della libertà: dei popoli, delle donne, individuale. Ha fatto respirare un’intera terra con il fiato primordiale che le apparteneva, facendolo volare lontano da quelle oppressioni che non le sono mai state risparmiate. Ha cantato e lottato. Lottato e cantato, sperando che la propria voce, qualsiasi voce di qualsiasi canto, si sostituisse finalmente all’urlo mostruoso delle armi, delle violenze e delle ingiustizie.

«Pero no cambia mi amor/por más lejos que me encuentre/ni el recuerdo ni el dolor/de mi pueblo y de mi gente/y lo que cambió ayer/tendrá que cambiar mañana/así como cambio yo/ En esta tierra lejana. Cambia, todo cambia..

Ma non cambia il mio amore/per quanto lontano mi trovi,/né il ricordo né il dolore/della mia terra e della mia gente./E ciò che è cambiato ieri /di nuovo cambierà domani/così come cambio io/in questa terra lontana. Cambia, tutto cambia».


Traduzione francese

Rachele Stanchina

Haydée Mercedes Sosa nait avec la fenêtre ouverte. C’était ainsi que l’on venait au monde en Argentine, à Tucuman, avec la fenêtre ouverte et sans prétention. Mais ces volets grands ouverts ce sont la génétique d’une voix de Pachamama, chtonie et pèlerine, destinée à voyager pour raconter l’identité, le destin, la douleur et l’espoir de toute une terre et de tout un peuple amérindien. Et peut-être que la génétique a aussi un lien avec sa date de sa naissance , le 9 juillet 1935, journée durant laquelle le pays fête son Indépendance: le premier cri de Mercedes est destiné à devenir la voix unanime de la résistance et de la révolution.

Cependant Mercedes Sosa, à ses débuts, ne souhaite pas partager sa voix avec d’autres interprètes qui n’appartiennent pas à son entourage et à sa famille, révélant ainsi une sorte d’égoïsme. Mais elle changera d’avis en la partageant avec le monde des oubliés, celui des gens qui vivent dans l’ombre, à l’écart, dans la poussière et le sang, leur donnant ainsi la possibilité d’en sortir et de se montrer grâce au chant et à la musique.

Elle connaît parfaitement ce monde, elle y est née, elle y a vécu, du moins jusqu’à son succès inattendu et, d’une certaine façon, non désiré. En effet, c’est la responsabilité qu’elle ressent à donner de la voix et de la visibilité à ceux que l’Histoire veut muets qui la pousse à monter sur scène. Elle dira “Un jour, après un grand nombre de spectacles partout dans le monde, il (Pocho Mazzitelli) m’a conduit à la banque afin de me montrer tous les dollars que j’avais gagné grâce à mon travail. Cela m’a tellement choqué que j’ai dû m’enfuir pour aller vomir, car j’ai détesté les dollars pendant toute ma vie”. Mercedes Sosa est une idéaliste au sens noble du terme. C’est une communiste convaincue. Sa mère, Ema del Carme, travaille comme domestique chez des gens aisés, pour qui elle prépare des repas riches et copieux, alors qu’elle ne peut offrir à sa famille que du pain et des rires. Son père, Ernesto Quiterio Sosa, est à la fois manutentionnaire au port, cordonnier, ouvrier dans une scierie, responsable de la chaudière d’une sucrerie… Avec son misérable salaire, il porte avec lui dans la maison l’amertume d’une société qui donne de la douceur seulement à ceux qui peuvent y arriver. Mais malgré la situation, la jeunesse de Mercedes est riche de gaieté et de sérénité.

«Tout nous manquait, mais c’était comme si nous ne manquions de rien».

Mercedes a son premier contact musical avec le “public” en 1950 lors de sa participation à un concours organisé par LV12, une radio locale. Quand le père écoute la voix de sa fille il s’enrage: trop de honte, trop peu de décorum…Mercedes doit lui promettre que jamais plus elle ne se produira ainsi. Mais la génétique de la fenêtre ouverte et du 9 juillet est toujours là. Quelques jours après, le directeur de la radio frappe à la porte des Sosa avec un contrat et la nouvelle que Mercedes a obtenu le premier prix. Elle chantera une fois par semaine pour deux-cents pesos, le salaire que Ernesto Quiterio gagne pendant un mois entier. Son père capitule et c’est ainsi que nait Gladys Osorio. D’un côté Gladys- Mercedes déteste chanter pour des personnes qui ne sont pas de son entourage mais de l’autre sa famille a besoin d’argent. Elle met ainsi de côté son malaise. Du moins jusqu’à l’arrivée d’ Oscar Matus à Tucuman. Matus est un guitariste et un compositeur qui a la conviction que la folklore doit s’éloigner de la nature pour entrer au service de l’humanité. Pour Mercedes, qui était sur le point de se marier avec un autre, c’est le coup de foudre. En peu de temps ils tombent amoureux et leur union, à la fois sentimentale et artistique, marquera la naissance de la musique populaire de toute l’Amérique Latine. Elle en a fini avec les chants qui se ressemblent tous: les mélodies et les mots peuvent acquérir une dignité tout à fait nouvelle et nécessaire, celle de la lutte et de la résistance. Les chants nationaux argentins peuvent et doivent être des chants politiques, différents, afin d’unir et avec l’espoir de représenter la multiplicité des réalités locales et régionales, devenant ainsi un hymne de l’humanité. Et c’est une véritable révolution.

Le projet, qui porte le nom de NUEVO CANCIONERO, est présenté officiellement le 11 février 1963 dans le Salon du Cercle des journalistes de Buenos Aires, ville où Sosa et Matus se sont installés en quête de célébrité et de fortune. Cependant la carrière du couple fatigue à démarrer: ils travaillent le jour dans une conciergerie et la nuit ils se produisent dans les clubs. Leur vie est si précaire qu’ils décident en 1962 de quitter l’Argentine avec leur fils Fabian alors agé de quelque mois. Ils partent en Uruguay où, dans la même période, se développait un nouveau mouvement artistique autour de certains artistes tels que Eduardo Galeano et Mario Benedetti, mouvement proche au NUEVO CANCIONERO argentin. Et effectivement, en Uruguay, ils connaissent un certain succès. Mais ce qui manque à Mercedes c’est son baptême artistique en Argentine. En 1965, poussée par le chanteur folklorique Jorge Cafrune, elle part pour Cosquin dans la province de Cordoba, avec un billet payé par ses amis, pour participer au Festival nacional de folklore. Elle est encore la jeune fille timide de Tucuman qui déteste se produire en public. Lorsque son tour arrive et que démarrent les premières notes et les premieres mots de Canciòn del derrumbe indio, la salle, admirative, plonge dans le silence. Elle est vêtue d’un poncho, elle porte de longs cheveux noirs, et elle est accompagnée d’un simple bombo leguero, un instrument de percussion des Andes.

Les organisateurs s’indignent en reconnaissant les thématiques et les inclinations communistes de Mercedes alors que le public est sous le charme. Pour la toute première fois, des hommes et des femmes argentins ont pu écouter la voix de leur Pachamama, s’y reconnaître et s’y retrouver. Le festival est suivi de plusieurs disques comme Romance de la muerte de Juan Lavalle, Yo no canto por cantar, Para cantarle a mi gente. L’ argent arrive, mais insuffisant pour permettre au couple de sortir de sa situation financière précaire. De plus, l’époux de Mercedes est jaloux de son succès. Il devient violent et la chanteuse est obligée de fuir avec son enfant, de maisons d’hôtes en maisons d’hôtes, s’exhibant dans les bars, le soir, dans la capitale, pour pouvoir assurer l’éducation de son fils. Finalement, elle décide de confier Fabian à ses parents à Tucuman. C’est ainsi que se conclut l’union de Mercedes et Matu. Elle sombre dans une solitude artistique et affective dont elle aura du mal à s’en sortir. Elle y parviendra, bien évidemment, grâce à la musique et à l’amour. C’est avec Pocho Mazzitelli, son deuxième époux et agent, que Mercedes naît en tant qu’artiste de renommée internationale.

Mercedes Sosa, surnommée la Negra, se produit sur les scènes de Miami, Lisbona, Porto, Rome, Varsovie, Leningrad, Baku et Tbilisi “Mon existence a été cela: un voyage inépuisable à travers les villes de tous les continents.” Mais la dictature du Général Jorge Rafael Videla s’installe en Argentine à la suite du coup d’état du 24 mars 1976, peu avant la sortie de son nouvel album MERCEDES SOSA, dédié aux poètes latino-américains Pablo Neruda et Victor Jara. La chanteuse a toujours été visée par la censure toujours plus dure et étouffante. De plus, en 1978, son époux bien-aimé meurt en seulement une semaine d’un cancer du cerveau. Huit mois après, pendant un concert à La Plata, elle est arrêtée et retenue pour quelques heures avec le public qui assistait au spectacle puis libérée grâce aux pressions internationales. En peu de temps, tous ses spectacles sont annulés, ses disques disparaissent des magasins ainsi que sa voix des ondes radio.

Le régime essaie d’effacer la cantora auprès du peuple argentin

“Je me souviens des évènements de ce soir là, lors de mon arrestation à La Plata. Tout avait été préparé, la police avait organisé l’action et la milice avait bouclé les lieux. Ils devaient entrer pendant que je chantais Cuando tenga la tierra. Je chantai, j’allai entamer El mundo prometido a Juanito Laguna lorsqu’arriva Fabian en criant: Mercedes, descends de la scène! Nous avons déjà la police sur le dos.”

La répression frappe non seulement Mercedes mais aussi son public, les personnes qui l’aiment et la suivent. Le message est clair: elle doit s’en aller. En 1979 la Negra s’exile en Espagne, puis à Paris, chante en Allemagne et au Japon. Partout, ses chansons racontent l’oppression et la lutte, l’esclavage et la liberté, le pouvoir injuste et les gens qui s’y opposent. Il n’est pas nécéssaire de comprendre les paroles: sa voix arrive à toucher tout le monde, comme un liquide qui atteint chaque endroit, puis devient rocher et terrain au-dessus duquel elle s’érige pour mieux respirer l’oxygène de l’orgueil et de la révolution. Mercedes ne pourra retourner en Argentine qu’en 1982. La dictature touche à sa fin, mais la milice tire encore dans les rues ainsi que la censure qui continue à faire pression férocement.

Lors du grand concert organisé à Buenos Aires pour sa rentrée elle proclame “Je m’appelle Mercedes Sosa, je suis argentine”, et sur la scène elle chante tout son répertoire, en grande partie encore interdit, pendant que dehors la milice fait écouter la voix des armes. Pendant treize soirées, elle répètera le même répertoire en ouvrant le spectacle avec toujours la même chanson Todavia cantamos, dédiée au grand nombre de desaparecidos qu’elle considère comme des frères et des soeurs, ensevelis par la folie et la haine humaine. Son engagement politique et social ne s’arrête pas avec le retour de la démocratie: elle continue à chanter et à voyager partout dans le monde, se battant à travers sa musique pour la dépénalisation de l’avortement, la vérité sur les desaparecidos, la paix et les droits civils, la sauvegarde de l’environnement et contre toutes les dictatures. En 1997, elle participe, en tant que vice présidente de la Commission chargée de la rédaction de la Carte de la Terre, au congrès qui doit élaborer un document sur la protection de la nature.

La Negra s’éteint le 4 octobre 2009 dans sa maison de Buenos Aires d’une insuffisance rénale. Une chapelle ardente est aménagée dans le “Salon des pas perdus” et le gouvernement décrète trois jours de deuil national. En tant que symbole de l’Amérique Latine, Mercedes Sosa a été la Cantora de la liberté des peuples, des femmes, de l’individu. Elle a permis à toute une terre de respirer avec ce souffle primordial qui lui appartenait, en le poussant loin des oppressions qu’elle avait elle-même subies. Elle a chanté et s’est battue, elle s’est battue et a chanté avec l’espoir que sa voix, ou bien la voix de n’importe quel autre chanteur ne réussisse à supplanter le cri monstrueux des armes, des violences et des injustices.

Pero no cambia mi amor/por más lejos que me encuentre/ni el recuerdo ni el dolor/de mi pueblo y de mi gente/y lo que cambió ayer/tendrá que cambiar mañana/así como cambio yo/ En esta tierra lejana. Cambia, todo cambia».

Mais mon amour ne change pas/ même si je me trouve loin/ ni le souvenir ni la douleur/de ma terre et de mes gens./ Et ce qui a changé hier/ à nouveau changera demain/ainsi je change/dans cette terre lointaine. Elle change, tout change».


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Haydeé Mercede Sosa was born by an open window. That was how people came into the world back then in Argentina, in Tucumán. With the window open and no pretenses. But those wide-open windows are the genetics of a voice from Pachamana, deeply rooted and original, destined to tell of the identity, destiny, pain and hope of a whole land, a whole people. And the genetics are perhaps also in the date, July 9, 1935. It’s the day Argentina celebrates and remembers its independence. How then can the first wail on an infant exempt itself from becoming a unanimous cry of resistance and revolution?

It cannot, although Mercedes Sosa will resist, at least at first, sharing her voice with those other than herself and her family, selfish of the gift she will instead later give to the entire world, the world of darkness and margin, the world of dust and blood, eventually giving it the way out through the recognition of songs and music.

A world she herself knew perfectly well, for that is where she came from, where she was born and where she lived, at least until her success – which was both unexpected and partly unwanted. It will, in fact, be only the responsibility of giving voice and visibility to men and women towards whom history seems to suffer from aphasia that will keep her on the stage. "One day, after so many performances around the world," she said, "he [Pocho Mazzitelli, ed.] took me to the bank so that I could see the dollars I had earned through my work. He impressed me so much that I had to leave immediately to go throw up, because I have hated dollars all my life." She was an idealist, Mercedes Sosa, in the highest and noblest meaning the term can take. And she was, consequently, a communist. Her mother, Ema del Carmen, served in wealthy homes in which she prepared hearty and succulent meals, but her own family was often fed with bread and laughter. Her father, Ernesto Quiterio Sosa, was a stevedore at the port, a worker in a sawmill, a boiler feeder in a sugar mill, and what he brought home, besides a meager salary, is the bitter taste of a society that gives desserts only to those who can afford it. Despite this, Sosa's youth was full of joy and serenity.

«We missed everything but it was as if we didn't miss anything».

Her first "public" approach to music came in 1950, with her participation in a contest organized by LV12, a local radio station. When her father heard his daughter's voice he went into a rage - too much shame, too little decorum, and he made himself promise that never again would such a thing happen. There was, however, the genetics of open windows and July 9, and a few days later, at the Sosa family home, the radio director knocked. Young Mercedes had won first prize and a contract - to sing once a week for two hundred pesos, the salary Ernesto Quiterio earns in an entire month. The man gave in. Gladys Osorio is born. Only Gladys Osorio is Mercedes and Mercedes hated singing for anyone other than her family. The money was needed, though, and so she swallowed the discomfort and performed. At least until Oscar Matus came to Tucumán. Matus was a guitarist and composer, and he firmly believed that folklore should move away from nature and give itself to the human being. Sosa, who was about to marry someone else, was thunderstruck. Before long, the two fell in love. And their partnership, sentimental and artistic, marked the birth of popular music throughout Latin America. No more posturing imitation of songs that are always the same. The melodies and words could take on an entirely new dignity. New and necessary - that of struggle and resistance. Argentine national songs can and must be political songs. Songs that divide in order to unite, that represent the multiple local and regional realities thus becoming an ecumenical hymn of humanity. It was a true revolution.

The project, which took the name Nuevo Cancionero, was officially presented on Feb. 11, 1963, in the hall of the journalists' club in Buenos Aires, the city to which Sosa and Matus went to live in search of fame and fortune. The careers of both, however, struggled to take off. The two worked in a concierge's office during the day and performed in clubs at night. So heavy was their destitution that by 1962 they had even decided to leave Argentina. Together with their young son Fabián, they moved to Uruguay, where a new artistic movement, much like Argentina's Nuevo Cancionero, was emerging around names such as Eduardo Galeano and Mario Benedetti at that very time. There, some success finally arrived. Lacking, however, was Argentina's artistic baptism. Thus, in 1965, Mercedes Sosa, urged on by folklorist Jorge Cafrune, and with a ticket paid for thanks to the collection of some friends, participated in the Festival Nacional de Folklore, in Cosquín, a town in the province of Córdoba. She was still the shy little girl from Tucumán, who hated performing in public. When it was her moment - dressed in a poncho, with her long, black hair left loose, accompanied only by the bombo legüero, the Andean percussion instrument - and the notes and words of Canción del derrumbe indio began, there was a stark, dense silence in the hall.

And while the organizers were indignant, recognizing communist themes and sympathies in her, the audience was completely and hopelessly captivated. For the first time, men and women of the Argentine people, were able to hear the voice of their Pachamana and recognize and find themselves in it. The festival was followed by some records, such as Romance de la muerte de Juan Lavalle, Yo no canto por cantar, Para cantarle a mi gente. The first money arrived, but it was not enough to get out of the state of destitution in which Sosa and Matu lived to that point. The man was also jealous of Mercedes' success. He became violent and she was forced to flee with her son, from boarding house to boarding house, singing in nightclubs in the capital to support both of them, at least until she decided to leave the little one in Tucumán, at her own parents' home. Marriage to Matu thus ended, with a Mercedes Sosa plunged into both artistic and emotional loneliness from which she would struggle to emerge. She would do so, of course, thanks to music and also thanks to a new love. With Pocho Mazzitelli, her second husband and manager, the international artist was born.

Mercedes Sosa, la Negra, strode the stages of Miami, Lisbon, Porto, Rome, Warsaw, Leningrad, Baku and Tbilis. "My existence has been this: an inexhaustible journey through cities on every continent." Shortly before the release of her new album, Mercedes Sosa, dedicated to Latin American poets such as Pablo Neruda and Víctor Jara, following the March 24, 1976 coup d'état, the dictatorship of General Jorge Rafael Videla was established in Argentina. Censorship, which always and forever affected the singer, became harsher and more suffocating. As if that were not enough, in 1978 her beloved partner died within a week from a brain tumor. Eight months later, during a concert in La Plata, she was arrested and detained along with the audience present for a few hours, released thanks to international pressure. Before long, all her shows were canceled, her voice disappeared from the radio and her records from the stores.

The regime was trying to erase the cantor of the Argentine people:

"I am reminded of the images of the night I was arrested in La Plata. Everything was prepared, the police organized the action and the army surrounded the place. They had to enter while I was singing Cuando tenga la tierra. I made an effort and sang it, I was almost about to sing El mundo prometito a Juanito Laguna, when desperate Fabían came in and shouted at me, ‘Mercedes, get off the stage!’ We already had the police on us."

The actions of repression affected not only her, but also her audience, the people who loved and followed her. The message was clear - she had to leave. In 1979, La Negra went into exile in Spain, then to Paris. She sang in Germany and Japan. And everywhere her songs told of oppression and struggle, slavery and freedom, unjust power and the men and women who oppose it. No need to understand the words. Everywhere her voice, which came out sound and reached every corner, became liquid and lapped and occupied spaces, finally became rock and mass, earth on which to climb to breathe the oxygen of pride and revolution. It would not be until 1982 that she could return to Argentina. The dictatorship was now in its last throes, but the military in the streets still shot and censorship still bit fiercely.

"My name is Mercedes Sosa, I am Argentine," the singer would say at the big concert in Buenos Aires organized for her return. And while outside the theater the army gave voice to the guns, on stage she sang her entire repertoire, much of it still banned. She would repeat the show for thirteen nights, always beginning with the song Todavía cantamos, a dedication to the many desaparecidos, her brothers and sisters, swallowed by human madness and hatred. With the return of democracy, Sosa's political and social engagement did not stop. She continued to sing and travel the world, fighting, partly through her music, for the decriminalization of abortion, against dictatorships, for the truth about the desaparecidos, for peace and civil rights, and for environmental protection. In 1997, she participated, as vice president of the Earth Charter Commission, in the conference where a document for the Protection of the Environment was drafted.

La Negra passed away in the Argentine capital on Oct. 4, 2009, due to kidney failure. A funeral chamber was set up in the "Hall of Lost Steps," and the government called for three days of national mourning. A symbol of Latin America, Mercedes Sosa was the Cantora of freedom: of peoples, of women, and individuals. She made an entire land breathe with the primordial breath that belonged to her, making it fly away from those oppressions that never spared her. She sang and struggled. Struggled and sang, hoping that her own voice, any voice of any song, would finally replace the monstrous roar of guns, violence and injustice.

«Pero no cambia mi amor/por más lejos que me encuentre/ni el recuerdo ni el dolor/de mi pueblo y de mi gente/y lo que cambió ayer/tendrá que cambiar mañana/así como cambio yo/ En esta tierra lejana. Cambia, todo cambia».

«But it doesn't change my love/no matter how far away I am,/neither the memory nor the pain/of my land and my people./And what changed yesterday/again will have to change tomorrow/just like I change /In this faraway land. Changes, everything changes».


Traduzione spagnola

Monica Savoca

Haydeé Mercede Sosa nació con las ventanas abiertas. Así se venía al mundo en Argentina, en Tucumán. Con las ventanas abiertas y sin pretensiones. Pero esas ventanas abiertas de par en par son la genética de una voz de la Pachamama, telúrica y peregrina, destinada a librarse para contar la identidad, el destino, el dolor y la esperanza de toda una tierra, de todo un pueblo. Y la genética, quizás, está representada también por la fecha de su nacimiento, 9 de julio de 1935, día en que Argentina celebra y recuerda su independencia. Entonces, el primer vagido ¿puede no convertirse en un grito unánime de resistencia y revolución?

No, no puede, aunque Mercedes Sosa se resistiera. Al principio, no está dispuesta a mezclar su voz con la de otros y otras que no sean ella y su familia, cuidadora del regalo que hará al mundo “último” —el de la oscuridad y el margen, el del polvo y la sangre—; regalo que, efectivamente, representará una escapatoria y una forma de rescate gracias a su canto y a su música.

Un mundo que conoce perfectamente, porque es el de donde ella misma procede, donde nació y donde vive, al menos hasta que no alcance el éxito, inesperado y en parte no deseado. De hecho, sólo la responsabilidad de dar voz y visibilidad a hombres y mujeres contra los que la historia parece padecer afasia, la mantendrá sobre el escenario: «un día, después de tantos espectáculos por todo el mundo», dice, «me llevó [Pocho Mazzitelli, ed.,] al banco para que viera los dólares que había ganado con mi trabajo; me impresionó tanto que tuve que salir a vomitar, porque yo llevo toda la vida odiando los dólares». Es una idealista, Mercedes Sosa, en el sentido más alto y noble que el término puede asumir. Y es, en consecuencia, comunista. Su madre, Ema del Carmen, trabaja en hogares acomodados en los que prepara comidas copiosas y suculentas, pero su propia familia suele comer pan y arroz. Su padre, Ernesto Quiterio Sosa, es estibador en el puerto, bolsero, obrero en un aserradero, alimentador de calderas en una refinería de azúcar, y lo que lleva a casa, aparte de un escaso sueldo, es el sabor amargo de una sociedad que sólo da postre a quien puede permitírselo.A pesar de ello, la juventud de Sosa está llena de alegría y serenidad:

«nos faltaba de todo pero era como si no nos faltara nada».

Su primer acercamiento «público» a la música tiene lugar en 1950, con su participación en un concurso organizado por LV12, una emisora local. Cuando el padre escucha la voz de su hija, entra en cólera: demasiada vergüenza, demasiado poco decoro, y se hace prometer que nunca más volverá a ocurrir algo así. Está, sin embargo, la genética de las ventanas abiertas y del 9 de julio, y unos días después, en casa de la familia Sosa, llama a la puerta el director de la radio. La joven Mercedes había ganado el primer premio y un contrato: cantar una vez a la semana por doscientos pesos, el sueldo que Ernesto Quiterio ganaba en todo un mes. El hombre cede. Nace Gladys Osorio. Sólo que Gladys Osorio es Mercedes y Mercedes odia cantar para alguien que no sea su familia. El dinero, sin embargo, es necesario y por eso se traga la incomodidad y actúa. Al menos hasta que Oscar Matus llega a Tucumán. Matus es guitarrista y compositor, y cree firmemente que el folclore debe alejarse de la naturaleza para entregarse al ser humano. Sosa, que está a punto de casarse con otra persona, se queda boquiabierta. Al poco tiempo, los dos se enamoran. Su unión, sentimental y artística, marcará el nacimiento de la música popular en toda América Latina. Se acabó la imitación postiza de canciones siempre iguales. Melodías y palabras pueden adquirir una dignidad totalmente nueva. Nueva y necesaria: la de la lucha y la resistencia. Las canciones nacionales argentinas pueden y deben ser cantos políticos. Canciones que se parten para unir, que representan las múltiples realidades locales y regionales, convirtiéndose así en un himno ecuménico de la humanidad. Es una verdadera revolución.

El proyecto, que toma el nombre de Nuevo Cancionero, se presenta oficialmente el 11 de febrero de 1963 en el salón del círculo de periodistas de Buenos Aires, ciudad a la que Sosa y Matus se fueron a vivir en busca de fama y fortuna. Las carreras de ambos, sin embargo, apenas despegan: los dos trabajan en una portería durante el día y actúan en clubes por la noche. Tan pesada es la pobreza que deciden abandonar Argentina en 1962. Junto con su hijito Fabián, se trasladan a Uruguay, donde surge en esa misma época un nuevo movimiento artístico, muy similar al Nuevo Cancionero argentino, en torno a nombres como Eduardo Galeano y Mario Benedetti. A partir de entonces, efectivamente, Sosa y Matus alcanzaron un cierto éxito. Faltaba, sin embargo, el bautismo de fuego en Argentina. Así, en 1965, Mercedes Sosa, alentada por el folclorista Jorge Cafrune, y con una entrada pagada gracias a la colecta de algunos amigos, participa en el Festival Nacional de Folclore, en Cosquín, localidad de la provincia de Córdoba. Ella sigue siendo la niña tímida de Tucumán, que odia actuar en público. Cuando llega su momento —vestida con un poncho, con el pelo largo y negro suelto, acompañada únicamente por el bombo legüero, instrumento de percusión andino— y comienzan las notas y la letra de Canción del derrumbe indio, en la sala cae un silencio profundo y espeso.

Y mientras los organizadores se indignan, reconociendo en ella temas y simpatías comunistas, el público queda total y absolutamente cautivado. Por primera vez, hombres y mujeres del pueblo argentino pudieron escuchar la voz de su Pachamama y reconocerse e identificarse en ella. Al festival le siguieron algunos discos, como Romance de la muerte de Juan Lavalle, Yo no canto por cantar, Para cantarle a mi gente. Llega el primer dinero que, sin embargo, no es suficiente para salir del estado de indigencia en el que Sosa y Matu vivían hasta entonces. Además, el hombre estaba celoso del éxito de Mercedes. Se vuelve violento y la mujer se ve obligada a huir con su hijo, de pensión en pensión, cantando en locales nocturnos de la capital para mantener a ambos, al menos hasta que decide dejar al pequeño en Tucumán, en casa de sus padres. El matrimonio con Matu termina así, con una Mercedes Sosa sumida en una soledad, tanto artística como emocional, de la que luchará por salir. Lo hará, por supuesto, gracias a la música y también a un nuevo amor. Con Pocho Mazzitelli, su segundo marido y su representante, de hecho, nace la artista internacional.

Mercede Sosa, la Negra, pisa las tablas de Miami, Lisboa, Oporto, Roma, Varsovia, Leningrado, Bakú y Tiflis: «mi existencia ha sido esto: un viaje sin fin por ciudades de todos los continentes». Poco antes de la publicación de su nuevo álbum, Mercedes Sosa, dedicado a poetas latinoamericanos como Pablo Neruda y Víctor Jara, se instauró en Argentina la dictadura del general Jorge Rafael Videla tras el golpe de Estado del 24 de marzo de 1976. La censura, que siempre y desde siempre afectó a la cantante, se hizo más dura y asfixiante. Por si fuera poco, en 1978 su amado compañero murió de un tumor cerebral en menos de una semana. Ocho meses más tarde, durante un concierto en La Plata, es detenida y encarcelada durante unas horas junto con el público presente y liberada gracias a la presión internacional. Al poco tiempo, todos sus conciertos son cancelados, su voz desaparece de la radio y sus discos de las tiendas.

El régimen intenta borrar a la cantante del pueblo argentino:

«Me vienen a la memoria las imágenes de la noche en que me detuvieron en La Plata. Todo estaba preparado, la policía organizó la acción y el ejército rodeó el lugar. Tuvieron que entrar mientras yo cantaba Cuando tenga la tierra. Hice un esfuerzo y la canté, estaba casi por cantar El mundo prometido a Juanito Laguna, cuando llegó Fabían, desesperado, y me gritó: “¡Mercedes, bájate del escenario!” Ya teníamos a la policía encima».

Las acciones de represión no sólo la afectan a ella, sino también a su público, la gente que la quiere y la sigue. El mensaje es claro: debe marcharse. En 1979, La Negra se exilia en España y luego en París. Canta en Alemania y Japón. En todas partes, sus canciones hablan de opresión y lucha, de esclavitud y libertad, de poder injusto y de hombres y mujeres que se oponen a él. No hace falta entender la letra. En todas partes su voz, que sale sonora y llega a todos los rincones, se hace líquida y toca y ocupa espacios, se convierte finalmente en roca y masa, tierra sobre la que trepar para respirar el oxígeno del orgullo y la revolución. Hasta 1982 no pudo regresar a Argentina. La dictadura ha terminado, pero los militares siguen disparando en las calles y la censura sigue mordiendo con fuerza.

«Me llamo Mercedes Sosa, soy argentina», dirá la cantante en el gran concierto de Buenos Aires, organizado con motivo de su regreso. Y mientras fuera del teatro el ejército da voz sus armas, sobre el escenario ella canta todo su repertorio, gran parte del cual sigue prohibido. Repetirá el espectáculo durante trece noches, comenzando siempre con la canción Todavía cantamos, una dedicatoria a los muchos desaparecidos, sus hermanos y hermanas, engullidos por la locura y el odio humanos. Con el retorno a la democracia, el compromiso político y social de Sosa no se detiene. Seguirá cantando y viajando por el mundo, luchando, también a través de su música, por la despenalización del aborto, contra las dictaduras, a favor de la verdad sobre los desaparecidos, por la paz y los derechos civiles, por la protección del medio ambiente. En 1997 participó, como Vicepresidenta de la Comisión en la redacción de la “Carta de la Tierra”, en la Conferencia en la que se redactó un documento para la protección del medio ambiente.

La Negra falleció en la capital argentina el 4 de octubre de 2009, a causa de una insuficiencia renal. La capilla ardiente se instaló en el Salón de los Pasos Perdidos y el Gobierno convocó tres días de luto nacional. Símbolo de América Latina, Mercedes Sosa fue la cantora de la libertad: de los pueblos, de las mujeres, de las personas. Hizo respirar a toda una tierra con el aliento primordial que le pertenencía, haciéndola volar lejos de aquellas opresiones que siempre la amenazaron. Cantó y luchó. Luchó y cantó, esperando que su propia voz, cualquier voz de cualquier canción, sustituyera por fin el grito monstruoso de las armas, la violencia y la injusticia.

«Pero no cambia mi amor / por más lejos que me encuentre / ni el recuerdo ni el dolor / de mi pueblo y de mi gente / y lo que cambió ayer / tendrá que cambiar mañana / así como cambio yo. / En esta tierra lejana. Cambia, todo cambia».