Charley Torop

Luisa Nattero


Grafica di Katarzyna Oliwia Serkowska

Quando, nel 1950 e dopo sette anni dall’inizio, Charley Toorop completa finalmente il grande dipinto Tre generazioni, ha quasi sessant’anni e ha già avuto tre successivi ictus che ne hanno frenato l’attività, ma non la volontà. Il quadro iniziato tempo prima diventa così quasi un testamento, un passaggio del testimone tra lei ed il figlio Edgar, anch’egli pittore. In quest’opera sono importanti le presenze, ma contano anche le assenze. È presente suo padre, Jan Toorop, noto pittore olandese tra Simbolismo, Neoimpressionismo e Art Nouveau, morto ormai da molti anni, ma incombente attraverso il grande ritratto bronzeo che gli aveva realizzato lo scultore e amico John Rädecker. Lei è al centro, in atto di dipingere; per raffigurare la mano che impugna il pennello, sempre difficile per i pittori da rendere guardandosi allo specchio come è necessario fare per gli Autoritratti, si è ricordata di una foto scattatale anni prima dalla brava fotografa Eva Besnyö, per qualche tempo sua nuora avendo sposato l’altro figlio, John. Edgar accetta di posare, anche se riluttante perché spesso in tensione con lei, forse proprio in considerazione delle non buone condizioni di salute della madre. INSERIRE QUADRO L’idea del dipinto era nata probabilmente da una mostra del 1937, quando una galleria dell’Aja aveva esposto opere dei tre artisti nelle sue sale proprio con quel titolo: Tre generazioni. A proposito di assenze, nell’opera citata non compare certo la madre, Annie Hall Toorop, che pure è stata indubbiamente la persona che più si è presa cura di lei bambina e adolescente, ma trascinandola in un turbine di viaggi, di cambiamenti continui, di regole da rispettare. Il matrimonio tra i genitori era infatti entrato presto in crisi. Charley, in realtà Annie Caroline Pontifex Toorop, era nata nel 1891 a Katwijk, sul Mare del Nord, dove l’architetto Hendrik Berlage aveva costruito per loro “De Schuur” una bella casa modernista con studio annesso, perché Jan Toorop potesse lavorare ai grandi pannelli in ceramica che hanno poi ornato la Borsa di Amsterdam, opera dello stesso Berlage. La casa era luogo di ritrovo di un’ampia cerchia di conoscenti e amici artisti e intellettuali. Jan amava la bambina e l’ha spesso presa a modello per sue immagini, sia private che pubbliche. Nel 1902, però, la madre lascia il marito e porta la piccola in Inghilterra, dai propri genitori; si converte al cattolicesimo ed inizia a far prendere a Charley, che sembra dotata di indubbio talento, lezioni di violino dai maggiori maestri; seguono quindi viaggi in Germania e a Parigi. Pur di non perdere l’amata figlia, Jan nel 1905 accetta di farla battezzare e si converte lui pure; la famiglia così si riunisce e Charley può riprendere a frequentare lo studio del padre, che le dà i primi rudimenti nel campo della pittura. Nonostante i tanti amici (tra questi anche il grande violoncellista Pablo Casals) elogino i progressi di Charley in campo musicale, sia come violinista che come cantante di musica da camera, lei - forse proprio per le eccessive aspettative - arriva ad un punto di stress tale da sviluppare un totale rifiuto della musica e del canto, interrompendo bruscamente entrambi gli studi. È allora che nasce in lei l’idea di diventare pittrice: l’esercizio quasi ludico col padre diventa impegno quotidiano, ma non vuole seguire corsi specifici, se non il suo estro e gli stimoli che gli amici di famiglia o le mostre olandesi dell’epoca possono fornirle. Tra i frequenti invitati nella loro casa di Amsterdam o nelle vacanze estive a Domburg c’è il giovane Piet Mondriaan (come allora si chiamava), ancora pittore figurativo in cerca di una propria purezza espressiva, anche attraverso gli studi teosofici. Quando i genitori, nel 1909, traslocano da Amsterdam a Nijmegen, Charley è riluttante a lasciare il fervido clima culturale della capitale, anche perché vi ha conosciuto un giovane studente di filosofia, ateo e vicino ai circoli anarchici, Henk Fernhout, di cui s’innamora. La famiglia è contraria a tale relazione, prova ad opporsi. Lei, allora, nel 1911, lascia la casa paterna per tornare ad Amsterdam e resta incinta; di fronte a ciò, i genitori cedono e accettano il matrimonio. Nel 1912 nasce Edgar, seguito –l’anno successivo – da John; ultima, nel 1916, nascerà Annie, quando ormai la nuova coppia è già in piena crisi. Charley ha scoperto troppo tardi che Henk ha problemi forti di alcolismo, soffre di crisi depressive e ha attacchi di paranoia per i quali deve essere internato per lunghi periodi; inoltre, non accetta che lei dia la priorità alla propria arte, cui si dedica con costanza e dedizione. Nel 1917 c’è quindi la definitiva separazione, ma è anche l’anno della prima mostra personale, a Utrecht. Charley ed i bambini vanno a stare nella fattoria di Meerhuizen, sul Noordhollandse Schoorl, risistemata di recente proprio per accogliere artisti, tra cui varie donne (vi si era tenuta pochi anni prima la mostra: “The Woman: 1813-1913”). Qui conosce lo scultore John Rädecker, citato prima, il poeta Piet Wiegman ed altri. Si accosta anche alla “Scuola di Bergen”, che ruota intorno al pittore cubista francese Henri Le Fauconnier e all’olandese Piet van Wijngaerdt e pubblica le proprie teorie sulla rivista “Het Signaal”. I suoi amici pittori hanno in comune l’uso di colori scuri, contorni molto netti e marcati, superfici semplificate. Charley ha una relazione col poeta Adriaan Roland Holst, presto troncata, pur mantenendo l’amicizia per sempre, perché la sua priorità è ormai nettamente l’attività artistica. Anche i bambini, forse per non soffocarli come aveva fatto con lei la madre, vengono affidati alle cure di una governante e lei sembra accorgersene solo quando li fa posare, come il padre faceva con lei. Jan, intanto, preoccupato della loro precaria condizione, si è incaricato di far loro costruire una bella casa a Beurweg, vicino a Bergen, dal bravo architetto Piet Kramer, “De Vlerken”. Mentre la residenza è ancora in costruzione, la pittrice compie un viaggio nella povera regione del Borinage, dove aveva vissuto Van Gogh, pittore del cui periodo olandese sente l’influsso in questi anni. Lasciata la piccola alla governante, va con i figli maschi a Parigi, dove ritrova Mondrian e Le Fauconnier e tiene una personale alla galleria La Licorne. Dal 1921 la famigliola si installa nella nuova casa-studio, dove, a intermittenza, Charley resterà a vivere fino alla morte. Dal 1924 inizia a trascorrere le estati a West Kapelle, vicino a Walcheren, dove sceglie spesso contadini e donne lavoratrici del luogo come soggetto per i suoi dipinti. Sono gli anni più ricchi di incontri e prolifici della sua attività. Ad Amsterdam, è tra i fondatori della Film Liga ed in questa occasione conosce Joris Ivens, regista innovatore che sarà fondamentale per la formazione di suo figlio John; si avvicina agli ambienti anarchici, fonda con altri l’Asb, un’associazione di artisti che si prefigge ruoli innovativi e di sostegno reciproco.Nel 1928 muore Jan, l’amato padre. Charley inizia una relazione con Arthur Mueller Lehning, fondatore della rivista d’avanguardia “i 10” e con lui si trasferisce a Ginevra; i figli, però, non accettano più di seguirla: Edgar è ormai indipendente, John viene accolto da Joris Ivens, imparando da lui il mestiere di direttore delle riprese, montaggio, ecc.; la piccola Annie finisce in collegio. Charley è poi di nuovo a Parigi, dove Edgar la raggiunge, ormai deciso a divenire anche lui pittore. Influenzata inizialmente dal simbolismo paterno, ma anche dal diffondersi delle teorie teosofiche, il suo stile resterà sempre figurativo, ma solo in parte realistico. A Parigi aveva visto, restandone molto colpita, alcuni ritratti provenienti dalla necropoli egizia di El Faiyum; quei volti frontali, dallo sguardo diretto verso chi osserva, li ritroviamo mutatis mutandis in molti suoi ritratti, con visi che magari non rispettano correttamente le proporzioni reali, ma sembra vogliano parlarci con forza di sé stessi. Su tale frontalità ebbe influsso anche il contatto col cinema espressionista, come se singole lampade illuminassero ogni personaggio, quasi attore o attrice in un set. Era invece insofferente nei confronti della “Nuova oggettività” tedesca che considerava poco più che mera decorazione. Gli anni Trenta, fallito anche il legame con Lehning, la vedono tornare a Bergen e, come faceva il padre tanti anni prima, circondarsi lì degli amici più cari: ai soliti si sono aggiunti l’architetto e designer Gerrit Rietveld, che le risistema l’interno della casa, e le nuore, Rachel Pellecaan (pittrice che ha sposato Edgar) e Eva Besnyö, giovane e innovativa fotografa ebrea ungherese che lei aiuta a inserirsi nei circoli artistici olandesi. Sono anni non facili, segnati dalla depressione economica, ma Charley ha ormai un nucleo di collezionisti ed estimatori col cui sostegno riesce ad organizzare mostre anche a Bruxelles, mentre nel ’38 partecipa alla Biennale di Venezia. Quando, allo scoppio della guerra, l’Olanda viene subito invasa dai nazisti e si instaura un governo collaborazionista, sia lei che Edgar rifiutano di iscriversi alla Kultuurkammer, filiazione del potere nazista, e non possono quindi esporre, mentre Eva, ebrea, deve entrare in clandestinità, collaborando con la Resistenza per le foto da apporre sui documenti falsi degli ebrei in fuga. Devono tutti lasciare la casa, perché la zona viene dichiarata di interesse militare. Dopo la guerra si accosta sempre di più alle idee comuniste e nel 1947 diventa membro del Partito comunista dei Paesi Bassi. Iniziano, però, anche gravi problemi di salute: una serie di lievi ictus che lasciano qualche strascico fisico. Nel 1951 il museo dell’Aja festeggia i suoi sessant’anni con una mostra retrospettiva nella quale viene esposto anche Tre generazioni, da cui ha preso le mosse questo excursus biografico. Nello stesso anno, la mostra si sposta a New York, alle Hammer Galleries. Ormai, però, l'artista non riesce quasi più a lavorare, se non a poche Nature morte. Nell’estate del 1955 fa visita a John, che si trova a Roma, e per un’ultima volta trascorre l’estate con Edgar a Westkapelle. Muore il 5 novembre 1955. Un monumento è stato eretto per lei a Westkapelle nel 2013. Nel 2017, il comune di Amsterdam ha assegnato il suo nome ad uno dei ponti della città.

L’idea del dipinto era nata probabilmente da una mostra del 1937, quando una galleria dell’Aja aveva esposto opere dei tre artisti nelle sue sale proprio con quel titolo: Tre generazioni. A proposito di assenze, nell’opera citata non compare certo la madre, Annie Hall Toorop, che pure è stata indubbiamente la persona che più si è presa cura di lei bambina e adolescente, ma trascinandola in un turbine di viaggi, di cambiamenti continui, di regole da rispettare. Il matrimonio tra i genitori era infatti entrato presto in crisi. Charley, in realtà Annie Caroline Pontifex Toorop, era nata nel 1891 a Katwijk, sul Mare del Nord, dove l’architetto Hendrik Berlage aveva costruito per loro “De Schuur” una bella casa modernista con studio annesso, perché Jan Toorop potesse lavorare ai grandi pannelli in ceramica che hanno poi ornato la Borsa di Amsterdam, opera dello stesso Berlage. La casa era luogo di ritrovo di un’ampia cerchia di conoscenti e amici artisti e intellettuali. Jan amava la bambina e l’ha spesso presa a modello per sue immagini, sia private che pubbliche. Nel 1902, però, la madre lascia il marito e porta la piccola in Inghilterra, dai propri genitori; si converte al cattolicesimo ed inizia a far prendere a Charley, che sembra dotata di indubbio talento, lezioni di violino dai maggiori maestri; seguono quindi viaggi in Germania e a Parigi. Pur di non perdere l’amata figlia, Jan nel 1905 accetta di farla battezzare e si converte lui pure; la famiglia così si riunisce e Charley può riprendere a frequentare lo studio del padre, che le dà i primi rudimenti nel campo della pittura. Nonostante i tanti amici (tra questi anche il grande violoncellista Pablo Casals) elogino i progressi di Charley in campo musicale, sia come violinista che come cantante di musica da camera, lei - forse proprio per le eccessive aspettative - arriva ad un punto di stress tale da sviluppare un totale rifiuto della musica e del canto, interrompendo bruscamente entrambi gli studi. È allora che nasce in lei l’idea di diventare pittrice: l’esercizio quasi ludico col padre diventa impegno quotidiano, ma non vuole seguire corsi specifici, se non il suo estro e gli stimoli che gli amici di famiglia o le mostre olandesi dell’epoca possono fornirle. Tra i frequenti invitati nella loro casa di Amsterdam o nelle vacanze estive a Domburg c’è il giovane Piet Mondriaan (come allora si chiamava), ancora pittore figurativo in cerca di una propria purezza espressiva, anche attraverso gli studi teosofici. Quando i genitori, nel 1909, traslocano da Amsterdam a Nijmegen, Charley è riluttante a lasciare il fervido clima culturale della capitale, anche perché vi ha conosciuto un giovane studente di filosofia, ateo e vicino ai circoli anarchici, Henk Fernhout, di cui s’innamora. La famiglia è contraria a tale relazione, prova ad opporsi. Lei, allora, nel 1911, lascia la casa paterna per tornare ad Amsterdam e resta incinta; di fronte a ciò, i genitori cedono e accettano il matrimonio. Nel 1912 nasce Edgar, seguito –l’anno successivo – da John; ultima, nel 1916, nascerà Annie, quando ormai la nuova coppia è già in piena crisi. Charley ha scoperto troppo tardi che Henk ha problemi forti di alcolismo, soffre di crisi depressive e ha attacchi di paranoia per i quali deve essere internato per lunghi periodi; inoltre, non accetta che lei dia la priorità alla propria arte, cui si dedica con costanza e dedizione. Nel 1917 c’è quindi la definitiva separazione, ma è anche l’anno della prima mostra personale, a Utrecht. Charley ed i bambini vanno a stare nella fattoria di Meerhuizen, sul Noordhollandse Schoorl, risistemata di recente proprio per accogliere artisti, tra cui varie donne (vi si era tenuta pochi anni prima la mostra: “The Woman: 1813-1913”). Qui conosce lo scultore John Rädecker, citato prima, il poeta Piet Wiegman ed altri. Si accosta anche alla “Scuola di Bergen”, che ruota intorno al pittore cubista francese Henri Le Fauconnier e all’olandese Piet van Wijngaerdt e pubblica le proprie teorie sulla rivista “Het Signaal”. I suoi amici pittori hanno in comune l’uso di colori scuri, contorni molto netti e marcati, superfici semplificate. Charley ha una relazione col poeta Adriaan Roland Holst, presto troncata, pur mantenendo l’amicizia per sempre, perché la sua priorità è ormai nettamente l’attività artistica. Anche i bambini, forse per non soffocarli come aveva fatto con lei la madre, vengono affidati alle cure di una governante e lei sembra accorgersene solo quando li fa posare, come il padre faceva con lei. Jan, intanto, preoccupato della loro precaria condizione, si è incaricato di far loro costruire una bella casa a Beurweg, vicino a Bergen, dal bravo architetto Piet Kramer, “De Vlerken”. Mentre la residenza è ancora in costruzione, la pittrice compie un viaggio nella povera regione del Borinage, dove aveva vissuto Van Gogh, pittore del cui periodo olandese sente l’influsso in questi anni. Lasciata la piccola alla governante, va con i figli maschi a Parigi, dove ritrova Mondrian e Le Fauconnier e tiene una personale alla galleria La Licorne. Dal 1921 la famigliola si installa nella nuova casa-studio, dove, a intermittenza, Charley resterà a vivere fino alla morte. Dal 1924 inizia a trascorrere le estati a West Kapelle, vicino a Walcheren, dove sceglie spesso contadini e donne lavoratrici del luogo come soggetto per i suoi dipinti. Sono gli anni più ricchi di incontri e prolifici della sua attività. Ad Amsterdam, è tra i fondatori della Film Liga ed in questa occasione conosce Joris Ivens, regista innovatore che sarà fondamentale per la formazione di suo figlio John; si avvicina agli ambienti anarchici, fonda con altri l’Asb, un’associazione di artisti che si prefigge ruoli innovativi e di sostegno reciproco.Nel 1928 muore Jan, l’amato padre. Charley inizia una relazione con Arthur Mueller Lehning, fondatore della rivista d’avanguardia “i 10” e con lui si trasferisce a Ginevra; i figli, però, non accettano più di seguirla: Edgar è ormai indipendente, John viene accolto da Joris Ivens, imparando da lui il mestiere di direttore delle riprese, montaggio, ecc.; la piccola Annie finisce in collegio. Charley è poi di nuovo a Parigi, dove Edgar la raggiunge, ormai deciso a divenire anche lui pittore. Influenzata inizialmente dal simbolismo paterno, ma anche dal diffondersi delle teorie teosofiche, il suo stile resterà sempre figurativo, ma solo in parte realistico. A Parigi aveva visto, restandone molto colpita, alcuni ritratti provenienti dalla necropoli egizia di El Faiyum; quei volti frontali, dallo sguardo diretto verso chi osserva, li ritroviamo mutatis mutandis in molti suoi ritratti, con visi che magari non rispettano correttamente le proporzioni reali, ma sembra vogliano parlarci con forza di sé stessi. Su tale frontalità ebbe influsso anche il contatto col cinema espressionista, come se singole lampade illuminassero ogni personaggio, quasi attore o attrice in un set. Era invece insofferente nei confronti della “Nuova oggettività” tedesca che considerava poco più che mera decorazione. Gli anni Trenta, fallito anche il legame con Lehning, la vedono tornare a Bergen e, come faceva il padre tanti anni prima, circondarsi lì degli amici più cari: ai soliti si sono aggiunti l’architetto e designer Gerrit Rietveld, che le risistema l’interno della casa, e le nuore, Rachel Pellecaan (pittrice che ha sposato Edgar) e Eva Besnyö, giovane e innovativa fotografa ebrea ungherese che lei aiuta a inserirsi nei circoli artistici olandesi. Sono anni non facili, segnati dalla depressione economica, ma Charley ha ormai un nucleo di collezionisti ed estimatori col cui sostegno riesce ad organizzare mostre anche a Bruxelles, mentre nel ’38 partecipa alla Biennale di Venezia. Quando, allo scoppio della guerra, l’Olanda viene subito invasa dai nazisti e si instaura un governo collaborazionista, sia lei che Edgar rifiutano di iscriversi alla Kultuurkammer, filiazione del potere nazista, e non possono quindi esporre, mentre Eva, ebrea, deve entrare in clandestinità, collaborando con la Resistenza per le foto da apporre sui documenti falsi degli ebrei in fuga. Devono tutti lasciare la casa, perché la zona viene dichiarata di interesse militare.

Dopo la guerra si accosta sempre di più alle idee comuniste e nel 1947 diventa membro del Partito comunista dei Paesi Bassi. Iniziano, però, anche gravi problemi di salute: una serie di lievi ictus che lasciano qualche strascico fisico. Nel 1951 il museo dell’Aja festeggia i suoi sessant’anni con una mostra retrospettiva nella quale viene esposto anche Tre generazioni, da cui ha preso le mosse questo excursus biografico. Nello stesso anno, la mostra si sposta a New York, alle Hammer Galleries. Ormai, però, l'artista non riesce quasi più a lavorare, se non a poche Nature morte. Nell’estate del 1955 fa visita a John, che si trova a Roma, e per un’ultima volta trascorre l’estate con Edgar a Westkapelle. Muore il 5 novembre 1955.

Un monumento è stato eretto per lei a Westkapelle nel 2013. Nel 2017, il comune di Amsterdam ha assegnato il suo nome ad uno dei ponti della città.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

Quand, en 1950 et sept ans après le début de sa création, Charley Toorop a finalement achevé le grand tableau Trois Générations, elle avait presque soixante ans et avait déjà eu trois ictus successifs qui ont freiné son activité, mais pas sa volonté. La peinture commencée quelque temps auparavant devient presque un testament, un passage de témoin entre elle et son fils Edgar, également peintre. Dans ce travail, les présences sont importantes, mais les absences comptent aussi. Présent est son père, Jan Toorop, un peintre hollandais bien connu entre symbolisme, néo-impressionnisme et Art nouveau, qui est mort depuis de nombreuses années, mais qui s’impose par le grand portrait en bronze que le sculpteur et ami John Rädecker avait fait de lui. Elle est au centre, en train de peindre; pour représenter la main tenant le pinceau, toujours difficile pour les peintres à rendre en se regardant dans le miroir comme il faut le faire pour les autoportraits, elle s’est souvenue d'une photo prise de ses années plus tôt par la bonne photographe Eva Besnyö, quelques temps sa belle-fille ayant épousé l’autre fils, John. Edgar accepte de poser, mais à contrecœur car il est souvent en tension avec elle, peut-être en raison de la mauvaise santé de sa mère. L'idée du tableau est probablement née d'une exposition en 1937, lorsqu'une galerie de La Haye avait exposé des œuvres des trois artistes dans ses salles avec ce même titre: Trois générations. En parlant d'absences, l'ouvrage cité n'inclut certainement pas sa mère, Annie Hall Toorop, qui était sans aucun doute la personne qui s'est le plus occupée d'elle lorsqu'elle était enfant et adolescente, mais l'entraînant dans un tourbillon de voyages, de changements continus. de règles à respecter. Le mariage entre les parents était, en effet, rapidement entré en crise. Charley, en vérité Annie Caroline Pontifex Toorop, est née en 1891 à Katwijk, sur la mer du Nord, où l'architecte Hendrik Berlage avait construit pour eux "De Schuur" une belle maison moderniste avec atelier attenant, afin que Jan Toorop puisse travailler sur les grands panneaux de céramique qui orneront plus tard la Bourse d'Amsterdam, œuvre de Berlage lui-même. La maison était le lieu de rencontre d'un grand cercle de connaissances et d'amis, d'artistes et d'intellectuels. Jan aimait la petite fille et la prenait souvent comme modèle pour ses images, privées et publiques. En 1902, cependant, la mère quitte son mari et emmène l'enfant en Angleterre, chez ses parents; elle se convertit au catholicisme et fait prendre à sa fille, qui semble douée d'un talent incontestable, des cours de violon auprès des plus grands maîtres; et puis suivent des voyages en Allemagne et à Paris. Afin de ne pas perdre sa fille bien-aimée, Jan accepte de la faire baptiser en 1905 et lui aussi se convertit; Ainsi la famille se réunit et Charley peut reprendre ses études à l'atelier de son père, qui lui donne les premiers rudiments de la peinture. Malgré les nombreux amis (dont le grand violoncelliste Pablo Casals) louent les progrès de Charley dans le domaine musical, à la fois comme violoniste et chanteuse de musique de chambre, elle - peut-être en raison d'attentes excessives - atteint un tel point de stress qu’elle développe un rejet total de la musique et du chant, interrompant brusquement les deux études. C'est alors que l'idée de devenir peintre est née en elle: l'exercice presque ludique avec son père devient un engagement quotidien, mais elle ne veut pas suivre de cours spécifiques à part son inspiration et les stimuli que les amis de la famille ou les expositions hollandaises de l'époque peuvent lui fournir. Parmi les invités fréquents à Amsterdam ou en vacances d'été à Domburg se trouve le jeune Piet Mondriaan (comme on l'appelait alors), encore peintre figuratif à la recherche de sa propre pureté expressive, même au travers de ses études théosophiques. Lorsque ses parents ont déménagé d'Amsterdam à Nijmegen en 1909, Charley hésitait à quitter le climat culturel fervent de la capitale, parce qu’aussi elle y a rencontré un jeune étudiant en philosophie, athée et proche des milieux anarchistes, Henk Fernhout, elle en tombe amoureuse. La famille est contre une telle relation et essaie de s’y opposer. Alors en 1911, elle quitte la maison pour retourner à Amsterdam et tombe enceinte; face à cela, les parents cèdent et acceptent le mariage. Edgar est né en 1912, suivi - l'année suivante - de John; enfin, en 1916, Annie naîtra, alors que le nouveau couple est déjà en pleine crise. Charley a découvert trop tard que Henk a de graves problèmes d'alcool, souffre de crises de dépression et de crises de paranoïa pour lesquelles il doit être interné pendant de longues périodes; de plus, il n'accepte pas qu'elle donne la priorité à son art, auquel elle se consacre avec constance et dévouement. En 1917 il y a donc la séparation définitive, mais c'est aussi l'année de la première exposition personnelle, à Utrecht. Charley et les enfants partent se loger à la ferme Meerhuizen, sur la Noordhollandse Schoorl, récemment réaménagée pour accueillir des artistes, dont diverses femmes (l'exposition «La Femme: 1813-1913» y avait lieu quelques années plus tôt). Ici, elle rencontre le sculpteur John Rädecker, mentionné précédemment, le poète Piet Wiegman et d'autres. Elle s'approche aussi de «l'école de Bergen», qui tourne autour du peintre cubiste français Henri Le Fauconnier et du néerlandais Piet van Wijngaerdt et publie ses théories dans la revue «Het Signaal». Ses amis peintres ont en commun l'utilisation de couleurs sombres, de contours très nets et marqués, de surfaces simplifiées. Charley entretient une relation avec le poète Adriaan Roland Holst, bientôt tronquée, tout en restant à jamais amis, car désormais sa priorité est clairement l'activité artistique. Même les enfants, peut-être pour ne pas les étouffer comme sa mère l'avait fait avec elle, sont confiés aux soins d'une gouvernante et elle ne semble s'en apercevoir que lorsqu'elle les fait poser, comme son père faisait avec elle. Pendant ce temps, Jan, inquiet de leur situation précaire, s'est chargé de leur faire construire une belle maison à Beurweg, près de Bergen, par le talentueux architecte Piet Kramer, «De Vlerken». Alors que la résidence est encore en construction, l’artiste peintre fait un voyage dans la pauvre région du Borinage, où vécut Van Gogh, peintre de la période néerlandaise dont elle ressent l'influence dans ces années-là. Laissant la petite fille à la gouvernante, elle part avec ses fils à Paris, où elle rencontre Mondrian et Le Fauconnier et tient une exposition personnelle à la galerie La Licorne. A partir de 1921, la petite famille s'installe dans la nouvelle maison-atelier, où, par intermittence, Charley restera pour y vivre jusqu'à sa mort. À partir de 1924, elle commence à passer les étés à West Kapelle, près de Walcheren, où elle choisit souvent les paysans et les travailleuses locaux comme sujet de ses peintures. Ce sont les années les plus riches et les plus prolifiques de son activité. A Amsterdam, elle est l’un des membres fondateurs de la Film Liga et à cette occasion elle rencontre Joris Ivens, un réalisateur innovant qui sera fondamental pour la formation de son fils John; elle s'approche des cercles anarchistes, fonde avec d'autres l'Asb, une association d'artistes qui se propose des rôles novateurs et se soutient mutuellement. En 1928, Jan, son père bien-aimé, meurt. Charley entame une relation avec Arthur Mueller Lehning, fondateur du magazine d'avant-garde "i10" et s'installe à Genève avec lui; cependant ses enfants n'acceptent plus de la suivre: Edgar est désormais indépendant, John est accueilli par Joris Ivens, apprenant de lui le métier de directeur du tournage, le montage, etc.; la petite Annie se retrouve en internat. Charley est alors de retour à Paris, où Edgar la rejoint, désormais décidé à devenir peintre lui aussi. Initialement influencée par le symbolisme paternel, mais aussi par la diffusion des théories théosophiques, son style restera toujours figuratif, mais seulement partiellement réaliste. A Paris, elle a vu, et en reste très impressionnée, des portraits de la nécropole égyptienne d'El Faiyum; ces visages frontaux, le regard tourné vers l'observateur, on les retrouve mutatis mutandis dans beaucoup de ses portraits, avec des visages qui ne respectent peut-être pas correctement les proportions réelles, mais semblent vouloir nous parler fortement d'eux-mêmes. Le contact avec le cinéma expressionniste a également influencé cette frontalité, comme si des lampes uniques illuminaient chaque personnage, presque comme des acteurs ou actrices d'un décor. Par contre, elle est irritée par la «nouvelle objectivité» allemande qu'elle considére comme une simple décoration.

Les années trente, quand le lien avec Lehning a également échoué, la voient revenir à Bergen et, comme son père le faisait de nombreuses années auparavant, elle s'y entoure des amis les plus proches: auxquels s’ajoutent, l'architecte et designer habituel Gerrit Rietveld qui s’occupe de la décoration intérieure de la maison, ses belles-filles, Rachel Pellecaan (peintre qui a épousé Edgar) et Eva Besnyö, une jeune et innovante photographe juive hongroise qu'elle aide à s’intégrer dans les cercles artistiques néerlandais. Ce ne furent pas des années faciles, marquées par la crise économique, mais Charley compte désormais sur un noyau de collectionneurs et d'admirateurs avec le soutien desquels elle peut également organiser des expositions à Bruxelles, tandis qu'en 38, elle participe à la Biennale de Venise. Lorsque, au déclenchement de la guerre, la Hollande est immédiatement envahie par les nazis et qu'un gouvernement collaborationniste est établi, elle et Edgar refusent de rejoindre le Kultuurkammer, une filiation du pouvoir nazi, et ne peuvent donc pas exposer, tandis qu'Eva, juive, doit entrer dans la clandestinité, en collaborant avec la Résistance pour les photos apposées sur les faux documents de juifs en fuite. Ils doivent tous quitter la maison, car la zone est déclarée d'intérêt militaire.

Après la guerre, elle est de plus en plus proche des idées communistes et en 1947 et devient membre du Parti communiste des Pays-Bas. Cependant, de graves problèmes de santé commencent: une série de petits accidents vasculaires cérébraux qui lui laissent des séquelles physiques. En 1951, le Musée de La Haye fête ses soixante ans avec une exposition rétrospective dans laquelle le tableau trois générations est également exposé, à partir duquel cet excursus biographique est basé. La même année, l'exposition déménage à New York, aux Hammer Galleries. Désormais l'artiste est presque incapable de travailler, si ce n'est sur quelques Nature morte. L’été 1955, elle rend visite à John, qui est à Rome, et pour une dernière fois, passe l'été avec Edgar à Westkapelle. Elle décède le 5 novembre 1955.

Un monument a été érigé pour elle à Westkapelle en 2013. En 2017, la municipalité d'Amsterdam a attribué son nom à l'un des ponts de la ville.

 

Traduzione inglese
Cettina Callea

In 1950 Charley Toorop, after almost seven years of work, finally completed her famous painting, “Three Generations.” She was nearly sixty years of age and had already suffered three strokes that held back her activity, but not her will.

The painting became almost a testament, a passing of the baton from her to her son Edgar, also a painter. In this work, individual presences are important, but absences also count. There is her father, Jan Toorop, a well-known Dutch Symbolist, Neo-Impressionist and Art Nouveau painter, who had passed away many years before. He looms large in the painting, through the larger-than-life bronze bust that sculptor and friend John Rädecker had made of him.

Charley Toorop is in the centre of the painting, shown in the act of painting. It is always difficult for painters, while looking in a mirror, as is necessary for self-portraits, to depict the hand holding the brush. She remembered a photo taken years earlier by the expert photographer Eva Besnyö, once her daughter-in-law, having married her younger son, John. Edgar agreed to pose, although reluctantly because he was often in tension with her, perhaps as a result of his mother's poor health.

Speaking of absences, the Toorop painting certainly does not include her mother, Annie Hall Toorop, who was undoubtedly the person who most cared for her as a child and adolescent, but who also dragged her into a whirlwind of travels and continuous changes, with many rules to respect. The idea of ​​the painting was probably born from an exhibition in 1937, when a gallery in The Hague exhibited works by three artists in its rooms under the title: “Three Generations.”

The marriage between her parents had in fact soon entered into crisis. Charley, whose actual name was Annie Caroline Pontifex Toorop, was born in 1891 in Katwijk, on the North Sea, where the architect Hendrik Berlage had built for her family "De Schuur," a beautiful modernist house with an adjoining studio. It was there that Jan Toorop worked on the great ceramic panels that later adorned the Amsterdam Stock Exchange, also a work of Berlage. The house was a meeting place for a large circle of acquaintances and friends, artists and intellectuals. Charley’s father loved the little girl and often used her as a model for his images, both private and public.

In 1902, however, the mother left her husband and took the child to England, to her parents. She converted to Catholicism and let Charley, who seemed gifted with undoubted talents, take violin lessons from the greatest masters. Trips to Germany and Paris follow. In order not to lose his beloved daughter, Jan in 1905 agreed to have her baptized and he too converted. Thus, the family reunited and Charley resumed attending her father's studio, where he taught her the first rudiments of painting.

It was then that the idea of ​​becoming a painter was born in her. The almost playful exercise with her father became a daily commitment, but she did not want to follow a specific direction, unless it was provided by her own inspiration and the stimuli that her family friends and Dutch exhibitions gave her. Among the frequent guests in their home in Amsterdam, or on their summer holidays in Domburg, was the young Piet Mondriaan (as he was then called), still a figurative painter in search of his own expressive purity, including through theosophical studies.

When her parents moved from Amsterdam to Nijmegen in 1909, Charley was reluctant to leave the fervent cultural climate of the capital, in part because she met a young philosophy student, an atheist who was close to anarchist circles, Henk Fernhout. She had fallen in love. Her family was against the relationship, and tried to discourage it. Then, in 1911, she left her father's house to return to Amsterdam and became pregnant. Faced with this, the parents gave up and accepted the marriage. Edgar was born in 1912, followed – the next year - by her second son, John. Last, in 1916, a daughter, Annie, was born. By then, the new couple was already in full crisis.

Charley discovered too late that Henk had severe alcohol problems, suffered from depressive attacks and had attacks of paranoia for which he had to be interned for long periods. Moreover, he did not accept the priority that she gave to her art, to which she dedicated herself with deep commitment.

In 1917 there was therefore a definitive separation. It was also the year of Charley’s first personal exhibition, held in Utrecht. Charley and the children went to stay on the Meerhuizen farm, on the Noordhollandse Schoorl, recently refurbished to welcome artists, including various women. The exhibition “The Woman: 1813-1913” had been held there a few years earlier.

There she met the sculptor John Rädecker, mentioned earlier, the poet Piet Wiegman and others. She also encountered the "Bergen School", which revolved around the French Cubist painter Henri Le Fauconnier and the Dutch Piet van Wijngaerdt, whose theories were published in the magazine "Het Signaal".

Her painter friends had the use of dark colours in common, very sharp and marked outlines, and simplified surfaces. Charley had a relationship with the poet Adriaan Roland Holst, soon severed, but she maintained the friendship forever. Her priority was now clearly her artistic activity.

Even her children, perhaps in order not to suffocate them as her mother had done with her, were entrusted to the care of a housekeeper. She seemed to notice them only when she used them in poses, as her father had done with her. Meanwhile, her father, worried about their precarious condition, took charge of having a beautiful house built for them in Beurweg, near Bergen, by the talented architect Piet Kramer, “De Vlerken”.

While the residence was still under construction, the Charley took a trip to the poverty-stricken Borinage region, where Van Gogh had lived. He was a painter by whose Dutch period she had begun to be influenced. Leaving her young daughter with the housekeeper, she went with her sons to Paris, where she met Mondrian and Le Fauconnier and held a solo show at the La Licorne gallery. From 1921 on the little family settled in the new house-studio, where, intermittently, Charley stayed until her death.

From 1924 she began to spend summers in West Kapelle, near Walcheren, where she often chose local farmers and women workers as the subject for her paintings. These were the richest and most prolific years of her artistic life. In Amsterdam, she was one of the founders of the Film Liga and thus met Joris Ivens, an innovative director who became fundamental to the training of her son John. She also approached anarchist circles, and founded the ASB with others – a mutual support association of artists that set themselves innovative goals.

In 1928 Jan, her beloved father, died. Charley began a relationship with Arthur Mueller Lehning, founder of the avant-garde magazine "i 10" and moved with him to Geneva. Her children, however, no longer accepted following her. Edgar was now independent, and John was welcomed by Joris Ivens, learning from him the skills of a director - shooting, editing, and so on. Little Annie ended up in a boarding school. Charley returned to Paris, where Edgar joined her, by then determined to become a painter too.

Initially influenced by paternal symbolism, but also by the spread of theosophical theories, her style always remained figurative, but only partially realistic. In Paris she had seen and was very impressed by some portraits from the Egyptian necropolis of El Faiyum. Those frontal faces, with their gaze directed towards the observer, are found, mutatis mutandis, in many of her portraits. The faces, that perhaps do not correctly respect real proportions, seem to want to speak to us strongly about themselves.

Her contact with Expressionist cinema also influenced this frontality, as if single lamps illuminated each character, almost as an actor or actress on a set. She was impatient with the German "New Objectivity" which she considered little more than mere decoration.

In the 1930s, when her relationship with Lehning also failed, she went back to Bergen and, as her father had done many years before, surrounded herself with her closest friends. The architect and designer Gerrit Rietveld was among them, as were her daughters-in-law, Rachel Pellecaan (painter who married Edgar) and Eva Besnyö, a young and innovative Hungarian Jewish photographer who she helped to fit into Dutch artistic circles.

These were not easy years, marked by economic depression, but Charley now had a nucleus of collectors and admirers who supported the organization of exhibitions in Brussels, while in 1938 she participated in the Venice Biennale.

At the outbreak of the war, the Netherlands were immediately invaded by the Nazis and a collaborationist government was established. Both she and Edgar refused to join the Kultuurkammer, a creation of the Nazis, and therefore could not exhibit their work. Eva, a Jew, had to go into hiding, collaborating with the Resistance by providing photos to be affixed to the false documents of fleeing Jews. They all had to leave the house, because the area is declared of military interest.

After the war Charley grew increasingly close to communist ideas, and in 1947 she became a member of the Communist Party of the Netherlands. However, serious health problems also began, including a series of minor strokes that left her with some physical limitations. In 1951, the Hague Museum celebrated its sixty years with a retrospective exhibition in which Charley’s painting, “Three Generations,” was exhibited. In the same year, the exhibition moved to New York, to the Hammer Galleries.

By that time, however, the artist was almost unable to work, producing only a few still life paintings. In 1955 she visited John in Rome, and for the last time she spent the summer with Edgar in Westkapelle. She died on November 5, 1955.

A monument to her was erected in Westkapelle in 2013. In 2017, the municipality of Amsterdam gave her name to one of the city's bridges.



Lily Unden

Laura Coci


Grafica di Katarzyna Oliwia Serkowska

«A un tratto, udimmo una voce chiara e cordiale: -Wou sin d’Lëtzebuergerinnen?- [in lussemburghese nel testo]. Non credevamo alle nostre orecchie, alzammo la testa e vedemmo all’ingresso della ‘Blockstube’ una giovane donna bionda con gli occhi chiari, vestita, come noi, dell’abito a righe blu e grigie, l’uniforme delle detenute del KZ di Ravensbrϋck. Ci apparve come una creatura discesa da un altro mondo nelle tenebre del campo. Con sguardo attento, osserva tutte noi, strette l’una all’altra. Alziamo le braccia, e non appena lei ci individua nella massa, si fa strada verso di noi e si presenta: -Lily Unden-. Questo istante non si cancellerà mai dalla mia memoria». È la testimonianza, in francese, di Germaine Paulus-Schaack, contenuta nel volume di Christiane Schlesser-Knaff Lily Unden. Professeur, artiste-peintre, poète, grande résistante. 1908-1989. Sa vie, son œuvre, ses idéaux (Imprimerie Saint-Paul, Luxembourg 1991), opera di ampio respiro che l’autrice dedica con affetto immutato alla cara ‘Tati’ (vezzeggiativo di ‘tante’, [‘zia’]), ricchissima sotto il profilo documentario e iconografico, che apre alla conoscenza di una donna straordinaria, una resistente lussemburghese pochissimo nota in Italia (e quasi dimenticata anche dalla rete, che le riserva scarni profili in Wikipedia, in lingua inglese e in lingua francese), una donna che a ragione può essere considerata madre fondatrice dell’Europa, l’Europa delle donne e degli uomini, dei popoli, dei diritti e delle libertà, l’Europa che vogliamo.

Disegno di Lily a illustrazione della lirica Nous nous souvenons… L’immagine, come tutte le successive, tranne la 5, è trattè dal volume di Christiane Schlesser-Knaff Lily Unden. Professeur, artiste-peintre, poète, grande résistante. 1908-1989. Sa vie, son œuvre, ses idéaux (Imprimerie Saint-Paul, Luxembourg 1991).

Lily è la prima cittadina del Lussemburgo a entrare nel campo di concentramento per donne di Ravensbrϋck, nel maggio 1943: altre la seguiranno, nel corso dell’anno successivo, internate soprattutto per motivi politici, poiché le appartenenti alla comunità ebraica lussemburghese che nell’ottobre 1941 non si sono rifugiate altrove sono deportate nei campi di sterminio dell’Europa orientale, dopo l’occupazione e l’annessione forzata del Lussemburgo al Reich, avvenuta il 10 maggio 1940, in violazione della neutralità permanente del paese, che data dal 1867, l’anno in cui il Granducato raggiunge la piena indipendenza. Lily non lo esplicita, ma è certamente la perdita della sovranità del proprio paese l’evento fondante della vita, che determina la scelta di libertà e solidarietà che connota tutta la sua esistenza. Léonie (questo il nome di battesimo) ha trentadue anni: è nata il 26 febbraio 1908 a Longwy-Bas, in Francia (al confine con Belgio e Lussemburgo), da Émile, ingegnere siderurgico lussemburghese di ascendenza svedese, e da Justine Thiry, di antica famiglia aristocratica francese; è la terza di tre figlie, dopo Elvire e Guiguy (madre di Christiane Schlesser).

Le tre sorelle Unden, Lily è al centro

Poco prima della Grande Guerra, la famiglia si trasferisce a Mϋlhenbach, nelle vicinanze della capitale del Granducato: Lily compie studi liceali, si specializza in Belle Arti dedicandosi alla pittura (a Bruxelles, Strasbourg, Metz), guida l’automobile: Émile Unden concede infatti alle tre figlie di conseguire il permesso di guida a patto che, per la loro sicurezza, imparino a sostituire pneumatici ed effettuare piccole riparazioni meccaniche. Dopo la morte del padre e il matrimonio delle sorelle, Lily accudisce la madre fino alla morte di questa, nel 1939; intanto, è divenuta un’artista affermata: dipinge ritratti, paesaggi di gusto post-impressionista, nature morte (le celebri composizioni di fiori memori della luce di Aix-en-Provence e della pennellata di Vincent Van Gogh), espone in collettive e personali dall’inizio del 1934 alla fine del 1938 (riprenderà a farlo a guerra conclusa, nel 1946).

Lily davanti alla casa di famiglia.

Non è Lily a raccontare le vicende del proprio impegno nella resistenza lussemburghese e del salvataggio di persone ebree, dell’arresto e della detenzione, della deportazione. Forse, come sembra intuire Christiane Schlesser, e come scrive Anna Maria Bruzzone a proposito di Lidia Beccaria Rolfi, italiana sopravvissuta a Ravensbrϋck, al loro rientro in patria le deportate politiche «spesso si videro opporre un muro di disinteresse, di incomprensione, di diffidenza e talora persino di ostilità»: se infatti, come si ‘conviene’ alle donne, fossero rimaste a casa, non sarebbero state deportate; è come se, in qualche modo, se la fossero cercata. Il racconto dettagliato del periodo della resistenza – una testimonianza in prima persona rilasciata dalla stessa Lily – è pubblicato dal Colonel Rémy, nome di battaglia del resistente francese Gilbert Renault, nell’opera Une épopée de la Résistance: en France, en Belgique et au Grand Duché du Luxembourg (edita in fascicoli negli anni 1975-1976), che definisce l’amica «un ange de bonté, vénérée de toutes celles de ses compagnes de misère qui l’y ont approchée». Eccolo: scandito, qualora possibile, dalla cronologia degli eventi. Il 3 giugno 1942 (due anni dopo l’annessione forzata del Lussemburgo) a Lily Unden è fatto divieto di dipingere, a seguito del rifiuto di aderire al movimento di ispirazione nazista lussemburghese VdB (Volksdeutsche Bewegung), ormai unico partito legale del Granducato, e alla Kulturkammer, pure controllata dal Reich. A questo proposito Christiane Schlesser ricorda di aver ascoltato da ‘Tati’ un aneddoto significativo: «Peccato che voi non vogliate essere dei nostri – le confida con rammarico un occupante - voi siete veramente un tipo ariano e il nostro governo ha bisogno di persone come voi». Al momento dell’invasione del paese, la regnante Charlotte de Luxembourg, con la famiglia e i membri del governo, si era rifugiata dapprima in Francia, poi in Inghilterra; da qui, attraverso Radio Londra, parlava al suo popolo incoraggiandolo a resistere: «Je suis fidèle a ma grande-duchesse» dichiara Lily, da tempo in contatto con gruppi della resistenza lussemburghese (numerosi ma, fino al 1944, disuniti e scarsamente efficaci): LPL (Letzeburger Patriote Liga, costituita nel settembre 1940), LVL (Letzeburger Volks-Legio’n, formata nel giugno 1941), nonché il movimento LRL (Letzeburger Ro’de Lé’w, le ‘Lion rouge luxembourgeois’, nato nell’ottobre 1941). Nell’agosto 1942, in concomitanza con la preparazione del grande sciopero generale indetto per l’ultimo giorno del mese contro la coscrizione obbligatoria, Unden accoglie e nasconde per otto settimane nella sua casa Albert Meyers, capo del Ro’de Lé’w, aiutandolo a espatriare nel vicino Belgio. In precedenza ha soccorso, rivestendolo con abiti civili, un soldato francese fuggito da un campo di prigionia e, per onorare la promessa fatta a un conoscente ebreo passato in Francia, accompagnata dal fedele cocker Sonny, si è recata in un convento nel nord del paese ove erano stati internati gli anziani appartenenti alla comunità ebraica, portando notizie del giovane ai genitori: per passare inosservata, si è apposta una stella gialla sull’abito ed è poi miracolosamente sfuggita a una ispezione della Gestapo nascondendosi nel magazzino del carbone, passando e ripassando sotto il filo spinato che circonda l’edificio con il cagnolino tra le braccia. Tornata a casa, ha continuato «à faire passer en France d’autres Juifs et d’autre prisonniers de guerre français évadés d’Allemagne».

Lettera del 21 febbraio 1963 indirizzata a Lily dal Comptoir Pharmaceutique Luxembourgeois.

Pure dall’agosto 1942, Lily è costretta dagli occupanti a lavorare presso il Comptoir Pharmaceutique Luxembourgeois (non le è consentito, invece, essere impiegata come aiutante di un fotografo o come autista della Todt, la più grande organizzazione paramilitare che opera per la Wehrmacht), addetta principalmente al lavaggio della vetreria: nel laboratorio è arrestata dalle SS («Wo ist Fraϋlein Unden?») il 3 novembre dello stesso anno, alla presenza dei dirigenti e di alcuni impiegati («Cinq revolver pour moi tout seule? Quel honneur!»). Detenuta e interrogata per alcuni giorni a Villa Pauly, sede della Gestapo (la ‘Villa Triste’ lussemburghese) nel quartiere di Grund, è poi trasferita in Germania, nella prigione di Treviri (per qualche mese), in un campo presso Colonia (per quindici giorni), in luoghi di detenzione ad Hannover e Berlino. Durante la prigionia è costretta a riparare le calze dei soldati tedeschi al fronte e – come racconta l’amica M.me Gengler de Niederkorn – nello svolgimento di questa mansione compie piccoli ma significativi atti di sabotaggio: cuce le toppe con minuti punti impeccabili, ma tanto vicini ai bordi dei buchi da renderle inefficaci; oppure inserisce capelli nelle riparazioni, per procurare fastidio e prurito ai soldati che indosseranno nuovamente le calze. Poi, «finalement», nel maggio 1943, Ravensbrϋck. E qui la testimonianza di Lily all’amico e compagno di lotta Colonel Remy si risolve in poche frasi. «Arriviamo stanche davanti a un muro altissimo, nero, che si estende a perdita d’occhio. – racconta Lidia Beccaria Rolfi in Le donne di Ravensbrϋck – Nel muro si apre un portone sormontato da torrette, ci sono tante donne in fila che varcano il portone, mentre soldati SS le contano». Una città concentrazionaria, con blocchi «tutti uguali, neri, tristi», dalla quale naturalmente, in ragione dei «fili con la corrente ad alta tensione» e delle «torrette di guardia con le mitragliatrici puntate» è impossibile fuggire, una città «a misura del sistema che ha bisogno di ammassare il maggior numero di schiave nel minor spazio possibile per comprimere i costi e aumentare i profitti».

Il bagno penale nazista di Ravensbrϋck. Pianta sottratta alla Gestapo. Pianta di Ravensbrϋck dell’artista francese France Audoul, che fu una delle “vingt-sept mille”, il più numeroso gruppo di prigioniere francesi, arrivato al campo il 3 febbraio 1944. Il disegno mostra il complesso principale ai confini con il lago, con il cancello, l’edificio per le docce e la cucina, e l'Appelplatz. Sono inoltre visibili la camera a gas (gaz) e il crematorio. Contro il muro sud c'è il giardino delle SS; al di là di esso ci sono il Siemenslager e i magazzini in cui i beni sottratti alle prigioniere (marchandises volées) venivano ordinati e custoditi. È chiaramente indicato anche il “Camp d'Extermination” di Uckermark, così come le postazioni delle mitragliatrici a nord. Sulla sponda del lago ci sono i resti di un piccolo forte (fortin) e il marais, la riva sabbiosa. Tratto da Ravensbrϋck: 150.000 femmes en enfer. 32 croquis et portraits faits au camp 1944-1945, 22 compositions et textes manuscrits de France Audoul.

Il KL di Ravensbrϋck (località novanta chilometri a nord di Berlino) è costruito nel 1938, per disposizione di Heinrich Himmler e su un terreno di sua proprietà; è aperto il 15 maggio 1939 e inizialmente destinato alla ‘rieducazione’ delle donne internate: tedesche, austriache, cecoslovacche, polacche, olandesi, norvegesi, successivamente francesi (e lussemburghesi) e italiane, diverse zingare, alcune ebree e molte testimoni di Geova. Nei primi anni della guerra la condizione delle deportate è migliore che altrove: lavorano per Texled, l’azienda tessile di proprietà delle SS per la confezione di divise, e per Siemens, l’impresa privata che utilizza le lavoratrici coatte per la produzione di materiale di alta precisione per l’industria bellica. Il 1942 è però l’anno della svolta e Ravensbrϋck diviene un campo di sterminio: con l’arrivo di trasporti sempre più numerosi (in particolare di civili prese prigioniere in Unione Sovietica), iniziano le selezioni, gli esperimenti su cavie umane, i cosiddetti ‘trasporti neri’ che mandano a morte «le deportate che non possono più lavorare, le malate, le donne che hanno i capelli bianchi e le piaghe sulle gambe», che si intensificano nei successivi anni 1943 e 1944, fino all’inizio del 1945: la progressiva e inesorabile diminuzione delle razioni alimentari, unita alla temperatura gelida, condanna a morte le più deboli e anziane e il campo si dota di un forno crematorio proprio, infine di una camera a gas. Scrive ancora Lidia Beccaria Rolfi (cui si deve anche la citazione precedente): «le testimoni di Geova versano nel lago le carriole di cenere del crematorio e l’acqua che lambisce la sponda diventa grigia. Il risucchio porta la polvere grigia al largo e le donne delle SS e i bambini nuotano nella polvere grigia. La cenere dei morti è asettica. Non inquina».

Lettera inviata da Lily dal campo di concentramento di Ravensbrϋck alla propria famiglia (luglio 1943).

Per quasi due anni, Lily vive da internata a Ravensbrϋck. «Comme la plupart des victimes du nazisme, - nota Christiane Schlesser - Lily Unden ne parlait que très rarement de sa captivité». Le fonti delle notizie e degli episodi che la riguardano sono i racconti frammentari che lei stessa fa alla nipote e, soprattutto, le memorie di altre donne deportate. Assegnata alla Texled, rinnova consapevolmente le azioni di sabotaggio (pratica, questa, propria delle deportate politiche): chiude le asole, attacca i bottoni in posizione sbagliata… Verso la fine della detenzione ha la possibilità di lavorare in ufficio, ove di nascosto, e a rischio della vita, si sintonizza sulle frequenze di Radio Londra: «Ascoltando la BBC apprende dello sbarco in Normandia e, la sera, rende partecipi le compagne della notizia, che ne risolleva un poco il morale». Di questa «funzione psicologica importante» scrive anche Lidia Beccaria Rolfi, che ricorda la notizia della liberazione di Parigi «arrivata attraverso i fili invisibili di radiocampo, e arrivata subito, o quasi subito». E, soprattutto, Lily resta umana, compiendo piccoli grandi gesti di concreta solidarietà nei confronti delle compagne, che ne ricordano la dolcezza e la dignità («doceur» e «dignité»), il coraggio e la forza («courage» e «force», scrive Marie-Louise Pujol-Le Bozec). È lo stesso Heinrich Himmler, a inizio aprile 1945 (quando le donne del campo sono ridotte a 11.000 da 46.000 che erano in febbraio), ad accettare le trattative con la Croce rossa internazionale, nella persona del diplomatico Folke Bernadotte, per liberare alcune prigioniere: un primo contingente di francesi è rilasciato il 3 aprile grazie alla Croce rossa svizzera, un secondo gruppo di francesi, belghe, olandesi, norvegesi, danesi (e di ottantaquattro lussemburghesi) abbandona il campo il 23 aprile con la Croce rossa svedese. Tra loro è Lily Unden.

In Svezia (maggio o giugno 1945). Lily è al centro dell’ultima fila.

Dopo due mesi di soggiorno in Svezia, il 30 giugno 1945, torna nel Lussemburgo liberato dagli americani il 10 settembre 1944; il 30 aprile 1945, sette giorni dopo la sua partenza, finalmente, l’Armata Rossa aveva varcato i cancelli di Ravensbrϋck. Nel dopoguerra Lily effettua un soggiorno di studio negli Stati Uniti (tra 1947 e 1948), quindi inizia a insegnare disegno, dapprima all’École Professionelle de l’État a Esch-sur-Alzette (dal 1949 al 1966), poi (dal 1966 al 1973, anno della pensione) al Lycée Robert Schuman, nella capitale: e ancora una volta è ricordata come dolce, tollerante, gentile («Elle n’a jamais élevé la voix et restait également douce, même avec la plus turbulente d’entre nous», scrive di lei l’ex allieva Paulette Cahen-Ackerman).

Lily al Lycée Robert Schuman, Lussemburgo (Photo d’un élève, M.me M.J. Mandy).

Si dedica ai piccoli Isabelle e Yves (figli della nipote Christiane), per i quali scrive e illustra delicate fiabe, compone e pubblica testi poetici, per lo più dedicati alla memoria della deportazione (tra questi il Livre de Souvenir, in collaborazione con Cécile Ries, nel 1965). Torna a dipingere e a esporre con successo; «La peinture m’aide à oublier» confida in occasione della sua personale alla Galerie Bradtké, inaugurata l’11 novembre 1961: dimenticare il dolore per le compagne che non hanno fatto ritorno, perché «su un centinaio di resistenti lussemburghesi internate nel campo di Ravensbrϋck, quaranta sono morte».

Lily con la Granduchessa Charlotte all’esposizione presso la Galerie Bradtké (novembre 1961).

Delle circa 110.000 donne immatricolate a Ravensbrϋck (i registri sono avventurosamente tratti in salvo da un gruppo di internate francesi) almeno 50.000 vi trovano la morte, molte altre, circa 40.000, sono uccise altrove, nei campi di sterminio ove sono trasferite. Dal 1945 alla morte, il 5 settembre 1989, nella sua Lussemburgo, Lily è presidente dell’Amicale des Concentrationnaires et Prisonnières Politiques Luxembourgeoises, assolvendo così al dovere della memoria. «J’ai oublié ta voix, ta prière et ton nom», così scrive nell’ultima stanza della lirica Fraternité: «Ho dimenticato la tua voce, la tua preghiera e il tuo nome / Ma so che la tua vita, la vita che hai donato / alla tua cara patria e all’umanità intera / non è perduta, non è cancellata / perché vive e vive ancora nella fraternità».

Lily con un suo dipinto, nella sua casa nel quartiere di Limpertsberg.

Ancora una volta, la buona sorte mi ha fatto incontrare una donna straordinaria, una grande resistente, Lily Unden. Non sapevo nulla di lei, avevo appreso soltanto che era stata deportata a Ravensbrϋck: leggere la sua biografia, vedere le fotografie che la ritraggono lungo tutta la sua vita, scorrere i documenti che la riguardano è stata un’emozione impagabile e un privilegio raro. Grazie, dunque, a Christiane Schlesser-Knaff, che ha fatto dono a noi tutte e tutti della vita di Lily, attraverso il libro che le ha dedicato; a Cecilia Cametti e Marcello Campiotti della Biblioteca Comunale Laudense, che hanno reso possibile il prestito del volume senza il quale questo contributo non sarebbe stato che una pallida ombra; a Marion Rockenbrod della Bibliothèque nationale du Luxembourg; all’amico Ivano Mariconti che ha tradotto per me le testimonianze redatte in lingua tedesca.

 

Traduzione francese
Laura Coci

«Soudainement, nous entendons une voix sympathique et claire: -Wou sin hei d’Létzebuergerinnen?-. N’en croyant pas nos oreilles, nous levons la tête et voyons dans l’entrée de la ‘Blockstube’ une jeune femme blonde aux yeux clairs, vêtue, comme nous, de cette robe rayée bleu et gris, l’uniforme des détenues du KZ Ravensbrϋck. Elle nous apparait comme un être descendu d’un autre monde dans les ténèbres de ce camp. D’un œil chercheur, elle observe toutes ces femmes serrées les unes contre les autres. Nous levons le bras, et dès qu’elle nous a repérées dans la foule, elle se fraye un chemin vers nous et se présente: -Lily Unden-. Ce moment ne s’effacera jamais de ma mémoire!».C’est le témoignage, en français, de Germaine Paulus-Schaack, présent dans le volume de Christiane Schlesser-Knaff, Lily Unden. Professeur, artiste-peintre, poète, grande résistante. 1908-1989. Sa vie, son œuvre, ses idéaux (Imprimerie Saint-Paul. Luxembourg, 1991): une œuvre de longue haleine que l’auteure dédie avec toute son affection à sa chère «Tati» (mot câlin pour «tante»); une œuvre très riche en témoignages et en documents iconographiques, qui permet la connaissance d’une femme extraordinaire, une résistante luxembourgeoise très peu connue en Italie (et presque oubliée sur la toile aussi, qui lui consacre des biographies très brèves sur Wikipédia, en anglais et en français). Une femme qui peut être considérée, à juste titre, comme une mère fondatrice d’Europe, de l’Europe des femmes et des hommes, des peuples, des droits et des libertés, l’Europe que nous voulons.

Dessin de Lily, pour illustrer le poème Nous nous souvenons… toutes les images – sauf la cinquième – sont tirées du volume de Christiane Schlesser-Knaff Lily Unden. Professeur, artiste-peintre, poète, grande résistante. 1908-1989. Sa vie, son œuvre, ses idéaux (Imprimerie Saint-Paul, Luxembourg 1991)

Lily est la première citoyenne luxembourgeoise qui entre dans le camp de concentration de Ravensbrück, en mai1943: d’autres la suivront, au cours de l’année suivante, internées surtout pour des raisons politiques; les femmes de la communauté juive du Luxembourg, qui ne s’étaient pas réfugiées ailleurs en octobre 1941, ont été déportées dans les camps d’extermination de l’Europe orientale, après l’occupation et l’annexion forcée du Luxembourg au Reich le 10 mai 1940, en violation de la neutralité perpétuelle du pays, remontant à 1867, quand le Grand-Duché obtient sa complète indépendance. Lily ne le dit pas, mais c’est surement la perte de souveraineté de son pays l’événement fondateur de sa vie, qui l’oriente vers le choix de la liberté et de la solidarité tout au long de son existence. Léonie (c’est son nom de baptême) a 32 ans, étant née le 26 février 1908 à Longwy-Bas, en France (à la frontière avec la Belgique et le Luxembourg), d’Émile, ingénieur métallurgiste luxembourgeois d’origine suédoise, et de Justine Thiry, de vieille noblesse française; elle est leur troisième fille, après Elvire et Guiguy (la mère de Christiane Schlesser).

Les trois sœurs Unden, Lily est au centre

Peu avant la Grande Guerre, sa famille déménage à Mülhenbach, en banlieue de la capitale du Grand-Duché. Lily y fréquente le lycée, se spécialise en Beaux-Arts, s’oriente vers la peinture (à Bruxelles, Strasbourg, Metz), conduit la voiture: Émile Unden permet à ses trois filles d’avoir leur permis de conduire, à condition que, pour leur sûreté, elles apprennent à changer les pneus et à faire de petites réparations. Après la mort de son père et le mariage de ses sœurs, Lily s’occupe de sa mère jusqu’à la mort de celle-ci, en 1939. Entretemps elle est devenue une artiste reconnue: elle peint des portraits, des paysages dans le goût postimpressionniste, des natures mortes (ses célèbres bouquets de fleurs rappelant la lumière d’Aix-en-Provence et la touche de Van Gogh), elle participe à des expositions collectives et individuelles depuis le début de 1934 jusqu’à la fin de 1938 (elle le fera encore après la fin de la guerre, en 1946).

Lily devant la maison paternelle.

Ce n’est pas Lily qui raconte son engagement dans la Résistance luxembourgeoise et du sauvetage de juifs, de son arrestation, de sa détention et de sa déportation. Peut-être, comme le perçoit Christiane Schlesser – et comme l’écrit Anna Maria Bruzzone à propos de Lidia Beccaria Riolfi, une italienne survécue à Ravensbrück – les déportées politiques rentrées dans leurs pays «trouvèrent souvent un mur de désintérêt, d’incompréhension, de méfiance et parfois même d’hostilité»: en effet, si elles étaient restées à la maison, comme il «sied» aux femmes, elles n’auraient pas été déportées. En quelque sorte, elles l’ont bien mérité. Le récit détaillé de la période de la résistance – un témoignage direct de Lily même – est publié par le Colonel Rémy, nom de guerre du résistant français Gilbert Renault, dans l’œuvre Une épopée de la Résistance: en France, en Belgique et au Grand-Duché du Luxembourg (publié par fascicules dans les années 1975-1976), qui définit son amie «un ange de bonté, vénérée de toutes celles de ses compagnes de misère qui l’y ont approchée».Voilà le récit, suivant, là où il est possible, la chronologie des événements. Le 3 juin 1942 (deux années après l’annexion forcée du Luxembourg), on interdit à Lily de peindre, à cause de son refus d’adhérer au mouvement luxembourgeois d’inspiration nazie VdB (Volksdeutsche Bewengung), désormais le seul parti légal du Grand-Duché, et à la KulturKammer, elle aussi contrôlée par le Reich. À ce propos, Christiane Schlesser rappelle cette anecdote racontée par «Tati». «Quel dommage - lui confie un occupant avec regret - que vous ne soyez pas des nôtres; vous avez vraiment le type aryen et notre régime a besoin de gens comme vous». Au moment de l’invasion du pays, la grande-duchesse Charlotte, avec sa famille et les membres du gouvernement, s’était réfugiée d’abord en France et ensuite en Angleterre, d’où, par Radio Londres, elle incitait son peuple à résister. «Je suis fidèle à ma Grande-Duchesse» déclare Lily, depuis quelque temps en contact avec des groupes de la résistance luxembourgeoise (assez nombreux, mais, jusqu’en 1944, désunis et peu efficaces): LPL (Letzeburger Patriote Liga, formée en septembre 1940), LVL (Letzeburger Volks-Legion, à partir de juin 1941) et aussi le mouvement LRL (Lezteburger Ro’de Lé’w, “le Lion rouge luxembourgeois” né en octobre 1941). En août 1942, à l’occasion de la préparation de la grève générale proclamée pour le dernier jour du mois contre la conscription obligatoire, Lily accueille et cache chez elle, pendant huit semaines, Albert Meyer, chef du Ro’de Lé’w, et l’aide à s’expatrier en Belgique. Avant cela, elle avait secouru un soldat français évadé d’un camp de captivité en lui donnant des vêtements civils. Encore, pour honorer la promesse faite à une connaissance juive passée en France, s’est-elle rendue, accompagnée de son fidèle cocker Sonny, dans un couvent du nord du pays où les vieillards de la communauté juive avaient été internés, pour porter des nouvelles du jeune homme à ses parents. Pour passer inaperçue, elle a mis une étoile jaune sur sa robe et ensuite, par miracle, elle a échappé à une inspection de la Gestapo en se cachant dans le dépôt du charbon; elle passe et repasse sous le barbelé entourant l’immeuble, son petit chien dans les bras. Rentrée chez elle, elle a continué «à faire passer en France d’autres juifs et d’autres prisonniers de guerre français évadés d’Allemagne».

Lettre du 21 février 1963, adressée à Lily par le Comptoir Pharmaceutique Luxembourgeois.

Encore, depuis août 1942, Lily est-elle obligée par l’armée d’occupation à travailler au Comptoir Pharmaceutique Luxembourgeois (en revanche, on ne lui permet pas de travailler comme aide chez un photographe ou comme chauffeur pour la Todt, la plus grande organisation paramilitaire œuvrant pour la Wermacht), notamment dans le nettoyage des ampoules; et c’est dans le comptoir que, le 3 novembre de cette année-là, elle est arrêtée par les SS («Wo ist Frülein Unden?») devant les cadres et d’autres employés («Cinq revolvers pour moi tout seule? Quel honneur!»). Emprisonnée et interrogée pendant des jours à Villa Pauly, siège de la Gestapo (la «Villa Triste» du Luxembourg) dans le quartier de Grund, elle est ensuite transférée en Allemagne, dans la prison de Trèves (pendant quelques mois), dans un camp près de Cologne (quinze jours), dans des lieux de détention à Hanovre et à Berlin.Pendant la captivité, elle est obligée à raccommoder les chaussettes des soldats allemands au front et – comme le raconte son amie, Mme Gengler de Niedderkorn – dans l’exécution de cette besogne, elle accomplit des actes de sabotages, petits mais significatifs: elle coud les pièces par des points menus mais impeccables, tellement près des bords des trous qu’elles sont inefficaces; ou bien, elle ajoute des cheveux dans les raccommodages pour que le soldats, qui mettront de nouveau ces chaussettes, éprouvent de la gêne et des démangeaisons. Plus tard, «finalement», en mai 1943, Ravensbrück. Et là, le témoignage de Lily au Colonel Remy, son ami et compagnon de lutte, tient en peu de phrases. «Nous arrivons fatiguées devant un mur très haut, qui s’étend à perte de vue. – raconte Lidia Beccaria Rolfi dans Le donne di Ravensbrück – Dans le mur s’ouvre un portail surmonté de tourelles, il y a beaucoup de femmes en colonne qui franchissaient le portail pendant que des soldats SS les comptaient». Une ville concentrationnaire, aux blocs «tous égaux, noirs, tristes», de laquelle, évidemment, il est impossible de s’enfuir, en raison des «barbelés électrifiés à haute tension» et des «tourelles de garde, aux mitraillettes braquées», une ville «à mesure du système qui a besoin d’entasser le plus grand nombre de personnes dans le moindre espace possible, pour abattre les coûts et augmenter les profits».

Le bagne nazi de Ravensbrück. Plan soustrait à la Gestapo. Un plan de Ravensbrück par l’artiste française France Audoul, qui fut l’une des «vingt-sept mille», le groupe le plus nombreux de prisonnières françaises, arrivées au camp le 3 février 1944 Le dessin montre le complexe principal, limité par le lac, la grille, le bloc des douches et la cuisine, et l’Appelplatz. On peut voir aussi la chambre à gaz (gaz) et le four crématoire. Contre le mur du sud il y a le jardin des SS, au-delà duquel il y a le Siemenslager et les dépôts dans lesquels les biens soustraits aux prisonnières (marchandises volées) étaient rangés et conservés. Le «Camp d’Extermination» de Uckermark est clairement indiqué, ainsi que les positions des mitrailletes au nord. Sur les bords du lac, il y a les restes d’un fortin et le marais. Tiré de Ravensbrϋck: 150.000 femmes en enfer. 32 croquis et portraits faits au camp 1944-1945, 22 compositions et textes manuscrits de France Audoul.

Le KL de Ravensbrück (endroit à 90 kilomètres au nord de Berlin) est construit en 1938, selon la volonté de Heinrich Himmler sur un terrain de sa propriété; il est ouvert le 15 mai 1939 et d’abord destiné à la «rééducation» des femmes internées: allemandes, autrichiennes, tchécoslovaques, polonaises, hollandaises, norvégiennes, plus tard françaises (et luxembourgeoises) et italiennes, plusieurs tsiganes, quelques juives et beaucoup de témoines de Jéhovah. Au cours des premières années de guerre, les conditions des déportées sont meilleures qu’ailleurs: elles travaillent pour Texled, l’usine textile des SS pour la fabrication des uniformes, et pour Siemens, l’entreprise privée exploitant les travailleuses forcées pour la production de matériel de haute précision pour l’industrie de guerre. Cependant, l’année 1942 est marque un tournant et Ravensbrück devient un camp d’extermination: avec l’arrivée de convois de plus en plus nombreux (en particulier de femmes capturées en Union Soviétique), commencent les sélections, les expériences sur les cobayes humaines, les «transports noirs» qui acheminaient vers la mort «les déportées ne pouvant plus travailler, les malades, les femmes aux cheveux blancs et aux plaies sur les jambes» et qui s’intensifient dans les années suivantes 1943-1944, jusqu’au début de 1945. La diminution des rations alimentaires, constante et inexorable, associée à des températures glaciales, entraîne la mort des femmes les plus faibles et les plus âgées; le camp va s’équiper d’un four crématoire et enfin d’une chambre à gaz. Lidia Beccaria Rolfi (auteure de la citation précédente) écrit encore: «les témoines de Jéhovah déversent dans le lac des brouettées de cendres du crématoire et l’eau qui lèche la rive devient grise. Et les femmes des SS et leurs enfants nagent dans la poudre grise. Les cendres des mortes sont aseptiques: Elles ne polluent pas».

Lettre envoyée par Lily à sa famille, du camp de concentration de Ravensbrück (juillet 1943).

Pendant presque deux ans, Lily reste internée à Ravensbrück. «Comme la plupart des victimes du nazisme – remarque Christiane Schlesser – Lily Unden ne parlait que très rarement de sa captivité». Les sources des notices et des épisodes la concernant sont les récits fragmentaires qu’elle-même fait à sa nièce et, surtout, les mémoires d’autres femmes déportées. Affectée chez Texled, elle reprend consciemment ses actions de sabotage (ce qui est typique des déportées politiques): elle ferme les boutonnières, elle coud les boutons aux endroits erronés… Vers la fin de sa détention, elle a la possibilité de travailler dans un bureau, où, en cachette et au risque de sa vie, elle se syntonise sur la fréquence de Radio-Londres: «C’est en écoutant ainsi la BBC qu’elle a appris le débarquement en Normandie, et le soir, elle faisait part de ces nouvelles à ses compagnes, ce qui aidait tant soit peu à remonter leur moral». De cette «importante fonction psychologique» écrit aussi Lidia Beccaria Rolfi, qui rappelle la nouvelle de la libération de Paris «arrivée à travers les fils invisibles de radio-camp, arrivée immédiatement, ou presque». Et surtout, Lily reste humaine, en accomplissant de petits grands gestes de solidarité concrète envers ses compagnes, qui rappellent sa douceur et sa dignité, son courage et sa force, comme écrit Marie-Louise Pujol-Le Bozec. C’est Heinrich Himmler en personne qui, début avril 1945 (quand il reste dans le camp 11 000 femmes sur les 46 000 qu’il y avait en février), accepte les négociations avec la Croix Rouge internationale, représentée par le diplomate Folke Bernadotte, pour libérer certaines prisonnières: un premier groupe de françaises est libéré le 3 avril grâce à la Croix Rouge suisse; un autre groupe de françaises, belges, hollandaises, norvégiennes, danoise (et 84 luxembourgeoises) quitte le camp le 23 avril avec la Croix Rouge suédoise. Lily Unden est parmi elles.

En Suède (mai ou juin 1045). Lily est au centre du dernier rang.

Après deux mois de repos en Suède, le 30 juin 1945, Lily rentre au Luxembourg, libéré par les Américains le 10 septembre 1944; le 30 avril 1945, sept jours après le départ de Lily, l’Armée rouge avait enfin franchi les portails de Ravensbrück.Dans l’après-guerre, Lily fait un séjour d’études aux États-Unis (entre 1947 et 1948), ensuite elle commence à enseigner le dessin, d’abord à l’École Professionnelle de l’État à Esch-sur-Alzette (de 1949 à 1966), ensuite, de 1966 à 1973, quand elle part à la retraite, au Lycée Robert Schuman, dans la capitale: de nouveau, on la rappelle douce, tolérante, gentille («Elle n’a jamais levé la voix et restait également douce, même avec la plus turbulente d’entre nous» écrit d’elle son ancienne élève Paulette Cahen-Ackerman).

Lily au Lycée Robert Schuman, Luxembourg (Photo d’une élève, Mme M.J. Mandy).

Elle s’occupe des jeunes Isabelle et Yves (les enfants de sa nièce Christiane), pour qui elle écrit et illustre des fables délicates; elle compose et publie des textes poétiques, pour la plupart dédiés au souvenir de sa déportation (parmi lesquels Livre de Souvenir, co-écrit avec Cécile Ries, en 1965). Elle revient à la peinture et elle expose avec succès; «La peinture m’aide à oublier» confie-t-elle lors d’une exposition personnelle à la Galerie Bradtké, inaugurée le 11 novembre 1961: oublier la douleur pour ses compagnes qui ne sont pas retrouvées, car «Sur une centaine de résistants luxembourgeois qui se trouvaient au camp de Ravensbrϋck, quarante moururent».

Lily avec la Grande-Duchesse Charlotte à l’exposition de la Galerie Bradtké (novembre 1961).

Sur les quelque 110 000 femmes enregistrées à Ravensbrück (les registres sont sauvés aventureusement par un groupe d’internées françaises), environ 50 000 y meurent, beaucoup d’autres, presque 40 000, sont tuées ailleurs, dans les camps d’extermination, où elles sont transférées. De 1945 à sa mort, survenue le 5 septembre 1989 dans son cher Luxembourg, Lily est présidente de l’Amicale des Concentrationnaires et Prisonnières Politiques Luxembourgeoises, s’acquittant ainsi du devoir de la mémoire.«J’ai oublié ta voix, ta prière et ton nom», écrit-elle dans la dernière strophe de son poème Fratenité: «J’ai oublié ta voix, ta prière et ton nom / Mais je sais que ta vie, ta vie dont tu fis don / À ta chère patrie et à l’humanité, / N’a pas été perdue et n’est pas effacée, / Qu’elle vit et revit dans la fraternité».

Lily près d’un de ses tableaux, dans sa maison du quartier Limpersberg.

«J’ai oublié ta voix, ta prière et ton nom», écrit-elle dans la dernière strophe de son poème Fratenité: «J’ai oublié ta voix, ta prière et ton nom / Mais je sais que ta vie, ta vie dont tu fis don / À ta chère patrie et à l’humanité, / N’a pas été perdue et n’est pas effacée, / Qu’elle vit et revit dans la fraternité». Encore une fois, ma bonne étoile m’a permis de connaître une femme extraordinaire, une grande résistante, Lily Unden. Je ne savais rien d’elle, sinon qu’elle avait été déportée à Ravensbrück: lire sa biographie, voir les photos la montrant tout au long de sa vie, parcourir les documents qui la regardent a été une émotion inestimable et un privilège rare. Je remercie, donc, Christiane Schlesser-Knaff, qui a fait don à nous toutes et tous de la vie de Lily, par le livre qu’elle lui a consacré; à Cecilia Carnetti e Marcello Campiotti de la Bibliothèque Communale de Lodi, qui ont rendu possible le prêt du livre susmentionné, sans lequel mon écrit n’aurait été qu’un pâle portrait; à Marion Rockenbrod de la Bibliothèque Nationale du Luxembourg; à mon ami Ivano Mariconti qui m’a traduit les témoignages rédigés en allemand.

 

Traduzione inglese
Emanuela Prandi

«All of a sudden, we heard a clear and friendly voice: -Wou sin d’Lëtzebuergerinnen?- [in Luxembourgian in the original text]. We couldn’t believe our ears, we looked up and at the entrance of the ‘Blockstube’ we saw a young blonde bright-eyed woman, wearing the same blue and gray striped uniform as us, the uniform of the prisoners of the Ravensbrϋck concentration camp. She appeared to us like a creature fallen from a different world into the darkness of the camp. She carefully looked at all of us, huddled together. We raised our arms and, as soon as she picked us from the crowd, she made her way and introduced herself: Lily Unden-. I will never forget that instant». This is Germaine Paulus-Schaack’s recollection, reported in French in the book by Christiane Schlesser-Knaff Lily Unden. Professeur, artiste-peintre, poète, grande résistante. 1908-1989. Sa vie, son œuvre, ses idéaux (Imprimerie Saint-Paul, Luxembourg 1991), a wide-ranging work that the author dedicated with unchanged affections to her dear ‘Tati’ (term of endearment for ‘tante’, [‘aunt’]); the book includes a wide range of documents and pictures and discloses the image of a great woman, a Luxembourg resistance fighter, almost unknown in Italy (and almost forgotten by the Web as she is only dedicated a brief biography on Wikipedia, in English and in French), a woman who can rightly be considered as one of the founding mothers of Europe, the Europe of women and men, of people, of rights and freedom, the Europe we all want.

Drawing by Lily illustrating the poem Nous nous souvenons… All the pictures, except for n. 5, have been taken from the book by Christiane Schlesser-Knaff Lily Unden. Professeur, artiste-peintre, poète, grande résistante. 1908-1989. Sa vie, son œuvre, ses idéaux (Imprimerie Saint-Paul, Luxembourg 1991).

Lily was the first Luxembourg female citizen to enter Ravensbrϋck concentration camp for women in May 1943: other women followed in the next year, mainly interned as political prisoners, since the female members of the Luxembourg Jewish community who hadn’t taken any other refuge in October 1941, were deported to concentration camps in Eastern Europe, after Luxembourg had been occupied and annexed to The Reich on 10th May 1940, thus violating the country’s permanent neutrality declared in 1867, when the Grand Duchy had gained its independence.Lily never made it clear, but the loss of sovereignty of her country was certainly the main event of her whole life, the occasion which contributed to her life-long choice of freedom and solidarity. Léonie (her first name) was 32 years old: she was born on 26th February 1908 in Longwy-Bas, in France (on the border between Belgium and Luxembourg), daughter of Émile, a Luxembourg steel engineer with Swedish origins, and Justine Thiry, of French aristocratic descent; she was the third of three daughters, after Elvire and Guiguy (Christiane Schlesser’s mother).

The three Unden sisters, Lily is in the middle.

Shortly before the outbreak of the Great War, her family moved to Mϋlhenbach, near the capital city of the Grand Duchy: Lily completed her secondary studies, got a bachelor degree in Fine Arts devoting to painting (in Brussels, Strasbourg, Metz) and could drive a car: Émile Unden let his three daughters obtain a driving licence, on condition that they learned replace tyres and carry out minor repairs for safety reasons. After her father’s death and her sisters’ marriages, Lily looked after her mother until her mother died in 1939; meanwhile, she had become an established artist: she painted portraits, post-impressionist landscapes, still lives (her well-known flower compositions reminiscent of the light of Aix-en-Provence and of Vincent Van Gogh’s brush stroke), displayed her paintings in collective and individual exhibitions starting from the beginning of 1934 until the end of 1938 (she resumed after the end of the war, in 1946).

Lily in front of her family house.

Lily didn’t tell personally about her commitment to the Luxembourg Resistance and her efforts to rescue Jews, about her arrest, her detention and deportation. Maybe - as Christiane Schlesser seemed to understand and as Anna Maria Bruzzone wrote about Lidia Beccaria Rolfi, a Ravensbrϋck Italian survivor - after returning home political prisoners «were often welcomed with indifference, incomprehension, suspicion and sometimes even hostility»: as a matter of fact, if they had stayed home, as “suitable for women”, they wouldn’t have been deported; somehow, they were just asking for trouble. The detailed account of the Resistance period - released by Lily herself – was published by Colonel Rémy, battle name of the French Resistance fighter Gilbert Renault, in Une épopée de la Résistance: en France, en Belgique et au Grand Duché du Luxembourg (serialised from 1975 to 1976), where he defined his friend «un ange de bonté, vénérée de toutes celles de ses compagnes de misère qui l’y ont approchée». And here is her story: marked, if possible, by the timeline of events. On 3rd June 1942 (two years after the forced annexation of Luxembourg) Lily Unden was forbidden from painting after refusing to join the Luxembourg Nazi movement VdB (Volksdeutsche Bewegung), the only political party of the Grand Duchy, and the Kulturkammer, controlled by the Reich.To this regard, Christiane Schlesser remembers hearing ‘Tati’ telling a meaningful anecdote: «It’s a pity you don’t want to join us – regretted an occupier – you really are an Aryan type and our government really needs people like you». When the country was being invaded, the Grand Duchess Charlotte de Luxembourg, with the royal family and the members of the government, placed herself under the protection of France first and later of England where, using Radio London, she broadcast to her homeland, encouraging her people to resist: «Je suis fidèle a ma grande-duchesse» declared Lily, since long in contact with members of the Luxembourg Resistance (who were very many in number until 1944, but disunited and hardly efficient): the LPL (Letzeburger Patriote Liga, founded in September 1940), the LVL (LetzeburgerVolks-Legio’n, founded in June 1941), and the LRL movement (Letzeburger Ro’deLé’w, le ‘Lion rouge luxembourgeois’, born in October 1941). In August 1942, at the same time as the organization of the great general strike in protest of conscription called for on the last day of the month, Lily Unden harboured in her house Albert Meyers, leader of the Ro’deLé’w, for eight weeks and helped him flee to Belgium. She had previously helped a French soldier who had escaped from a prison camp, providing him with civilian clothes and, in order to keep the promise made to a Jewish acquaintance who had escaped to France, she went with her faithful cocker spaniel Sonny to a convent in the North of the country where the elderly members of the Jewish community had been interned, bringing news from the young man to his parents: in order to go unnoticed, she wore a yellow badge on her dress and she miraculously slipped away from a Gestapo inspection, hiding in the coal warehouse, passing to and from under the barbed wire surrounding the building with her little dog in her arms. Once home, she continued «à faire passer en France d’autres Juifs et d’autre prisonniers de guerre français évadés d’Allemagne».

Letter to Lily from the Comptoir Pharmaceutique Luxembourgeois dated 21st February 1963.

Starting in August 1942, Lily was forced by the occupiers to work at the Comptoir Pharmaceutique Luxembourgeois (but she was not allowed to work as a photographer’s assistant or as a driver for the Todt Organization, the main paramilitary Wehrmacht organization), which mainly dealt with glassware washing: she was arrested in the lab by the SS («Wo ist Fraϋlein Unden?») on 3rd November of the same year, in the presence of the executive and of some employees («Cinq revolver pour moi tout seule? Quel honneur!»). Imprisoned and interrogated for some days at Villa Pauly, headquarters of the Gestapo (the Luxembourg ‘Wretched Villa’) in the Grund district in central Luxembourg City, she was later sent to prison in Trier, in Germany (for a few months), to a camp near Köln (for a fortnight) and to other places of detention in Hannover and in Berlin. During her imprisonment she was forced to mend German soldiers’ socks and – as her friend M.me Gengler de Niederkorn told – while performing her tasks she committed minor yet meaningful acts of sabotage: she meticulously sewed patches with neat little stitches, yet so close to the edges of the holes causing sewing to be ineffective; or she inserted hairs into the seam in order to give the soldiers’ itchy feet. And finally, «finalement», in May 1943, Ravensbrϋck. And at this point, Lily concluded her recollections to her friend and comrade Colonel Remy in a few words. «We wearily reached a really high black wall which extended as far as the eye could see – told Lidia Beccaria Rolfi in Le donne di Ravensbrϋck – There was a door on the wall, surmounted by turrets, a lot of women were standing in line to enter the door, while the SS guards counted them». A concentration city, with blocks «all very like one another, black, sad», which of course was impossible to escape due to «the high voltage wires» and «the gun barrels sticking out from the watchtowers around», a city meant «to fit a system which needs herding as many slaves as possible in as small a place as possible in order to reduce costs and increase profits».

The Nazi penal colony of Ravensbrϋck. Map stolen from the Gestapo. A map of Ravensbrϋck by the French artist France Audoul, who was one of the “vingt-sept mille”, the largest group of French female prisoners to enter the camp on 3rd February 1944.The drawing shows the main building on the edge of the lake, with the gate, the shower block and the kitchen, and the Appelplatz. It also shows the gas chamber (gaz) and the crematorium. Close to the southern wall there’s the SS garden; beyond it, there’s the Siemenslager and the warehouses where the property confiscated (marchandises volées) to the prisoners were ordered and kept. Uckermark “Camp d'Extermination” is also clearly indicated, as well as the machine gun posts to the north. On the side of the lake there are the ruins of a small fort (fortin) and the marais, the sandy shore. Taken from Ravensbrϋck: 150.000 femmes en enfer. 32 croquis et portraits faits au camp 1944-1945, 22 compositions et textes manuscrits de France Audoul.

Ravensbrϋck Concentration Camp (located ninety kilometers north of Berlin) was built in 1938 by the order of Heinrich Himmler on his own land; it was opened on 15th May 1939 and it was initially intended to serve as a “reeducation camp” for women: it housed women from Germany, Austria, Czechoslovakia, Poland, the Netherlands, Norway and later from France (and Luxembourg) and Italy, several gypsies, some Jews and many Jehovah’s Witnesses. In the early years of the war the living conditions for the deportees were more acceptable than in other camps: prisoners performed forced labour for Texled (an SS-owned textile factory) making military uniforms or for Siemens (a privately-owned factory) manufacturing high-precision weapons for the war industry. But 1942 was the turning point and Ravensbrϋck was turned into an extermination camp: between 1943 and 1944 until the beginning of 1945 more and more women (mainly civilian prisoners from The Soviet Union) were transported to the camp, selections and unethical medical experiments began and the so called ‘black shipping’ (‘Schwarze Transporte’) sent to their deaths «all the deportees who were sick or unable to work, all the women with gray hair and sores on their legs»; besides, food rations were gradually made more and more meagre and, to make things worse, the weather was freezing. As a consequence, the weakest and oldest inmates died and the camp was provided with a crematory oven and, eventually, with a gas chamber. Lidia Beccaria Rolfi (the author of the previous quote) also wrote: «Jehovah’s Witnesses women carried the ashes from the crematorium to the lake on wheelbarrows and when they the ashes were dumped, the water lapping the shore got gray. Then the gray dust was backwashed off the coast and SS women and children would swim into the gray dust. Ashes of dead people are aseptic. They do not generate pollution».

Lily’s letter to her family from Ravensbrϋck concentration camp (July 1943).

Lily lived as a prisoner in Ravensbrϋck for nearly two years. «Comme la plupart des victimes du nazisme, - Christiane Schlesser pointed out - Lily Unden ne parlait que très rarement de sa captivité». The source of news and episodes involving Lily are to be found in her own scrappy recollections she used to tell her niece and mainly in the memories of other female inmates. She was assigned to work for Texled, and she purposely resumed her acts of sabotage (which was typical of female political prisoners): she sewed buttonholes inaccurately and buttons out of place… Towards the end of her imprisonment, she was given the opportunity to work in an office where she secretly tuned in to Radio London, risking her own life: «From the BBC she learned about the invasion of Normandy and, later in the evening, she reported the news to her mates, thus cheering them up a little bit». Also Lidia Beccaria Rolfi referred to this «important psychological function» when she reported news about the Liberation of Paris, «spread through the invisible wires of ‘radiocamp’ and which (almost) immediately reached the prisoners». And above all, Lily stayed human, performing small acts of solidarity for her mates, who remember Lily’s gentleness and dignity («doceur» e «dignité»), her courage and strength («courage» e «force», as Marie-Louise Pujol-Le Bozec wrote). It was Heinrich Himmler himself, at the beginning of April 1945 (when the number of women of the camp were reduced from 46.000 in February to 11.000), to accept negotiations with the diplomat Folke Bernadotte, representative of the International Red Cross, to release some of the prisoners: the first contingent of French prisoners was released on 3rd April thanks to the Swiss Red Cross, and a second group of French, Belgian, Dutch, Norwegian, Danish (and eighty-four Luxembourg) women left the camp on 23rd April thanks to the Swedish Red Cross. Lily Unden was among them.

In Sweden (May or June 1945). Lily is in the middle of the back row.

After two months in Sweden, on 30th June 1945 Lily came back to Luxembourg, after the country had been liberated by the Americans on 10th September 1944; on 30th April 1945, seven days after her departure, the Red Army finally entered Ravensbrϋck.After the war Lily studied in the United States (between 1947 and 1948), then she began to teach drawing at the École Professionelle de l’ÉtataEsch-sur-Alzette first (from 1949 to 1966), and later at the Lycée Robert Schuman in the capital city (from 1966 to 1973, when she retired): and once again she is remembered as sweet, tolerant, kind («Elle n’a jamais élevé la voix et restait également douce, même avec la plus turbulente d’entre nous», as her former pupil Paulette Cahen-Ackerman described her).

Lily at the Lycée Robert Schuman, Luxembourg (Picture of one of the pupils, M.me M.J. Mandy).

She took care of Isabelle and Yves (her niece Christiane’s children), to whom she wrote and illustrated delicate fairy tales, composed and published poems, mainly about the memory of deportation (among which Livre de Souvenir, in cooperation with Cécile Ries, in 1965). She got back to painting and to display in successful exhibitions; «La peinture m’aide à oublier» she declared on the occasion of the opening of her individual exhibition at the Galerie Bradtké, on 11th November 1961: forgetting sorrow for all the mates who never came back, since «out of a hundred Luxembourg resistance fighters interned at Ravensbrϋck, forty died».

Lily with the Grand Duchesse Charlotte at the exhibition at the Galerie Bradtké (November 1961).

Of some 110.000 women registered in Ravensbrϋck (the registers were adventurously rescued by a group of French prisoners) at least 50.000 of them perished, many others (nearly 40.000) were killed elsewhere, in other extermination camps where they had been transported. From 1945 to her death, occurred on 5th September 1989 in Luxembourg, Lily was president of the Amicale des Concentrationnaires et Prisonnières Politiques Luxembourgeoises.«J’ai oublié ta voix, ta prière et ton nom», she writes in the last stanza of the poem Fraternité:«I forgot your voice, your prayer and your name / But I know that your life, the life you have donated / to your dear Motherland and the entire mankind / is not lost, is not deleted / because it lives and still lives in brotherhood».

Lily with one of her paintings, in her home in Limpertsberg district.

Once more, good fortune has let me come across a wonderful woman, a great resistance fighter, Lily Unden. I knew nothing about her, I only knew she had been deported to Ravensbrϋck: reading about her biography, watching the pictures and scrolling through the documents regarding her life has been breathtaking, a rare privilege. I therefore thank Christiane Schlesser-Knaff, who has offered us all Lily’s biography in the book she dedicated her; Cecilia Cametti and Marcello Campiotti of the Biblioteca Comunale Laudense, who made it possible for me to borrow the book without which this essay would have been but a pale shade; Marion Rockenbrod of the Bibliothèque nationale du Luxembourg; and my friend Ivano Mariconti who translated for me the recollections written in German.

 



Lydia Mei

Elisabetta Uboldi


Grafica di Katarzyna Oliwia Serkowska

Lydia Mei nacque il 2 luglio 1896 nell’isola estone di Hiiumaa, seconda di tre sorelle di nome Kristine e Natalie.La peculiarità della famiglia Mei risiede nel fatto che tutte e tre le ragazze diventarono artiste: Lydia e Natalie si appassionarono alla pittura, mentre Kristine si specializzò in scultura.Lydia studiò architettura presso il Politecnico femminile di San Pietroburgo per tre anni, terminando i suoi studi nel 1918.

Fu la prima architetta in Estonia, ma trovò la sua vera realizzazione con le pitture ad acquerello negli anni Venti, insieme alla sorella Natalie. Subito dopo la laurea lavorò come assistente architetta nel governo di Tallinn fino al 1919, quando partecipò per la prima volta ad una mostra d’arte nella città di Tartu e iniziò a studiare nel campo della pittura. Dal 1920 al 1921 insegnò disegno presso il Seminario degli insegnanti di Tartu.

Sposò lo scultore estone Anton Starkopf nel 1920 e insieme completarono diversi progetti per vari monumenti celebrativi della guerra di indipendenza estone. Nonostante Lydia aiutasse il marito, il suo nome non comparve mai tra gli scultori che realizzavano i monumenti: si trovavano solo nomi degli artisti uomini, poiché sia la guerra che le opere commemorative erano considerate campi di pura pertinenza maschile.Il matrimonio con Anton fu breve, durò circa otto anni; la vera compagna di vita di Lydia fu sua sorella Natalie, con la quale condivise la casa dopo la separazione dal marito.

Per comprendere al meglio l’attività di Lydia Mei è fondamentale conoscere l’art déco e il suo stile. L’art déco si sviluppò fra il 1919 e il 1930 e interessò un’ampia gamma di branche artistiche: riguardò, infatti, le arti decorative e visive, l’architettura e la moda. L’art déco era lo stile dei “figli e figlie della Prima guerra mondiale” che volevano lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e trovare nell’arte un trampolino di lancio verso una nuova vita. Le forme sono essenzialmente classiche e simmetriche, le geometrie sono caratterizzate da linee rigide e nette. La parola d’ordine è modernità, intesa come sguardo di disprezzo nei confronti di tutto quello che è considerato vecchio e appartenente al passato.

Dato che Lydia raffigurò anche soggetti femminili nelle sue pitture, è bene sottolineare che l’art déco rappresentava le donne come bellissime, ma allo stesso tempo fredde e mondane. I primi dipinti di Lydia erano prevalentemente composizioni floreali, nature morte di oggetti casalinghi, uccelli che osservava dalla finestra della propria casa. Inizialmente i suoi spunti artistici furono limitati, poiché le fu diagnosticata la tubercolosi e per due anni fu costretta al riposo e all’isolamento in sanatori per pazienti di malattie polmonari. Lydia era considerata un’artista molto versatile: oltre ai dipinti ad acquerello, si cimentava anche nei dipinti ad olio, si dilettava nel disegno grafico, realizzò anche progetti per mobili agricoli, illustrazioni per libri e dipinti su porcellana. Lasciò, inoltre, un’intera gallery di ritratti femminili. Il ritratto Donna con la sigaretta, ad esempio, raffigura una donna sulla trentina, elegante, ma allo stesso tempo con una posa e dettagli degli accessori un po’ provinciali. Per Lydia era la rappresentazione delle limitazioni e delle ridotte possibilità delle donne all’epoca.All’interno di questa serie di ritratti, Lydia trattò anche il tema della prostituzione, ma lo fece in modo diverso rispetto ai suoi colleghi uomini. In Procurer viene dipinta una giovane donna, vestita modestamente, che ignora un uomo ricco che le sta offrendo da bere. L’uomo è rappresentato come una figura robusta e indossa un voluminoso anello a dimostrazione della sua ricchezza. Sullo sfondo si scorge un’altra donna con il viso rugoso, che osserva la scena, curiosa di come si concluderà la vicenda. La rappresentazione della ragazza che ignora l’uomo, senza proferire parola, è una metafora del destino “biologico” delle donne, che dovevano, loro malgrado, accettare questo lavoro in quanto donne e appartenenti al ceto sociale più povero.

Lydia ritrae la giovane anche in un disegno a matita, in cui si trova con una più anziana. Le due hanno un trucco molto deciso, che ne lascia sottintendere la professione. In un terzo disegno, lasciato incompiuto, intitolato Le due prostitute, Lydia raffigura una ragazza giovane e magra, seduta con le gambe divaricate, con un vestito attillato e un cappello. L’altra donna, invece, è più vecchia e paffuta e sta in piedi scalza con le braccia sui fianchi, vestita con una canottiera trasparente. Entrambe guardano verso chi osserva, una con uno sguardo arrogante, l’altra completamente indifferente. In quest'opera Lydia volle rappresentare il processo di invecchiamento delle donne nel loro lavoro di prostitute.La differenza con gli artisti uomini del tempo sta nella raffigurazione delle donne non come oggetti del desiderio maschile, nonostante il loro "mestiere", ma come persone qualunque che svolgono un lavoro. Riuscì dunque a costruire un nuovo modo di rappresentare la prostituzione che non fosse erotico e nemmeno volgare, solo realistico e a tratti ironico.Secondo Lydia, il fatto che i pittori rappresentassero le prostitute solo come oggetti del desiderio rifletteva la paura maschile nei confronti dell’emancipazione femminile, che stava sempre più prendendo piede nella nuova società moderna e urbanizzata. Nel momento in cui la donna cessa di essere un oggetto e diventa persona, bisogna garantirle dei diritti che al tempo non si era ancora pronti a riconoscerle.

Una volta ripresasi dalla tubercolosi, Lydia fu presente in molte mostre non solo in Estonia, ma anche a Helsinki, Riga, Berlino, Amsterdam e varie altre città.Dal 1950 al 1960 lavorò come designer tessile e venne assunta per la progettazione di cartoline.Durante la sua vita, ottenne diversi riconoscimenti: nel 1928 vinse il premio per le belle arti della Estonian Cultural Endowment per la colonna War and Peace e nel 1933 arrivò terza al concorso di progettazione di mobili per fattoria della Società centrale degli agricoltori estoni.Fu anche membro dell’Associazione centrale estone degli artisti visivi dal 1925, membro del gruppo degli artisti estoni dal 1931 al 1935, membro dell’Associazione degli artisti applicati nel 1936 e membro dell'Unione degli artisti dal 1946.

Morì a Tallinn il 14 settembre 1965, all’età di 69 anni.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

Lydia Mei est née le 2 juillet 1896 sur l'île estonienne de Hiiumaa, la seconde de trois sœurs nommées Kristine et Natalie.La particularité de la famille Mei réside dans le fait que les trois filles sont devenues des artistes: Lydia et Natalie se sont passionnées pour la peinture, tandis que Kristine s'est spécialisée dans la sculpture.Lydia a étudié architecture à l'École polytechnique des femmes de Saint-Pétersbourg pendant trois ans, terminant ses études en 1918.

Elle a été la première femme architecte en Estonie, mais a trouvé sa véritable voie avec l'aquarelle dans les années 1920, avec sa sœur Natalie. Immédiatement après avoir obtenu son diplôme, elle a travaillé comme assistante architecte dans le gouvernement de Tallinn jusqu'en 1919, date à laquelle elle a participé pour la première fois à une exposition d'art dans la ville de Tartu et a commencé à étudier la peinture. De 1920 à 1921, elle enseigne le dessin au Séminaire des professeurs de Tartu.

Elle a épousé le sculpteur estonien Anton Starkopf en 1920 et ensemble, ils ont réalisé plusieurs projets pour divers monuments célébrant la guerre d'indépendance estonienne. Bien que Lydia ait aidé son mari, son nom n'est jamais apparu parmi les sculpteurs qui ont réalisé les monuments: seuls les noms des artistes masculins ont été retenus, car autant la guerre que les œuvres commémoratives étaient considérées domaines de pure pertinence masculine. Le mariage avec Anton fut de courte durée, environ huit ans; Le véritable partenaire de vie de Lydia a été sa sœur Natalie, avec qui elle a partagé la maison après la séparation d’avec son mari.

Pour mieux comprendre le métier de Lydia Mei, il est essentiel de connaître l'art déco et son style. L'Art déco s'est développé entre 1919 et 1930 et a impliqué un large éventail de branches artistiques: il concernait, en fait, les arts décoratifs et visuels, l'architecture et la mode. L'Art déco était le style des «fils et filles de la Première Guerre mondiale» qui voulaient sortir des horreurs de la guerre et trouver dans l'art un tremplin vers une nouvelle vie. Les formes sont essentiellement classiques et symétriques, les géométries sont caractérisées par des lignes rigides et claires. Le mot d'ordre est la modernité, entendues comme un regard de mépris envers tout ce qui est considéré comme ancien et appartenant au passé.

Étant donné que Lydia a également représenté des sujets féminins dans ses peintures, il convient de noter que l'art déco représentait les femmes comme belles, mais en même temps froides et mondaines. Les premières peintures de Lydia étaient principalement des compositions florales, des natures mortes d'objets ménagers, des oiseaux qu'elle observait depuis la fenêtre de sa maison. Au départ, ses idées artistiques étaient limitées aussi parce qu’on lui ait diagnostiqué la tuberculose et pendant deux ans, elle a été forcée de se reposer et de s’isoler dans des sanatoriums pour patients atteints de maladies pulmonaires. Lydia était considérée comme une artiste très polyvalente: en plus de l'aquarelle, elle s'est également aventurée dans la peinture à l'huile, se divertissait au graphisme, a également créé des projets de mobilier agricole, des illustrations pour des livres et des peintures sur porcelaine. Elle a également laissé toute une galerie de portraits féminins. Le portrait Femme à la cigarette, par exemple, représente une femme dans la trentaine, élégante, mais en même temps avec une pose légèrement provinciale et des détails accessoires. Pour Lydia, c'était la représentation des limites et des possibilités réduites des femmes à l’époque.Dans cette série de portraits, Lydia a également traité le thème de la prostitution, mais elle l'a fait différemment de ses collègues masculins. Dans Procurer il y a l’image d’une jeune femme, modestement vêtue, qui ignore un homme riche qui lui offre à boire. L'homme est représenté comme une figure robuste et porte une bague volumineuse pour démontrer sa richesse. En arrière-plan, on peut voir une autre femme au visage ridé, observant la scène, curieuse de savoir comment l'histoire se terminera. La représentation de la fille qui ignore l'homme, sans dire un mot, est une métaphore du destin «biologique» des femmes, qui ont dû, malgré elles, accepter ce métier parce que femmes et parce qu’appartenant à classe sociale la plus pauvre.

Lydia représente également la jeune femme dans un dessin au crayon, dans lequel elle est avec une plus âgée. Les deux ont un maquillage très accentué, ce qui suggère leur métier. Dans un troisième dessin, laissé inachevé, intitulé Les deux prostituées, Lydia représente une jeune fille mince, assise les jambes écartées, vêtue d'une robe moulante et d'un chapeau. L'autre femme, en revanche, est plus âgée et joufflue et se tient droite, les pieds nus, les bras sur les hanches, vêtue d'un débardeur transparent. Tous deux regardent vers l'observateur, l'une avec un regard arrogant, l'autre complètement indifférent. Dans ce travail, Lydia a voulu représenter le processus de vieillissement des femmes dans leur travail de prostituées.La différence avec les artistes masculins de l'époque réside dans la représentation des femmes non comme des objets de désir masculin, malgré leur «métier», mais comme des personnes ordinaires faisant un travail. Elle a donc réussi à construire une nouvelle manière de représenter la prostitution qui n'était ni érotique ni vulgaire, seulement réaliste et parfois ironique.Selon Lydia, le fait que les peintres ne représentent les prostituées que comme des objets de désir, reflétait la peur masculine de l'émancipation féminine, qui s'imposait de plus en plus dans la nouvelle société moderne et urbanisée. Quand la femme cesse d'être un objet et devient une personne, il faut lui garantir des droits ce qu'à l'époque on n'était pas encore prêts à les lui reconnaître.

Une fois rétablie de la tuberculose, Lydia a été présentée dans de nombreuses expositions non seulement en Estonie, mais aussi à Helsinki, Riga, Berlin, Amsterdam et diverses autres villes. De 1950 à 1960, elle a travaillé comme designer textile et a été engagée pour concevoir des cartes postales.Au cours de sa vie, elle a remporté plusieurs prix: en 1928, elle a remporté le prix des beaux-arts de la colonne Estonian Cultural Endowment pour la colonne War and Peace et en 1933, elle est arrivée troisième au concours de conception de meubles de ferme de la Central Estonian Farmers Society.Elle a également été membre de l'Association centrale estonienne des artistes visuels à partir de 1925, membre du groupe d'artistes estoniens de 1931 à 1935, membre de l'Association des artistes appliqués en 1936 et membre de l'Union des artistes à partir de 1946.

Elle mourut à Tallinn le 14 septembre 1965, à l'âge de 69 ans.

 

Traduzione inglese
Cettina Callea

Lydia Mei was born on 2 July 1896 on the Estonian island of Hiiumaa. She was the second daughter and her sisters were Kristine and Natalie. In the Mei family all three girls became artists: Lydia and Natalie were passionate about painting, while Kristine specialized in sculpture. Lydia went on to study architecture at the St. Petersburg Women's Polytechnic for three years, finishing her studies in 1918.

Immediately after graduating, she worked as an assistant architect in the Tallinn government. Then, in 1919, she participated for the first time in an art exhibition in the city of Tartu and began her studies in the field of painting. She was the first architect woman in Estonia, but she found her real fulfillment in watercolor painting in the 1920s, as did her sister Natalie.From 1920 to 1921 she taught drawing at the Tartu Teacher Seminary.

She married the Estonian sculptor Anton Starkopf in 1920 and together they completed several projects for various monuments celebrating the Estonian War of Independence. Although Lydia helped her husband, her name never appeared among the sculptors who produced the monuments: only the names of the male artists were to be found, since both the war and the commemorative works were considered purely fields of male endeavour.The marriage with Anton lasted about eight years; Lydia's true, life-partner was her sister Natalie, with whom she shared a home after her separation from her husband.

To better know Lydia Mei's art, it is essential to understand art déco and its style. Art déco developed between 1919 and 1930 and involved a wide range of artistic branches: it included the decorative and visual arts, architecture and fashion. Art déco was the style of the "sons and daughters of the First World War" who wanted to leave the horrors of war behind and find in art a springboard to a new life.The shapes are essentially classic and symmetrical, the geometries are characterized by rigid and clear lines. The watchword is modernity, understood as a contempt for everything that was considered old and belonging to the past.

Since Lydia also depicted female subjects in her paintings, it should be emphasized that art deco represented women as beautiful, but at the same time cold and worldly. Lydia's early paintings were mainly floral compositions, still lifes of household items and birds she observed from the window of her home. Initially, her artistic output was limited, as she was diagnosed with tuberculosis and for two years was forced to rest and isolate in sanatoriums for patients with lung diseases.Lydia was considered a very versatile artist. In addition to her watercolors, she also ventured into oil painting, dabbled in graphic design, and also created projects for agricultural furniture, illustrations for books, and paintings on porcelain. She left an entire gallery of female portraits. The portrait Woman with a cigarette, for example, depicts a woman in her thirties, elegant, but at the same time with a slightly provincial pose and accessories. For Lydia it was a representation of the limitations and reduced possibilities for the women of the time.

Within this series of portraits, Lydia also dealt with the subject of prostitution, but she did it differently from her male colleagues. In “Procurer” she depicts a young woman, modestly dressed, who ignores a rich man offering her a drink. The man is represented as a robust figure with a large ring that displays his wealth. In the background you can see another woman with a wrinkled face, observing the scene, curious about how the story will end. The representation of the girl silently ignoring the man, is a metaphor for the "biological" destiny of women, who had to, despite themselves, accept this work as women belonging to the poorest social class.

Lydia also portrayed the young woman in a pencil drawing, in which she is with an older one. The two have a very elaborate make-up, which suggests their profession. In a third drawing, left unfinished, entitled “The Two Prostitutes”, Lydia depicts a thin young girl, sitting with her legs apart, in a tight dress and a hat. The other woman, on the other hand, is older and chubby and stands barefoot with her arms on her hips, dressed in a semi-transparent tank top. Both look towards the observer, one with an arrogant look, the other completely indifferent. In this work Lydia wanted to represent the aging process of women in their work as prostitutes. The difference with the male artists of the time lies in the depiction of women not as objects of male desire, despite their "job", but as ordinary working people. She therefore succeeded in building a new way of representing prostitution that was neither erotic nor vulgar, only realistic and at times ironic.According to Lydia, the fact that painters represented prostitutes only as objects of desire reflected the male fear of female emancipation, which was increasingly taking hold in the new modern and urbanized society. When the woman ceases to be an object and becomes a person, it is necessary to guarantee her rights that, at that time, society was not yet ready to recognize.

Once she recovered from tuberculosis, Lydia was featured in many exhibitions not only in Estonia but also in Helsinki, Riga, Berlin, Amsterdam and various other cities. From 1950 to 1960 she worked as a textile designer and was hired to design postcards.During her lifetime, she earned several awards: in 1928 she won the Estonian Cultural Endowment's fine arts prize for the War and Peace column, and in 1933 she came third in the farm furniture design competition of the Estonian Central Farmers' Society. She was also a member, from 1925, of the Estonian Central Association of Visual Artists, a member of the Estonian artists group from 1931 to 1935, a member of the Association of Applied Artists in 1936, and a member of the Artists' Union from 1946.

She died in Tallinn on September 14, 1965, at the age of 69.



Slava Raskai

Martina Colombi


Grafica di Katarzyna Oliwia Serkowska

Nascere sordomuta, in una società in cui il confine tra disabilità fisica e ritardo mentale era labile. Scegliere di diventare pittrice, in un’epoca in cui la critica considerava l’arte una professione per gli uomini, un passatempo per le donne. Morire a soli ventinove anni, proprio nel momento in cui sembravano arrivare i primi riconoscimenti. Slava Raškaj è, drammaticamente, tutto questo. Ma la sua opera, eterna e stupefacente, è qualcosa di più potente. È il lieto fine di una storia brevissima, la vittoria di una creatività inarrestabile e di una continua e testarda ricerca della bellezza, nonostante tutto.

Considerata oggi una protagonista della scena artistica croata del XIX secolo, Slavomira Friderika Olga Raškaj – detta Slava – era nata il 2 gennaio 1877 a Ozalj, nel nord della Croazia, al confine con la Slovenia. La sua famiglia era benestante: il padre Alojzije era un notaio, mentre la madre Olga era figlia di ufficiali e gestiva l’ufficio postale della città. La coppia aveva due figlie e un figlio: oltre a Slava, Juraj, che seguì le orme paterne facendo il notaio, e Paula, destinata invece a diventare insegnante.

Slava era una bambina bellissima: aveva lunghi capelli biondi, lineamenti regolari e sguardo sognante; incapace di comunicare con i coetanei e le coetanee, spesso rimaneva da sola nella natura, oppure in un angolo della sua stanza, a disegnare. Il disegno era per lei non solo un divertimento, ma una vera e propria esigenza, un modo per esprimersi, tanto che spesso i genitori trovavano sue immagini scolpite sui mobili di casa con un coltellino da cucina. La passione per l’arte era condivisa in famiglia: praticata dalla madre nel tempo libero, fu trasmessa alle figlie. Se Slava fece della pittura la sua ragione di vita, Paula invece scelse di coltivarla nel tempo libero, fino all’età adulta.

All’età di soli otto anni, Slava fu costretta ad allontanarsi da casa: fu iscritta all’Istituto per l’infanzia sordomuta di Vienna, dove rimase fino ai quindici anni. Imparò il tedesco e il francese, ma soprattutto ricevette le prime lezioni di disegno: dopo essersi esercitata con la matita e l’inchiostro copiando calchi di sculture classiche, si dedicò all’acquerello e al guazzo, che divennero ben presto le sue tecniche pittoriche predilette.In estate era solita tornare a Ozalj per le vacanze; fu proprio durante uno di questi soggiorni che l’insegnante Ivan Muha-Otoić, amico di famiglia, si accorse che la piccola aveva una vocazione per la pittura fuori dal comune. Convinse così i suoi genitori a mandarla a Zagabria, dove frequentò la Royal Vocational School femminile. Qui ricevette gratuitamente lezioni di pittura dal pittore Bela Čikoš Sesija, una figura importantissima per la sua formazione e, secondo alcune fonti (non confermate perché la corrispondenza tra Slava e la famiglia è stata distrutta), anche per la sua educazione sentimentale.

A Zagabria Slava iniziò a dipingere en plein air: si recava spesso al Giardino Botanico della città o al Parco Maksimir, dove la sua arte riusciva a essere autentica e lirica. Amava così tanto il contatto con la natura che in inverno le accadeva di dipingere fino a quando non le si congelavano le mani, costringendola a tornare a casa. Presto il suo linguaggio si allontanò da quello del docente Bela Čikoš Sesija, raggiungendo una straordinaria unità organica e avviandosi verso i primi riconoscimenti: nel 1898 sei suoi acquerelli furono esposti al Padiglione d’arte di Zagabria; altri lavori vennero esibiti l’anno successivo a San Pietroburgo e a Mosca. Slava riuscì, giovanissima, a presentare cinque dipinti persino all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900. Ma proprio nel momento in cui la sua arte stava per spiccare il volo, si trovò imprigionata nelle sue insicurezze.

Nello stesso anno in cui le sue opere approdavano in una delle capitali dell’arte europea, nella giovane, sensibilissima pittrice iniziarono ad apparire i primi segni di una sofferenza profonda, che sfociò nel disordine mentale. Ricoverata in ospedale, fu subito rilasciata per cure domiciliari, che si rivelarono inefficaci: divenne sempre più solitaria, sfuggente, persino aggressiva. Fu così portata nell’ospedale psichiatrico di Stenjevec, dove rimase per più di tre anni. Il ricovero fu fatale per lei: pur avendo tutto il materiale per dipingere, abbandonò la pittura; le rare volte in cui ebbe il coraggio di riprendere il pennello e i colori, non riuscì mai a terminare il proprio lavoro. Alla depressione si unì la tubercolosi polmonare, che le tolse la vita il 29 marzo 1906, a soli ventinove anni.

Rimangono, di questa breve e intensa esistenza, centinaia di acquerelli e pastelli: sono opere fluide, leggere, svolazzanti, in cui il ricordo dell’arte giapponese si fonde alle atmosfere impressioniste, che forse la giovanissima artista aveva conosciuto a Vienna. La loro importanza è emersa soltanto nel 1957, in occasione della prima mostra retrospettiva avvenuta a Belgrado. A questa iniziativa è seguita nel 2008 una seconda esposizione, ospitata alla Galleria di arte moderna di Ozalj, dove sono stati mostrati al pubblico per la prima volta non solo dipinti inediti, provenienti da collezioni private, ma anche gli strumenti di lavoro e la carrozzina dell’artista. Fraintesa ed emarginata per tutta la sua vita, accusata da molta critica di lavorare con tecniche infantili, Slava Raškaj è stata in realtà una creatrice instancabile, spesso in anticipo sui tempi.

La disabilità, che da una parte le impediva di trovare un suo posto nel mondo, dall’altra favoriva lo sviluppo di un’emotività e di una sensibilità fuori dal comune, che emergono in modo inconfondibile nella sua opera e che fanno di lei una delle figure più significative della storia artistica croata. Il più grande elemento di forza della pittura di Slava è legato al fatto che essa non è, contrariamente a quanto accadeva all’epoca, imitazione dell’arte praticata dagli uomini, ma è un’opera tutta al femminile. È pura bellezza, delicata e commovente.

 

Traduzione francese
Martina Colombi

Naître sourde et muette dans une société où la frontière entre handicap physique et retard mental était floue. Choisir de devenir peintre, à une époque où les critiques considéraient l'art comme un métier d'hommes, un passe-temps pour les femmes. Mourir à seulement vingt-neuf ans, juste au moment où semblaient arriver les premières reconnaissances. Slava Raškaj est, dramatiquement, tout cela. Mais son travail, éternel et étonnant, est quelque chose de plus puissant. C'est la fin heureuse d'une très courte histoire, la victoire d'une créativité imparable et d'une poursuite continue et obstinée de la beauté, malgré tout.

Considérée aujourd'hui comme une protagoniste de la scène artistique croate du XIXe siècle, Slavomira Friderika Olga Raškaj - connue sous le nom de Slava - est née le 2 janvier 1877 à Ozalj, dans le nord de la Croatie, à la frontière avec la Slovénie. Sa famille était riche: son père Alojzije était notaire, tandis que sa mère Olga était la fille d'officiers et dirigeait le bureau de poste de la ville. Le couple a eu deux filles et un fils: outre Slava, Juraj, qui a suivi les traces de son père en tant que notaire, et Paula, destinée à devenir enseignante.

Slava était une jolie petite fille: elle avait de longs cheveux blonds, des traits réguliers et un regard rêveur; incapable de communiquer avec ses semblables, elle restait souvent seule dans la nature, ou dans un coin de sa chambre, dessinant. Pour elle, dessiner n'était pas seulement un plaisir, mais un réel besoin, une façon de s'exprimer, à tel point que ses parents trouvaient souvent des images gravées par elle sur les meubles de la maison avec un couteau de cuisine. La passion de l'art était partagée dans la famille: pratiquée par la mère à ses heures perdues, elle l’a transmise à ses filles. Si Slava a fait de la peinture sa raison de vivre, Paula a plutôt choisi de la cultiver pendant son temps libre, jusqu'à l'âge adulte.

À l'âge de huit ans seulement, Slava a été forcée de quitter la maison: elle a été inscrite à l'Institut pour enfants sourds et muets de Vienne, où elle est restée jusqu'à l'âge de quinze ans. Elle apprend l'allemand et le français, mais surtout elle y reçoit ses premiers cours de dessin: après avoir pratiqué au crayon et à l'encre la copie de moulages de sculptures classiques, elle se consacre à l'aquarelle et à la gouache, qui deviennent rapidement ses techniques de peinture préférées. L'été, elle retournait à Ozalj pour les vacances; C'est lors d'un de ces séjours que le professeur Ivan Muha-Otoić, un ami de la famille, s'est rendu compte que la petite fille avait une vocation pour la peinture hors du commun. Ainsi elle convainc ses parents de l'envoyer à Zagreb, où elle fréquente l'école professionnelle royale pour filles. Elle y reçoit des cours de peinture gratuits du peintre Bela Čikoš Sesija, une figure très importante pour son éducation et, selon certaines sources (non confirmée car la correspondance entre Slava et sa famille a été détruite), également pour son éducation sentimentale.

À Zagreb, Slava a commencé à peindre en plein air: elle allait souvent au jardin botanique de la ville ou au parc Maksimir, où son art réussissait à être authentique et lyrique. Elle aimait tellement être en contact avec la nature qu'elle peignait souvent en hiver jusqu'à ce que ses mains se congelaient, la forçant à rentrer chez elle. Son style s'est rapidement éloigné de celle du professeur Bela Čikoš Sesija, atteignant une extraordinaire unité organique et se dirigeant vers les premières reconnaissances: en 1898, six de ses aquarelles ont été exposées au Pavillon d'Art de Zagreb; d'autres œuvres sont exposées l'année suivante à Saint-Pétersbourg et à Moscou. Slava a pu, très jeune, présenter cinq tableaux même à l'Exposition Universelle de Paris en 1900. Mais juste au moment où son art était sur le point de décoller, elle se retrouva emprisonnée dans ses propres insécurités.

L'année même où ses œuvres débarquent dans l'une des capitales de l'art européen, les premiers signes de souffrance profonde commencent à apparaître chez la jeune artiste peintre très sensible, ce qui lui provoque des troubles mentaux. Admise à l'hôpital, elle est vite renvoyée pour des soins à domicile, qui se sont avérés inefficaces: elle est devenue de plus en plus solitaire, insaisissable, voire agressive. Elle a donc été conduite à l'hôpital psychiatrique de Stenjevec, où elle est restée plus de trois ans. L'hospitalisation lui fut fatale: malgré tout le matériel pour peindre, elle abandonne la peinture; les rares fois où elle a eu le courage de reprendre le pinceau et les couleurs, elle n'a jamais réussi à terminer son travail. A la dépression s’ajoute la tuberculose pulmonaire, qui lui a coûté la vie le 29 mars 1906, alors qu'elle n'avait que vingt-neuf ans.

Des centaines d'aquarelles et de pastels subsistent de cette existence brève et intense: ce sont des œuvres fluides, légères, flottantes, dans lesquelles la mémoire de l'art japonais se mêle aux atmosphères impressionnistes, que peut-être la tout jeune artiste avait rencontrées à Vienne. Leur importance n'est apparue qu'en 1957, à l'occasion de la première exposition rétrospective à Belgrade. Cette initiative a été suivie en 2008 d'une deuxième exposition, organisée à la Ozalj Modern Art Gallery, où non seulement des peintures inédites issues de collections privées ont été montrées au public pour la première fois, mais aussi les outils de travail et le fauteuil roulant du 'artiste. Incomprise et marginalisée tout au long de sa vie, accusée par de nombreuses critiques de travailler avec des techniques enfantines, Slava Raškaj était en fait une créatrice infatigable, souvent en avance sur son temps. Le handicap, qui d'une part l'empêchait de trouver sa place dans le monde, de l’autre a favorisé le développement d'une émotivité et d'une sensibilité hors du commun, qui ressortent indéniablement dans son travail et qui en font l'une des figures les plus importantes de l’histoire artistique croate. La plus grande force de la peinture de Slava est liée au fait qu'elle n'est pas, contrairement à ce qui s'est passé à l'époque, une imitation de l'art pratiqué par les hommes, mais une œuvre entièrement féminine. C'est une pure beauté, délicate et émouvante.

 

Traduzione inglese
Martina Colombi

She was born deaf and mute, in a society in which the border between physical disability and mental retardation was blurred. She chose to become a painter at a time when critics considered art a profession for men, but just a pastime for women. She died at the age of only twenty-nine, at the moment when her first recognition seemed to be arriving. Slava Raškaj was, dramatically, all these things. But her work, eternal and amazing, is something even more powerful. It is the happy ending of a very short story, the victory of an unstoppable creativity, and of a continuous and stubborn pursuit of beauty, despite everything.

Considered today a central figure in the 19th century Croatian art scene, Slavomira Friderika Olga Raškaj – known as Slava - was born on January 2, 1877 in Ozalj, in northern Croatia, on the border with Slovenia. Her family was wealthy. Her father, Alojzije, was a notary (solicitor), while her mother, Olga, was the daughter of officials and ran the city post office. The couple had two daughters and a son - Slava, Paula, who became a teacher, and Juraj, who followed in his father's footsteps as a notary.

Slava was a beautiful little girl with long blond hair, regular features and a dreamy look. Unable to communicate with other children, she often remained alone in nature, or in a corner of her room, drawing. For her, drawing was not just fun, but reflected a real need. It was a way to express herself, so much so that her parents often found her images carved on the furniture of the house with a kitchen knife. The passion for art was shared in the family - practiced by her mother in her spare time, and passed on to the daughters. Slava made painting her reason for living. Paula, instead, chose to cultivate it in her spare time, until adulthood.

Enrolled in Vienna’s Institute for deaf and dumb children, Slava was forced to leave home at the age of eight. She remained there until she was fifteen. She learned German and French, and, most important, received her first drawing lessons. After practicing with pencil and ink, copying casts of classical sculptures, she devoted herself to watercolor and gouache, which soon became her favorite painting techniques. During the summer holidays she normally returned to her parents’ home in Ozalj. It was during one of these stays that Ivan Muha-Otoić, a teacher and friend of the family, realized that the little girl had an extraordinary gift for painting. She was able to convince her parents to send her to Zagreb, where she attended the Royal Vocational School for girls. Here she received free painting lessons from the painter Bela Čikoš Sesija, a very important figure in her education, and also romantically, according to some sources (not confirmed because the correspondence between Slava and her family has been destroyed).

In Zagreb, Slava began to paint en plein air. She often went to the city's Botanical Garden or to the Maksimir Park, where her art was able to be authentic and lyrical. She loved being in contact with nature so much that in the winter she often painted until her hands froze, forcing her to return home. Soon her painting style moved away from that of the teacher Bela Čikoš Sesija, reaching an extraordinary organic unity and moving towards her first recognition. In 1898 six of her watercolors were exhibited at the Zagreb Art Pavilion; other works were exhibited the following year in St. Petersburg and Moscow. Slava was able, at a very young age, to even present five paintings at the Universal Exposition in Paris in 1900. But just as her art was about to take off, she found herself trapped in her insecurities.

During same year in which her works began to appear in the capitals of European art, the first signs of profound suffering began to appear in the young, very sensitive painter, resulting in mental disorder. First admitted to a hospital, she was quickly released for home care, which proved to be ineffective. She became more and more lonely, elusive, even aggressive. She was thus taken to the Stenjevec psychiatric hospital, where she remained for more than three years. The hospitalization proved fatal for her: despite having all the materials to paint, she abandoned painting. The rare times she had the courage to pick up the brush and colours, she never managed to finish a work. Deep depression was joined by pulmonary tuberculosis, which took her life on March 29, 1906, when she was only twenty-nine.

Hundreds of watercolours and pastels remain from her brief and intense life. They are fluid, light, soaring works, in which reflections of Japanese art blend with impressionism, which perhaps the very young artist had encountered in Vienna. Their importance only fully emerged in 1957, on the occasion of her first retrospective exhibition in Belgrade. This initiative was followed in 2008 by a second exhibition, hosted at the Ozalj Modern Art Gallery. In that exhibition, previously unseen paintings from private collections were shown to the public for the first time, and also the tools and wheelchair of the artist. Misunderstood and marginalized throughout her life, accused by many critics of working with childish techniques, Slava Raškaj was actually a tireless creator, often ahead of her time.

Her disability, on one hand prevented her from finding her place in the world, but on the other hand favoured the development of an emotionality and sensitivity far out of the ordinary, which emerged in an unmistakable way in her work, and which make her one of the most significant figures in Croatian artistic history. The greatest strength of Slava's painting is tied to the fact that it is not, despite the atmosphere of the time, an imitation of the art practiced by men, but is an utterly feminine work. It is pure beauty, delicate and moving.