In Italia l’8 marzo, giornata internazionale della donna, ricorda dal 1922 sia le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne, sia le discriminazioni e le violenze cui esse sono ancora fatte oggetto in molte parti del mondo. A questa ricorrenza in seguito a una risoluzione dell’ONU del 1999, si è aggiunto il 25 novembre, celebrato come "Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne”.
Quest’anno anche il 14 febbraio, San Valentino vede impegnate nel mondo milioni di donne che vogliono manifestare contro la violenza che le rende spesso vittime. Le donne scendono in piazza per dire basta a stupri e femminicidi e la Sardegna partecipa con iniziative a Cagliari, Sassari, Lanusei, Oristano, solo per citare le più pubblicizzate.
Col termine “femminicidio” si intende comprendere non solo l'omicidio, ma anche ogni forma di violenza di genere, nei confronti della donna in quanto donna: una parola il cui uso ha sollevato polemiche, ma che ha richiamato l'attenzione su una delle piaghe dell'Italia contemporanea. Il femminicidio non conosce steccati sociali e barriere socio-economiche: se consideriamo le vittime - tante, troppe - vediamo che, a parte il fatto di essere donne, hanno ben poco in comune e anche le motivazioni dei loro aggressori sono molto differenti. Le analisi dei dati dell'Osservatorio 2012 del Telefono Rosa, sono chiare: tra le vittime di abusi e maltrattamenti "sono rappresentate tutte le donne del Paese, al di là di ogni status di appartenenza sociale".
Solo nel 2012, sono 120 le donne uccise in Italia, stando a dati raccolti in base alle notizie riportate nei giornali: siamo costrette ad attingere alle pagine di cronaca nera, perché il Governo ancora non ha un osservatorio su questo preoccupante fenomeno.
Anche nella nostra isola abbiamo avuto molti casi di femminicidio. I più eclatanti, quelli che tutti ricordano e che hanno interessato per mesi le cronache giornalistiche sono stati quelli di Monica Moretti (urologa sassarese uccisa da uno stalker) - risalente al 2002 - quello di Roberta Zedda (uccisa nel suo ambulatorio mentre svolgeva servizio di Guardia Medica) - avvenuto a Solarussa nel luglio 2003 - quello di Orsola Serra (l’insegnante algherese ritrovata senza vita nella sua abitazione) - alla fine del 2011. I casi di femminicidio in Sardegna sono però molto più numerosi, ma spesso vengono riportati in poche righe nei giornali locali e rapidamente dimenticati. L’ultimo in ordine di tempo risale ai primi giorni di febbraio e riguarda Giuseppina Boi, 87 anni, uccisa dal marito novantenne con cui aveva trascorso ben 60 anni di quotidiana convivenza.
Parlarne, scrivere, raccontarne le storie, manifestare contro la violenza, non sono certo azioni sufficienti a fermare la strage delle donne, ma sono passi importanti. Ricordare a lungo l’accaduto, senza limitarsi a sporadiche giornate nel corso dell’anno, potrebbe essere un primo passo verso un percorso di civiltà, un percorso comune anti-violenza, perché la violenza contro le donne ha origini soprattutto nella mentalità culturale, più che in circostanze particolari individuali.
In questa ottica Toponomastica femminile, da sempre promotrice di intitolazioni cittadine a donne di merito, quale elemento di civiltà e democrazia, suggerisce di far piantare un albero da frutta per ogni donna vittima di femminicidio, perché possa ancora dare vita e nutrire il mondo: sono piante scelte secondo criteri estetici, non piante sterili, ma alberi che diano presto frutti, cibo del corpo e dell’anima. Per ricordare il fatto delittuoso, sotto l’albero dovrebbe trovar posto una piccola targa con il nome della donna, come in un orto botanico, e la data del delitto. Quando possibile, il costo dell'albero potrebbe costituire un risarcimento aggiuntivo alla pena del reo, affinché il responsabile indennizzi con una forma di vita la comunità a cui ha sottratto una vita.
L’idea, ben si accosta alla legge che entrerà in vigore dal 16 febbraio e che imporrà ai Comuni la messa a dimora di un albero per ogni nuovo nato. Sarebbe significativo che le aree pubbliche individuate a tale scopo dalle amministrazioni, destinassero un angolo di verde e qualche panchina silenziosa alla riflessione sulla profonda inciviltà dei femminicidi. Spesso è l’indifferenza generale che, insieme agli assassini, uccide le donne..