E’ a lei, al suo coraggio che devi l’amore per la lettura e la possibilità di proseguire i tuoi studi, alla sua forza d’animo e alla sua onestà, la tua capacità di opporti alle ingiustizie, di non tollerare, come lei, un regime autoritario e scellerato.
Giovanna, scusa se, senza conoscerti, mi rivolgo a te in prima persona. Sei una donna strana: hai visto i natali a Galliera, nella pianura bolognese e niente mi fa pensare che una ragazza nata lì nel 1910 aspirasse ad altro che ad una vita “normale”, matrimonio e figli, simile a quella di tutte le altre donne. Al massimo, maestra, l’unico “mestiere” che conciliando casa e lavoro, era ritenuto adatto ad una donna, ma “scrittrice e montanara”, mai! Invece hai studiato, ti sei trasferita lontano, in Cadore come insegnante. Hai preso parte alla resistenza. Hai cambiato nome diverse volte e alla fine hai assunto quello per cui ti conoscono come scrittrice. Hai costruito un Rifugio. Tutte queste cose mi hanno colpita.
Penso a te come alla piccola Alma Bevilacqua che frequenta nel suo paese di Galliera le elementari, “con profitto” come si usa dire, con che animo, non saprei. Tuo papà veterinario, la tua mamma casalinga: una famiglia normale se non fosse per quell’ombra che minaccia la famiglia paterna, il marchio della pazzia, della schizofrenia che serpeggia tra i numerosi fratelli di tuo padre. Da allora penso sia cominciata la tua voglia di nasconderti, di fuggire dal pericolo, di tramutarti in qualcosa d’altro, lontano, il più lontano possibile dalla nevrosi, dal marchio di famiglia. Ancora non ne sei conscia, ma forse ti aspetterebbe un altro destino se tu non avessi la madre che hai.
Una donna cui, in ossequio ad una tradizione che privilegiava i maschi rispetto alle femmine, era stato impedito di continuare negli studi: per l’impegno di moglie e di madre non era richiesta una grande cultura, ma quelle doti “innate” o inculcate a forza, di pazienza, operosità, fedeltà, dedizione, che ci si attendeva dal sesso femminile.
E’ a lei, al suo coraggio che devi l’amore per la lettura e la possibilità di proseguire i tuoi studi, alla sua forza d’animo e alla sua onestà, la tua capacità di opporti alle ingiustizie, di non tollerare, come lei, un regime autoritario e scellerato. Tuo padre ben presto manifesta i sintomi della malattia di famiglia ed è stato inutile, per cercare di sollevarlo dalla depressione, trasferirsi a Desenzano del Garda. Qui frequenti la I e la II Ginnasio e continui ad avere ottimi voti. Il clima è mite, il paesaggio sereno, ma l’ombra non scompare: nel 1923 tuo padre non regge più e si suicida.
Nello stesso anno della sua morte, frequenti il Liceo Ginnasio a Bologna, il Galvani. Tua madre non si è arresa, si è trasferita con te a Bologna, vicino a un fratello del marito, e vuole che tu vada avanti. Non ami questa città, così diversa da tutto quello che conoscevi, né la scuola con insegnati e compagni, e nemmeno i parenti, lo zio sul quale aleggia il male della famiglia.
Come fuggire? Intanto ottieni la laurea in Chimica, 108/110. Poi l’abilitazione professionale in Chimica e Farmacia e per un po’ ti devi accontentare di fare l’assistente volontaria in Geologia. Troppo presto, nel 1937, tua madre muore.
L’ultimo legame è spezzato. Una vita nuova può iniziare: insegnante di Scienze a Cortina, a Nord, ex-impero Austroungarico, dove nessuno conosce il marchio dei Bevilacqua. Lì tra le montagne che già un po’ avevi conosciuto per le vacanze, puoi respirare libera. Provi l’arrampicata, diventi anche maestra di sci, guida, scrittrice.
Non hai ancora idee politiche precise, hai frequentato solo scuole fasciste respirandone la retorica, ma come tua madre, condanni le imposizioni, la propaganda, le manifestazioni roboanti del regime fascista. Non ti fai certo molti amici fra le persone che aderiscono o che semplicemente simpatizzano per il Partito. Già cominci a essere sola.
Nel settembre del 1943 decidi con sicurezza da che parte stare, diritta fisicamente e moralmente come tua madre. Entri nella Resistenza e fai parte della Brigata Garibaldina “Pier Fortunato Calvi”. Prendi il nome di “Anna” ed è il primo vero cambio di pelle. Certo, c’è quel comandante, Severino Rizzardi, che ti piace. Ma non è solo per amore che sfidi il pericolo, ce ne vuole, di coraggio, per passare il confine, stabilito a Dogana, prima di Cortina, portando informazioni e documenti falsi che nascondi tra le tue carte di insegnante. Trasportando armi. Una staffetta sa di rischiare la vita, né più né meno dei suoi compagni. Come insegnante non dovresti destare i sospetti dei Tedeschi, sei autorizzata ad andare e venire, ma alla fine qualche voce circola e capisci di essere tenuta d’occhio.
Per mesi ti nascondi in montagna, le rocce già le conosci ed anche gli spartani ricoveri. Trovi rifugio anche in qualche casa di amici, il calore del focolare, il cibo, te li ricorderai quando sarai al freddo e alle intemperie e la fame e la paura ti morderanno lo stomaco. La guerra finisce, ma è destino che non tutto vada bene: il comandante partigiano di cui sei innamorata muore poco prima della Liberazione. Il sogno abbozzato insieme, quello di gestire un rifugio alpino, sembra sfumare.
Ma Alma-Anna, tu non sei come tuo padre, tu hai la forza di tua madre: non ti arrendi. Dopo la guerra, tante cose sono cambiate, anche tu hai una nuova vita, piena di attività. Fondi e dirigi un giornale il “Val Boite” che ha il nome del torrente che da Campo Croce, a 1800 m, scende impetuoso fino al Piave. E come un torrente corrono le tue parole su quei fogli: non ti limiti ad informare, spesso attacchi e critichi i “voltagabbana”, quanti vogliono nascondere un passato fascista indossando nuovi panni. Se ce n’era bisogno, ti procuri nuovi nemici. Ti impegni nelle istituzioni pubbliche locali, cosa che continuerai a fare finché la salute te lo permetterà. E’ il momento di cambiare di nuovo pelle, rinunci all’insegnamento, ti dedichi alla scrittura e a quel sogno “impossibile”: gestire un rifugio e, poiché non ce n’è uno disponibile, te lo costruisci. Già nel 1946 dirigi i lavori, partecipi attivamente alla costruzione. Non è uno di quei rifugi su un passo o un colle raggiunti da una strada carrabile, ma un vero rifugio alpino a 1796 metri, sulla sella di Pradonego, ai piedi del gigantesco Antelao. E con quel nome lo chiami, non con l’appellativo di un personaggio storico o di un alpinista famoso o di una città. Il nome del Monte, il Re delle Dolomiti, la temibile piramide di roccia, con la cima, a più di tremila metri, quasi perennemente immersa nelle nuvole. Il Monte dei ghiacciai, delle frane, delle rischiose arrampicate.
Ti posso vedere salire, passo dopo passo, dal paese fino alla sella col tuo zaino stracarico, il piede pesante ma sicuro. Sola, quasi sempre sola. Col tuo fisico tozzo, i grossi fianchi, le gambe robuste. Guardata un po’ con rispetto, un po’ con circospezione. E’ un mondo maschile, quello in cui ti sei intromessa, dopo la guerra sono cambiate alcune cose ma il posto di una donna, seppure quello di una donna originale, scrittrice, insegnate, partigiana (già, ex- partigiana e non lo nascondi nemmeno) è ancora a casa, accanto al focolare, a disposizione di marito e figli e non certo su e giù per “le crode” a portar mattoni e calce. E con i calzoni, come un uomo. Perfino le sportive, se proprio devono usare i pantaloni, li nascondono sotto ampie gonne.
Sola, ti senti sola? Hai un cane, Attila, che condivide le tue tante fatiche e i rari momenti di pace con gioiosità, è lui che ti accompagna nelle lunghe escursioni. Con Attila, cui vai bene come sei, puoi mostrare la tua tenerezza, lasciarti andare alle coccole. Che tu abbia amato, lo so. Non solo un uomo nella breve stagione della tua giovinezza, ma questi monti, tutto ciò che ti circonda, la gente delle “terre alte” più chiusa e rude di quella di pianura o di città ma solidale, tenace, in lotta e in simbiosi con una natura parca di comodità ma non per questo meno amata. E tu sei affascinata da questa solitudine, da questi panorami e da questa gente, tanto da legarti al Cadore per tutta la vita. E per loro, per i Cadorini, la gente di Cortina, di Borca, cosa sei? Per quanto possano in fondo ammirare il tuo impegno e i tuoi meriti, resti pur sempre una forestiera, una che “viene da fuori” in un paese di persone accumunate da parentele, da una lingua propria, da abitudini e stili di vita che ti hanno attirata, ma che ti fanno apparire una rarità, un corpo estraneo innestato in un ceppo antico, non certo “una di loro”. Sono posti belli, austeri, gente sincera e autentica, che quando ti accoglie lo fa con il cuore, ma che prima di accettarti… Ancora oggi è frequente sentirsi chiedere, dagli anziani, al primo approccio, non “Come ti chiami ?” ma “ Di chi sei?” Se lo “straniero” può vantare una qualche parentela, una nonna, gli zii, un cugino del posto, allora l’anziano annuirà, sorridente, e partirà la conversazione magari in dialetto; ma se un poveraccio non ha, non dico un genitore, ma nemmeno uno straccio di prozio, un cugino di terzo grado, un avo, allora la persona distoglierà lo sguardo, delusa, se non sei di qualcuno, sei di nessuno.
Del resto, non ti sei mai piaciuta. Il tuo fisico robusto ti è servito ad affrontare le fatiche, le alzate mattutine, i pesi da portare da valle in montagna, le giornate sugli sci (non c’erano ancora tanti impianti di risalita…) e quelle sulle rocce. Ti riconosci intelligente, onesta, diritta, ma non certo graziosa. Guardo le tue fotografie. In quelle in cui sei molto giovane, tutte in bianco e nero, vedo una ragazza con lunghi capelli scuri, il viso con la freschezza dell’età. In quelle successive non concedi nulla alla femminilità, alla moda: piccola, robusta, in pantaloni larghi e giacca “eterna” scura, col volto già segnato da rughe, lo sguardo indomito, a volte ironico, a volte dolce nella foto che ti ritrae col tuo cane. Cominci subito a gestire il rifugio, lo farai per circa quindici anni, con determinazione. Ma i tuoi atteggiamenti, questa poca cura per te stessa, il tuo fisico e il tuo carattere così poco “femminili” non ti accattiveranno certo la simpatia altrui, tranne che delle poche persone che vedranno oltre la rude “scorza”, la tua anima generosa.
Scrivi, è la tua passione, e hai successo: nel 1951 le “Leggende delle Dolomiti”. Adotti diversi pseudonimi, io mi ricordo “Ada” poi “Anna”, il tuo nome da partigiana, e infine Giovanna. Giovanna è un vero nome e già che ci sei cambi anche quel cognome che evoca troppa acqua e prendi quello più “montano” di Zangrandi, Giovanna Zangrandi . La zona d’ombra è alle spalle, sei una scrittrice: “ I Brusaz” , il romanzo con i tuoi personaggi inventati ma vivi e veri, soprattutto quello forte e indimenticabile di Sabina, vengono pubblicati nel 1954 e la tua bravura viene riconosciuta: ottieni il premio “Deledda”. E poi scrivi tanti altri libri, una Guida di Borca di Cadore, articoli, saggi, racconti. Nel ’59 ecco “Il Campo Rosso” la storia della costruzione del tuo Rifugio, premio “Bagutta”. Narri la tua esperienza nella Resistenza, quei giorni esaltanti, intensi, pericolosi ne “I Giorni Veri” ed è già il 1960.
L’anno dopo devi riconoscere che la tua attività di gestora di un rifugio non è stata renumerativa, non riesci a sbarcare il lunario, e cedi il Rifugio al C.A.I.. Non è la prima volta che ti devi arrangiare, hai avuto dei successi, ma a periodi di “vacche grasse” si sono sempre alternati quelli di magra, dove hai fatto di tutto: la maestra di sci, l’affittacamere, la trasportatrice e anche la bracconiera. Ti sposti da Cortina a Borca di Cadore, ma non dentro al paese che, se pur piccolo, è per te troppo affollato: ti sistemi in una casa vicino al bosco. Non hai mai fatto parte di circoli letterari, hai fama di essere più burbera di quel che sei. Ti isoli. Hai pochissimi amici, cominciano i giorni tristi della malattia, il morbo di Parkinson a causa del quale perderai progressivamente l’autonomia e la capacità di scrivere. Ma immagino anzi do per certo che hai continuato a lottare, hai combattuto tutta la vita! Il Rifugio l’avevi fatto costruire dando ordini ad una squadra di operai, ed erano tutti uomini! E dopo la posa delle fondamenta, l’hai tirato anche con le tue mani. L’hai gestito fino a quando la malattia e le avversità te l’hanno concesso.
Adesso la lotta è contro qualcosa che ti minaccia da dentro, qualcosa che sta tradendo il tuo forte fisico, ma la tua volontà è ancora intatta: dal 1966 al 1970 scrivi ancora molto, “Anni con Attila”, “Racconti partigiani e no”, “Il Diario di Chiara” – questo ce l’ho fin da piccola, lo sai?-. Ambientato in Trentino, anno 1848. E poi, questo mi commuove, forse ti riconcili anche col tuo passato, con la giovane Alma e i suoi fantasmi con “Gente alla Palua” , il libro di racconti di vita emiliana.
Viene anche il tempo in cui devi arrenderti, anche se, per ritegno, non chiedi volontariamente aiuti ad estranei. Devi accettare una donna che venga in casa, tocchi le tue cose senza sapere il valore che hanno le tue carte. So che alla fine ad assisterti, soccorrerti, vegliarti ti rimane un solo amico, il partigiano “Volpe” del tuo libro “I Giorni veri”: Arturo Fornasier ti starà vicino, con rispetto, amicizia e lealtà in quei lunghi anni in cui hai sofferto e nel momento in cui lasci questa vita, il 20 gennaio del 1988.
All’ex-partigiano resteranno le tue carte in disordine, i tuoi racconti inediti, le bozze, gli appunti, la corrispondenza, tutto l’archivio di una vita. La sua famiglia lo custodisce ancora nella casa di Pieve di Cadore. Una studiosa sistemerà con cura tutto il materiale, inventarierà carte e appunti: Myriam Trevisan.
Secondo il tuo volere sei stata sepolta a Galliera, nella tomba di Famiglia, lì Giovanna è ritornata Alma e riposa in pace. Lo spirito è ancora lassù, in alto, sopra le montagne. Il Rifugio cui hai voluto dare il nome del grande Antelao è ancora là, sulla sella di Pradonego e, insieme con i tuoi libri, è il tuo più bel lascito.