Il 6 novembre 2012, a Licodia Eubea, una piazza è stata intitolata a Stefania Noce. Il 27 dicembre 2012 a Catania, le viene intitolata l’aula A2 dell’Ex Monastero dei Benedettini, sede della Facoltà di Lettere. I luoghi assicurano memoria perché “durano per sempre” osservano i ragazzi del Movimento studentesco catanese che ha chiesto l’intitolazione dell’aula.
I fatti sono tristemente noti: a Licodia Eubea, piccolo centro in provincia di Catania, un anno fa, Stefania, studentessa ventiquattrenne, è stata colpita a morte dal fidanzato, studente alla Sapienza, che non accettava la sua decisione di interrompere il loro rapporto. Il nonno, intervenuto a difendere la nipote, è stato anche lui ucciso dal giovane.
Nella vicenda colpisce anche una apparente discrepanza, una distanza inquietante tra la condizione di Stefania e quella di altre donne vittime del femminicidio: spesso le immaginiamo fragili, psicologicamente indifese di fronte all’aggressione di chi le opprime e le uccide, incapaci di elaborare o decostruire intellettualmente le situazioni di violazione di dignità della loro persona e quindi incapaci di elaborare scelte che tutelino la loro sicurezza e la loro incolumità. Ma Stefania, vittima del femminicidio, aveva una percezione chiara e adulta, nonostante la giovane età, delle condizioni che possono produrre violenza: aveva riflettuto sulle radici della sotto-cultura della differenza, ritrovandole nella sotto-cultura patriarcale, nella svalutazione del corpo e della dignità femminile. Scriveva poco tempo prima di quella tragica giornata ”Nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo, di uno Stato, né, tanto meno, di una religione”. Sono parole tratte dal suo articolo che ha come titolo ”Ha ancora senso essere femministe?” pubblicato sul giornalino dell’Università di Catania, La Bussola.
L’analisi condotta da Stefania è lucida, nutrita di letture e di studi e soprattutto di riflessione su un vissuto personale che la giovane ha chiaramente decifrato, senza riuscire, però, a difendersi.
La sua vicenda conferma che il femminicidio ha radici profonde, diffuse e ingannevoli, si manifesta anche in luoghi evoluti, è sempre il frutto criminale dell’abisso della sottocultura di genere, del potere maschile che le donne non devono osare incrinare e mettere in discussione. La storia di Stefania conferma che il femminicidio si combatte con la cultura, attraverso azioni continuate, permanenti, di conoscenza e consapevolezza che chiedono tempi lunghi di elaborazione e di radicamento. Se tale elaborazione, se questa rivoluzione culturale non avverrà, i sistemi incancreniti della sottocultura della differenza continueranno a mietere vittime. L’intitolazione di una piazza e di un’aula universitaria remano in questa direzione, come confermano le parole dei ragazzi e delle ragazze del Movimento studentesco catanese: «Sicuramente non tutti, ma speriamo che alcuni, entrando in un’aula intitolata a Stefania Noce, chiedano ai docenti o facciano una ricerca per sapere chi è il personaggio che dà il nome al luogo in cui studiano». E aggiungono: «Ci piacerebbe che nella targa venisse scritto, sotto il nome di Stefania, militante femminista o anche solo femminista”.
Servirebbe a ricordarla per quello che ha fatto e non solo per quello che ha subito.