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Piazza della Repubblica. Esponenti dell’associazione Toponomastica femminile si preparano a sfilare nel corteo.
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Ecco una bambina che crescerà sana e libera da quegli stereotipi sessisti che conducono sì tanti uomini a commettere violenza ma anche tante donne a considerare se stesse come proprietà dell’uomo di turno e ritenere normale lavare i piatti per qualcuno e assecondarne i capricci.
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“Non è un caso isolato, si chiama patriarcato” è forse il più significativo degli slogan che circolavano sabato scorso: la violenza di genere non dipende soltanto dall’indole personale di un uomo ma soprattutto dalla cultura con cui è cresciuto. Certo che il carattere individuale influisce (insieme alla quantità di alcol ingerita), ma è molto più probabile che “perda la testa” (diciamo così…) chi è convinto che a lasciarlo sia non una persona libera ma un oggetto di sua proprietà.
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Due cartelli accostati. Il primo dimostra la bassezza morale culturale e umana di chi arriva a picchiare altre persone. Il secondo è in arabo. Qualunque sia il significato letterale delle parole che lì sono scritte, la lingua scelta sta già palesemente puntando a rompere degli stereotipi: diversamente da come molti vorrebbero oggi far credere, la violenza sulle donne non è legata all’immigrazione ma deriva dalla mentalità misogina assai radicata anche in Europa.
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Un volto e uno sguardo che mostrano forte tensione e determinazione. E un gesto che urla tanto forte da coprire il silenzio mediatico con cui è stata accolta la manifestazione: erano presenti a Roma almeno 200.000 donne e uomini, un corteo immenso che a fatica è confluito tutto in piazza San Giovanni e che dalla cima di via Cavour ha invaso tutta via Labicana rendendovi difficile il muoversi, eppure le televisioni e i giornali principali hanno a malapena accennato a un evento di tale portata. Non vale lo stesso per la cosiddetta stampa “not embedded”, quei pochi siti e giornali (il Manifesto in primis e, ovviamente, molti siti di donne) che la voce l’hanno sempre alzata e mai hanno nascosto notizie scomode.
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Due ragazze parlano. Sono molto giovani, come tante delle partecipanti alla manifestazione. Una bella lezione per chi sperava di vedere Roma riempita solo da signore con i capelli bianchi, le stesse che erano state protagoniste del Femminismo “storico”, quello degli anni ’70 del Novecento, tacciate allora di volgarità ed esibizionismo. Queste due fanciulle hanno volti delicati e gentili, tutt’altro che rispondenti a tali accuse. Sulle loro teste passa lo slogan principale di quella giornata, slogan che si interrompe su una delle teste per essere proseguito nell’altra: NON UNA DI MENO. Quel rosso della fascia sottolinea la dolcezza dei loro sguardi.
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“Non sono le donne a dover imparare a difendersi ma gli uomini a dover imparare ad amare”.
Ma come insegnarglielo senza coinvolgerli? Proprio per questa ragione la presenza maschile nel corteo lo ha arricchito molto più di quanto avrebbero fatto le “separatiste” che uomini intorno non ne volevano.
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“Siamo le pro-pro-pronipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare”. Già le femministe degli anni ’70 scandivano spesso frasi come “Tremate tremate, le streghe son tornate”. I riferimenti culturali e storici non mancano: il primo, fin troppo evidente, è alle responsabilità della Chiesa cattolica nella diffusione della mentalità maschilista. Il secondo, meno immediato ma non meno pertinente, lo si potrebbe trovare nel contesto storico e sociale del Medioevo e del Rinascimento: le streghe che venivano arse sul rogo in alcuni casi erano effettivamente convinte di avere poteri soprannaturali o venivano denunciate da qualcuno davvero convinto di averle viste praticare magia nera, ma in molti altri casi si trattava di donne anziane ed emarginate che mettevano in mostra i loro particolari poteri o a volte addirittura li inventavano dal nulla per ottenere una fama e un rispetto che la società del tempo negava a una donna sola.
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Foto scattata in via Cavour nella primissima fila del corteo. Davanti allo striscione di apertura stava questa signora, di cui età e connotazione appaiono evidenti: il gesto delle sue mani, che simboleggia il Femminismo “classico” non lascia spazio ad equivoci.
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Via dei Fori Imperiali. A metà di un corteo che appare ormai enorme, molto al di sopra delle aspettative, si nota questo cartello che fa riferimento a due temi in particolare: l’omosessualità e l’aborto. Se non fosse stato per i diktat del Vaticano, l’Italia non sarebbe rimasta l’ultimo Paese europeo a legalizzare le unioni omosessuali prima e a concederle soltanto a metà poi. È di nuovo per gli stessi diktat che negli ospedali pubblici è ormai quasi impossibile interrompere una gravidanza indesiderata: quasi l’85% dei medici italiani è obiettore. Con tutto il rispetto per l’obiezione di coscienza in sé, grazie alla quale è stato abolito il servizio militare obbligatorio; in realtà alcuni dei suddetti medici, tuttavia, gli aborti li praticano eccome, ma a pagamento nelle loro cliniche private. D’altronde, chi è contrario a portare le armi può benissimo non fare il militare e scegliere un lavoro consono alle proprie idee, ma chi non vuole praticare aborti, perché deve fare proprio il ginecologo?
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Via Labicana. Ulteriori indicazioni geografiche non servono. La densità della folla è evidente. Il Sole e la temperatura ormai cominciano a calare notevolmente, ma la partecipazione e la determinazione no.
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Di nuovo su via Labicana, davanti alla Gay Street di Roma. Dietro il camion continua a passare di mano in mano questo cartello: “Sex work is work”, il “lavoro sessuale” è un lavoro: anziché mettere in vendita il proprio corpo sotto forma di forza lavoro per servire ai tavoli o fare pulizie o andare in fabbrica, alcune persone rivendicano il diritto di venderlo sotto forma di prestazione sessuale retribuita. In ogni caso la tratta di donne, quasi sempre immigrate, sempre più frequente ai tempi della globalizzazione, resta un crimine e non un lavoro.
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Il corteo arriva in piazza San Giovanni. Ecco una trampoliera, circondata dai palloncini. Rappresenta la parte più allegra delle donne, provenienti dalle varie scuole e accademie di arti circensi: sebbene nessuno le abbia citate, erano anche loro presenti e numerose.
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Piazza San Giovanni. Due cartelli molto significativi. Subire violenza non è mai colpa della vittima. Eppure dopo uno stupro quante volte si sentono dire frasi idiote come “se l’era cercata” o “ma guarda come andava in giro vestita”? L’altro cartello è utile per chiarire un equivoco pericoloso e fuorviante, quello che considera sinonimi i termini “uomo” e “stupratore”. Gli stupratori non sono uomini, ma bestie.
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Piazza San Giovanni. La manifestazione è finita e la gente si disperde. Ne restano le tracce: le scritte di vernice a terra e la soddisfazione negli animi. Queste parole in particolare, NO SESSISMO, riassumono l’intera giornata e ognuno dei suoi temi specifici.