L’incanto dei ritratti di Rosalba Carriera (Venezia, 12 gennaio 1673 – 15 aprile 1757), pittrice squisita, appaga gli occhi e pacifica l’anima. Chi abita nella via a lei dedicata dalla città di Milano dovrebbe avere sempre un libro aperto sul tavolo con le immagini delle sue opere (“La ragazza con pappagallo”, “Caterina Sagredo Barbarigo”, “Allegorie degli Elementi Aria, Acqua, Terra, Fuoco”, le stagioni), per animare il salotto con la presenza di dame seducenti.
FOTO 1 – Rosalba Carriera (via privata) di Monica Bianchi
Rosalba cominciò la carriera artistica dipingendo sulle tabacchiere figurine graziose che poi traspose nelle miniature su avorio usando una tecnica nuova per il genere, basata sul tratto veloce caratteristico della pittura veneziana. Da giovane ebbe la fortuna di studiare musica e pittura oltre al ricamo, appreso dalla madre merlettaia. Protagonista di un atelier tutto femminile nel quale operavano le sorelle, Angela e soprattutto Giovanna, che si occupava di eseguire le repliche e talvolta le rifiniture, Rosalba contribuì alla formazione di altre celebri pastelliste, Felicita Sartori, l’allieva prediletta, e Marianna Carlevaris, spesso sue collaboratrici nell’intensa produzione. Attorno a loro si riuniva una sorta di cenacolo frequentato da personaggi illustri dell’ambiente artistico e letterario. Si moltiplicavano intanto le committenze: dal duca di Mecklemburgo, da Federico IV di Danimarca, dal principe Augusto di Sassonia, dai duchi di Modena, dalla corte di Vienna, dal re di Francia Luigi XV. Bene accolta nell’Accademia nazionale di San Luca a Roma, Rosalba entrò inoltre a far parte dell’accademia reale parigina e godette della stima di Antoine Watteau. Il segreto dei suoi ritratti giace nello studio attento dei visi, colti con profondo realismo come nel caso di una anziana signora sui cui lineamenti dolci spicca un porro, umano difetto della pelle.
FOTO 2 – Rosalba Carriera, autoritratto con la sorella Giovanna
Assai rivelatrice è la serie degli autoritratti, conservati a Venezia al museo del settecento a Ca’ Rezzonico, oppure in collezioni varie, come l’autoritratto della collezione reale di Windsor (1740); altri sono esposti alla Pinacoteca di Dresda Alte Meister. In essi si legge la sua storia, dalla giovinezza (1709) alla vecchiaia (1746), dopo l’operazione alla cornea che le aggravò i problemi della vista fino alla cecità totale. Espertissima nella pittura al pastello, Rosalba Carriera stende rapidi tocchi di bianco sopra gli altri colori per ottenere straordinari effetti di luminosità che ben mettono in risalto le pose eleganti, i drappeggi degli abiti adorni di trine e perle, o anche il bell’incarnato di una popolana scelta a rappresentare l’Allegoria dell’Aria, palpitante di grazia e di sensualità. Il ritratto di Caterina Sagredo Barbarigo la mostra a capo lievemente inclinato, con un sorriso un po’ complice, il tricorno sulle ventitré e il manto blu annodato da un nastro rosso. Il pastello richiede grande abilità e sicurezza nell’esecuzione perché non lascia margine ai ritocchi, essendo impossibile ripassare più volte il colore sulla base già stesa. Il risultato di morbidezza vellutata e vaporosa fu particolarmente apprezzato nel Rococò. Rosalba Carriera scrisse un affascinante trattatello intitolato Maniere diverse per formare i colori nella Pittura che ripercorre i passaggi per ottenere la sua preziosa tavolozza e per applicarla.
L’aveva preceduta nell’arte del ritratto una antesignana non meno celebre, Sofonisba Anguissola (Cremona 1532 ca. – Palermo 1625), appartenente alla nobile famiglia piacentina degli Anguissola e ricordata come una delle prime esponenti femminili della pittura europea, contesa da regnanti e aristocratici.
FOTO 3 – via Sofonisba Anguissola – Foto di Paola Bortolani
Era la prima dei sette figli di Amilcare Anguissola e di Bianca Ponzoni, entrambi di origine patrizia. Anche quattro sue sorelle, Elena, Lucia, Europa e Anna Maria, divennero pittrici, mentre l’unico fratello, Asdrubale, si dedicò alla musica. Sappiamo che aspetto aveva Sofonisba grazie agli autoritratti: quello del 1554, conservato al Kunsthistoriches Museum di Vienna; “Autoritratto in miniatura”, Boston, Museum of Fine Arts; “Autoritratto al cavalletto”, 1556, Lancut, Muzeum Zamek e “Autoritratto alla spinetta”, oggi alle Gallerie di Capodimonte, Napoli. Si era formata alla scuola del pittore lombardo Bernardino Campi, che ne influenzò lo stile, da lei rivolto all’ambito prediletto della ritrattistica. Altri echi saranno quelli del bresciano Moretto e del bergamasco Moroni. Per Sofonisba il ritratto non fu mai solo l’immagine della persona, ma anche del suo ambiente, degli oggetti allusivi della personalità. Notevole soprattutto l’espressività di occhi e volti, sui quali si esercitò molto, come appare dai numerosi disegni che mettono in pratica la teoria leonardesca dei moti dell’animo, del riso e del pianto come canoni fino ad allora trascurati nella ritrattistica. Sofonisba, ben versata nelle lettere e nella musica, ebbe un ruolo di spicco nella vita artistica delle corti italiane e scambiò una fitta corrispondenza con i più famosi artisti coevi. Fu citata lusinghieramente nelle Vite di Giorgio Vasari grazie a Michelangelo Buonarroti, che ne aveva segnalato il talento dopo aver visto i disegni inviatigli dal padre della giovanissima artista. Fra questi c’era anche un “Fanciullo morso da un granchio”, nel quale la poco più che ventenne Sofonisba aveva colto l’espressione del dolore infantile con un tocco che piacque molto al genio fiorentino. Quella smorfia di dolore riapparirà nel “Ragazzo morso da un ramarro” di Caravaggio. Nel 1559 Sofonisba giunse alla corte di Filippo II di Spagna come dama di corte della regina Isabella e lì ricoprì il ruolo di ritrattista reale fino alla morte della sua protettrice (1568).
FOTO 4 – Sofonisba Anguissola, autoritratto alla spinetta
Nel 1573 sposò il nobile siciliano Fabrizio Moncada e si trasferì in Sicilia nel palazzo Moncada di Paternò. Nel 1578 il marito perì in mare al largo di Capri e Sofonisba decise di trasferirsi in Liguria. Durante il viaggio conobbe il nobile genovese Orazio Lomellini che sposò nel 1579. Per oltre trent’anni la pittrice visse con il marito a Genova proseguendo nell’opera di ritrattista per le famiglie aristocratiche della città e registrando l’influsso del genovese Luca Cambiaso. Tornata a Palermo con il marito nel 1615, continuò a dipingere malgrado un forte calo della vista, che tuttavia nel tempo divenne un impedimento impossibile da superare. La fama della sua arte era comunque già ben consolidata, tanto che il celebre Antoon van Dyck, succedutole come ritrattista ufficiale alla corte spagnola, si dichiarò suo ammiratore e volle incontrarla personalmente, nel 1624, a Palermo, presso la corte del viceré di Sicilia. In tale occasione egli ritrasse Sofonisba, che sarebbe morta l’anno successivo e sepolta a Palermo nella chiesa di San Giorgio dei Genovesi. Nonostante la lunga carriera artistica, Sofonisba non fu mai pagata in contanti, a differenza dei colleghi maschi, ma solo con doni o rendite, mentre sono documentate le ricompense che per lei ricevettero prima il padre Amilcare e poi il fratello Asdrubale. Destino di donna? L’emancipazione è indubbiamente servita a rendere giustizia “professionale” a coloro che operano nei settori artistici.
Può confermarlo la storia di Gae Aulenti (Palazzolo dello Stella, 4 dicembre 1927 – Milano, 31 ottobre 2012), architetta e designer, nata in provincia di Udine dal pugliese Aldo Aulenti e da Virginia Gioia, napoletana di origini calabresi.
FOTO 5 – Gae Aulenti
Si forma nella Milano degli anni cinquanta del Novecento, in un clima di ricerca storico-culturale mirata al recupero dei valori architettonici del passato e dell’esistente, che confluirà nel movimento Neoliberty, in reazione al razionalismo. Dal 1955 al 1965 Gae collabora alla redazione di Casabella-Continuità sotto la direzione di Ernesto Nathan Rogers. In ambito universitario dal 1960 al 1962 è assistente di Giuseppe Samonà presso la cattedra di Composizione Architettonica all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, e dal 1964 al 1969 di Ernesto Nathan Rogers presso la cattedra di Composizione Architettonica al Politecnico di Milano, avendo così modo di conoscere il giovane Renzo Piano.
Nel 1965 crea la celebre lampada da tavolo “Pipistrello” per Olivetti, che le commissiona poi la showroom di Buenos Aires. Si apre la strada verso la notorietà. Poco dopo Gianni Agnelli le affida la ristrutturazione del suo appartamento milanese in zona Brera ed è l’inizio di un’amicizia che durerà tutta la vita e sfocerà in numerosi progetti. Nel 1972 Gae partecipa all’esposizione “Italian: the new Domestic Landscape” organizzata da Emilio Ambasz al MoMa insieme ad altri designer e architetti emergenti, tra cui Marco Zanuso e Richard Sapper, Joe Colombo, Ettore Sottsass, Gaetano Pesce, Archizoom, Superstudio, Gruppo Strum e 9999. Da qui in avanti l’ascesa è scontata e comprende collaborazioni teatrali con Luca Ronconi, la direzione artistica della Fontana Arte, legami professionali con i maggiori nomi del design di oggetti d’arredo. Nel privato, termina la lunga relazione con Carlo Ripa di Meana per prendere le distanze dal “craxismo deleterio”. Tra le sue realizzazioni architettoniche più rilevanti si segnalano, a Parigi, la riqualificazione della Gare d’Orsay adibita a museo e l’allestimento del Museo Nazionale d’Arte moderna al Centre Pompidou. A Tokyo Aulenti realizza l’Istituto Italiano di Cultura, cui seguiranno nel 1985/2004 il Museo nazionale d’arte catalana a Barcellona, nel 1985/86 la ristrutturazione di Palazzo Grassi a Venezia. Siviglia, Firenze, San Francisco, Gerusalemme e innumerevoli città italiane si avvalgono del suo operato e Milano le affida il riassetto urbano di Piazzale Cadorna.
FOTO 6 – piazza Gae Aulenti – Foto di Linda Zennaro
Onorificenze e riconoscimenti hanno costellato la carriera di Gae Aulenti, alla quale il 7 dicembre 2012 Milano ha intitolato la nuova grande piazza circolare situata al centro del complesso della Unicredit Tower che domina la stazione Garibaldi.
Le documentazioni relative alle figure di spicco della nostra epoca sono talmente ricche da consentire una conoscenza fin troppo dettagliata della loro vita, aperta passo a passo all’indagine contemporanea. Come un pozzo di San Patrizio non si colmano mai. E più si avvicinano al presente più aumentano di volume. Delle personalità attuali si sa che cosa mangiano e bevono, chi frequentano, com’è la loro casa, tutti aspetti che il passare degli anni, e ancor più dei secoli, metterà poi nella prospettiva della lontananza. Penserà la storia a vagliare il materiale, trattenendo soltanto i dati più rilevanti.
FOTO 7 – Lina Bo Bardi
Così abbiamo una miriade di notizie su Lina Bo Bardi, all’anagrafe Achillina Bo (Roma, 5 dicembre 1914 – San Paolo, 20 marzo 1992), architetta italiana naturalizzata brasiliana nel 1951. La sua “Casa di Vetro”, nel nuovo quartiere di Morumbi a San Paolo del Brasile, ospita, infatti, l’archivio di “Dona Lina” che rivela su di lei una dovizia di particolari. Laureatasi in Architettura a Roma, iniziò a lavorare per Domus con Gio Ponti a Milano e aprì poi un suo studio, distrutto nei bombardamenti del 1943. A seguito di ciò divenne un’attivista del Partito Comunista e documentò la distruzione bellica in Italia, partecipando al “Congresso Nazionale per la Ricostruzione” e fondando con Bruno Zevi il settimanale La Cultura della Vita. Dopo la guerra sposò Pietro Maria Bardi con il quale nel 1946 si trasferì in Brasile, dove sviluppò appieno l’estro creativo; nel 1951 completò il suo primo edificio come architetta, la “Casa di Vetro”. Allo stesso anno risale il progetto della Bardi’s Bowl Chair.
FOTO 8 – piazza Lina Bo Bardi – Foto di Rosa Enini
A Salvador de Bahia Lina scopre che non hanno senso opposti dialettici come modernità/ tradizione, oriente/occidente. Qui incontra l’Africa, l’anima nera del continente iberoamericano, e inizia a lavorare sull’idea ibrida di “arte popolare”; fino a dichiarare che “il tempo lineare è un’invenzione dell’Occidente, il tempo non è lineare, è un meraviglioso accavallarsi per cui, in qualsiasi istante, è possibile selezionare punti e inventare soluzioni, senza inizio né fine”. Dopo il golpe militare del 1964 torna a lavorare a San Paolo impegnandosi in una serie di mostre e iniziative intese come azioni politico-ideologiche sempre al limite della denuncia sociale. Terminata la dittatura nel 1985, Lina porta a compimento la realizzazione forse più straordinaria della sua carriera, il SESC Pompéia (1977-1986), industria dismessa trasformata in luogo di cultura, socialità e sport, perché, come ebbe a dire, “Non dimentico mai il surrealismo dei brasiliani, la loro inventiva, il loro piacere nello stare insieme, ballare, cantare. Per questo ho dedicato il mio lavoro al Pompéia ai giovani, ai bambini e agli anziani: tutti insieme”. Questa figura poliedrica, attiva come curatrice, stilista e scenografa, non ha mai caratterizzato i suoi allestimenti per magnificenza o per predominanza tecnologica, ma per la forte volontà di abbattere i confini tra arte e vita, artista e pubblico.