Circondato da oliveti, boschi di castagno, roverelle, aceri, carpini e pioppi, Gerano occupa la zona meridionale del complesso montuoso dei Ruffi. Il centro abitato si inerpica in un dedalo di viuzze, impreziosite da originali dettagli architettonici e archi a volta: da porta Maggiore, porta Amato e porta Cancello si risale verso la sommità del vecchio castrum, dove sul finire del primo millennio vennero erette la chiesa di Santa Maria Assunta e la torre campanaria.
La popolazione di Gerano (1.250 abitanti), in lieve crescita nell’ultimo decennio grazie al saldo migratorio positivo, conserva un perfetto equilibrio tra i due sessi (49,9% F - 50,1% M). Ben diversa, invece, la sua rappresentanza politica: la giunta è interamente maschile e solo tre donne su dodici sono presenti in Consiglio comunale. Più equa la scelta del sindaco di Canterano, che ha voluto in giunta due donne su quattro, ma nettamente impari il voto popolare, che ha eletto soltanto uomini.Il paese, sorto su uno sperone di tufo a 600 metri di quota, conta meno di 400 anime, tradizionalmente dedite a un’agricoltura non facile, fatta di viti, olive, nocciole, visciole e castagni, e praticata sulle terrazze affacciate lungo la vallata della Cona, affluente dell’Aniene. Testimonianze archeologiche raccontano di un passato preistorico, quando i primi canteranesi, armati di asce di bronzo, eressero a scopo difensivo le mura poligonali di cui restano tracce nei pressi del cimitero. Più tardi gli Equi tentarono di resistere a Roma, ma furono vinti alla fine del IV secolo a.C. Fu l’abbazia di Subiaco a controllare l’area nel medioevo: il susseguirsi di ruderi che sovrastano gli attuali centri abitati, lascia ipotizzare un preciso sistema di fortificazioni nato sotto l’impulso sublacense per la difesa e il mantenimento del territorio.
Quando si sale a Rocca Canterano, a 750 metri di quota, le donne diventano protagoniste delle feste popolari, ma non c’è da rallegrarsi: da tali ricorrenze emerge una considerazione tutt’altro che edificante per il genere femminile. In agosto c’è la sagra dei cecamariti, pasta tipica di farina di grano e granturco condita con sugo di pomodoro, aglio e peperoncino. Si narra che il piatto, gustoso e sbrigativo, fornisse un alibi alle mogli adultere: facile e rapido da preparare, serviva a raggirare (accecare) i mariti, facendo loro credere che le consorti avessero passato l’intera giornata ai fornelli. Come se non bastasse, a novembre, associata alla sagra della castagna, ricorre la festa del cornuto. Un corteo di uomini con copricapo munito di corna, porta in trono per il paese il cornuto dell’anno, mentre un poeta cantore declama strofe a cavallo di una somarella e i giovani adornano di nastri colorati e corna le porte dei mariti più chiacchierati, future riserve per l’anno a venire.
di Maria Pia Ercolini
Il sapore popolare della toponomastica
Il nostro viaggio prosegue verso i Monti Ruffi quando eccoci davanti a un altro triangolo delle Bermuda dove tendono a scomparire i nomi delle donne: Canterano, Rocca Canterano e Gerano. Le uniche eccezioni sono rappresentate dalle consuete vie intitolate a madonne o sante, come la giovane martire Anatolia, venerata a Gerano e in tutta la valle del Giovenzano sin dal VI secolo. La “montagna delle gru”, Gerano, città dell’Infiorata più antica d’Italia, ha conservato toponimi dal sapore popolare (vicolo del Trapasso e via della Scivolata) e nello stradario non mancano santa Maria, sant’Anna e, appunto, sant’Anatolia protettrice della città. Fuori dall’abitato cittadino, invece, c’è una località tristemente nota come “macchia della femmina morta”, uno di quei nomi resi ancor più crudi dalla genericità, dall’anonimato. Chi era quella donna, verrebbe da chiedersi, e perché è morta? Facendo alcune ricerche su testi di storia locale, si scopre che aveva un nome, Domenica Censi in Benigni, trucidata a metà Ottocento da una delle tante bande di briganti che infestavano l’Appennino Laziale. Assistendo alle loro razzie e al rapimento di due contadini nelle campagne intorno a Bellegra, si mise a urlare in cerca di aiuto, ma venne subito catturata e brutalmente uccisa nel bosco delle Mandrelle di Gerano, che ne celebrò i funerali nella chiesa di S. Lorenzo.
Sembra sia più facile ricordare le cose brutte piuttosto che quelle belle e probabilmente sarà per questa tendenza comune che a Gerano manca, ad esempio, un’intitolazione a Maria Francesca Nicolai. Secondo le sue ultime e generose volontà, quasi tutti i suoi beni andarono alla Confraternita dell’Annunziata per istituire un fondo e destinare annualmente una dote, una “cedola di nozze di scudi dieci”, a una ragazza che avesse meno di quindici anni e provenisse da una famiglia in difficoltà economiche. Ne beneficiarono moltissime ragazze, a partire dal 1804 e fino alla metà del XX secolo, quando ormai i dieci scudi, convertiti in lire, erano diventati una cifra simbolica. E per dare maggiore completezza alla storia di queste zone, sarebbe altrettanto importante ricostruire le vicende e dare visibilità a tutte quelle donne che, per diversi secoli, contribuirono a mandare avanti l’economia locale lavorando nelle canepine, terreni ricchi di acqua adatti alla lavorazione della canapa, che talvolta riuscirono ad acquistare autonomamente.
Anche nella vicina Canterano, dove si intrecciano stradine che individuano degli elementi urbanistici (via della fortezza, sotto le mura, del fontanile) e una via Madonna degli Angeli, sono assenti i nomi delle donne. Incuriosisce molto una contrada detta “La Rapina” che richiama alla mente l’episodio leggendario del ratto delle Canteranesi e che lega la città alla vicina Rocca Canterano. Quest’ultima nacque nell’XI secolo come presidio militare voluto dall’abate Giovanni V di Subiaco per controllare le valli circostanti e contrastare il nemico Landone, tiranno di Bellegra e Cerreto. Col passare degli anni, la rocca perse il suo ruolo e divenne un abitato stabile, così si narra che le truppe fecero un’incursione a Canterano per trovare delle spose e rapirono alcune donne. A riappacificare i due paesi ed evitare rivendicazioni fu sufficiente l’allestimento di un pranzo della pace, divenuto in seguito una ricorrenza annuale che ha resistito fino ai nostri giorni intrecciandosi con i banchetti dell’8 maggio in occasione della festa patronale di san Michele. Il lieto fine della vicenda mi spinge a pensare che si sia trattato di una fuitina di massa, come qualcuno ha ipotizzato, più che di un ratto delle Sabine in chiave medioevale, una lettura che preferisco perché prevede l’esistenza di una volontà anche nelle protagoniste femminili di questo mito, non ridotte a semplice strumento o accessorio narrativo. In tali contesti appare ancor più evidente il potere evocativo di un toponimo che può non solo costruire e rafforzare un’identità, ma anche invitare a una riflessione sui modelli e gli stereotipi tramandati per secoli, spesso senza una riflessione critica.
di Saveria Rito