Elsa Schiaparelli
Gaia (o Caia) Afrania, vissuta nel I sec. a.C., era originaria della gens Afrania, una famiglia plebea romana. Nata nel periodo terribile delle lotte intestine che precedettero la morte di Giulio Cesare e l’instaurarsi del principato di Ottaviano, dovette essere un’abilissima avvocatessa. Così abile, raccontò poi Ulpiano nel III secolo dopo Cristo, che per fermarla fu emanato un editto in cui si vietava alle donne di esercitare l’avvocatura. Il tribunale divenne per Afrania uno spazio in cui recarsi non solo per difendere se stessa, ma per esporre le sue idee e dimostrare le buone conoscenze legali e l’abilità retorica. Afrania fu fermata in quanto donna; a differenza delle matrone aristocratiche, non difendeva i propri interessi in tribunale per il tramite di un avvocato, ma si presentava personalmente scatenando l'indignazione di storici come Valerio Massimo, che la definì un "mostro".
Lo sguardo malevolo dello storico romano la descrive “sempre pronta ad attaccar briga, […] impudentissima. E stancando continuamente i tribunali con i suoi latrati, insoliti per il Foro, divenne un esempio notissimo dell’intrigo femminile, al punto che alla donna di cattivi costumi si usa dare l’appellativo di Caia Afrania”.
Di lei si conoscono poche notizie biografiche, rimane ignota la data di nascita, si ricorda solo quella della morte, il 49 a.C. perché, racconta sempre Valerio Massimo, “di un simile mostro bisogna far sapere ai posteri più quando morì, che quando nacque”.
di Nadia Boaretto
Luisa Mattioli Peroni
In un tempo diverso dal nostro alle donne fu permesso di entrare in guerra, salvo poi esser ricacciate indietro e sospinte di nuovo verso fornelli e figli. Luisa (1918–1993) vestì la divisa della “partigiana universitaria clandestina” ed allo scadere di quel tempo ingaggiò un’altra guerra al femminile con la fermezza e la decisione che le erano proprie: nelle istituzioni, come avvocato e Vice Pretore Onorario nella Pretura di Milano (fu sua la prima sentenza emessa al femminile), nel P.S.I., dal 1962, fino a giungere alla presidenza dell’UDI. Tra poche altre capì quanto fosse stretto e ambiguo lo spazio assegnato dalla società alle donne ed argomentava in tal senso il suo pensiero: “Eravamo preparate,..brave, ci sosteneva la passione del rinnovamento... Accettare le regole maschili del gruppo era obbligatorio, una sorta di promozione. I nostri compagni ci valutavano con il loro metro di qualità e con cavalleria ma certe “debolezze” femminili non erano ammesse. Senza rendercene conto, stavamo mutando la nostra identità: ...... si buttavano via senza pensarci doti femminili che apparivano solamente ingombranti. Ma l'onda lunga del femminismo ci raggiunse, e mostrando quanto fossimo divise, tra famiglia e lavoro, tra identità sessuale e identità civile. Il confronto con le figlie, negli anni Settanta, ci rivelò brutalmente a quante autocensure, a quanti edificanti sacrifici ci fossimo sottoposte per ottenere credito, per conquistare un'attendibilità sempre negata.” Il suo impegno fu onorato nel giugno 1985 con l’insegna di Ufficiale all'ordine al merito della Repubblica italiana pur prendendo atto che l'emancipazione si era troppo distaccata da quella peculiarità, non mutuabile, dell’essere donna .
di Angela Dorascenzi
Olympe de Gouges
Marie Gouze nacque nel 1748 vicino a Tolosa. Si sposò appena sedicenne per evadere da una condizione famigliare che le imponeva troppe restrizioni, ma rimase vedova dopo solo un anno. Rifiuterà di risposarsi, considerando il matrimonio “la tomba della fiducia e dell’amore”, ma questo non le impedirà di vivere intensi rapporti d’amore come quello con Jacques Biétrix con il quale si trasferirà a Parigi, già nel pieno dei disordini civili che porteranno alla Rivoluzione. Lì divenne Olympe de Gouges dando il via alla sua carriera di scrittrice: autrice di romanzi e di numerose pièce teatrali, firmò lettere, pamphlet e appelli che stampava a sue spese e attaccava sui muri di Parigi.
Rivoluzionaria e poi repubblicana, Olympe viveva nella convinzione che “la donna nasce libera e ha gli stessi diritti dell’uomo”, come scrisse nella sua "Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina" pubblicata nel 1791 (due anni dopo la più famosa "Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino"), in cui, anticipando le rivendicazioni femministe, auspicava una società senza patriarcato. Compreso in fretta che le conquiste della rivoluzione non avvantaggiavano affatto le donne e che anche con il nuovo regime la loro libertà veniva calpestata, ritornò ai suoi infuocati discorsi libertari, attaccando il regime di Robespierre, il quale non esitò a condannarla a morte quando lei si schierò dalla parte di Luigi XVI.
Olympe salì sul patibolo il 3 novembre 1793, con l’accusa di “aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso ed essersi immischiata nelle cose della Repubblica”.
La storia non ha reso giustizia a questa grande donna, ghigliottinata per aver combattuto in favore dei diritti delle donne e dei neri, per essersi battuta per la liberazione degli schiavi, per il divorzio, per i diritti degli orfani e delle madri nubili. Caduta nell’oblio della memoria per troppo tempo, ancora oggi attende che le sue ceneri vengano trasferite al Pantheon di Parigi, dove riposano gli altri personaggi che hanno reso grande la Francia e la storia dell’umanità.
di Irene Fellin