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Massimilla Baldo Ceolin
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Le balie della Valdinievole
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Giuseppa Eleonora Barbapiccola
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Felicia Bartolotta Impastato
Massimilla Baldo Ceolin
(Legnago, 1924 – Padova, 2011)
La scomparsa ancora recente della scienziata non consente di avere intitolazioni di strade in suo nome, assegnate in genere a 10 anni dalla morte. L’Università di Padova, la stessa in cui insegnò Galileo Galilei, ha voluto però dedicarle la Sala Riunioni della Facoltà, un tempo lo studio in cui Massimilla Baldo Ceolin lavorava.
Il meraviglioso mondo di Milla
di Virginia Mariani
Scienziata, fisica e animatrice di incontri e workshop, è stata sensibile al mondo della cultura nella sua totalità: dunque una donna poliedrica che si è dedicata a varie attività, dalla letteratura alla poesia, dalla musica alle arti figurative, facendo parte di numerose Accademie e coniugando questo al suo impegno civile.
Massimilla Baldo Ceolin, o Milla come la chiamavano gli amici e le amiche, è stata la prima donna a ricoprire nel 1963 la cattedra prima di Fisica Generale e poi di Fisica Superiore nell’Università di Padova che è pure la stessa Università nella quale si era laureata nel 1952.
Determinata e autorevole negli ambienti universitari sia italiani che internazionali, inizialmente si è rivolta alla comprensione delle “particelle strane” affermando l’idea dell’esperimento e il calcolo di fattibilità che la condussero all’interpretazione del primo evento di antilambda rinvenuto nel 1958 nelle lastre fotografiche in mostra al Bevatron di Berkley.
Ciò che l’ha appassionata da subito e a cui ha dedicato tutta la vita è stata la fisica sperimentale delle alte energie e in particolare le “interazioni deboli”, studi a cui si era in precedenza dedicato anche Enrico Fermi; questi e scienziati come Conversi, Occhialini e Pontecorvo, per i quali la “globalità” del pensare fisico e la creatività nel disegnare soluzioni e apparati sperimentali si univano a una grande sensibilità culturale e umanità, sono stati i suoi riferimenti fondamentali.
Dopo l’iniziale studio delle proprietà dei mesoni K (o kaoni) nei raggi cosmici, ha sviluppato le sue ricerche sui kaoni, sui neutrini e sulla stabilità della materia agli acceleratori del CERN di Ginevra, nonché a quelli dell’ILL di Grenoble, di Berkley e di Argonne negli USA. Ricerche che hanno contribuito di certo nel 2012 a confermare l’esistenza della “particella di Dio”.
Chissà se suo padre, piccolo proprietario di un’officina meccanica, avrebbe potuto immaginare che sua figlia sarebbe diventata una scienziata di successo e pluripremiata: “Premio Feltrinelli” dell’Accademia dei Lincei (1976), Medaglia d’Oro ai “Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte” (1980), Medaglia d’Oro ai “Benemeriti della Scienza e Cultura” (1993), soltanto per citarne qualcuno.
Nel febbraio 2016, per ricordarla, l’Università degli Studi di Padova ha bandito un concorso allo scopo di assegnare un premio di studio per attività di ricerca, riservato a donne che lavorano nell’Ateneo e la cui attività si contraddistingue per eccellenza e innovazione. Un premio per ricordare una grande personalità come quella di Milla, dunque, che si è formata grazie alla ricerca e alla sperimentazione costante in quell’universo della conoscenza il più delle volte declinato al maschile ma in continua crescita ed espansione. Grazie anche a donne come lei.
Fonti:
http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/milla-baldo-ceolin-signora-dei-neutrini
http://www.sif.it/attivita/saggiatore/ricordo/baldoceolin
http://www.scienzainrete.it/italia150/massimilla-baldo-ceolin
http://www.dfa.unipd.it/index.php?id=1417
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Le balie della Valdinievole
di Laura Candiani
Riferimenti toponomastici: via delle Balie si trova a Brindisi e aTricase (LE).
Con il riordino e l’apertura al pubblico degli Archivi storici della provincia di Pistoia, nel 1995, è riemersa una realtà a lungo tempo dimenticata, quella delle balie che dalla Valdinievole emigravano per vendere l’unica cosa preziosa che possedevano: il loro latte. Cominciarono studi, ricerche, interviste alle superstiti e da qui numerose pubblicazioni e una mostra che ha percorso buona parte della Toscana.
Ma perché c’è stato questo oblio? Perché il baliatico è una questione esclusivamente femminile, quindi “marginale” nell’interesse degli storici (non a caso le studiose del fenomeno sono praticamente tutte donne); perché è un lavoro “sommerso”, talvolta ignorato dagli stessi discendenti delle protagoniste; perché le donne ne parlavano malvolentieri trattandosi di un evidente segno di miseria, ma anche una fase di doloroso distacco dal proprio figlio neonato; perché esistono poche tracce e documenti, relegati nei cassetti delle case e spesso dimenticati; infine perché era un mestiere anomalo, di breve durata, legato alla quantità e qualità del latte prodotto. Tuttavia, una volta iniziata la ricerca, i documenti sono riemersi: lettere, passaporti, permessi di espatrio, fogli di rimpatrio, fotografie, autorizzazioni del marito (che doveva dare il suo assenso); sono riapparsi oggetti come grembiuli, cuffie, colletti ricamati, vestaglie, scialli, piccoli doni come spille e orecchini, spesso ornati con il corallo porta fortuna. Il fenomeno si può circoscrivere in un periodo abbastanza preciso: dalla seconda metà dell’Ottocento (con scarsa documentazione) agli anni Trenta del XX secolo, in qualche caso anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, presso famiglie italiane nobili o particolarmente agiate. I luoghi di espatrio erano essenzialmente la Francia del Sud e la Corsica, talvolta anche la Tunisia, l’Algeria, la Svizzera, la Germania (ma allora si trattava più di domestiche, cuoche, cameriere, governanti, guardarobiere, bambinaie). Le donne che partivano erano casalinghe e lasciavano a casa un bambino appena nato che veniva quindi allattato da una vicina o una conoscente; erano ovviamente condizionate dal bisogno di dare un contributo economico alla famiglia, per un periodo relativamente breve (da alcuni mesi a un anno e mezzo), anche se in qualche caso rimanevano poi a servizio come balie “asciutte”. Certamente le donne dovevano affrontare prima il grande sacrificio di separarsi dai figli e dal neonato, poi il viaggio verso un luogo sconosciuto dove avrebbero trovato una nuova lingua e un ambiente ben diverso dal proprio, considerando che spesso erano analfabete, semplici contadine mai uscite dal paese.
Tuttavia l’esperienza poteva rivelarsi utile da vari punti di vista: intanto le balie erano ben nutrite e ben vestite, si occupavano esclusivamente del bambino loro affidato, mangiavano a tavola con i padroni, in estate si trasferivano in bellissime luoghi di villeggiatura, ricevevano un regolare salario dopo un regolare contratto e una visita medica, potevano avere dei doni e vivevano una esperienza di emancipazione e di autonomia economica, instauravano rapporti anche belli e duraturi con i loro “figli di latte”, frequentavano ambienti che mai più nella vita avrebbero conosciuto. Facendo qualche esempio, troviamo fra le balie di Ponte Buggianese Maria Annunziata Lenzi che lavorava a Parigi presso la famiglia di un ministro, Candida Camerini a Tunisi in casa del console, Rita Carrara dai marchesi Bourbon di Petrella, Clelia Martini dal console a Cannes, Damara Neri assunta dalla contessa Maria Sole di Campello, sorella di Gianni Agnelli, per allattare la piccola Argenta. Perché le balie partivano proprio dalla Valdinievole, provincia di Lucca fino al 1928? Il fenomeno del baliatico riguarda varie regioni e realtà geografiche italiane, ma in quest’area specifica alcuni comuni erano relativamente giovani (Ponte Buggianese nasce nel 1883), mancavano le industrie, si viveva di agricoltura e di quello che offriva il limitrofo Padule di Fucecchio (caccia, pesca, erbe palustri): il latte appariva una risorsa da sfruttare, preferibile a una vera e propria emigrazione familiare. Scriveva da Chicago un marito: “Vai volentieri a Marsiglia e cerca con buon giudizio di avanzare più moneta che tu puoi (…) perché anche quaggiù l’America non è quella che si crede di costà”. E’ importante anche il fatto che le donne locali avevano fama di essere pulite e attente all’igiene, diventavano madri in età giovanile, molte sapevano leggere e scrivere e parlavano un buon italiano, dato essenziale per famiglie altolocate che volevano insegnare la lingua ai piccoli pur vivendo all’estero. Come venivano assunte queste donne? Esistevano sul posto delle “procaccine” che curavano il rapporto domanda-offerta, verificavano lo stato di salute delle future partorienti e le prenotavano per i propri clienti; dopo il parto veniva controllata l’abbondanza di latte, si firmava il contratto e si partiva verso l’ignoto, di solito con un accompagnatore di fiducia, con il treno o con la nave. Ma chi allattava i figli delle balie? Delle conoscenti, delle vicine, delle parenti; è tuttavia da notare che la mortalità infantile dei figli delle balie era più alta della norma perché erano privati del latte materno e affidati a donne non sempre sane o attente alla cura e all’igiene propria e dei piccoli. Va ricordato che per tutto l’Ottocento e oltre, in assenza di latte artificiale, il baliatico al proprio domicilio non era affatto raro e si praticava pure negli ospedali. In Toscana due casi emblematici sono stati l’Ospedale degli Innocenti di Firenze e l’Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena dove molte donne - di solito madri nubili o vedove o madri a cui era morto il figlio neonato, legate con regolare contratto - allattavano i trovatelli (fino a 5 ognuna), per un periodo che poteva arrivare fino a 18 mesi; dopo iniziava lo svezzamento per cui erano impiegate le balie “asciutte”.
Fonti:
Laura Candiani, Dall’emigrazione all’immigrazione femminile dal XIX al XXI secolo. Il caso delle balie di Ponte Buggianese, pubblicazione in proprio per uso didattico interno, progetto PIA a. s. 2005-6 presso Istituto Tecnico Commerciale “F. Forti” - Monsummano Terme
Adriana Dadà, Il lavoro di balia in Valdinievole, in Il lavoro delle donne - Attività femminili in Valdinievole tra Ottocento e Novecento, a cura dell’Istituto Storico Lucchese-Sezione “Storia e Storie al Femminile”, Buggiano(PT), Vannini, 2004
Adriana Dadà, Partire per un figlio altrui: racconti delle balie nel Novecento, in Altrove. Viaggi di donne dall’antichità al Novecento, Roma, Viella, 1999
Adriana Dadà (a cura di), Il lavoro di balia. Memoria e storia dell’emigrazione femminile da Ponte Buggianese nel ‘900, Pisa, Pacini editore , 1999
Adriana Dadà (a cura di), Balie da latte. Istituzioni assistenziali e Privati in Toscana tra XVII e XX secolo, Firenze, Morgana edizioni, 2002
Nicoletta Franchi, Donne emigranti: il caso di Ponte Buggianese, in ”Farestoria” , 28, 1996
Rossano Pazzagli- Alberto Maria Onori (a cura di), Il passato e il presente. Itinerari didattici negli archivi storici della Valdinievole, Pisa, Pacini editore,1995
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Giuseppa Eleonora Barbapiccola
Giuseppa Eleonora Barbapiccola è stata una filosofa e traduttrice italiana, esponente intellettuale dell'illuminismo italiano. Era nipote del teologo predicatore domenicano Tommaso Alfani, che fondò l'Accademia degli Arcadi nel 1690 per promuovere lo studio della matematica. Frequentatrice del circolo intellettuale del filosofo Giambattista Vico, fu amica di sua figlia Luisa, con la quale condivise la passione della poesia. Coltivò inoltre il disegno e le scienze. Nell’Accademia degli Arcadi fu accolta nel 1728, unico e non piccolo riconoscimento ufficiale riconosciutole in vita. La fama di Giuseppa Eleonora, nota come la bella cartesiana di Napoli, è legata alla traduzione che fece dei Principia Philosophiae di Cartesio, che diede alle stampe nel 1722. La traduzione italiana di Barbapiccola non fu soltanto una traduzione di alto livello, bensì un manifesto dei diritti delle donne all'educazione. Non a caso la filosofa fece incidere nel volume anche un suo ritratto emblematico: in esso fissa negli occhi gli eventuali osservatori tenendo nella mano destra un libro; sullo sfondo compare una scaffalatura riccamente intagliata e ingombra di volumi, secondo le regole iconografiche del tempo.
La scelta di tradurre i Principia era stata determinata dalla volontà di condividere l’opera soprattutto con le donne, alle quali si ripromise di impartire il metodo chiaro e coerente della filosofia cartesiana. Le donne, secondo Barbapiccola, sono più adatte alla filosofia degli uomini, come lo stesso Cartesio affermava nella sua famosa lettera in cui dedicava i Principia alla principessa Elisabetta di Boemia, con cui il filosofo trattenne un lungo carteggio. La Barbapiccola sosteneva che la debolezza intellettuale delle donne era dovuta non certo alla natura, ma a una cattiva educazione: ella polemizzava infatti contro il pregiudizio sulla presunta inferiorità della mente femminile e denunciava il tipo di educazione che veniva impartito alle donne, tenute lontane dai testi originali, perché era loro negato l’insegnamento del greco e del latino, e dall’insegnamento delle materie scientifiche, storiche e giuridiche. Per rafforzare la sua tesi, in questa bella Introduzione, passa in rassegna tutte le donne che ebbero l’opportunità di segnalarsi nella storia, a partire dall’antica Grecia, terra della poetessa Saffo ma anche della filosofa Ipazia, per arrivare a Vittoria Colonna e alle non poche donne accolte insieme a lei nell’Accademia dell’Arcadia: Angiola Cimmino, Aurora Sanseverino,Laura Capuano, Margherita Caracciolo. Dopo aver passato in rassegna queste donne famose, afferma: “Dall'esempio di queste chiare Donne io fortemente animata, dandomi a credere di poter vincere un giorno il debole del mio sesso, che fa tutto lo studio in saper giuocare, e in parlar bene degli abiti alla moda e de' nastri, difetto a cui non già la natura, ma la cattiva educazione contribuisce, mi posi a coltivar prima le Lingue, e poi, quanto l’abilità ha permesso, le Scienze [...] Fra queste ultime io studiai la Filosofia perché la sua parte morale ci rende civili, la metafisica perché ci illumina, e la fisica perché ci informa della bella e stupefacente architettura di questo grande palazzo del mondo che Dio ci ha dato come casa. Io sentì dire che la filosofia cartesiana era fondata su solido ragionamento ed esperienze certe, che procedeva con un metodo chiaro facendo derivare una cosa dalle altre [...]. Per queste ragioni, io fui più incline a questa filosofia che a ogni altra» [Barbapiccola, 1722, p. 8]. (Dall’Introduzione ai Principia)
La Barbapiccola, quindi, afferma di aver tratto dall’esempio delle donne illustri, nominate nei passi precedenti della sua Introduzione, non solo la consapevolezza e la speranza che le donne possano liberarsi dalla loro condizione di “minorità” dovuta alla cattiva educazione a cui erano costrette, ma anche l’entusiasmo e la voglia di dedicarsi a discipline fino ad allora riservate unicamente agli uomini, dalle quali le donne erano costantemente allontanate in quanto l’opinione comune riteneva che l’intelletto femminile fosse strutturalmente inadeguato a pensare secondo i principi della Ragione. Pertanto la Barbapiccola dimostra, attraverso l’esempio sia di donne famose sia della sua vicenda personale, che la donna non è in grado solamente di badare alla casa e di occuparsi dei figli, ma può perfettamente dedicarsi a materie che richiedono un grande sforzo intellettuale e apportarvi un illustre contributo, esattamente allo stesso modo di come possono farlo gli uomini.
Di Barbapiccola ci è giunto anche uno scambio di sonetti con Luisa Vico, figlia di Giambattista, contenuto nel libro di Vico Componimenti in lode del padre Michelangelo da Reggio di Lombardia. A lei fu anche dedicato un sonetto dal poeta salernitano Gherardo De Angelis in cui il poeta esagerò sul "tanto splendore" che ella avrebbe aggiunto a Cartesio, ma, paragonandola alla greca Aspasia moglie di Pericle, intuì bene il motivo espresso dalla stessa Barbapiccola di volere vincere il pregiudizio sulla vanità e superficialità dell’intelligenza femminile.
Fonti:
Manuela Sanna, Un' amicizia alla luce del cartesianesimo. Giuseppa Eleonora Barbapiccola e Luisa Vico, in Donne filosofia e cultura nel Seicento, CNR, Roma 1999.
I principi della filosofia di Renato Des Cartes. Tradotti dal Francese col confronto del Latino in cui l' Autore gli scrisse da Giuseppa Eleonora Barbapiccola , tra gli Arcadi Mirista, Torino 1722.
G. De Martino M. Bruzzesi, Le Filosofe, Liguori
Decartes, Le passioni dell’anima, Lettere sulla morale, Laterza, Bari 1966
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Felicia Bartolotta Impastato
(Cinisi, (PA), 1916 - 2004)
Felicia Bartolotta Impastato nacque a Cinisi, in provincia di Palermo, il 24 maggio1916
La famiglia in cui nacque era piccolo-borghese, il padre impiegato e la madre casalinga.
Nel 1947 si sposò con Luigi Impastato che faceva parte di un clan locale mafioso e addirittura un cognato era il capomafia di Cinisi.
Il suo non fu un matrimonio felice, lei stessa dichiarava che la sua vita coniugale era un inferno e ripeteva continuamente al marito che non avrebbe mai accettato che sotto il suo stesso tetto si fosse nascosto qualche latitante.
Appena il figlio Peppino crebbe e iniziò la sua lotta contro la mafia, la vita di Felicia diventò un tormento nel tentativo di difenderlo, sia dal padre che lo aveva cacciato di casa, sia da quella società intrisa di mafia in cui viveva.
Visse ogni giorno con la paura che potessero uccidere Peppino, cosa che purtroppo avvenne il 9 maggio 1978.
Piccola, minuta, gonfia di dolore e smarrita, decise di costituirsi parte civile. A Giovanni, il figlio che le era rimasto, diceva “Tu non devi parlare. Fai parlare me”, nel disperato tentativo di proteggerlo. E Felicia iniziò a parlare, con la gente, con i magistrati, con i giornalisti: aprì la sua casa a tutti quelli che volevano conoscere la storia di Peppino Impastato, una storia di ribellione alla mafia e di sete di giustizia; una storia che lei raccontava ogni giorno, come ha dichiarato la nipote Luisa Impastato, forse per tentare di esorcizzare il dolore, per ricordarne la memoria sia agli estranei che ai familiari.
Felicia ha sempre ripetuto che per il figlio ucciso voleva giustizia, non vendetta, un figlio adorato che sin da piccolo aveva difeso dalle grinfie del padre e dello zio che volevano portarlo con loro nella cosca malavitosa.
A questa madre non è restato neanche un corpo su cui piangere: Peppino fu letteralmente sbriciolato da una carica di tritolo nel vile tentativo di farlo passare per un terrorista.
Tra i messaggi scritti dalla gente il giorno in cui questa piccola donna morì, il 7 dicembre 2004, ci piace ricordare: “Ciao signora Felicia, che sei andata al di là degli alberi per pulirlo dal fango, per salvare il suo nome. A noi ora, a noi il compito di cantare la storia di Peppino ma anche della donna che per oltre vent’anni ha lottato per lui e con lui per tutti noi”.
“La forza di una mamma che ha saputo combattere con le armi della giustizia senza cadere nella stupida “vendetta mafiosa”; è questa la grande lezione che ci ha trasmesso questa meravigliosa donna siciliana.
Fonti:
http://www.scuola.rai.it/articoli/le-idee-che-restano-di-felicia-impastato/15155/default.aspx
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/felicia-bartolotta-impastato/
http://livesicilia.it/2009/05/09/lo-scoop-di-mario-francesemio-figlio-e-stato-assassinato_4976/
http://www.pourfemme.it/articolo/felicia-bartolotta-impastato-ovvero-cosa-vuol-dire-essere-la-mamma-di-un-eroe-dell-antimafia/40975/
Guido Orlando e Salvo Vitale (a cura di), Felicia (tributo alla madre di Peppino Impastato), Navarra Editore, Palermo, 2010
Anna Puglisi e Umberto Santino (a cura di), Cara Felicia, Centro Siciliano di Documentazione G. Impastato, Palermo, 2005
Ester Rizzo, Donne per le Donne: Felicia Bartolotta Impastato, “La Vedetta” Febbraio 2015
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Angela Basarocco
Possiamo definirla un'antesignana di "Medici senza Frontiere".
Nata il 15 novembre del 1914, a ventuno anni Angela diventò Suor Cecilia e si trasferì a Niscemi per lavorare nell'ospedale locale: lì resterà per oltre cinquant'anni.
Era pronta a correre in aiuto di tutti, senza alcuna discriminazione di persona, confessò addirittura di essere stata costretta di notte a seguire dei banditi per curare clandestinamente un loro compagno ferito in un agguato.
Aveva un'impressionante forza fisica e prendeva gli ammalati in braccio trasportandoli al primo piano, spesso sostituiva il medico collaborando attivamente in chirurgia.
Di lei così hanno scritto: "Suor Cecilia assomigliava a quelle sculture tratteggiate quasi a colpi d'ascia, lasciate apposta grezze, perché l'artista potesse esprimere in modo più efficace le sue intuizioni. L'età del suo volto era indefinita, quasi il tempo non fosse capace di intaccarne i tratti e indebolirne l'energia."
Nel 1943, durante lo sbarco anglo-americano a Gela, Suor Cecilia si ritrovò sola in ospedale a curare i feriti, sia siciliani che tedeschi, che lì si erano rifugiati. Il personale non aveva avuto lo stesso coraggio e si era dato alla fuga. Quando si presentarono le avanguardie americane, lei iniziò ad avviare delle trattative ottenendo che i soldati siciliani potessero allontanarsi per raggiungere le loro case. Il problema erano i militari tedeschi che, essendo considerati spie, furono condannati all'immediata fucilazione. Questi ultimi furono schierati al muro dell'ospedale con il plotone d'esecuzione pronto a dar fuoco. Suor Cecilia, a questo punto, iniziò a correre "come una forsennata, con le braccia aperte davanti ai dodici condannati". "Sparate", gridava agli americani, "sparate anche su di me, Iddio vi perdoni".
Alla vista dell'intrepida donna tutto si fermò e nessuno ebbe il coraggio di sparare. I soldati tedeschi furono portati a Caltagirone, mentre i feriti vennero trasportati a Gela ed imbarcati per raggiungere i luoghi di prigionia.
Per questo gesto altamente significativo ed eroico, nel 1974 le venne consegnata una medaglia d'oro al valore civile. In quell'occasione assistettero alla cerimonia due cittadini tedeschi che lei aveva sottratto alla morte.
Un altro episodio che si ricorda è quello relativo ad una ragazza usata ed abusata come prostituta, che venne ricoverata in ospedale. Suor Cecilia, con mille stratagemmi e pretesti, prolungava di giorno in giorno il suo ricovero, per sottrarla agli sfruttatori ed al loro iniquo disegno.
Nel 1985, malata di un cancro ai polmoni, celebrò i cinquant'anni di professione religiosa portando all'offertorio i ferri chirurgici che la dovevano operare.
Morì a settantadue anni, nel 1986, avendo dissimulato la sua malattia per essere sempre presente in reparto.
E' passata alla storia come "l'angelo bianco" e "l'eroina di Niscemi".
Fonti:
Maria Triglia, Angela Basarocco, in Siciliane. Dizionario illustrato, a cura di M. Fiume, Emanuele Romeo Editore, Siracusa, 2006, pp. 416-418
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Ada Bellucci Ragnotti
(Perugia, 1879 - 1971)
Ada Bellucci Ragnotti ha dato tanto alla sua città, ma a Perugia non c’è nessuna via o targa che la ricordi, mentre il comune di Corciano (PG) le ha intitolato una via al Castello di Mantignana, cioè nella parte più antica del paese, tutta ristrutturata. Il posto è incantevole, la strada anche, c’è solo un appunto da fare: ci voleva tanto a scrivere Ada (invece che A.) Bellucci?
È difficile chiudere in una definizione una donna come Ada Bellucci, che ha indirizzato la sua curiosità e la sua intelligenza in tanti campi diversi, raggiungendo in tutti l’eccellenza.
Nata a Perugia nel 1879, Ada era una dei cinque figli del professor Giuseppe Bellucci, chimico, antropologo, docente e rettore dell’Università degli Studi e tanto altro ancora. Fin dalla giovinezza Ada collaborò col padre, grande ricercatore e collezionista. La raccolta del professor Bellucci, di oltre ventimila pezzi di reperti preistorici, si trova al Museo archeologico dell’Umbria dove è esposta un’altra sua strepitosa collezione, quella degli amuleti. Preziosa è anche la collezione di monete umbre che vanno dal XII al XVIII secolo, iniziata dal padre, continuata da Ada e poi dal nipote Mario. Vi sono in pratica rappresentate tutte, o quasi, le produzioni umbre e del capoluogo, sia del periodo comunale che della dominazione pontificia, compresi i quattrini coniati durante Guerra del Sale del 1540, quando Perugia si ribellò a papa Paolo III, monete rarissime perché, dopo la riconquista papalina, l’uso o il possesso di questi quattrini comportava la pena di morte o la confisca dei beni. Aveva solo 14 anni Ada quando selezionò con l’aiuto del padre una serie di monete eugubine da esporre a Città di Castello e diede alle stampe Notizie sulla zecca di Gubbio. È la prima di una serie di pubblicazioni di un certo rilievo nel panorama della numismatica italiana, che ci danno l’immagine di una ricercatrice e divulgatrice moderna, ma ancora oggi poco studiata.
Ada fu anche una studiosa di storia locale e un’ottima traduttrice dal francese; insieme al padre raccolse centinaia di oggetti di uso quotidiano della società contadina a cavallo tra Ottocento e Novecento. La collezione è oggi conservata negli ambienti destinati a laboratorio didattico della Galleria Nazionale dell’Umbria. Molti di questi oggetti erano utilizzati per il lavoro nei campi, per le attività artigianali e per le occupazioni prettamente femminili. Ci sono pettini per la cardatura della lana, fusi, arcolai, filatoi a ruota, telai e utensili per il ricamo e la conseguente raccolta di imparaticci.
Ancora nella Galleria Nazionale, nella sala del Delegato, è conservata una delle più importanti raccolte di tovaglie umbre, donate dai collezionisti Ada Bellucci e Mariano Rocchi.
La Bellucci fu anche imprenditrice tessile. Fondò la società Arte Paesana Umbra, un laboratorio in cui si producevano tessuti a metraggio e capi di corredo ricamati, soprattutto lenzuola e tovaglie, e diresse il laboratorio di tessitura e ricamo del Carcere Femminile di Perugia. Ada era amica di Alice Hallgarten Franchetti che, nei pressi di Città di Castello, nel 1901 aveva fondato per i figli dei contadini due scuole gratuite basate, tra le prime al mondo, sul metodo Montessori e che nel 1908 aveva istituito il Laboratorio di Tela Umbra, allo scopo di migliorare il livello di vita dei suoi contadini attraverso l’istruzione e il lavoro qualificato. La Bellucci collaborò con Alice e, dopo la morte di questa, diresse personalmente il laboratorio e contribuì al suo rilancio negli anni Trenta fornendo idee e allicciature per la creazione di nuovi disegni (i licci costituiscono quella parte del telaio che serve a muovere i fili di ordito).
Ada aveva sposato nel 1902 il medico Giuseppe Ragnotti e ne aveva avuto due figli: Ercole, nel 1903, e Nerina nel 1912. Fu un matrimonio riuscito ma, dopo un primo periodo felice, la famiglia fu colpita da dolorosi lutti. La figlia Nerina morì nel 1938 per complicazioni dovute al parto, il marito di lei, ufficiale sommergibilista, morì in un campo di prigionia nell’immediato dopoguerra. Il figlio Ercole, docente di Patologia chirurgica all’Università e ufficiale medico dell’esercito italiano, perse la vita in Nord Africa, sotto un bombardamento nel 1941 mentre prestava soccorso ai feriti in un piccolo ospedale da campo. Fu poi decorato di medaglia d’argento al valor militare alla memoria. Ada rimase vedova nel 1960, ma continuò a coltivare i propri interessi fino alla fine.
In un’intervista rilasciata al giornalista Italo Moretti nel 1960 Ada Bellucci dichiarò: “Non parlate di me ma delle mie piccole cose in cui trovo la pace […]. Dite soltanto, sul vostro giornale, che la mia storia non dev’essere seppellita.”.
Fonti
Roberto Ganganelli, Ada Bellucci Ragnotti. Ritratto numismatico di signora, Perugia, Volumnia Editrice, 2014
Maria Luciana Buseghin, Cara Marietta. Lettere di Alice Hallgarten Franchetti (1901-1911), Città di Castello, Tela Umbra ed., 2002
http://www.artiumbria.beniculturali.it/ Galleria Nazionale dell’Umbria
http://www.artidecorativeitaliane.it/laboratorio_ragnotti_bellucci.htmhttp://www.jstor.org/discover/10.2307/1479518?uid=3738296&uid=2129&uid=2&uid=70&uid=4&sid=21104529636083
Fiorella Giacalone, L’oggetto, il tempo, il segno. Su alcuni oggetti di arte popolare della collezione Ada Ragnotti Bellucci, 1988.
Mimmo Coletti, Le grandi famiglie umbre. Storia passata e contemporanea di generazioni che hanno fatto grande questa terra, La Nazione, 1991.
http://www.archeopg.arti.beniculturali.it/index.php?it/97/la-collezione-di-amuleti
Giuliana Benzoni
Nata a Padova il 1 giugno 1895, prima di tre fratelli, da bambina fu allevata dai genitori, dalla nonna Giacinta e dalla zia Teresa in un ambiente aperto e stimolante, mentre il nonno materno Ferdinando Martini era impegnato come governatore in Eritrea (fino al 1907). Nella loro casa erano ospiti i più bei nomi della politica (la nonna era una fervente repubblicana e titolare di una delle prime tessere socialiste di Roma) e della cultura italiana e francese: loro ospite abituale era Anatole France.
Alla vigilia della Grande Guerra, Giuliana ebbe la sua formazione a Firenze e riuscì ad iniziare l’apprendistato come crocerossina. Dopo un breve soggiorno inglese rientrò in Italia, a Roma, dove operò attivamente come staffetta di notizie riservate fra le ambasciate francese e inglese, per assumere poi un ruolo più attivo a fianco degli interventisti democratici.
Nella primavera del 1916 incontrò - in modo assai romantico, rifugiandosi da conoscenti a causa di un improvviso acquazzone - l’amore della sua vita: il colonnello slovacco Milan Stefànik che lottava per l’indipendenza del suo Paese dall’impero Austro-Ungarico, allora solo un miraggio o un lontano sogno. Era un uomo colto e brillante, scienziato ed astronomo, arruolato nell’esercito francese, dai sorprendenti occhi chiari; il giorno successivo regalò a Giuliana - ancora praticamente sconosciuta - una preziosa perla come pegno destinato alla donna della sua vita. Da allora Milan fu introdotto negli ambienti frequentati da Giuliana e poté così nascere una sorta di “governo ombra” in esilio, mentre sempre più numerosi reparti militari slovacchi disertavano; nell’estate del ’18 la Cecoslovacchia fu riconosciuta Stato sovrano e belligerante. Proprio quando il matrimonio si avvicinava, il 4 maggio del ’19 Milan - convocato con urgenza in patria - precipitò con il bombardiere italiano su cui era salito, morendo con gli altri tre uomini dell’equipaggio: aveva con sé una lettera per Giuliana in cui le chiedeva di rimanere sempre fedele a se stessa. Così fu. (1)
Giuliana, nonostante l’immenso dolore, rinvigorì il proprio impegno e pensò di rivolgere al Meridione le sue cure, facendo capo alla villa materna presso Sorrento, chiamata ”La Rufola”, e utilizzando una istituzione esistente ma inattiva: l’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno.
Nelle terre del Sud scoprì un’umanità povera, disperata, ma semplice e dignitosa che ripagò ricostruendo scuole abbandonate, organizzando corsi per adulti, lottando contro pregiudizi e privilegi, collaborando con associazioni come l’Unione per l’assistenza dei malarici in Sardegna. All’affermazione del fascismo, Giuliana non poté che allontanarsi da Roma, viaggiando moltissimo con il fratello Giorgio (diplomatico) e soggiornando spesso a Praga, dove tutto le ricordava Milan, fino al drammatico momento dell’occupazione nazista. “Non capirono, soprattutto i politici inglesi fautori dell’appeasement a tutti i costi, che Monaco e la fine della Cecoslovacchia erano la fine dell’Europa” - affermò Giuliana con una acutezza politica non comune nella sua autobiografia (2). La sua abitazione presso Sorrento diventò il porto sicuro in cui ritornare e il rifugio accogliente aperto agli esponenti dell’antifascismo italiano ed europeo: da Salvemini a Giorgio Amendola, da Gorki a Croce.
Nel novembre ’34 avvenne il secondo incontro destinato a segnarle la vita: conobbe la principessa Maria José, da sempre ostile al fascismo, di cui divenne amica e complice tanto che le due ordirono insieme una trama di incontri ad altissimo livello (con il Vaticano, con la Casa reale, con i politici più influenti) per far sganciare il re dal Duce. Il momento arrivò finalmente, dopo Stalingrado e lo sbarco in Sicilia, mentre Giuliana aveva già preso contatti con Badoglio. Con la fuga del re a Brindisi, Giuliana si rese conto che la situazione a Roma era sempre più rischiosa e con naturalezza fece l’unica scelta possibile: la clandestinità e la Resistenza, come Amendola, Pertini e tanti altri amici. E’ certo che, grazie al suo intervento, almeno due ragazzi scamparono al rastrellamento del ghetto il 16 ottobre ’43. Operò attivamente per portare cibo, fornire mezzi e denaro, diffondere informazioni, dare nuove identità ai militari in fuga e facilitare i rapporti fra la popolazione e gli Alleati, grazie anche al suo bilinguismo e alle sue conoscenze aristocratiche. Per l’ elevato spirito di patriottismo dimostrato di fronte ai gravi rischi e alle pericolose missioni ricevette dal “Fronte della Resistenza-Comando civile e militare della città di Roma” la Croce di guerra al valor militare “sul campo” (5 giugno 1944) (3).
Alla fine del conflitto mondiale si mise di nuovo in moto verso il Sud, dove verificò le condizioni drammatiche lasciate dalla guerra e riuscì a fondare una colonia per orfani in Abruzzo. Una nuova missione la portò ad affrontare la situazione dei reduci, ma fu colpita soprattutto dal problema più grande: la fame. Il referendum e la nascita della Repubblica videro di nuovo unite Giuliana e Maria José: l’una pronta a riprendere con energia le sue attività contro l’analfabetismo e per la ricostruzione dell’amato Sud, l’altra decisa a rompere un matrimonio già finito e a prendere con dignità la via dell’esilio.
Nella maturità Giuliana Benzoni ha continuato il suo impegno attraverso la SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno), collaborando con varie associazioni internazionali (come il “Centre for Human Rights and Responsabilities” di Londra); negli anni Cinquanta ha ospitato a villa “La Rufola” Gaetano Salvemini e lo ha assistito amorevolmente fino alla morte (1957); sappiamo anche che, pur risiedendo a Roma con il fratello e la cognata, amava frequentare la Toscana, Monsummano, le Terme Giusti, il podere di Peppignolo e ricordava con molto spirito le avventure giovanili con Maria José, quando portava messaggi segreti persino nelle scarpe!
Giuliana Benzoni è morta a Roma l’8 agosto 1981 e riposa a Monsummano Terme. Ha sfiorato la storia con dolce distrazione”ha scritto di lei, con una bellissima metafora, Giorgio Manganelli (4).
1) in Massimo Nardini e Tania Pasquinelli (a cura di), Ferdinando Martini e Giuliana Benzoni - tessere contatti, intrecciare culture (atti dell’incontro di studi tenutosi a Monsummano T. il 28.3.2009 ), ed. Polistampa, Firenze 2009, pp. 90-93 è riportata la copia dell’ultima lettera inviata da Milan prima di partire per il volo fatale in cui più volte la saluta con “Adieu” e la chiama “ma femme unique et adorée”
2) Viva Tedesco (a cura di), Giuliana Benzoni, la vita ribelle. Memorie di un’aristocratica italiana fra Belle Epoque e Repubblica, ed. Il Mulino, Bologna 1985, p.139
3)in “Ferdinando Martini e Giuliana Benzoni”,op.cit.,p.103
4) in “Ferdinando Martini e Giuliana Benzoni”,op. cit., articolo a stampa senza indicazione della testata -datato 12 ottobre 1981,p.107
Viva Tedesco (a cura di), Giuliana Benzoni, la vita ribelle. Memorie di un’aristocratica italiana fra Belle Epoque e Repubblica, ed. Il Mulino, Bologna 1985
Massimo Nardini e Tania Pasquinelli (a cura di), Ferdinando Martini e Giuliana Benzoni - tessere contatti, intrecciare culture (atti dell’incontro di studi tenutosi a Monsummano T. il 28.3.2009 ), ed. Polistampa, Firenze 2009
Iris Origo, Ritratto di Giuliana Benzoni, in “Nuova Antologia”, luglio-settembre 1986
Iris Origo, Un’amica. Ritratto di Elsa Dallolio, Passigli editore, Firenze, 1988
Adelaide Bernardini Capuana
(Narni (TR) 1872- Catania, 1944)
Le è stata intitolata una via a Catania
Dalla parte delle donne
di Ester Rizzo
Adelaide era la moglie del ben più noto Luigi Capuana. Nacque in Umbria, a Narni, nel 1872 da Napolione, “guardiano carcerario” e da Filomena Tei, ma visse la maggior parte della sua vita a Catania.
Già da giovanissima scriveva poesie e novelle e, in seguito, si cimentò anche nei romanzi. Fra i scuoi scritti ricordiamo: Colei che tradiva, Barca nova, La vita urge, L'altro dissidio, La signora Vita e la signora Morte.
Fu collaboratrice di varie testate giornalistiche tra le quali Fanfulla della Domenica, Giornale d'Italia, Ora e giornali che ponevano l'attenzione al mondo femminile come Cordelia e La Donna.
Appena ventenne lasciò Narni per andare in Turchia e da lì si trasferì in seguito a Roma. Nella capitale, dopo una delusione d’amore, tentò il suicidio. La stampa del tempo riportò questo fatto di cronaca e Luigi Capuana, colpito dalla vicenda, volle incontrare Adelaide proponendole di diventare la sua segretaria. Iniziò per lei così una nuova vita, con un trasferimento in Sicilia e con una cospicua produzione letteraria.
Nel 1908 il famoso scrittore e la meno nota scrittrice si sposarono, ma la fama di lei iniziò a crescere e crebbe anche l’ostilità nei suoi confronti.
Molti di coloro che hanno tracciato il suo profilo non sono stati benevoli nei suoi confronti, l'accusarono di aver utilizzato per la sua carriera il nome e la fama del marito. In particolare un critico palermitano, Francesco Biondolillo, stroncò impietosamente le sue fatiche letterarie. Anche Verga e Pirandello non l'apprezzarono.
Oggi invece che i suoi scritti sono riconsiderati e ritenuti degni di nota, si denuncia la caduta nell'oblio della sua memoria.
Adelaide, quando scriveva, era di parte e, precisamente, stava dalla parte delle donne, soprattutto di quelle che trovavano il coraggio di ribellarsi. Non si limitava a raccontare le ribellioni ma metteva in risalto la trasformazione che era avvenuta nella mentalità femminile. Per lei ribellarsi era giusto. «Andar via con l'uomo che si ama è giusto, è giusto ribellarsi ad un marito che tradisce, ad una famiglia che si disprezza, è giusto respingere un concetto di perdono che può diventare catena e umiliazione».
Di lei si può affermare che non seguì le scelte letterarie del marito né quelle degli altri "veristi contemporanei", fu donna e artista autonoma, determinata nel tentare di ribaltare i ruoli e i valori assegnati al mondo femminile dell'epoca. Come le altre scrittrici sue contemporanee, compì una piccola rivoluzione in seno alla tradizione letteraria maschile. Le vicende familiari piene di omicidi, passioni, tradimenti messi in risalto nei suoi scritti evidenziavano come nella realtà (e non solo nella sua narrazione letteraria) il marito "padre padrone" non fosse accettato da tantissime donne.
Dopo la scomparsa di Capuana, avvenuta nel 1915, aumentarono i diverbi fra lei e Pirandello; nel 1922, alla morte di Verga, Adelaide prese la decisione di mettere all’asta il manoscritto originale de I Malavoglia, scatenando le ire dello scrittore. Adelaide non si curò di questi attacchi e continuò a scrivere soprattutto opere teatrali che affidava per la trasposizione in scena ad Angelo Musco.
Tra Pirandello e Adelaide Bernardini ci fu anche una famosa "querelle": la moglie di Capuana accusò il grande drammaturgo di plagio riguardo al primo atto di Vestire gli ignudi, che aveva come trama un racconto di Capuana. In effetti, le vicende narrate nelle due opere coincidono, anche perché il racconto di Capuana era ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1895 e i cui protagonisti erano proprio Luigi Capuana e Adelaide Bernardini. Pirandello ammise sulle pagine del giornale L'Epoca del 22 novembre 1922 di essersi ispirato a "un documento umano", ma il polverone suscitato da quella accusa finì per travolgere solo Adelaide.
Restò isolata nella sua residenza catanese fin quando morì il 2 novembre del 1944.
Fonti
Adelaide Bernardini Capuana, Sottovoce Poesie, Giannotta Editore, 1911
Adelaide Bernardini Capuana, La signora Vita e la signora Morte, Treves Editore, 1920
Marinella Fiume (a cura di), Siciliane dizionario biografico, Emanuele Romeo Editore, 2006
http://www.classiciitaliani.it/pirandel/drammi/24_pira_Vestire_ignudi.htm
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Violante Bertoni
(Molazzana (Lu), 1891 – Stazzema, (Lu), 1969)
L’amministrazione comunale di Molazzana (Lucca) nel 2016 ha intitolato a Violante Bertoni il piazzale di fronte alla chiesa di Piglionico; a Cardoso - dove Violante si trasferì in vecchiaia – sarà a breve affissa una targa in suo ricordo nella piazzetta con cui si chiude via Monte Forato,dove abita la nipote Miriam, vicina al Monumento alle vittime dell’alluvione del 1996. La scelta del luogo non è stata casuale: il Monumento è ricordo di un evento tragico di fronte al quale, però, le persone si sono unite per riprendere a vivere. Come ha insegnato Violante.
Mamma Viola
di Carla Guidi e Maria Amelia Mannella
Violante Bertoni, classe 1891, è originaria di Casa Trescala (o Trescola), un paesino della provincia di Lucca, in località Monte Rovaio, nel comune di Molazzana. Un luogo piccolissimo che le carte geografiche nemmeno riportano. Viene al mondo in una grotta perché sua madre, Isola Tognocchi, è colta così all’improvviso dalle doglie che non riesce ad arrivare a casa. Come se nascere in quel luogo le avesse temprato il carattere, Violante viene su forte, capace di adattarsi alle molteplici situazioni e di fronteggiare le difficoltà della vita. Cresce anche responsabile e svolge diligentemente i “doveri” che il suo ruolo di figlia imponeva: fin da bambina si prende cura della sua famiglia aiutando i genitori con le faccende di casa e con i lavori della campagna, trascorre i pomeriggi a zappare nei campi con il padre, Raffaello, o a filare e a tessere con la madre.
Ci sono delle rigide regole da rispettare in casa, svegliarsi presto al mattino per lavarsi e per fare le faccende, per pulire se stessi e l’ambiente in cui si vive; è la madre a trasmetterle la grande dedizione per le pulizie, tanto che negli anni del fascismo, ormai adulta e sposata, Violante vince persino un premio per la pulizia della casa, una pergamena andata purtroppo in cenere nell’incendio che distrusse la sua abitazione nel 1944.
Poi si innamora; conosce Francesco Mori e a diciassette anni lo sposa nella chiesa di Sant’Antonio la notte di Natale del 1908.Dalla loro unione nascono ben otto tra figli e figlie: Maria Domenica (1911), Luigi (1913), Giorgina (1915), Nella (1920), Alfredo (1921), Anna (1923), Alda (1926) e Alfreda (1929).
A casa della famiglia Mori non si sta male: ci sono galline, vacche, maiali, pecore, capre e conigli; si produce il necessario per vivere e addirittura Mamma Viola – come Violante sarà chiamata a partire dal ’43- riesce a vendere una parte dei propri prodotti: patate, mele, agnelli e burro, non solo ai compaesani ma anche in altri paesini più distanti: piccoli introiti che permettono alla famiglia Mori di acquistare qualche bene di prima necessità. Una vita di duro lavoro, intrisa di quella faticosa tranquillità di una volta, quando momenti dolorosi e sereni si rimescolavano quotidianamente. Poi, però, arriva la guerra, una guerra diversa da quella che Violante ha conosciuto poco più che ventenne. Questa guerra, la Seconda guerra mondiale, si porterà via i suoi due figli maschi: Alfredo, vittima di una mina vicino a Monte Forato nel dicembre 1944, e Luigi, morto nel giugno 1945 deportato nel campo di prigionia Reservelazarett Stalag IV B Zeithain in Germania. Forse anche perché i suoi figli rischiavano la vita come partigiani, Violante ad un certo punto decide che la sua casa, con il fienile e le stalle, sarebbero diventati luoghi di salvezza e di riparo per i partigiani del Gruppo Valanga.
Fuori, sulle montagne di Molazzana, c’è la guerra combattuta nei tanti luoghi della Linea Gotica, dopo l’8 settembre 1943, la furia dei soldati tedeschi sfocia nelle rappresaglie e nelle esecuzioni sommarie contro i civili, Viola Bertoni, con l’appoggio del marito Francesco, accoglie i ragazzi della formazione partigiana: un gesto nobile e audace di una donna che le vale la Medaglia d’Oro al Merito Civile.
Molti di loro sono travolti dalle azioni repressive tedesche tra il 27 e il 29 agosto 1944: è l’olocausto del Gruppo Valanga, come Liborio Guccione lo ha definito.
Fortunatamente i civili riescono a scampare alla morte, anche se perdono case, stalle e animali. Anche Violante subisce danni materiali: la sua abitazione viene prima incendiata e poi fatta saltare con la dinamite, e solamente la piccola casetta del formaggio - come lei la chiamava - rimane in piedi. L’intera famiglia Bertoni-Mori è costretta a trovare rifugio in alcune grotte vicine. Ricorda Pietro Petrocchi, anche lui nel Gruppo Valanga: «Quante sofferenze, quanti disagi materiali e soprattutto morali! Ma mai ho sentito dalle labbra di Viola una parola di recriminazione, di rimprovero: l’unico suo grande dolore fu la morte di tanti giovani patrioti, che accomunava nel ricordo e nel rimpianto ai suoi figli Luigi e Alfredo: per questo Viola divenne più che mai, per i superstiti del Gruppo Valanga, la Mamma dell’Alpe».
Mamma Viola considera i partigiani come figli suoi. Vede nei loro occhi gli occhi di Luigi, il figlio partito per la guerra in Russia, e quelli di Alfredo, militante nella fila delle brigate partigiane. Ha dato loro una casa, un riparo, nutrimento; ha diviso con loro le provviste della propria famiglia senza pensare ai gravi e grandi problemi cui sarebbe andata incontro. Dietro il suo dolce aspetto si nascondeva una persona “granitica” che non si faceva scalfire dalle dure prove della vita.
Sono state proprio le sue azioni e la grande umanità dimostrata nei confronti di quei giovani che hanno spinto la Repubblica italiana ad assegnarle la Medaglia d’Oro al Merito Civile. In realtà Mamma Viola respinse questa onorificenza motivando il suo rifiuto con l’assenza irrimediabile dei figli: avrebbe, infatti, preferito che Luigi e Alfredo fossero ancora in vita e vicino a lei, piuttosto che ricevere quel tributo.
Nel 1969 Mamma Viola, gravemente malata, muore nel paese di Cardoso, nel comune di Stazzema, dove si era trasferita con la famiglia nel 1961. Nel 1981 l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, con l’appoggio di Maria Eletta Martini, a quel tempo vice Presidente della Camera dei Deputati e delle Deputate, decide di assegnare alle figlie il riconoscimento al Merito civile di Violante, con la seguente motivazione: «Umile donna di fragile aspetto ma dal carattere forte e deciso, con grave rischio della vita ed esponendosi alle feroci rappresaglie delle truppe nazifasciste non esitava, nel momento in cui la lotta clandestina aveva assunto caratteri di estrema durezza, ad accogliere nella sua casa una intera formazione partigiana, offrendo assistenza e cure premurose. Con la perdita di tutti i suoi beni in un cruento combattimento in cui perivano molti dei giovani da lei assistiti, offriva magnifico esempio di non comune coraggio e incrollabile fede nei più alti ideali di libertà. Molazzana, fraz. Alpe S. Antonio (Lucca), 1944».
Nei borghi montani delle Apuane, Mamma Viola è diventata leggendaria. È’ stata una delle tante donne della Resistenza italiana; la sua storia è stato un esempio di coraggio e di umanità per molte persone che cominciarono a schierarsi dalla parte dei partigiani. La sua azione è purtroppo conosciuta solamente a livello locale: quando i/le familiari e i/le superstiti di queste vicende non ci saranno più, che cosa accadrà?
Fonti:
Le notizie relative alla vita di Violante Bertoni, conosciuta come Mamma Viola o la Mamma dell’Alpe, sono state raccolte tramite interviste rivolte alla figlia e alle nipoti.
Pietro Petrocchi, Silvano Valiensi, L’’altra faccia del mito Diario di guerra del Gruppo Valanga Garfagnana 1944, Tra le righe libri.
Liborio Guccione, Il Gruppo Valanga e la Resistenza in Garfagnana, 1978, Lucca, Pacini Fazzi Editore.
https://liberacronacachenonce.wordpress.com/2015/08/28/libera-cronaca-da-italia-bene-comune-di-pochi-1626-del-28-e-29-agosto-2015/
http://www.paesiapuani.it/Monte%20Rovaio%20cima%20del%20gesu%20dall'alpe%20di%20S.antonio.htm
http://www.anpi.it/donne-e-uomini/914/
http://www.isreclucca.it/luoghi-della-memoria/viola-bertoni-la-mamma-dellalpe/
http://paolomarzi.blogspot.it/2015/08/la-storia-del-gruppo-valanga-battaglie.html
http://www.lanazione.it/lucca/cronaca/a-molazzana-intitolata-piazza-a-mamma-viola-foto-1.2473478
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Bianca Bianchi
(Vicchio (FI), 1914 - 2000)Una strada porta il suo nome a Sidney, in Australia.
Dopo la morte prematura del padre, all’età di sette anni, Bianca si trasferisce, insieme alla madre e alla sorella maggiore, nell’abitazione dei nonni materni. Ha un rapporto conflittuale con la madre, ripiegata sul modello domestico, ma trova un valido appoggio nel nonno, contadino antifascista, figura fondamentale nella sua formazione intellettuale.
Bianca dimostra presto il suo interesse per lo studio e, grazie all’appoggio del nonno, abbandona la campagna e si trasferisce a Firenze, per frequentare la Scuola Magistrale prima e la Facoltà di Magistero poi. Nel 1939 consegue la laurea e inizia subito ad insegnare. Le viene offerta una cattedra a Genova, ma non rispetta i programmi, che prevedevano l’esclusione di argomenti sulla civiltà ebraica, tenendo lezioni proprio su quest’argomento. Questo comportamento le vale l’allontanamento dall’istituto genovese e le viene affidato un nuovo incarico a Cremona. Anche qui viene presto licenziata, perchè per il primo compito in classe propone ai suoi studenti di riflettere sui caratteri della società moderna e sui progetti per il futuro.
Bianca viene allora assegnata all’Istituto italiano di cultura in Bulgaria e il soggiorno a Sofia, dove intrattiene anche una prima relazione amorosa, le permette di imparare una nuova lingua e di insegnare liberamente, senza le limitazioni politiche del regime.
Nel giugno 1942 torna in Italia, per aiutare la madre e la sorella in difficoltà a causa della guerra.
Dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio, Bianca si impegna nell’opera di soccorso dei soldati e partecipa alle riunioni del Partito d’Azione, contribuendo attivamente alla Resistenza con la distribuzione di volantini antifascisti. Questo periodo le consente il passaggio alla vita politica attiva. Durante il comizio del democristiano Gianfranco Zoli nella primavera del 1945, Bianca prende la parola e invita a realizzare una politica diversa, che si faccia portavoce della volontà di cambiamento e di speranza degli italiani.
In seguito inizia a frequentare il partito socialista per poi iscriversi: organizza iniziative culturali, dibattiti, ed è subito protagonista della campagna elettorale, riuscendo ad acquisire molti consensi anche grazie alle sue abilità oratorie.
Al Congresso provinciale della primavera del 1946, per la formazione della lista dei candidati per la Costituente, viene votata quasi all’unanimità come capolista. I compagni di partito però, diffidando delle donne in politica e della sua giovane età, la sostituiscono con un esponente di spicco e di consolidata militanza nel partito. Nonostante la delusione, Bianca continua la sua appassionata e frenetica campagna elettorale e, alle elezioni del 2 giugno, raggiunge un successo personale inaspettato, riuscendo ad accaparrarsi il doppio dei voti del capolista ed entrando così di diritto tra le 21 donne elette all’Assemblea Costituente. Ha all'epoca 32 anni.
Il 25 giugno 1946, quando si aprono i lavori dell'Assemblea Costituente, è per tutte e tutti un giorno importantissimo. Con il fascismo e la guerra ormai alle spalle, la Repubblica inizia il suo cammino: “mezzo migliaio di uomini, tra cui una ventina di donne, avrebbero stabilito in legge le regole della nostra umana esistenza, le regole della esistenza di più di quaranta milioni di persone”.
Si ricorda in seno alla discussione della Costituente l’impegno di Bianca a favore della scuola pubblica e l'opposizione ferma alla parificazione tra la scuola pubblica e quella privata.
Rieletta nel 1948, combatte per una legislazione meno discriminatoria nei confronti dei figli illegittimi, battaglia iniziata con la sua partecipazione al Congresso dell’Alleanza femminile internazionale di Amsterdam del 1948 e conclusa con l’approvazione della legge nel 1953.
Nel 1970 è eletta consigliera comunale a Firenze nelle liste del PSDI e ricopre la carica di Vicesindaca.
A triste dimostrazione di quanto il rapporto tra le donne e i partiti sia sempre stato difficile in Italia, a distanza di anni Bianca Bianchi ha raccontato che ai tempi della Costituente le fu chiesto “di firmare una lettera di dimissioni, preparata in antecedenza, per cedere il posto a un socialista che ci sventolava sempre davanti al naso la tessera di anzianità di iscrizione al partito, come se l'anzianità fosse sinonimo di intelligenza”.
Bianca Bianchi si è spenta a Vicchio il 9 luglio 2000.
Fonti
http://www.toscananovecento.it/custom_type/bianca-bianchi-dallantifascismo-esistenziale-al-virus-della-politica /http://www.150anni.it/webi/index.php?s=60&wid=1937 http://www.ilreporter.it/articolo/91809-una-strada-per-bianca-bianchi http://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg17/file/repository/relazioni/biblioteca/emeroteca/Donnedellacostituente.pdf http://www.iperbole.bologna.it/iperbole/cif-bo/Pdf/madricostituenti1.pdf
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Giulia Bigolina
A Padova esiste una via Giulia Bigolino che sicuramente si riferisce a lei.
Nata verosimilmente nel 1518, fu un’esponente della vita intellettuale padovana, ebbe contatti con Pietro Aretino e molti intellettuali del tempo la definirono la “nova Saffo”, anche se nessuna sua poesia è a noi pervenuta. Invece siamo in possesso del suo romanzo Urania che è la storia di un amore contrastato.
Urania, la protagonista, è una donna forte, determinata ed è anche un’artista, una poetessa sensibile e brillante, il cui innamorato si invaghisce di un’altra donna: Clorina. Urania non vuole cadere nel tranello stereotipato dell’inimicizia e della rivalità fra donne e preferisce fuggire dalla sua città, Salerno, travestita da uomo. Ma al di là della trama, dobbiamo sottolineare “l’orgoglio e la modernità della protagonista. L’autrice mette in evidenza che le donne rivolgono molta attenzione alle vicende amorose perché è a loro negato di dedicarsi a letteratura e scienze”.
Giulia Bigolina lamenta il fatto che “gli uomini ricordano solo esempi deplorevoli di donne come Elena, Medea e Progne, Urania invece ricorda Pentesilea, Saffo, Giuditta, Ester, Veturia…”.
Nel romanzo troviamo delle affermazioni “femministe” certamente inusuali per l’epoca: innanzitutto la rivendicazione dell’uguaglianza fra i sessi e poi l’importanza dell’istruzione per le donne, che significa permettere loro di raggiungere gli stessi traguardi professionali degli uomini. Giulia scrive: “E perciò conchiudiamo, vi prego, che se le donne non sono di noi uomini migliori almeno non siano peggiori di quello che siamo noi”.
Gli altri amori descritti nell’opera sono sia felici che tristi e vengono raccontati prevalentemente dai personaggi femminili che comunque rompono gli schemi della tradizione, si mettono in gioco in prima persona e non restano irretiti dallo stereotipo dell’ “amor cortese”.
Questa scrittrice è precipitata nell’oblio perché nel XX secolo autori e critici letterari uomini hanno scelto di escluderla dai cataloghi e dai trattati letterari ed è grazie ad una ricerca di Valeria Finucci, docente di letteratura italiana alla Duke University nel North Carolina, che la sua figura e la sua opera sono riemerse. La studiosa, infatti, ha riportato alla luce il manoscritto autografo di Giulia Bigolina che sin dal XVI secolo giaceva nella Biblioteca Trivulziana di Milano.
Fonti:
Giulia Bigolina, Urania, a cura di Valeria Finucci, University of Chicago Pr (Tx), 2005
Antonietta Sangregorio, Giulia Bigolina: una madre dall’oblio, in “Leggere Donna”, gennaio-febbraio 2010
Nadia Cario, Tracciati femminili nella toponomastica patavina, in “Dols Magazine” 03.12.2012
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Bice Bisordi
Bice Bisordi, nata l’11 marzo 1905 a Pescia, è stata secondo la critica una delle più importanti scultrici italiane del XX secolo, specializzata nell’arte nobilissima del ritratto, eseguito di preferenza in bronzo o in terracotta. Sicuramente - come racconta lei stessa nelle memorie - fu influenzata dall’attività del padre che aveva un laboratorio dove scolpiva il marmo e lavorava la creta; i tre fratelli (Carlo, Enzo e Tito) presto entrarono nell’azienda di famiglia, mentre la sorella Nella si occupava della casa e faceva la sarta; le due maggiori (Norina e Teresa) si erano diplomate maestre. Quest’ultima, sposandosi, andò a vivere a Montecatini dove la giovanissima Bice la seguì e aprì un piccolo studio in cui faceva ritratti a matita e iniziava a utilizzare la creta. La sua abilità non passò inosservata : i turisti, i villeggianti, specie americani, e alcune personalità di spicco (come la marchesa Ines Mauri Badò di Roma e Carla Balduzzi di Milano) cominciarono a credere in lei e a incoraggiarla. Fu così che Bice si impegnò per essere ammessa alla prestigiosa Accademia d’arte di Firenze, che raggiungeva ogni giorno con il treno. Si diplomò nel 1932 e nel ’35 poté esporre nella sua città, in una saletta presso il Caffè Pult , dove all’epoca si tenevano tre concerti al giorno. Il giornalista Vittorio Taddei fu il primo a scoprire ufficialmente il talento della scultrice e ne scrisse sul “Telegrafo”. Già si delineavano le caratteristiche che emergeranno e matureranno in seguito: la finezza psicologica (“La nipotina Licia”), la fusione fra aspetto fisico e spiritualità (“Adolescente”), il gusto per il minimo dettaglio (“Dorso di donna”), la sensibilità nel tratteggiare i volti dei bambini (“Putto”,”La Vita”, ”Primi vagiti”,”Sorriso di bimba”,”Il Poema”), la delicatezza nei ritratti di madri (“Maternità”), il realismo non disgiunto dalla poesia (“Scugnizzo” in cui è evidente il richiamo all’arte di Vincenzo Gemito).
Iniziò quindi una carriera prestigiosa, fitta di mostre, concorsi, riconoscimenti in Italia e all’estero; intanto Bice aveva allestito il suo studio all’interno dello stabilimento termale Torretta nel cui parco, durante la stagione estiva, suonava il pomeriggio un’orchestra e si esibivano i più noti cantanti. Qui ebbe l’occasione di conoscere e ritrarre Angelo Motta (l’industriale del panettone), Eduardo De Filippo, Angelo Borghi (proprietario dell’azienda di lane B.B.B.), il console generale Shard di Zurigo, mentre proseguiva l’attività dei ritratti “a memoria”, come il busto di Kennedy e i bassorilievi di papa Giovanni XXIII e di Paolo VI, oggi in Vaticano, per cui ottenne la medaglia d’argento del Pontificato. Critici, esperti, artisti parlano di lei e acquistano sue opere: Griselli, Mannucci, P. Annigoni, L. Cascella, C. Basini, P. Scarpa, P. Catalano, V. Mariani, G. Valori; anche personaggi dello spettacolo come Renato Rascel e Walter Chiari - di passaggio a Montecatini - le rivolgono apprezzamenti lusinghieri.
Bice in seguito aprì un nuovo studio sotto i portici del cinema - teatro Kursaal dove, passando, la si poteva vedere all’opera attraverso i vetri , spesso davanti a qualche modello in posa per un ritratto; intanto collezionava nuove mostre (Bologna, Roma, Milano, Forte dei Marmi, Lucca, anche a Lugano), era ammessa in prestigiose accademie (Internazionale “L. da Vinci”, ”Artes Templum”, ”Tiberina”), veniva segnalata nel catalogo Bolaffi ed era iscritta all’Album Europeo (1977). Il suo nome uscì dai confini italiani grazie al premio francese S. Raphael (medaglia d’oro per un ritratto di Padre Pio del ’73) e al riconoscimento del Parlamento USA (’74). Bice realizza opere di varia ispirazione, anche per farne dono a istituzioni; due ritratti di vescovi (Angelo Simonetti e Dino Luigi Romoli) si trovano nel Duomo di Pescia, mentre un bassorilievo che raffigura i coniugi e benefattori Alcide e Matilde Nucci viene donato all’ospedale cittadino. Nonostante una certa dispersione, inevitabile per una ritrattista, un discreto nucleo di 27 opere si può oggi ammirare nel Palagio di Pescia per avere una visione complessiva dell’artista, ”libera interprete delle forme moderne, nel suo linguaggio realistico”(A. Corsetti), ”una delle poche eredi del purismo e del romanticismo plastico”, di “acutezza penetrante” e “spiritualità vibrante”(G. Valori).
Quasi novantenne viene convinta a scrivere le sue memorie in cui racconta, con umiltà e gratitudine, la sua lunga carriera e il dono prezioso dell’arte; il piccolo libro - ricco di documentazione fotografica - viene presentato a Pescia nella sala consiliare del Comune nell’ottobre del 1993.
Bice Bisordi è morta a Pescia il 5 maggio 1998.
Sintesi dei premi ricevuti (medaglie d’oro): Vallombrosa 1957, Soc. Belle Arti Firenze 1969, Accad. S. Andrea Roma 1970, Accad. Burchard Roma 1971, La donna nell’arte Firenze 1972 (scultura “Santa Apollonia”), prof. Dino Scalabrino Montecatini T. 1973, Accad. S. Andrea Roma 1974.
Il citato bassorilievo di Paolo VI è stato inserito da Piero Bargellini nella sua opera sull’Anno Santo.
Fonti
Bice Bisordi, La mia carriera di scultrice. Brevi memorie, Stamperia Benedetti,Pescia,1993
s.f., Una carriera di scultrice raccontata da Bice Bisordi, in "La Nazione", 28.10.1993
s.f., si dà notizia di una conferenza (a Pescia) della prof.ssa Elsa Bartolini dedicata all’opera di B.B. , in "Il Tirreno", 10.4.2006
s.f., I love Pescia, 15.1.2015
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Antonia Bolognesi
Antonietta (Antonia) Bolognesi, nata il 6 gennaio 1896 a Ferrara e qui vissuta tutta la vita, padre telegrafista, madre casalinga, ha trascorso un’esistenza tranquilla e appartata, stimata dai colleghi e amata dai parenti, ma sconosciuta ai più.
Dopo aver abitato in via Mentana 27 fino al ’40, si trasferì con la famiglia in corso Isonzo 14, nelle case del “complesso Garibaldi”; alla sua morte fu sepolta nella tomba di famiglia nella Certosa ferrarese e i beni furono divisi fra i nipoti. In un comò in stile impero fu trovato un pacchettino avvolto in carta velina ingiallita che fu lasciato in disparte finché il pronipote Eugenio Bolognesi e Giovanni Resca (genero della sorella Maria) decisero finalmente di aprirlo. Era il 2012. La sorpresa fu grande, per alcuni versi eccezionale e rivoluzionaria - almeno per la storia dell’arte del XX secolo.
Si scoprì infatti che era conservato da quasi un secolo un prezioso carteggio, in totale 125 pezzi: 104 lettere, cartoline, biglietti postali di Giorgio De Chirico ad Antonia (dal gennaio al 23 dicembre ’19) e 8 bozze di lettere di Antonia a Giorgio; ci sono poi ritagli di giornali e copie di lettere di Antonia ad altre persone o Enti.
La scoperta ha dato un contributo essenziale alla conoscenza del periodo ferrarese di De Chirico, ma anche svelato un amore concluso tristemente alla fine del ’19, rimasto però nel cuore di Antonia tutta la vita. Ha poi dato finalmente un nome in modo chiaro e definitivo alla donna ritratta nel dipinto “Alceste” per cui si erano sprecate le ipotesi più fantasiose.
Ma veniamo alla storia, così come è stato possibile ricostruirla grazie al carteggio, pubblicato nel 2014 .
De Chirico, nato in Grecia, intellettuale, appassionato delle varie arti, aveva vissuto dal 1911 al ’15 a Parigi; allo scoppio della guerra, con il fratello Andrea (noto come Alberto Savinio) si era arruolato volontario, per pentirsene ben presto. Entrambi però furono destinati a mansioni di ufficio, per presunti problemi di salute; dal distretto militare di Firenze furono inviati a giugno del ’15 a Ferrara; Giorgio, divenuto caporale, faceva lo scritturale e risiedeva con la madre e il fratello in case di affitto, nei pressi di via Mentana. Stava al caldo, lavorava ben poco e aveva tutto il tempo per studiare, scrivere, dipingere e scoprire la magia della città, dove rimase fino a tutto il 1918. Sappiamo che fu molto influenzato dall’atmosfera “metafisica” e le passeggiate per l’antico ghetto, le alte ciminiere ora scomparse e, soprattutto, il castello furono elementi essenziali della sua maturazione e della sua arte, immortalati nel celeberrimo “Le Muse inquietanti”(1917).
Come i due giovani si siano conosciuti non è noto: Antonia era impiegata contabile nell’ufficio del Patronato Provinciale per gli Orfani dei Contadini Ferraresi morti in guerra, con sede presso il castello Estense, dove Giorgio si recava spesso nell’Osservatorio Astronomico a trovare un amico; erano inoltre vicini di casa. Giorgio poi fu ricoverato nell’ospedale militare per una “nevrosi di guerra” e Antonia avrebbe potuto incontrarlo anche casualmente; certo è che fra loro inizia una relazione nell’autunno del 1917. Il 1° gennaio ’19 De Chirico viene mandato a Roma e da questo momento inizia a scrivere assiduamente alla fidanzata. Le sue sono lettere di un giovane innamorato, deciso a portare avanti la relazione con i migliori sentimenti, ma in evidenti difficoltà economiche. “Conto i giorni che passano e che mi sembrano tanto lunghi; ma il momento che ci rivedremo approssima, cara Antonia, e questo periodo di separazione lo passeremo pensando intensamente al nostro amore elevando e purificando i nostri animi in una reciproca comprensione, in una reciproca stima”(13 marzo ’19). Si comprende dalle lettere che Giorgio aveva frequentato casa Bolognesi, conosceva bene i genitori e i fratelli Carlo e Maria, ma non era molto stimato: non sembrava un buon partito, era uno che faceva dipinti e si dava arie da “pittore”. Curioso anche il fatto che in tutta questa frequentazione non abbia mai donato ad Antonia un disegno, un abbozzo, un piccolo quadro, quasi lui stesso non desse troppa importanza al proprio lavoro. Eppure realizzò grazie ad Antonia un dipinto oggi presente in tutti i libri di storia dell’arte e in molte mostre; si tratta di “Alceste” , l’altro motivo di interesse di Antonia. Il ritratto di giovane donna (1918) è un “pendant” con l’autoritratto di De Chirico: sono entrambi a mezzo busto, in una stanza, inquadrati nella finestra; hanno lo stesso atteggiamento e la medesima posizione della mano; sono entrambi vestiti di scuro, ma nello sfondo compare un cielo azzurro luminoso; assorti nei loro pensieri, la ragazza guarda in alto verso destra e ha dietro una torre stilizzata (il castello di Ferrara?), Giorgio guarda verso l’esterno e forse ha in mano un libro.
L’opera fu esposta a Roma (Galleria d’arte Bragaglia) dal 2 al 21 febbraio ’19; scrive Giorgio all’amata: “vedresti il tuo ritratto troneggiare in mezzo le altre opere…” - “il tuo ritratto ammiratissimo; l’ho intitolato “Alceste”. (…) Aspetto con impazienza il momento di rivederti, tu che amo tanto e che tanto rispondi ai miei ideali di bontà, gentilezza e di bellezza”. Alcesti, infatti, è la creatura mitologica simbolo della fedeltà coniugale e della nobiltà d’animo e in varie lettere Giorgio chiama proprio così Antonia (nella forma che lui preferisce, Alceste). Il ritratto fu acquistato dal dott. Angelo Signorelli: fu l’unica opera venduta alla mostra e la prima acquistata da un collezionista italiano; oggi si trova in un’altra collezione privata, quella di Chiara e Francesco Carraro.
Durante tutto il 1919 il carteggio rivela che Giorgio varie volte ritornò a Ferrara, rinnovando i suoi intenti di matrimonio, addirittura previsto verso la fine dell’anno o la primavera del ’20; tuttavia ci tiene ad una posizione economica solida, elemento che si rivelerà determinante. “Quindi cade per me la speranza di poterti unire alla mia sorte il prossimo autunno come ardentemente desideravo e desidero. La situazione si chiarirà per forza di cose e per volontà mia ma non potrei assolutamente fissare un tempo (…)” (6 maggio ’19).
Durante l’estate le lettere cominciano ad evidenziare qualche malumore, qualche inquietudine, piccoli battibecchi e lamentele reciproche, forse causate dalla lontananza. Mai però si accenna ad una possibile visita di Antonia a Roma, forse perché è da poco finita la guerra, perché l’Europa è percorsa dalla terribile epidemia di spagnola o perché all’epoca sarebbe sembrato un viaggio “sconveniente” per una signorina perbene. Nel settembre però Antonia fa un gesto audace e rischioso: all’insaputa del fidanzato scrive a sua madre Gemma, nobildonna di origini genovesi, chiedendole con il dovuto garbo di favorire la loro unione; non ha risposta, ma le scrive Giorgio. È decisamente arrabbiato e proibisce sia a lei sia a suo padre simili iniziative in futuro. A novembre Antonia cerca di avere sue notizie da conoscenti comuni. Probabilmente De Chirico in dicembre scrive un biglietto a Giuseppe, padre di Antonia, come si faceva un tempo, per chiarire i propri intendimenti (ma non ne abbiamo documentazione).
Veniamo al momento conclusivo della vicenda: il 23 dicembre Giorgio invia l’ultima lettera ad Antonia: “Io però ti assicuro che non ti ho dimenticata e che spero sempre di potermi un giorno unire a te”. Si inserisce a questo punto il padre di lei (24 dicembre) con una dura replica in cui praticamente gli vieta la relazione se non ci saranno cambiamenti nella sua situazione economica (“È sempre nostro parere di non opporre difficoltà qualora Ella dimostrasse chiaramente di essersi creata una posizione solida da permetterLe il formarsi una famiglia tenendo presenti le odierne esigenze della vita. Ritengo quindi inopportuna la sua insistenza prima di aver raggiunto le condizioni su esposte.”). Abbiamo la brutta copia, ma evidentemente giunse a destinazione perché De Chirico non si fece più vivo e il rapporto finì.
Antonia, riservata e dignitosa, non si sposerà mai, ma lo cercherà e seguirà sempre, come testimoniano gli articoli ritagliati e conservati. Nel ’22 scrive ripetutamente a vari uffici per sapere l’indirizzo di De Chirico, prima a Milano, poi a Firenze, a Roma, infine a Parigi, sfruttando la sua posizione professionale e usando addirittura la carta intestata del Patronato. Gli scrive in modo commovente il 7 dicembre ‘22 dopo che varie lettere sono state respinte, ma non sapremo mai se questa fu letta o no. Nel ’50 lo vede a Roma, insieme a una “Persona”, durante il Giubileo e gli invia gli auguri natalizi: abbiamo la brutta copia, ma non sappiamo se poi davvero la spedì e se mai arrivò. Ed è l’ultima testimonianza rimasta di questo lungo, lunghissimo amore.
La vita di Antonia trascorse tranquilla, dedita al lavoro e alla famiglia; quando il fratello Carlo e la moglie Idelme morirono a Lucca sotto il bombardamento del 6 gennaio ’44, si occupò dei due nipoti sopravvissuti e da quel giorno non festeggiò mai più il suo compleanno.
De Chirico e Savinio, intanto, presero altre strade, divenendo celebri; nelle “Memorie della mia vita” (1945) De Chirico non fa cenno ad Antonia né alla prima moglie Raissa Gourevitch (conosciuta nel ’24 e sposata nel ’30), forse per riguardo alla nuova compagna e poi moglie Isabella Pakszwer Far (conosciuta nel ’30 e sposata nel ’46).
Il silenzio su Antonia è stato dunque totale e se non si fossero lette e studiate quelle lettere, il suo nome non sarebbe riemerso dall’ombra e la sua gentile figura non avrebbe ripreso vita.
Fonti:
Eugenio Bolognesi, Alceste: una storia d’amore ferrarese. Giorgio De Chirico e Antonia Bolognesi. San Marino, Maretti editore, 2014 (a cura della Fondazione Giorgio e Isa De Chirico, con saggi di Fabio Benzi, Paolo Picozza, Victoria Noel-Johnson (“Giorgio De Chirico e “Alceste”: storia di un ritratto”) Eugenio Bolognesi è nipote di Carlo, il fratello di Antonia morto a Lucca nel ’44.
Giorgio De Chirico, Memorie della mia vita, Milano, Bompiani, 2008
Micaela Torboli, De Chirico,tutte le tracce del suo passaggio,in lanuovaferrara.gelocal.it (4.10.15)
www.fondazionedechirico.org
www.museoferrara.it
www.nuoviargomenti.it
www.palazzodiamanti.it (mostra dal 14 novembre 2015 al 28 febbraio 2016: “De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie.”)
www.telestense.it/tag/alcesti (9.12.15)
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Julie Bonaparte
Qui dà vita ad un altro salotto, se pure di tono minore, in cui riceve esponenti della nobiltà romana, politici italiani filofrancesi ed amici francesi come lo storico Duchesne, direttore dell’Ecole Francaise, che la definisce una “veritable reprèsentant de la France”. Pur non condividendo i giudizi conservatori e moralistici della sua ospite contro l’eccessivo realismo delle opere dei romanzieri naturalisti francesi, né la sua condanna dell’azione politica di Zola, processato per J’Accuse, o l’appellativo di “crapule littèraire” dato a D’Annunzio, il direttore le mostra sempre la sua bonaria condiscendenza.
Antonietta Angelica Zucconi, Les salons de Mathilde et Julie Bonaparte sous le second empire, pp. 151-182, paru dans la Revue Napoleonica, 2011/2 (N° 11).
Costanza Bruno
Anche ad un albero di ulivo del “Viale degli eroi” sito in via Asbesta, all’interno dell’Istituto Comprensivo Archìa, è stato dato il suo nome.
A Palermo la ricordano una stele ed una lapide poste in una piazza di un quartiere popolare.
A Nicosia c’è via Costanza Bruno.
A Licata è stata chiesta l’intitolazione.
Costanza Bruno è nata a Siracusa il 31 gennaio 1915 ed è morta a Nicosia il 23 luglio 1943.
Era figlia di un generale di brigata, Francesco, e di una baronessa, Concettina Salamone.
Chi l'ha conosciuta ricorda uno sguardo fermo, deciso, che palesava un carattere forte. La sua breve vita, tra le due guerre mondiali, trascorse tra i militari ed al seguito del padre. A vent’anni entrò nella CRI come infermiera ed iniziò a lavorare negli ospedali di Siracusa, Palermo e Catania.
Costanza fu una donna coraggiosa, intraprendente, arguta, una donna di cultura che parlava diverse lingue e scriveva poesie. Infinitamente generosa aiutava tutti coloro che non potevano permettersi un medico mettendo a disposizione il suo patrimonio personale.
Il 22 luglio 1943 Costanza si trovava a Nicosia nella casa dei nonni materni e già da tempo, per rendersi utile, operava nell’ospedale della cittadina, un piccolo ospedale, scarsamente attrezzato, con un solo medico, un’altra crocerossina, Maria Cirino, e un gruppo di donne del paese che collaboravano volontariamente. La mattina di quel giorno corse verso l'ospedale, dove confluivano i soldati feriti dai bombardamenti, per dare aiuto e donare il sangue. Il padre l’aveva supplicata di restare al sicuro in un ricovero, ma lei con un sorriso si era fermamente opposta.
Iniziò a lavorare tra quei corpi mutilati senza un minuto di sosta. Ad un tratto, con un'incursione aerea, scoppiò l'inferno, una mitragliata di colpi la ferì ma lei imperterrita continuò il suo lavoro. Arrivato il padre, a forza la trasportò al posto di medicamento di una divisione dove le vennero amputate tre dita della mano sinistra. Ci si rese conto che doveva essere operata immediatamente ed il padre decise di portarla all'ospedale da campo di Mistretta. Costanza sapeva che stava per morire ma sorrideva e consolava il padre senza lasciarsi sfuggire un lamento. Non si trovò nessun chirurgo, allora il padre la riportò a Nicosia per farle riabbracciare la sua famiglia. E lì, tra i suoi cari, Costanza esalò l'ultimo respiro. Finì così la sua giovane vita.
Fu insignita della medaglia Florence Nightingale il 12 maggio 1947 ed anche della medaglia d'oro della CRI e della medaglia di bronzo al valor militare.
Le sue spoglie riposarono per cinque anni nel piccolo cimitero di Nicosia e, in seguito, furono traslate nella Chiesa del Pantheon a Siracusa, dove riposano a fianco di altri eroi di guerra.
Fonti
Angela Barbagallo, Costanza Bruno, in Siciliane a cura di Marinella Fiume, Emanuele Romeo Editore 2006, pp. 447-448
Ester Rizzo, Siciliane Illustri: le crocerossine Teresa De Caprio e Costanza Bruno, in La Vedetta, maggio 2013
Burchi Maria Teresa (Teresina)
(Sestola (MO), 1877 – 1963)
A Modena c’è una via “T.Burchi” ma naturalmente, poiché la targa porta solo l’iniziale del nome, nessuno si rende conto che è una strada dedicata ad una donna, e che donna! Anche il Comune di Sestola le ha intitolato una via
Che voce! E che carattere!
di Roberta Pinelli
Famosa soprano, una delle cantanti liriche italiane più famose della sua generazione, la cui voce di estensione amplissima e la versatilità, oltre che il temperamento, la resero la più rappresentativa cantante lirica dei primi trent’anni del Novecento.
Diede prova del suo temperamento anche nella vita privata: ragazza madre, nel 1894, a 17 anni, partorì una figlia, a cui diede nome Domitilla e che allevò da sola.
Nacque a Sestola (MO) il 1 maggio 1877.
Studiò a Roma e a Modena, poi si perfezionò a Milano con il maestro Carlo Vallini, allora insegnante anche al Conservatorio di Boston. Debuttò nel 1903 al Teatro Duse di Bologna in Gioconda (che poi riprese nel maggio del 1904 al Teatro Storchi di Modena) e nel 1906 a Genova in Andrea Chenier di Giordano. Negli anni successivi ebbe notevole successo presso i più importanti teatri italiani in ruoli drammatici, come Gioconda, Aida, San Valentino e negli Ugonotti di Meyerbeer. Fu considerata la migliore Santuzza di Cavalleria Rusticana e per questo furichiesta molte volte dallo stesso Mascagni. Si esibì anche nei più importanti teatri europei (Corfù, S.Pietroburgo, Barcellona, Valencia e Madrid) e nel 1917 andò in tournée in America del Sud (Rio de Janeiro e S.Paolo) con Enrico Caruso, riscuotendo enorme successo. Si dedicò poi alle opere di Wagner, di cui fu considerata la maggiore interprete italiana, soprattutto di Tristano e Isotta. Al termine della carriera (nel 1928) si dedicò all’insegnamento del canto a Milano e nel 1933 sposò Lotario, fratello della grande attrice modenese Virginia Reiter. Nel castello di Sestola, in due salette usate fino al secondo dopoguerra come cucine, è stata allestita una mostra permanente in suo onore: “La stanza dei ricordi di Teresina Burchi”, dove sono esposti documenti, fotografie, abiti e oggetti di scena a lei appartenuti. Morì a Milano il 12 marzo 1963 e fu sepolta a Sestola
Della sua straordinaria voce restano tre incisioni: la scena del suicidio dalla Gioconda di Ponchielli, Casta diva dalla Norma di Bellini e O sommo Carlo dall’Ernani di Verdi.
Fonti:
Burchi Marisa (a cura di), Teresina Burchi in Reiter. Una voce sestolese nel mondo (1877-1963), Modena, Edizioni Il Fiorino, 2001, 195 pp. + cd audio
http://www.lavoceantica.it
http://parita.regione.emilia-romagna.i
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