Forse il nostro gruppo (Associazione Toponomastica femminile) sta facendo un buon lavoro di sensibilizzazione, se l’idea di intitolare qualche spazio cittadino a donne celebri incomincia a conquistare anche terreni difficili come Torino. Dove nel luglio scorso c’è stata più di una novità nel campo della toponomastica femminile.
Una riguarda la dedica di uno spazio verde nella Circoscrizione 10, deliberata in memoria di Felicita Ferrero, interessante personaggio della Torino operaia e socialista dei primi decenni del secolo scorso. Di lei ci rimane il libro di memorie “Un nocciolo di verità”, uscito alla fine degli anni ’70 con la prefazione di Rachele Farina, un’opera che illumina dal di dentro un pezzo di storia del Partito comunista italiano, ponendo agli storici più di un interrogativo.
Felicita nasce a Torino, in “barriera” di Lanzo, periferia Nord della città, nel 1899. Il padre è operaio specializzato, la madre pantalonaia. La giovane, che si interessa molto presto alla politica, nel ’21 si iscrive al Partito comunista appena fondato, e da questo viene inviata a Mosca, come delegata al Congresso dell’Internazionale giovanile. Qui Felicita ha modo di vedere e ascoltare i capi del comunismo sovietico, ma anche rivoluzionarie come Alessandra Kollontaj e Clara Zetkin. Inoltre, pur non dichiarandosi a favore di un movimento femminile autonomo, perché per lei la lotta di classe rimane un obiettivo primario, tuttavia non può fare a meno di osservare con occhio critico il ruolo subordinato che il partito riserva alle donne.
Mentre l’evoluzione della politica italiana costringe alla clandestinità chi si oppone al fascismo, Felicita si lega a Velio Spano, con cui condivide ideali e rischi. Rimarrà la più importante, anche se sfortunata, storia d’amore della sua vita. Nel 1927 vengono arrestati entrambi e condannati a sei anni di galera. Lei esce dal carcere di Trani nel ’32 e per evitare altri arresti fugge a Parigi con Velio. Ma la prigionia ha minato gravemente la sua salute, e lui la lascia per un’altra. Sempre più malata, Felicita viene mandata dal partito a Mosca, per curarsi. Guarisce e, come tanti altri dirigenti del Pci, rimane a vivere nella capitale dell’Unione Sovietica, incappando nelle purghe staliniane. Nel 1934, mentre lavora per Radio Mosca, viene convocata dalla polizia politica, che le contesta un fatto avvenuto durante la detenzione: si era lasciata convincere dalle monache a seguire la messa. Questo episodio, che già in Italia aveva suscitato sospetti e critiche dentro al partito, ora diventa un elemento di ricatto. Per uscire dalla Lubianka Felicita accetta di diventare informatrice della NKVD, cosa che la farà sentire in colpa per il resto della sua vita, come confessa nel suo memoriale.
Lascia l’Unione Sovietica solo nel ’46, alla fine della guerra, e torna a Torino, dove lavora per il quotidiano L’Unità. Ma nel ’56, quando scoppia la rivoluzione in Ungheria, sceglie di stare dalla parte degli insorti, perde il lavoro e nel ’57 decide di lasciare il Pci.
Muore nel 1984, per le conseguenze della caduta dovuta a uno scippo, nella sua città che solo ora, a più di trent’anni dalla scomparsa, ha deciso di ricordarne la travagliata – ma significativa e coraggiosa – esperienza di vita.
A distanza di cinque mesi dalla delibera, però, una targa non c’è ancora. Che cosa ne dobbiamo pensare?