Le donne nei loro mille ruoli di loro di madri, lavoratrici amiche o compagne sono state molto spesso solo comparse o spalle di chi la storia la dominava, gli uomini e le loro figure sono andate perdute nella storia del nostro secolo. Anche i libri parlano poco spesso loro.
E per questo motivo che dobbiamo ringraziare Ester Rizzo che in collaborazione con Barbara Belotti ha coordinato ”Le Mille“, un appassionante compendio che si prefigge di raccogliere in un’unica opere le vite e le vicende di mille donne che per la prima volta hanno raggiunto un riconoscimento in un mondo dominato dagli uomini.
La prima di cui parliamo è Gianna Manzini che nel 1971, è stata prima scrittrice a vincere il Premio Campiello con “Ritratto in piedi”.
Era nata a Pistoia nel 1896 ed è morta a Roma nel 1974
A lei sono intitolate due vie: una a San Benedetto del Tronto e l’altra a Pistoia. Sempre a Pistoia, la sala della biblioteca “San Giorgio” che ospita la narrativa italiana e straniera porta il suo nome.
Gianna Manzini fa parte di quella folta schiera di scrittrici ingiustamente fatte precipitare nell’oblio.E il destino ha voluto che, per errore, Joyce, che avrebbe voluto leggere un suo racconto spinto da una recensione entusiastica di uno scrittore francese, nel suo epistolario sbagliasse il nome della scrittrice indicando al suo posto quello della Deledda: un errore che non è stato mai più rettificato. Gianna nasce a nel 1914 si trasferisce con la madre a Firenze per completare gli studi. Quando sta per ultimare la sua tesi di laurea, conosce Bruno Fallaci, giornalista de “La Nazione.” I due si innamorano e nel 1920 convolano a nozze e lei proprio sul quotidiano in cui scrive il marito, inizia a pubblicare i primi racconti.Dopo ben otto anni esordisce con la sua prima opera, Tempo innamorato. La critica è molto favorevole e il libro viene definito una “ventata di novità” nel panorama letterario di quei tempi. Le figure del padre e della madre ricorrono spesso nei libri di Gianna Manzini, soprattutto il primo che era stato un anarchico rivoluzionario, morto in un agguato fascista. Questa morte prematura fu sempre vissuta dalla scrittrice come una sorta di “rimorso della memoria”. Quel padre fiero, immolatosi per la libertà, lo ritroviamo nel romanzo Ritratto in piedi pubblicato nel 1971 dove “sul filo di una rievocazione teneramente affettuosa” vengono ricostruiti i momenti più importanti della sua famiglia: l’ambiente anarchico con i compagni di fede del padre, la separazione dei suoi genitori voluta fortemente da sua madre che riteneva pericolosamente utopistiche le idee del marito e quei tanti momenti di incomprensione tra padre e figlia pacificati solo con la morte: “Ma rimasta sola, senza la tua guida, io sbando, finisco col cercare altro, o cerco male. Sola: ho freddo, babbo”. . Un suo precedente romanzo edito nel 1956, La Sparviera, con il quale vinse il premio Viareggio nello stesso anno e che era scritto con “una sottile analisi psicologica e sentimentale ed uno stile molto raffinato”, fece dichiarare a Giuseppe Ungaretti: “una delle pochissime opere di cui parlerà la gente di domani”. La gente di oggi, invece, neanche sa che è esistita una scrittrice che si chiamava Gianna Manzini.Tra gli altri suoi scritti: Venti racconti, Incontro col falco, Un filo di brezza, Allegro con disperazione, Cara prigione, Il valzer del diavolo, Sulla Soglia. In quest’ultimo la scrittrice rievoca il rapporto con la madre. L’opera racconta un colloquio tra due donne che avviene nello scompartimento di un treno. Durante l’avanzare di questo treno sui binari, che in fondo sono quelli della vita, si materializzano in quello spazio angusto e ristretto la madre e quattro viaggiatori senza bagagli che, come un coro della tragedia greca, discutono i ricordi che hanno condizionato la vita della madre. Quest’ultima era “l’ascolto passivo”, “l’attesa rassegnazione” in contrapposizione a suo padre che rappresentava la fierezza, la libertà da difendere. In fondo le immagini dei suoi genitori altro non rappresentano che i due simboli della condizione umana. Anche Montale ebbe parole lusinghiere per lei: “Gianna Manzini ha fatto già molto e molto ancora può fare per il romanzo italiano”. Nel 1930 fu l’unica donna scelta da Elio Vittorini e da Enrico Falqui per l’antologia Scrittori nuovi. E proprio con Falqui nel 1934 iniziò una nuova relazione e si trasferì a Roma. Nella città eterna Gianna venne forse contagiata dalla frivolezza degli ambienti e si cimentò come cronista di moda. Diventò inoltre collaboratrice del Giornale d’Italia, di Oggi e di Fiera letteraria, curando anche rubriche fisse ma firmandosi con due pseudonimi: Pamela e Vanessa. Margherita Ghilardi, tracciando il suo profilo, così scrive: “Fu la sola distrazione concessa ad un impegno che fu tirannico e assoluto”. Un impegno che la portò con le sue opere a fuggire nel mondo dei ricordi e dei sogni per tentare di sottrarsi alla solitudine umana.
Tratto da “le Mille i primati delle donne” dell’Associazione Toponomastica femminile a cura di Ester Rizzo.
continua….