Sulla vetta più elevata dei monti Prenestini, nel Subappennino laziale, sorge il centro abitato più alto della regione, Guadagnolo, che prende nome dall’omonimo rilievo. Il piccolo nucleo, che conta appena 55 abitanti, rientra nel territorio di Capranica Prenestina e, dai suoi 1.218 metri di quota, offre uno dei panorami più ampi dell’Italia centrale, tra il Tirreno e il Gran Sasso. Nel borgo montano si ricordano soltanto massari e priori, rigorosamente uomini, e delle donne che devono necessariamente aver popolato il luogo si sono perse le tracce. La memoria femminile non ha trovato grande spazio neppure più a valle, dove il Comune madre, a 6 km di distanza, non è stato certo generoso verso le sue cittadine: 76 aree di circolazione, con 27 titolazioni maschili e 3 femminili (Maria Maddalena, la Madonna delle fratte e Anna Barberini Colonna, di cui parleremo in seguito).
Sul versante orientale del monte Guadagnolo, a 500 metri di quota, sorge Pisoniano, che deve il suo nome a una villa patrizia in località Rotte, ove trovò rifugio, dopo l’attentato, Caio Calpurnio Pisone, console romano che partecipò alla congiura di Nerone. Il territorio appartenne per diversi secoli all’Abbazia di Subiaco, poi fu ceduto ai Colonna, quindi agli Orsini e, nel 1572, alla famiglia Theodoli, che vi eresse un palazzo turrito. Pisoniano conserva numerose testimonianze della sua storia antica, ma ha perso le tracce delle donne che vi abitarono. I dati toponomastici dell’Agenzia del territorio, infatti, segnalano la presenza di sole due strade intitolate a donne (le sante Vittoria e Maria).
Non molto diversa l’odonomastica di San Vito Romano, che conta 68 strade, di cui 20 maschili e 3 femminili, riassunte in un’intitolazione multipla a santa Maria, intestataria di una piazza, un vicolo e una via. Simile anche la storia dell’abitato. Posta tra i monti Simbruini, gli Ernici e i Lepini e affacciata sulla valle del Sacco, San Vito fu feudo dei monaci benedettini, poi proprietà dei Colonna e in seguito della famiglia Theodoli, ancora oggi proprietaria della rocca, che ne ha determinato le sorti, l’impianto urbanistico e l’odonomastica cittadina.
di Maria Pia Ercolini
Una nobildonna e una viaggiatrice sui monti a est di Roma
A Capranica Prenestina, su tre strade intitolate a donne, due rientrano nella sfera del sacro, la terza è dedicata alla memoria di una nobildonna romana: Anna Colonna (1601-1658), che come figlia di Filippo Colonna, principe di Paliano, e di Lucrezia Tomacelli, era Principessa di Paliano. Il 14 ottobre 1627, all'età di 26 anni, Anna sposò Taddeo Barberini, principe di Palestrina (poi prefetto di Roma), di due anni più giovane. Il matrimonio fu celebrato dallo zio di Taddeo, Papa Urbano VIII Barberini, a Castel Gandolfo. In questo castello uno stemma dove le api araldiche dei Barberini si aggiungono alla colonna, simbolo appunto della famiglia di Anna, ricorda l’evento. Taddeo fu l'unico dei suoi fratelli che non intraprese la carriera ecclesiastica e perciò, pur essendo secondogenito, alla morte del padre ereditò tutti i beni, le cariche e i titoli, e per tutto il pontificato di Urbano VIII, noto per il suo sfrenato nepotismo, fu implicato nella vita politica dello Stato della Chiesa, nonostante ne avesse scarse capacità, dedicandosi ad aumentare le sue ricchezze, più che ad agire nell’interesse pubblico.
Anna, che aveva dato alla luce cinque figli, divenne quindi una delle donne più potenti della città e dei paesi circostanti. Il suo status è ben testimoniato dalla elargizione di gioielli e ricchi premi ai partecipanti di un torneo indetto per la visita a Roma, nel 1634, del principe Alessandro Carlo Vasa di Polonia. Alla morte di Urbano VIII il rancore contro i Barberini esplose: dopo un processo intentato da Innocenzo X, Taddeo e i figli fuggirono in Francia, mentre Anna rimase a Roma a tutela degli interessi di famiglia; nel 1646 Anna raggiunse il marito e i figli a Parigi, ma non prima di aver fatto un appello appassionato al Papa, esortandolo a non privare i Barberini dei loro beni. Taddeo morì in Francia nel 1647 e Anna tornò in Italia. Le due famiglie si riconciliarono col matrimonio del figlio Maffeo con la nipote di donna Olimpia Pamphilj, cognata del papa.
Accanto alla via intitolata alla principessa Colonna un’altra strada potrebbe ricordare una dotta viaggiatrice degli inizi dell’800, innamorata di questi luoghi: Maria Graham. Nata a Cockermouth nella contea britannica di Cumberland il 19 luglio 1785, figlia di un ufficiale della marina inglese, durante la sua adolescenza seguì il padre nei suoi spostamenti. A Bombay si innamorò di Thomas Graham, anche lui ufficiale di marina, e i due si sposarono in India nel 1809. A Londra, durante le assenze del marito, Maria si dedicava a lavori di traduzione e editing. Cominciò a scrivere libri per bambini, in cui curava anche le illustrazioni. Nel 1819 visse in Italia per un certo periodo, lasciando ricordo della sua permanenza in un libro che pubblicò l’anno successivo a Londra: “Tre mesi trascorsi nelle montagne a est di Roma”. In alcuni capitoli parla di una visita a Palestrina, in altri fa riferimento a Poli e Capranica. Nei suoi scritti, in cui testimonia la presenza massiccia di briganti, l'ansia e il terrore della gente del luogo, Maria si comporta come una moderna reporter: segue gli accadimenti in prima linea, intervista i locali e anche gli zingari di passaggio. La narrazione è intervallata da aneddoti e digressioni storiche, riflessioni sociologiche e descrizioni paesaggistiche. Il suo peregrinare era, infatti, alimentato dallo stesso interesse che ha motivato Byron e tanti altri a viaggiare in Italia in quegli anni.
Fu poi in Cile, insieme al marito, che nel 1822 morì di febbre: Maria, rimasta vedova, visse tra i cileni per un anno intero, disdegnando la compagnia degli inglesi del posto, che giudicava volgari, anche se molto civili. Durante il suo viaggio di ritorno in Gran Bretagna si fermò in Brasile fino al 1825, legandosi alla famiglia reale. Tornata a Londra, fece della sua casa un punto di riferimento per gli intellettuali londinesi. Nel 1827 sposò Augusto Callcott e con lui intraprese un nuovo viaggio, fermandosi anche in Italia. A questa seconda avventura si deve la “Descrizione della Cappella di Giotto a Padova”. Rimasta disabile per un’emorragia, non poté più viaggiare, ma continuò a scrivere. Descrisse il terremoto del Cile del 1822, suscitando un dibattito all’interno della società geologica. Morì il 21 novembre 1842.
A Pisoniano due sono le strade intitolate a donne, una a santa Maria, l’altra a santa Vittoria, protettrice della città. Vittoria, che apparteneva a una potente famiglia romana del III secolo, vi si rifugiò insieme alla sorella Anatolia per sfuggire alle persecuzioni contro i cristiani. La chiesa a lei intitolata pare sia stata costruita proprio sul luogo dove la santa dimorò e conserva una tavola del X-XI secolo che la ritrae nell’atto di benedire con la mano destra, mentre con la sinistra tiene un drago legato a una corda. Sono state dimenticate nella toponomastica cittadina le tante donne che a Pisoniano e in tutta la valle dell’Aniene si sono occupate, dal XVII secolo a pochi decenni fa, della lavorazione della canapa. Nel 1997 è stato allestito uno specifico museo, che illustra il processo di coltivazione e lavorazione della fibra ed espone gli strumenti necessari alla sua tessitura. Ora, con lo spopolamento e l’emigrazione, l’attività è scomparsa, ma le donne di Pisoniano sono ancora protagoniste delle tradizioni legate al mondo rurale e raccolgono, tagliuzzano e costruiscono i quadri per l’infiorata, considerata una delle più belle del Lazio.
Molto più difficile trovare presenze storiche femminili a San Vito Romano, dove tre aree ricordano la sola santa Maria. Nelle pagine di rete collegate alla cittadina non sono emerse tracce muliebri degna di nota, il che suggerisce di promuovere una ricerca ad hoc consultando i documenti del vasto archivio storico locale, ubicato all’interno del palazzo municipale: un’indagine doverosa, per restituire a San Vito Romano la memoria dell’altra metà del cielo.
di Gabriella Miele e Livia Capasso