Un albero generoso per Roberta

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Abitavo allora a Rende, periferia di Cosenza, espansione moderna del capoluogo calabrese. La notizia si diffuse in un baleno: il padre della ragazza era persona nota in città. Si erano perse le tracce di Roberta, mentre da Rende col suo motorino, attraverso la strada di Falconara, si dirigeva verso la costa tirrenica.

Pomeriggio del 26 luglio 1988: Roberta Lanzino, 19 anni, studentessa di Scienze economiche all’Università della Calabria, sta andando al mare, a San Lucido, dove la famiglia possiede una villetta.

PiazzaRobertaLanzinoAmendolara520I genitori, Franco e Matilde, la seguono con la loro auto, ma si attardano per delle soste impreviste; Roberta, secondo le loro indicazioni, fa la strada di Falconara, arriva a un bivio e, non sapendo quale strada prendere, si ferma e chiede informazioni a 4 giovani in un furgoncino, tre fratelli e una sorella, che le suggeriscono di imboccare la strada a sinistra e la invitano a seguirli, perché anche loro vanno da quella parte. I genitori arriveranno a quel bivio 10 minuti dopo di lei e prenderanno la strada a destra, che porta anch’essa al mare. A un certo punto però i giovani, arrivati a destinazione, si fermano e danno indicazioni a Roberta su come proseguire: superato il prossimo bivio dei trulli, deve andare diritta. Mentre Roberta si allontana, sopraggiunge una Fiat 131 con due uomini a bordo, che, dopo averla seguita, la bloccano lungo un sentiero isolato e l’aggrediscono: la colpiscono al collo e alla testa con un coltello, la violentano e le conficcano in gola, per ridurla al silenzio, delle spalline da donna che la soffocano. Intanto i genitori arrivano a S. Lucido, ma Roberta non c’è. Immediatamente avvertono i carabinieri. Alle 6.30 del mattino successivo, a circa due chilometri dal bivio dei trulli, vengono ritrovati prima il motorino e poi in un pianoro ricoperto di erba alta il cadavere della ragazza. È seminuda, indossa jeans tagliati e strappati; ha due tagli alla nuca, tre coltellate, una ferita alla gola e una caviglia slogata: deve aver lottato con tutte le sue forze, prima di cedere ai suoi assassini! Le prime indagini non portano ad alcun risultato: i tre fratelli Frangella, accusati del crimine, vengono rilasciati perché gli indizi non sono sufficienti. Due di loro, nel processo in corso, chiamati a testimoniare, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, e sono accusati di falsa testimonianza.

Inoltre alcuni reperti fondamentali per le indagini vengono trovati in ritardo e in cattivo stato di conservazione. I depistaggi continuano con lettere anonime spedite a magistrati e avvocati in cui si indicano come responsabili dell’omicidio figli di noti professionisti cosentini.

Una svolta definitiva alle indagini si ha solo nel 2007, grazie alle rivelazioni del pentito Franco Pino, un tempo incontrastato boss della malavita cosentina, che avrebbe avuto informazioni riguardanti la morte di Roberta quando era detenuto nel carcere di Catanzaro. Un compagno di cella, Romeo Calvano, gli avrebbe rivelato i nomi degli assassini, ma la sua confidenza non ha trovato conferma nel corso dell’interrogatorio. Vengono accusati dell’omicidio l’agricoltore Francesco Sansone e il pastore Luigi Carbone, entrambi residenti a non molta distanza dal luogo del delitto.

Sansone era tra l’altro il proprietario, nel 1988, di una Fiat 131 Mirafiori che più testimoni dissero d’aver visto seguire Roberta a bordo del suo motorino. Sansone è stato rinviato a giudizio e il processo in corte d’assise, presso il tribunale di Paola, è ancora in corso; è accusato anche di altri tre delitti: nel 1989 (con la complicità di suo padre e di suo fratello) ha sciolto nell’acido Luigi Carbone, considerato inaffidabile; sempre nel 1989, avrebbe ucciso un ex maresciallo di polizia giudiziaria e nel 1990 una donna che si dice fosse la sua ex fidanzata (probabilmente perché sapeva anche lei qualcosa sull’omicidio di Roberta). Per questi crimini Sansone ha finora scontato 20 dei 30 anni di detenzione a cui è stato condannato; dal 2009 è iniziato il processo a suo carico per l’omicidio e lo stupro di Roberta e per l’uccisione di Carbone. A 25 anni dalla scomparsa dell’adorata figlia, i genitori insomma ancora aspettano di conoscere la verità.

Intanto, nel 1989, appena un anno dopo la morte di Roberta, Franco e Matilde Lanzino hanno dato vita alla Fondazione che porta il nome della figlia. Nata in un momento in cui parlare di violenza sessuale sulle donne era quasi un tabù e la parola “femminicidio” non era stata ancora coniata, è divenuta sempre più nota, allargandosi su tutto il territorio nazionale. La Fondazione si occupa di dare sostegno economico e legale a donne e minori che versano in situazioni difficili; è stata anche creata la Casa di Roberta, su un suolo concesso in comodato dal Comune di Rende, con annessi ambulatori medici, per accogliere e dare ospitalità a donne e minori (foto Lamezia Terme. Via Roberta Lanzino) costretti a lasciare la propria casa per violenza sessista. Inoltre vengono continuamente promosse attività culturali, come concorsi in scuole pubbliche o borse di studio, per diffondere la cultura della non-violenza.

Il 6 Giugno a Roma, nell’Aula magna della scuola media Winckelmann, sono stati premiati gli studenti vincitori della ventesima edizione del concorso sul tema della lotta alla violenza contro le donne, che la Fondazione indice annualmente in quella scuola dove l’aula dei professori porta il nome di Roberta. Franco e Matilde Lanzino sono stati recentemente nominati Cavalieri della Repubblica. A Roberta sono intitolate vie a Cosenza, Cariati (CS), Lamezia Terme, Soveria Mannelli (CZ), Rocca di Neto (KR) e una piazza ad Amendolara. Purtroppo i dati relativi ai casi di femminicidio continuano a essere allarmanti: si registra l’uccisione di una donna ogni tre giorni. Per denunciare questa violenza assurda, per non dimenticare le tante donne uccise, per scuotere la coscienza civica, soprattutto nelle scuole, Toponomastica femminile propone di ricordare le vittime con un albero da frutta, un piccolo frutteto pubblico, un’area verde che continui a produrre vita, là dove questa vita è stata recisa, e una panchina dove meditare, incontrarsi e progettare soluzioni perché si ponga fine a questa carneficina.

E per Roberta rivolgiamo l’appello ai comuni dove si è svolta la sua breve esistenza: Rende e San Lucido allora si attivino per non dimenticarla!