Anna Foà
Anna Foà, nata a Roma nel 1876, si è laureata in entomologia. La passione per lo studio e la ricerca le consentirono di raggiungere ruoli di spicco nell’ambiente universitario, fino a essere l’unica donna italiana ebrea presente fra i professori ordinari. Già nel 1905 le venne affidata, nel laboratorio di Fauglia (PI), la responsabilità di condurre esperimenti e lavori di osservazione su alcuni parassiti. Grazie ai successi scientifici raggiunti, la sua presenza divenne un riferimento importante per le giovani laureande. Nel 1917 ottenne la libera docenza e la nomina di delegata fitopatologica al Ministero dell’Agricoltura e il Commercio.
Nel 1921, dopo aver vinto i concorsi a professore ordinario presso le Scuole Superiori di Agricoltura di Perugia e di Portici, si trasferì in Campania per continuare le sue ricerche nel campo della bachicoltura. Nel 1924 arrivò la nomina a professora ordinaria all’Università di Napoli. Il prestigioso incarico e i meriti che fino ad allora le erano stati riconosciuti si infransero contro le leggi razziali introdotte in Italia nel 1938.
Proprio perché ebrea, venne cacciata dai ruoli universitari e allontanata anche dalla Società dei Naturalisti Italiani. Un destino tragico che l’accomuna a molti scienziati, docenti ed intellettuali italiani ma con una differenza. Se dei primi conosciamo molto, di lei – come di molte altre studiose – sappiamo molto poco. Anna Foà muore nel 1944.
di Chiara Rusconi
Settimia Spizzichino
A Settimia Spizzichino, romana, sono state intitolate, nella nostra città, una strada e una scuola. Anche Cava de’ Tirreni, che l’accolse e le donò la cittadinanza onoraria, ha una via con il suo nome.
Settimia nasce a Roma il 15 aprile del 1921. Abitava con la famiglia in via della Reginella quando, all’alba del 16 ottobre del 1943, fu prelevata con altri 1014 ebrei dai militari tedeschi che occupavano Roma, per essere trasferita al Collegio Militare di Piazza della Rovere. Poi il 18 ottobre, partì dalla Stazione Tiburtina. Direzione Auschwitz.
Dei 1015 solo in sedici ritornarono, quindici uomini e una donna. Quella donna era Settimia.
Da allora visse sempre nella certezza che il senso del suo ritorno fosse la testimonianza, che della sua vita volesse ricordare tutto, anche quella terribile esperienza che si chiama Auschwitz. Che la vita per lei, sopravvissuta al Lager, avesse un fine fondamentale e imprescindibile: la diffusione della memoria, anche per tanti altri che dai Lager non sono usciti.
Seguiterò a raccontare, scrive nel suo libro di memorie “Gli anni rubati”, finché avrò vita. Per questo, credo, sono tornata: per raccontare.
Settimia è morta nel 2000, lasciandoci parole che sono insieme cristallo tagliente e struggimento infinito. Non c’è mediazione, né affabulazione nella narrazione. Solo verità d’una purezza che ammutolisce.
La dedica del suo libro di memorie, recita: Alle quarantasette ragazze che sono morte ad Auschwitz, mie compagne di prigionia.
di Vittorina Sacco
Fulvia Ripa di Meana
«Ho letto nei loro occhi dilatati dal terrore, nei loro visetti pallidi di pena, nelle loro manine che si aggrappavano spasmodiche alla fiancata del camion, la paura folle che li invadeva, il terrore di quello che avevano visto e udito, l’ansia atroce dei loro cuoricini per quello che ancora li attendeva».
Con queste parole, Fulvia Ripa di Meana, descrive gli orrori della deportazione degli ebrei a Roma nell’ottobre del 1943, ricordi vivi, palpitanti che raccolse in un diario tenuto durante i nove mesi dell’occupazione tedesca, “a caldo” giorno dopo giorno «perché il tempo non ne annebbiasse i contorni o ne falsasse l’esattezza».
Nata nel 1901 da una nobile famiglia piemontese (il padre Carlo Schanzer era stato ministro nei governi Nitti e Facta), sposò Giulio Ripa di Meana, ufficiale dell’esercito, dal quale ebbe sette figli. La sua casa di Roma, al numero 47 di via Bruxelles, nel quartiere Parioli, divenne una sorta di “quartier generale” della Resistenza, dove ella visse in prima linea l’organizzazione delle bande partigiane e dove suo cugino, il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, Capo del Fronte militare clandestino romano, trovò rifugio prima di essere catturato dai tedeschi e fucilato tra i martiri delle Fosse Ardeatine. Fulvia, con coraggio e patimento e nonostante tutti gli impegni familiari, fece di tutto per salvarlo, arrivando perfino al cospetto di Pio XII.
Nominata “Signora della resistenza”, nell’aprile del 1954 le venne conferita la Croce di guerra al valor militare per la sua attività nel fronte della resistenza capitolina.
di Rita Ambrosino