Monir Shahroudy Farmanfarmaian
Ester Rizzo

Martina Zinni

 

Monir Sharhroudy è stata sicuramente un’artista che è riuscita a creare una mirabile fusione tra l’artigianato tradizionale iraniano e l’astrazione moderna tramite l’incorporazione di motivi geometrici negli specchi a mosaico: un perfetto connubio tra arte persiana e astrazione occidentale. Monir, inoltre, ha espresso la sua vena artistica anche tramite tessuti, assemblaggi scultorei, tappeti e gioielli.

Donne in astrazione

Era nata il 16 dicembre del 1922 a Qavzin, città religiosa ubicata sull’altopiano centrale dell’Iran. Crebbe in seno a una famiglia colta e in un’antica casa colma di dipinti murali, di vetri colorati e di usignoli. Sin dall’infanzia dimostrò una spiccata sensibilità artistica e i familiari le concessero di fruire di lezioni di disegno tramite un tutor. La sua curiosità per l’arte occidentale la spingeva a studiare ogni piccolo dettaglio delle cartoline illustrate che provenivano da un’altra parte di mondo. Dopo aver frequentato la facoltà di Belle Arti dell’Università di Teheran, nel 1944, durante la Seconda guerra mondiale, si trasferì a New York per perfezionare i suoi studi alla Cornell University e in seguito alla Parsons School of Design e all’Art Students League. In realtà lei avrebbe voluto proseguire la formazione a Parigi ma il conflitto mondiale in corso glielo impedì.

La sua nuova vita americana le offrì occasioni di scambi e di crescita culturale. Fu amica di Joan Mitchell, Andy Warhol, Jackson Pollock, Milton Avery e di Louise Nevelson. Quest’ultima, figura femminile emblematica dell’Arte del Novecento, era una scultrice ucraina naturalizzata americana la cui arte scaturiva dall’assemblaggio di mobili e suppellettili usate, soprattutto in legno. Da ognuna di queste conoscenze Monir apprendeva avidamente nuovi stili e nuove prospettive artistiche. Per un certo periodo fu anche freelance e collaborò come illustratrice di moda con varie riviste, tra cui Glamour. Nel 1950 convolò a nozze con l’artista iraniano Manoucher Yektai ma il matrimonio fu breve; infatti, divorziarono dopo appena tre anni di vita in comune. Si risposò con Abol-Bashar Mirza Farmam Framaian, membro di una delle più antiche famiglie persiane in cui si annoverano nella dinastia anche principi. Con lui visse fino al 1991, anno in cui restò vedova e con due figlie.

Ritornata definitivamente in Iran nel 1992, proseguì a lavorare nel suo Paese d’origine fino alla morte avvenuta il 20 aprile del 2019. La sua è stata definita un’arte multidimensionale che «incorpora una svariata gamma di influenze compositive che partono comunque quasi sempre dalla geometria». Lei stessa dichiarò:

«il mio lavoro si basa in gran parte sulla geometria che inizia sempre con un unico punto e da lì può spostarsi in un cerchio. Oppure un punto può diventare tre che portano ad un triangolo, o quattro a un quadrato, cinque un pentagono… un esagono, un ottagono e così via: è infinito».

Giochi di specchio e disegni, 2004-2016 Terza famiglia, 2011 Fontana Khayyam

Quando intorno agli anni Settanta si recò in visita alla moschea di Shah Ceragh, a Shiraz, fu rapita dall’alta cupola ricoperta di minuscoli specchi: un’antica decorazione denominata ainh-kari. Questa decorazione si diffuse intorno al 1500 in Iran quando spesso il vetro importato dall’Europa arrivava frantumato per la difficoltà dei trasporti in quei tempi. Quella cupola magnifica e luminosa costituì un punto di svolta nel suo percorso artistico:

«Lo spazio stesso sembrava in fiamme, le lampade ardevano in centinaia di migliaia di riflessi… era un universo a sé stante, l’architettura trasformata in performance, tutto movimento e luce fluida, tutti i solidi fratturati e dissolti in splendore nello spazio, in preghiera. Ero sopraffatta».

Avvalendosi dell’aiuto di artigiani iraniani creò una serie di mosaici tagliando gli specchi in varie forme secondo un mestiere tradizionale che si tramandava di padre in figlio. Il miracolo artistico che Monir Sharhroudy riuscì a compiere fu quello, comunque, di creare opere artistiche che avevano radici iraniane ma che al contempo si intrecciavano ad altre culture.

Le sue composizioni hanno sempre ricevuto ampi consensi e il plauso della critica. Nel 1958 ricevette una medaglia d’oro al padiglione iraniano della Biennale di Venezia. Molte sue opere si possono ammirare al Museo d’Arte Contemporanea di Teheran e al Metropolitan Museum of Art di New York. Tantissime mostre temporanee dei suoi lavori sono state accolte al MoMA e al Guggenheim di New York, al Victoria & Albert Museum di Londra e in altri prestigiose istituzioni di Boston, Chicago, Huston, Parigi, Vienna, Porto, Beirut, Tokyo, Dubai. Il 16 dicembre del 2017, a Teheran, nei giardini dello storico parco Negarestan è stato inaugurato il Monir Museum, il primo museo iraniano interamente dedicato a una donna artista che raccoglie 51 opere da lei stessa donate. Nel 2014 è stato prodotto, con il sostegno dell’Iran Heritage Foundation, un docufilm dal titolo Monir che racconta la storia di questa grande artista attraverso filmati e interviste d’archivio per arrivare agli ultimi anni della sua attività e agli ultimi progetti a cui si dedicava. In una delle interviste dichiarò:

«Io non sono un’intellettuale. Osservo molto. Qualsiasi cosa io realizzi è grazie ai miei occhi. Per un certo periodo viaggiare mi ha aiutato molto. Osservare diversi Paesi e diverse culture ha creato su di me una sorta di intelligenza ottica».

Molti critici e critiche d’arte sono concordi nell’affermare che la sua arte evoca una danza di luce, che suscita meraviglia e al contempo induce alla riflessione e alla contemplazione.

Il linguaggio dei simboli

Traduzione francese

Lucrezia Pratesi

Monir Shahroudy fut sans aucun doute une artiste qui réussit à créer une admirable fusion entre l’artisanat traditionnel iranien et l’abstraction moderne, en incorporant des motifs géométriques dans des miroirs en mosaïque : une parfaite alliance entre l’art persan et l’abstraction occidentale. Monir exprima également son talent artistique à travers les textiles, les assemblages sculpturaux, les tapis et les bijoux.

Femmes en abstraction

Elle naquit le 16 décembre 1922 à Qavzin, une ville religieuse située sur le plateau central de l’Iran. Elle grandit au sein d’une famille cultivée, dans une ancienne maison ornée de peintures murales, de vitraux colorés et peuplée du chant des rossignols. Dès l’enfance, elle manifesta une sensibilité artistique marquée, et sa famille lui permit de prendre des cours de dessin avec un précepteur. Sa curiosité pour l’art occidental la poussait à étudier chaque détail des cartes postales illustrées venues d’un autre coin du monde. Après avoir fréquenté la faculté des Beaux-Arts de l’Université de Téhéran, elle s’installa à New York en 1944, pendant la Seconde Guerre mondiale, afin de poursuivre ses études à la Cornell University, puis à la Parsons School of Design et à l’Art Students League. En réalité, elle aurait souhaité poursuivre sa formation à Paris, mais le conflit mondial en cours l’en empêcha.

Sa nouvelle vie américaine lui offrit de nombreuses occasions d’échanges et d’enrichissement culturel. Elle se lia d’amitié avec Joan Mitchell, Andy Warhol, Jackson Pollock, Milton Avery et Louise Nevelson. Cette dernière, figure féminine emblématique de l’art du XXe siècle, était une sculptrice d’origine ukrainienne naturalisée américaine, dont les œuvres naissaient de l’assemblage de meubles et d’objets domestiques usagés, souvent en bois. De chacune de ces rencontres, Monir absorbait avidement de nouveaux styles et de nouvelles perspectives artistiques. Pendant un certain temps, elle travailla aussi en freelance comme illustratrice de mode pour divers magazines, dont Glamour. En 1950, elle épousa l’artiste iranien Manoucher Yektai, mais le mariage fut de courte durée : ils divorcèrent après seulement trois ans de vie commune. Elle se remaria ensuite avec Abol-Bashar Mirza Farmanfarmaian, membre de l’une des plus anciennes familles persanes, où l’on comptait également des princes. Elle vécut avec lui jusqu’en 1991, année de son veuvage, avec deux filles à charge.

De retour définitivement en Iran en 1992, elle continua à travailler dans son pays natal jusqu’à sa mort, survenue le 20 avril 2019. Son art a été défini comme un art multidimensionnel qui « incorpore une large gamme d’influences compositionnelles, presque toujours fondées sur la géométrie ». Elle-même déclara:

«Mon travail repose en grande partie sur la géométrie, qui commence toujours par un seul point, et de là peut se déployer en un cercle. Ou bien un point peut devenir trois, formant un triangle ; quatre, un carré ; cinq, un pentagone… un hexagone, un octogone, et ainsi de suite: c’est infini».

Jeux de miroir et dessins, 2004-2016 Troisième famille, 2011 Fontaine Khayyam

Vers les années soixante-dix, lors d’une visite à la mosquée Shah Cheragh à Shiraz, elle fut profondément fascinée par la grande coupole recouverte de minuscules miroirs : une ancienne décoration appelée ainé-kari. Cette technique se diffusa en Iran autour de 1500, lorsque le verre importé d’Europe arrivait souvent brisé à cause des difficultés de transport. Cette coupole magnifique et lumineuse constitua un tournant dans son parcours artistique:

«L’espace lui-même semblait en feu, les lampes brûlaient dans des centaines de milliers de reflets… c’était un univers à part, l’architecture transformée en performance, tout n’était que mouvement et lumière fluide, les formes solides se fracturaient et se dissolvaient en splendeur dans l’espace, en prière. J’étais submergée».

Avec l’aide d’artisans iraniens, elle réalisa une série de mosaïques en découpant les miroirs selon un savoir-faire traditionnel transmis de père en fils. Le miracle artistique accompli par Monir Shahroudy fut de créer des œuvres profondément enracinées dans la culture iranienne tout en s’ouvrant à d’autres influences culturelles.

Ses compositions furent toujours accueillies avec enthousiasme et louées par la critique. En 1958, elle reçut une médaille d’or au pavillon iranien de la Biennale de Venise. Nombre de ses œuvres sont visibles au Musée d’Art Contemporain de Téhéran et au Metropolitan Museum of Art de New York. De nombreuses expositions temporaires de ses travaux ont été présentées au MoMA et au Guggenheim de New York, au Victoria & Albert Museum de Londres, ainsi que dans d’autres prestigieuses institutions à Boston, Chicago, Houston, Paris, Vienne, Porto, Beyrouth, Tokyo et Dubaï. Le 16 décembre 2017, à Téhéran, dans les jardins du parc historique Negarestan, a été inauguré le Monir Museum, premier musée iranien entièrement consacré à une femme artiste, réunissant 51 œuvres qu’elle avait elle-même offertes. En 2014, un documentaire intitulé Monir a été produit avec le soutien de l’Iran Heritage Foundation. Ce film retrace la vie de cette grande artiste à travers des images d’archives et des entretiens, jusqu’aux dernières années de sa carrière et à ses projets ultimes. Dans l’une de ces interviews, elle affirma:

«Je ne suis pas une intellectuelle. J’observe beaucoup. Tout ce que je réalise vient de mes yeux. Voyager m’a beaucoup aidée pendant un certain temps. Observer différents pays et différentes cultures m’a donné une sorte d’intelligence optique».

De nombreux critiques d’art s’accordent à dire que son œuvre évoque une danse de lumière, suscitant à la fois l’émerveillement, la réflexion et la contemplation.

Le langage des symboles

Traduzione spagnola

Laura Cavallaro

Monir Sharoudy fue sin duda una artista que logró crear una admirable fusión entre la artesanía tradicional iraní y la abstracción moderna mediante la incorporación de motivos geométricos en los espejos en mosaico: una perfecta unión entre el arte persa y la abstracción occidental. Además, Monir expresó su vena artística a través de tejidos, ensamblajes escultóricos, alfombras y joyas.

Mujeres en abstracción

Nació el 16 de diciembre de 1922 en Qazvín, una ciudad religiosa situada en la meseta central de Irán. Se crió en el seno de una familia culta y en una antigua casa llena de pinturas murales, vidrieras de colores y ruiseñores. Desde la infancia demostró una marcada sensibilidad artística y su familia le permitió recibir clases de dibujo con un tutor. Su curiosidad por el arte occidental la llevaba a estudiar con atención cada pequeño detalle de las postales ilustradas que llegaban de otras partes del mundo. Tras cursar sus estudios en la Facultad de Bellas Artes de la Universidad de Teherán, en 1944, durante la Segunda Guerra Mundial, se trasladó a Nueva York para perfeccionar su formación en la Cornell University y, posteriormente, en la Parsons School of Design y en la Art Students League. En realidad, ella habría querido continuar sus estudios en París, pero la guerra mundial en curso se lo impidió.

Su nueva vida en Estados Unidos le ofreció oportunidades de intercambio y crecimiento cultural. Fue amiga de Joan Mitchell, Andy Warhol, Jackson Pollock, Milton Avery y Louise Nevelson. Esta última, una figura femenina emblemática del arte del siglo XX, era una escultora ucraniana nacionalizada estadounidense cuya obra surgía del ensamblaje de muebles y utensilios usados, sobre todo de madera. De cada una de estas amistades Monir aprendía con avidez nuevos estilos y nuevas perspectivas artísticas. Durante un tiempo trabajó también como independiente, colaborando como ilustradora de moda para diversas revistas, entre ellas Glamour. En 1950 contrajo matrimonio se casó con el artista iraní Manoucher Yektai, pero el matrimonio fue breve: se divorciaron tras apenas tres años de vida en común. Posteriormente se casó con Abol-Bashar Mirza Farman Farmaian, miembro de una de las familias persas más antiguas, en cuya dinastía se contaban incluso príncipes. Vivió con él hasta 1991, año en que enviudó y se quedó con dos hijas.

Regresó definitivamente a Irán en 1992, siguió trabajando en su país natal hasta su muerte, que ocurrió el 20 de abril de 2019. Su arte ha sido definido como multidimensional, ya que «incorpora una amplia gama de influencias compositivas que parten casi siempre de la geometría». Ella misma declaró:

«Mi trabajo se basa en gran parte en la geometría, que siempre comienza con un único punto, y desde ahí puede expandirse en un círculo. O bien un punto puede convertirse en tres, que forman un triángulo, o cuatro, que hacen un cuadrado, cinco, un pentágono… un hexágono, un octágono, y así sucesivamente: es infinito».

Juegos de espejos y dibujos, 2004-2016 Tercera familia, 2011 Fuente Khayyam

Cuando en los años setenta visitó la mezquita de Shah Cheragh, en Shiraz, quedó fascinada por la alta cúpula recubierta de diminutos espejos: una antigua decoración llamada ainh-kari. Esta ornamentación se difundió alrededor del año 1500 en Irán, cuando con frecuencia el vidrio importado de Europa llegaba roto debido a las dificultades del transporte en aquellos tiempos. Aquella cúpula magnífica y luminosa representó un punto de inflexión en su trayectoria artística:

«El espacio mismo parecía estar en llamas; las lámparas ardían en cientos de miles de reflejos… era un universo propio, la arquitectura transformada en una actuación, todo movimiento y luz fluida, todos los sólidos fracturados y disueltos en esplendor en el espacio, en oración. Estaba agobiada».

Con la ayuda de artesanos iraníes creó una serie de mosaicos cortando los espejos en distintas formas, siguiendo un oficio tradicional transmitido de padres a hijos. El milagro artístico que Monir Sharoudy consiguió fue el de crear obras con raíces iraníes que, al mismo tiempo, se entrelazaban con otras culturas.

Sus composiciones siempre recibieron gran reconocimiento y elogios de la crítica. En 1958 obtuvo una medalla de oro en el pabellón iraní de la Bienal de Venecia. Muchas de sus obras pueden admirarse en el Museo de Arte Contemporáneo de Teherán y en el Metropolitan Museum of Art de Nueva York. Numerosas exposiciones temporales de sus trabajos han sido acogidas por el MoMA y el Guggenheim de Nueva York, el Victoria & Albert Museum de Londres y otras prestigiosas instituciones de Boston, Chicago, Houston, París, Viena, Oporto, Beirut, Tokio y Dubái. El 16 de diciembre de 2017, en Teherán, en los jardines del histórico parque Negarestan, se inauguró el Museo Monir, el primer museo iraní dedicado por completo a una mujer artista, que alberga 51 obras donadas por ella misma. En 2014 se produjo, con el apoyo de la Iran Heritage Foundation, un documental titulado Monir, que narra la historia de esta gran artista a través de grabaciones y entrevistas de archivo hasta llegar a los últimos años de su vida y a los proyectos finales en los que trabajaba. En una de las entrevistas afirma:

«No soy una intelectual. Observo mucho. Todo lo que realizo es gracias a mis ojos. Durante un tiempo, viajar me ayudó mucho. Observar distintos países y culturas desarrolló en mí una especie de inteligencia óptica».

Muchos críticos de arte coinciden en afirmar que su obra evoca una danza de luz, que provoca asombro y, al mismo tiempo, invita a la reflexión y la contemplación.

El lenguaje de los símbolos

Traduzione inglese

Syd Stapleton

Monir Sharhroudy was certainly an artist who managed to create an admirable fusion of traditional Iranian craftsmanship and modern abstraction through the incorporation of geometric patterns in mosaic mirrors - a perfect blend of Persian art and Western abstraction. Monir also expressed her artistic vein through textiles, sculptural assemblages, carpets and jewelry. 

Women in abstraction

She was born on December 16, 1922, in Qavzin, a religious town located on Iran's central plateau. She grew up in the bosom of an educated family and in an old house filled with wall paintings, stained glass and nightingales. From childhood she demonstrated a keen artistic sensibility, and family members granted her drawing lessons through a tutor. Her curiosity for Western art drove her to study every little detail of picture postcards that came from another part of the world. After attending the Faculty of Fine Arts at the University of Tehran, she moved to New York in 1944 during World War II to further her studies at Cornell University and later at Parsons School of Design and the Art Students League. She actually wanted to continue her education in Paris but the ongoing world conflict prevented her from doing so.

Her new American life offered her opportunities for exchange and cultural growth. She was friends with Joan Mitchell, Andy Warhol, Jackson Pollock, Milton Avery and Louise Nevelson. The latter, an emblematic female figure in twentieth-century art, was a naturalized Ukrainian American sculptor whose art stemmed from assembling used furniture and furnishings, mostly made of wood. From each of these acquaintances Monir eagerly learned new styles and new artistic perspectives. For a time she also freelanced and worked as a fashion illustrator with various magazines, including Glamour. In 1950 she married Iranian artist Manoucher Yektai but the marriage was short-lived; in fact, they divorced after just three years of living together. She remarried Abol-Bashar Mirza Farmam Framaian, a member of one of the oldest Persian families in which princes are also counted in the dynasty. She lived with him until 1991, when she was widowed with two daughters.

She returned permanently to Iran in 1992 and continued to work in her home country until her death on April 20, 2019. Hers has been called a multidimensional art that "incorporates a diverse range of compositional influences that almost always start from geometry, however." She herself stated:

«My work is largely based on geometry that always begins with a single point and from there can move into a circle. Or one point can become three leading to a triangle, or four to a square, five a pentagon ... a hexagon, an octagon and so on: it's infinite».

Mirror games and drawings, 2004-2016 Third family, 2011 Khayyam fountain

When she visited the Shah Ceragh Mosque in Shiraz around the 1970s, she was enraptured by the high dome covered with tiny mirrors: an ancient decoration called ainh-kari. This decoration spread around 1500 in Iran when glass imported from Europe often arrived shattered due to the difficulty of transportation in those times. That magnificent, luminous dome constituted a turning point in her artistic journey:

«The space itself seemed to be on fire, the lamps blazing in hundreds of thousands of reflections...it was a universe unto itself, architecture turned into performance, all movement and fluid light, all solids fractured and dissolved into splendor in space, into prayer. I was overwhelmed.».

Enlisting the help of Iranian craftsmen, she created a series of mosaics by cutting mirrors into various shapes according to a traditional craft passed down from father to son. The artistic miracle that Monir Sharhroudy managed to accomplish, however, was to create artistic works that had Iranian roots but at the same time were intertwined with other cultures.

Her compositions always received wide acclaim and critical acclaim. In 1958 she received a gold medal at the Iranian pavilion of the Venice Biennale. Many of her works can be seen at the Tehran Museum of Contemporary Art and the Metropolitan Museum of Art in New York. Many temporary exhibitions of her work have been welcomed at MoMA and the Guggenheim in New York, the Victoria & Albert Museum in London, and other prestigious institutions in Boston, Chicago, Huston, Paris, Vienna, Porto, Beirut, Tokyo, and Dubai. On December 16, 2017, in Tehran, the Monir Museum, Iran's first museum entirely dedicated to a woman artist, was inaugurated in the gardens of the historic Negarestan Park, collecting 51 works donated by her. In 2014, a docufilm entitled Monir was produced with the support of the Iran Heritage Foundation, which tells the story of this great artist through archival footage and interviews to get to the last years of her work and the last projects to which she devoted herself. In one of the interviews she stated:

«I am not an intellectual. I observe a lot. Whatever I accomplish is through my eyes. For a time traveling helped me a lot. Observing different countries and different cultures has created a kind of optical intelligence for me».

Many critics and art critics agree that her art evokes a dance of light, which arouses wonder and at the same time induces reflection and contemplation.

The language of symbols

 

Niki de Saint Phalle
Ester Rizzo

Martina Zinni

 

Il suo vero nome era Catherine-Marie-Agnès Fal de Saint Phalle. Definita pittrice, scultrice e regista, era nata a Neuilly-sur-Seine, nella regione dell’Ile-de-France, il 29 ottobre del 1930, dall’attrice statunitense Jeanne Jacqueline Harper e dal banchiere francese André Marie Fal de Saint Phalle. Dopo la crisi del 1929 e il crollo dei mercati finanziari, la famiglia si trasferì a New York nel 1937.

In America Niki de Saint Phalle proseguì gli studi e molte fonti concordano nell’affermare che era una bambina ribelle con problemi che la portarono a cambiare frequentemente scuole. Molto probabilmente, quei “problemi scolastici a causa di irrequietezza” erano correlati agli abusi sessuali che aveva subito dal padre da ragazzina. Questa esperienza tragica la segnò per tutta la vita e verosimilmente si collega a gran parte della sua produzione artistica. La doppia nazionalità, francese e americana, le offrirà una vita intessuta di viaggi, di amicizie con persone di varia nazionalità e l’apprendimento di diverse lingue. La sua personalità eclettica la portò inizialmente a cimentarsi nella letteratura, in seguito iniziò a studiare recitazione aspirando alla carriera di attrice. Ebbe anche qualche esperienza come fotomodella di Vogue e Life per poi approdare al cinema. Ricordiamo la sua piece teatrale All About Me e i film Daddy e Camelia e il drago.

Si era laureata nel 1947 alla Oldfield School, nel Maryland, ma nel 1950 scappò di casa e si sposò con lo scrittore Harry Mathews. Da questa unione nacquero la figlia Laura e il figlio Philip. Nel 1952 la coppia si trasferì a Parigi e Niki de Saint Phalle si avvicinò al movimento dei Nouveaux Réalistes. Diventerà, in seguito, l’unica donna a farne parte. Nel 1953 fu ricoverata per un periodo in ospedale a Nizza a causa di una forte crisi di nervi ed è proprio in questa occasione che scoprì il valore terapeutico della pittura. Dopo il divorzio dal primo marito si risposò, nel 1971, con Jean Tinguely e la loro unione fu anche un sodalizio artistico che produsse opere grandiose ed originali come la Fontana Stravinsky di Parigi ubicata nella piazza del Centre Pompidou, la fontana di Chateau-Chinon, il Ciclope di Milly-la Foret, o il Giardino dei Tarocchi di Garavicchio (presso Capalbio) in Toscana. Diventò famosa nel campo artistico negli anni Sessanta grazie ai Tirs o Shooting Paintings. Erano delle performance battezzate “Fuoco a volontà” in cui l’artista o il pubblico sparavano con delle carabine a dei rilievi di gesso, posti sulla superficie di una tavola, provocando l’esplosione di sacchetti ricolmi di pittura colorata. Niki de Saint Phalle spiegava:

«Il dipinto era la vittima. Chi era il dipinto? Papà? Tutti gli uomini? Uomini piccoli? Uomini alti? Uomini grassi… grandi?... O forse il dipinto era me?... il dipinto subiva una metamorfosi che lo trasformava in un tabernacolo di morte e resurrezione. Sparavo a me stessa, alla società con le sue ingiustizie. Stavo sparando alla mia stessa violenza e alla violenza dei tempi. Sparando alla mia stessa violenza, non dovevo portarmela dentro».

Dopo questa strategia artistica molto provocatoria che comunque attirò l’attenzione su di lei, decise di creare opere dalla dimensione più intima e femminile. Cominciò a dipingere spose e donne incinte, donne i cui ruoli troviamo preponderanti nella società. Due anni dopo i Tirs realizzò l’installazione temporanea Hon/Elle: una enorme donna incinta multicolore progettata per il Museo di Stoccolma. Il pubblico poteva entrare in questo corpo gigantesco di plastica tramite una apertura collocata in corrispondenza della vagina. Dentro Hon si trovavano un planetario, un acquario, un cinema, una galleria d’arte e perfino un bar. Niki riempie così il corpo femminile, il mistero ancestrale buio del suo corpo: Hon, femmina e gigantessa, si impone alla città, a chi vi abita e anche al sistema dell’Arte. In questa rivisitazione pop del femminile rimane comunque una donna che «avvolge, sovrasta, domina e determina naturalmente piacere e desiderio», come scrive Martina Corgnati nel suo Artiste. Hon, come prevedibile, suscitò notevoli polemiche. Ma le figure a cui si associa più frequentemente il nome dell’artista sono le Nanas, enormi sculture femminili policrome di gusto pop che si contrappongono alle figure delle pin up. Le Nanas sono prorompenti, con seni, glutei e addomi accentuati e non corrispondono certo all’ideale erotico e sensuale dettato dalla moda o dalla pubblicità.

Con le Nanas le donne si liberano dagli stereotipi e ritornano alla Grande Madre Primitiva, sottraendosi al ruolo di oggetto del desiderio e diventando soggetto. Sono, come lei ama definirle: «le donne libere, sicure di sé… che hanno conquistato il proprio potere». Le prime le realizzò intorno al 1965 ed erano create con lana, cartapesta e fili di ferro. Questi materiali furono poi sostituiti dal poliestere. Fu proprio l’inalazione delle esalazioni della sostanza che le causò gravi problemi di salute ai polmoni. Scrive sempre Martina Corgnati:

«… all’idea maschile del potere, al dominio simbolico sull’altro come origine di ogni grandezza, Niki de Saint Phalle contrappone un’idea femminile della grandezza come condizione fisica, fertile, amichevole e nutriente. All’incombenza simbolica del potere maschile, grande in quanto oppressivo, l’artista sostituisce la gigantesca generosità del corpo femminile».

Le Nanas sono sicuramente creazioni originali che indicano un nuovo linguaggio estetico e che costringono a riflettere sia sul femminile che sul femminismo.

   

A metà degli anni Settanta, elaborò l’idea della creazione di un parco di sculture in un luogo da sogno dove liberare la sua fantasia creando gioia e spensieratezza nell’animo di visitatori e visitatrici. Nacque così Il Giardino dei Tarocchi, in una vasta area nei pressi di Capalbio, donata da Marella Caracciolo. È questa un’opera d’arte a cielo aperto che si ispira ai ventidue arcani maggiori dei tarocchi con grandi sculture in metallo rivestite di calcestruzzo e decorate con mosaici di specchio, ceramica e vetro. È un felice connubio tra arte e architettura immerse nella natura. La creazione del Giardino risente sicuramente degli influssi del Parco Guell di Barcellona e del Sacro Bosco di Bomarzo ma qui l’atmosfera che si percepisce visitandolo è gioiosa. Non ci sono angoli spigolosi, dominano le curve, le sculture hanno un’elevata sinuosità mentre frammenti di specchi e maioliche catturano, scompongono e restituiscono la luce del sole. Anche i colori hanno un codice simbolico e sulle stradine del Parco si trovano citazioni, pensieri, disegni e messaggi di fede e di speranza. La costruzione del Giardino dei Tarocchi è stata interamente finanziata dalla stessa autrice con una cifra di circa dieci miliardi delle vecchie lire. Per reperire questa ingente somma, Niki de Saint Phalle firmò anche un contratto per realizzare il profumo Cochran in una bottiglietta di cristallo blu che è una piccola opera d’arte: «Questo giardino era il mio sposo, il mio amore. Era tutto per me. Nessun sacrificio era troppo grande». All’interno del parco si trova la scultura dell’Imperatrice - Sfinge dove abitò l’artista durante i lavori di realizzazione che durarono ben dieci anni.

Alla morte del marito, nel 1991, Niki ereditò il suo patrimonio che decise di donare alla città di Basilea per costruire un museo a lui intitolato. Poco dopo lasciò definitivamente l’Europa e si trasferì in California. L’ambiente che la circondava influenzò la sua produzione artistica e fu così che iniziò a creare sculture di gabbiani, delfini, orche e foche. Niki de Saint Phalle collaborò anche con l’architetto svizzero Mario Botta nella realizzazione del Nohh’s Ark: un parco di sculture di animali a Gerusalemme che, diversamente da quanto raccontato nella Bibbia, abbandonano l’Arca per cercare rifugio sulla Terra. Oltre la sua attività artistica è giusto ricordare l'impegno nella campagna contro l’Aids con la realizzazione di un libro da lei scritto e illustrato e con la firma di un francobollo per le Poste svizzere.

Il 21 maggio del 2022 ha cessato di vivere a San Diego all’età di settantuno anni. Al Museo di Arte contemporanea di Hannover si trova la maggiore collezione di questa artista la cui genialità creativa l’ha consacrata tra le più importanti protagoniste dell’Arte del Novecento.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

Son vrai nom était Catherine-Marie-Agnès Fal de Saint Phalle. Définie comme peintre, sculptrice et réalisatrice, elle est née à Neuilly-sur-Seine, dans la région de l’Ile-de-France, le 29 octobre de 1930, de l’actrice américaine Jeanne Jacqueline Harper et du banquier français André Marie Fal de Saint Phalle. Depuis la crise de 1929 et l’effondrement des marchés financiers, la famille déménage à New York en 1937.

Aux États-Unis, Niki de Saint Phalle poursuit ses études et de nombreuses sources s’accordent à dire qu’elle était une enfant rebelle, confrontée à des difficultés qui l’ont poussée à changer souvent d’école. Très probablement, ces “problèmes scolaires liés à son agitation” étaient liés aux abus sexuels qu’elle avait subis de la part de son père lorsqu’elle était jeune. Cette expérience tragique l’a marquée pour toute sa vie et se reflète très vraisemblablement dans une grande partie de son œuvre artistique. Sa double nationalité, française et américaine, lui offrira une vie faite de voyages, d’amitiés avec des personnes d’origines différentes et l’apprentissage de plusieurs langues. Sa personnalité éclectique l’a conduite d’abord vers la littérature, puis vers le théâtre, aspirant à devenir actrice. Elle a également travaillé comme mannequin pour Vogue et Life, avant d’arriver au cinéma. On se souvient de sa pièce All About Me et de ses films Daddy et Camélia et le dragon.

Elle avait obtenu sa licence à la Oldfield School, dans le Maryland, en 1947, mais en 1950 elle a fugué et s’est mariée avec l’écrivain Harry Mathews. De cette union sont nés leur fille Laura et leur fils Philip. En 1952, le couple a déménagé à Paris et Niki de Saint Phalle s’est rapprochée du mouvement des Nouveaux Réalistes. Elle deviendra ensuite la seule femme à en faire partie. En 1953, elle a été hospitalisée pendant un certain temps à Nice en raison d’une grave crise de nerfs, et c’est précisément à cette occasion qu’elle a découvert la valeur thérapeutique de la peinture. Après son divorce, elle s’est remariée en 1971 avec Jean Tinguely, et leur union est devenue également un partenariat artistique qui a donné naissance à des œuvres grandioses et originales comme la Fontaine Stravinsky à Paris, située près du Centre Pompidou, la fontaine de Château-Chinon, le Cyclope de Milly-la-Forêt, ou encore le Jardin des Tarots de Garavicchio (près de Capalbio), en Toscane. Elle est devenue célèbre dans les années soixante grâce aux Tirs ou Shooting Paintings. Il s’agissait de performances baptisées “Tir à volonté” où l’artiste ou le public tiraient à la carabine sur des reliefs en plâtre fixés sur une planche, provoquant ainsi l’explosion de sachets remplis de peinture colorée. Niki de Saint Phalle expliquait:

«Le tableau était la victime. Qui était le tableau? Papa? Tous les hommes? Des petits hommes? Grands? Gros?… Ou peut-être que le tableau, c’était moi?… Le tableau subissait une métamorphose qui le transformait en un tabernacle de mort et de résurrection. Je tirais sur moi-même, sur la société et ses injustices. Je tirais sur ma propre violence et sur la violence de l’époque. En tirant sur ma propre violence, je n’avais plus besoin de la porter en moi».

Après cette stratégie artistique très provocatrice, qui avait tout de même attiré beaucoup d’attention sur elle, elle a choisi de créer des œuvres plus intimes et féminines.

Elle a commencé à peindre des mariées et des femmes enceintes, des figures féminines occupant un rôle central dans la société. Deux ans après les Tirs, elle a réalisé l’installation temporaire Hon/Elle: une immense femme enceinte multicolore conçue pour le musée de Stockholm. Le public pouvait entrer dans ce gigantesque corps de plastique par une ouverture située au niveau du vagin. À l’intérieur de Hon se trouvaient un planétarium, un aquarium, un cinéma, une galerie d’art et même un bar. Niki y remplit ainsi le corps féminin, le mystère ancestral et obscur du féminin: Hon, femme et géante, s’impose à la ville, à ses habitants et même au système de l’Art. Dans cette revisitation pop du féminin, elle demeure une figure qui «enveloppe, domine et détermine naturellement le plaisir et le désir», comme l’écrit Martina Corgnati dans Artiste. Hon a, comme on peut l’imaginer, suscité de nombreuses polémiques. Mais les figures les plus étroitement associées au nom de l’artiste restent les Nanas, d’immenses sculptures féminines polychromes d’inspiration pop, qui s’opposent à l’image de la pin-up. Les Nanas sont exubérantes, avec des seins, des fesses et des ventres accentués, bien loin de l’idéal érotique imposé par la mode ou la publicité.

Avec les Nanas, les femmes se libèrent des stéréotypes et reviennent à la Grande Mère Primitive, en cessant d’être objets du désir pour devenir sujets. Ce sont, comme elle aimait les définir, «des femmes libres, sûres d’elles… qui ont conquis leur propre pouvoir». Les premières, qu’elle a créées autour de 1965, étaient faites de laine, de papier mâché et de fil de fer. Ces matériaux ont ensuite été remplacés par le polyester. L’inhalation des vapeurs de cette substance a malheureusement provoqué chez elle de graves problèmes pulmonaires. Martina Corgnati écrit également:

«… à l’idée masculine du pouvoir, à la domination symbolique de l’autre comme origine de toute grandeur, Niki de Saint Phalle oppose une idée féminine de la grandeur comme condition physique, fertile, amicale et nourricière. À l’écrasante symbolique du pouvoir masculin, grand parce que oppressif, l’artiste substitue la générosité gigantesque du corps féminin».

Las Nanas son sin duda creaciones originales que anuncian un nuevo lenguaje estético y obligan a reflexionar tanto sobre lo femenino como sobre el feminismo.

   

Les Nanas sont assurément des créations originales, porteuses d’un langage esthétique nouveau, qui obligent à réfléchir sur le féminin et sur le féminisme.

Au milieu des années soixante-dix, elle a conçu l’idée d’un parc de sculptures dans un lieu de rêve, où elle pourrait libérer son imagination et offrir joie et légèreté aux visiteurs. Ainsi est né le Jardin des Tarots, sur une vaste parcelle près de Capalbio, offerte par Marella Caracciolo. Il s’agit d’une œuvre d’art à ciel ouvert, inspirée des vingt-deux arcanes majeurs du tarot, composée de grandes sculptures métalliques recouvertes de béton et décorées de mosaïques de miroirs, de céramique et de verre. C’est une heureuse union entre art et architecture, immergée dans la nature. Le Jardin reflète sans doute l’influence du Parc Güell à Barcelone ou du Sacro Bosco de Bomarzo, mais l’atmosphère qui s’y dégage est joyeuse: aucune ligne anguleuse, une domination des courbes, des sculptures très sinueuses, des fragments de miroirs et de faïences qui captent, décomposent et renvoient la lumière du soleil. Les couleurs suivent également un code symbolique, et dans les allées du Parc on peut lire des citations, pensées, dessins et messages de foi et d’espérance. La construction du Jardin des Tarots a été entièrement financée par l’artiste elle-même, pour un montant d’environ dix milliards de lires. Pour réunir cette somme considérable, Niki de Saint Phalle a même signé un contrat pour créer le parfum Cochran, présenté dans un flacon en cristal bleu, véritable petite œuvre d’art: «Ce jardin était mon époux, mon amour. Il était tout pour moi. Aucun sacrifice n’était trop grand.» À l’intérieur du parc se trouve la sculpture de l’Impératrice-Sphinx, où l’artiste a vécu pendant les dix années de construction.

À la mort de son mari, en 1991, Niki a hérité de son patrimoine et a décidé de le donner à la ville de Bâle pour construire un musée en son honneur. Peu après, elle a quitté définitivement l’Europe et s’est installée en Californie. Le nouvel environnement a influencé sa production artistique, et elle a commencé à créer des sculptures de goélands, dauphins, orques et phoques. Niki de Saint Phalle a collaboré également avec l’architecte suisse Mario Botta à la réalisation de Noah's Ark, un parc de sculptures d’animaux à Jérusalem où, contrairement au récit biblique, les animaux quittent l’Arche pour chercher refuge sur Terre. Au-delà de son activité artistique, il faut rappeler son engagement dans la lutte contre le sida, avec la création d’un livre qu’elle a écrit et illustré, ainsi qu’un timbre pour la Poste suisse.

Elle s’est éteinte le 21 mai 2022 à San Diego, à l’âge de soixante et onze ans. Le Musée d’art contemporain de Hanovre conserve la plus grande collection de cette artiste dont la créativité l’a consacrée comme l’une des figures majeures de l’Art du XXᵉ siècle.


Traduzione spagnola

Francesco Rapisarda

Su verdadero nombre era Catherine-Marie-Agnès Fal de Saint Phalle. Reconocida como pintora, escultora y directora, nació en Neuilly-sur-Seine, en la región de Île-de-France, el 29 de octubre de 1930, hija de la actriz estadounidense Jeanne Jacqueline Harper y del banquero francés André Marie Fal de Saint Phalle. Después de la crisis de 1929 y el colapso de los mercados financieros, la familia se mudó a Nueva York en 1937.

En Estados Unidos, Niki de Saint Phalle continuó sus estudios y muchas fuentes coinciden en afirmar que era una niña rebelde, con problemas que la llevaron a cambiar de escuela con frecuencia. Muy probablemente, esos “problemas escolares debidos a su inquietud” estaban relacionados con los abusos sexuales que había sufrido por parte de su padre cuando era niña. Esta trágica experiencia la marcó para toda la vida y, verosímilmente, está vinculada a gran parte de su producción artística. Su doble nacionalidad, francesa y estadounidense, le ofreció una vida llena de viajes, amistades con personas de distintas nacionalidades y el aprendizaje de varios idiomas. Su personalidad ecléctica la llevó inicialmente a dedicarse a la literatura; posteriormente comenzó a estudiar actuación con la aspiración de convertirse en actriz. También tuvo algunas experiencias como modelo fotográfica para Vogue y Life, antes de llegar al cine. Destacan su pieza teatral All About Me y las películas Daddy y Camelia y El Dragón.

Se graduó en 1947 en la Oldfield School, en Maryland, pero en 1950 huyó de casa y se casó con el escritor Harry Mathews. De dicha unión nacieron su hija Laura y su hijo Philip. En 1952, la pareja se trasladó a París, donde Niki de Saint Phalle se acercó al movimiento de los Nouveaux Réalistes, del que más tarde se convertiría en la única mujer integrante. En 1953, fue hospitalizada durante un tiempo en Niza a causa de una fuerte crisis nerviosa, y fue precisamente en esa ocasión cuando descubrió el valor terapéutico de la pintura. Después del divorcio de su primer marido, se volvió a casar en 1971 con Jean Tinguely, y su unión fue también un vínculo artístico que dio lugar a obras grandiosas y originales, como la Fuente Stravinsky de París –ubicada en la plaza del Centro Pompidou – la fuente de Château-Chinon, el Cíclope de Milly-la-Forêt y el Jardín del Tarot de Garavicchio (cerca de Capalbio), en Toscana. Se hizo famosa en el mundo del arte en los años sesenta gracias a sus Tirs o Shooting Paintings. Eran performances denominadas “¡Fuego a discreción!”, en las que la artista –o el público – disparaban con carabinas a relieves de yeso colocados sobre la superficie de una tabla, provocando la explosión de bolsitas llenas de pintura de colores. Niki de Saint Phalle explicaba:

«El cuadro era la víctima. ¿Quién era el cuadro? ¿Papá? ¿Todos los hombres? ¿Hombres pequeños? ¿Altos? ¿Gordos… grandes?... ¿O quizá el cuadro era yo?... El cuadro sufría una metamorfosis que lo transformaba en un tabernáculo de muerte y resurrección. Disparaba contra mí misma, contra la sociedad con sus injusticias. Disparando contra mi propia violencia y contra la violencia de la época. Disparando contra mi violencia, no tenía que cargarla dentro de mí».

Después de esta estrategia artística provocadora, que de todos modos atrajo la atención sobre ella, decidió crear obras de un carácter más íntimo y femenino.

Comenzó a pintar novias y mujeres embarazadas, figuras cuyos roles ocupan un lugar preponderante en la sociedad. Dos años después de los Tirs, realizó la instalación temporal Hon/Elle: una enorme mujer embarazada multicolor diseñada para el Museo de Estocolmo. El público podía entrar en ese cuerpo gigantesco de plástico a través de una abertura situada a la altura de la vagina. Dentro de Hon se encontraban un planetario, un acuario, un cine, una galería de arte e incluso un bar. Niki llena así el cuerpo femenino, el misterio ancestral y oscuro de su propio cuerpo: Hon, hembra y giganta, se impone a la ciudad, a quienes la habitan y también al sistema del Arte. En esta reinterpretación pop de lo femenino, sigue siendo una mujer que “envuelve, domina, sobrepasa y determina naturalmente placer y deseo”, como escribe Martina Corgnati en su libro Artiste. Hon, como era de esperar, suscitó intensas polémicas. Pero las figuras con las que más frecuentemente se asocia el nombre de la artista son las Nanas, enormes esculturas femeninas policromadas de gusto pop que se oponen a las figuras de las pin up. Las Nanas son exuberantes, con senos, glúteos y vientres acentuados, y no corresponden en absoluto al ideal erótico y sensual dictado por la moda o la publicidad.

Con las Nanas, las mujeres se liberan de los estereotipos y regresan a la Gran Madre Primitiva, escapando del papel de objeto del deseo para convertirse en sujeto. Son, como a ella le gustaba definirlas, “las mujeres libres, seguras de sí mismas… que han conquistado su propio poder”. Las primeras las realizó hacia 1965, y estaban hechas de lana, papel maché y alambres. Estos materiales fueron luego sustituidos por poliéster. Fue pPrecisamente la inhalación de los vapores de esta sustancia la que le causó graves problemas pulmonares. Escribe también Martina Corgnati:

«…a la idea masculina del poder, al dominio simbólico sobre el otro como origen de toda grandeza, Niki de Saint Phalle contrapone una idea femenina de la grandeza como condición física, fértil, amistosa y nutritiva. A la carga simbólica del poder masculino, grande por ser opresivo, la artista sustituye la gigantesca generosidad del cuerpo femenino».

Las Nanas son sin duda creaciones originales que anuncian un nuevo lenguaje estético y obligan a reflexionar tanto sobre lo femenino como sobre el feminismo.

   

A mediados de los años setenta, concibió la idea de crear un parque de esculturas en un lugar de ensueño donde liberar su fantasía, generando alegría y ligereza en el ánimo de quienes lo visitaran. Así nació El Jardín del Tarot, en una amplia zona cerca de Capalbio, donada por Marella Caracciolo. Es una obra de arte al aire libre inspirada en los veintidós arcanos mayores del tarot, con grandes esculturas de metal recubiertas de hormigón y decoradas con mosaicos de espejo, cerámica y vidrio. Es una feliz unión entre arte y arquitectura inmersas en la naturaleza. La creación del Jardín refleja sin duda las influencias del Parque Güell de Barcelona y del Sacro Bosco de Bomarzo, pero aquí la atmósfera que se percibe al visitarlo es alegre. No hay rincones angulosos: dominan las curvas, las esculturas tienen una gran sinuosidad, mientras fragmentos de espejos y azulejos capturan, descomponen y devuelven la luz del sol. También los colores siguen un código simbólico, y a lo largo de los senderos del parque se encuentran citas, pensamientos, dibujos y mensajes de fe y esperanza. La construcción del Jardín del Tarot fue financiada íntegramente por la propia artista con una suma de unos diez mil millones de las antiguas liras italianas. Para reunir esa enorme cantidad, Niki de Saint Phalle firmó incluso un contrato para crear el perfume Cochran, en una botellita de cristal azul que es en sí misma una pequeña obra de arte: “Este jardín era mi esposo, mi amor. Lo era todo para mí. Ningún sacrificio era demasiado grande.” Dentro del parque se encuentra la escultura de la Emperatriz-Esfinge, donde la artista vivió durante los diez años que duraron as obras de construcción.

A la muerte de su marido, en 1991, Niki heredó su patrimonio y decidió donarlo a la ciudad de Basilea para construir un museo en su honor. Poco después dejó definitivamente Europa y se trasladó a California. El entorno que la rodeaba influyó en su producción artística, y así comenzó a crear esculturas de gaviotas, delfines, orcas y focas. Niki de Saint Phalle colaboró también con el arquitecto suizo Mario Botta en la realización de Noah’s Ark: un parque de esculturas de animales en Jerusalén que, a diferencia de lo narrado en la Biblia, abandonan el Arca para buscar refugio en la Tierra. Además de su actividad artística, es justo recordar su compromiso en la campaña contra el sida, con la creación de un libro escrito e ilustrado por ella misma, y con el diseño de un sello postal para el servicio de correos suizo.

El 21 de mayo de 2002 falleció en San Diego a la edad de setenta y un años. En el Museo de Arte Contemporáneo de Hannover se encuentra la mayor colección de esta artista, cuya genialidad creativa la ha consagrado como una de las figuras más importantes del arte del siglo XX.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 Her real name was Catherine-Marie-Agnès Fal de Saint Phalle. Described as a painter, sculptor, and filmmaker, she was born in Neuilly-sur-Seine, in the Ile-de-France region, on October 29, 1930, to American actress Jeanne Jacqueline Harper and French banker André Marie Fal de Saint Phalle. After the 1929 crisis and the collapse of the financial markets, the family moved to New York in 1937.

In America Niki de Saint Phalle continued her studies and many sources agree that she was a rebellious child with problems that led her to change schools frequently. Most likely, those "school problems due to restlessness" were related to the sexual abuse she had suffered from her father as a young girl. This tragic experience marked her throughout her life and is likely connected to much of her artistic output. Her dual nationality, French and American, would provide her with a life interwoven with travel, friendships with people of various nationalities and the learning of several languages. Her eclectic personality initially led her to try her hand at literature. Later she began studying acting, aspiring to a career as an actress. She also had some experience as a model for Vogue and Life and then landed in film. We remember her play All About Me and the films Daddy and Camelia and the Dragon.

She was a 1947 graduate of Oldfield School, Maryland, but in 1950 she ran away from home and married writer Harry Mathews. From this union were born daughter Laura and son Philip. In 1952 the couple moved to Paris and Niki de Saint Phalle became involved in the Nouveaux Réalistes movement. She would later become the only woman to be a member. In 1953 she was hospitalized for a time in Nice because of a severe nervous breakdown, and it was on this occasion that she discovered the therapeutic value of painting. After her divorce from her first husband, she remarried in 1971 to Jean Tinguely, and their union was also an artistic partnership that produced such grand and original works as the Stravinsky Fountain in Paris located in the Centre Pompidou square, the Chateau-Chinon fountain, the Cyclops in Milly-la Foret, or the Tarot Garden in Garavicchio (near Capalbio) in Tuscany. She became famous in the artistic field in the 1960s thanks to the Tirs or Shooting Paintings. These were performances christened "Fire at Will" in which the artist or the audience fired rifles at plaster reliefs, placed on the surface of a board, causing bags filled with colored paint to explode. Niki de Saint Phalle explained:

«The painting was the victim. Who was the painting? Daddy? All the men? Little men? Tall men? Fat men... big men?... Or perhaps the painting was me?...the painting underwent a metamorphosis that transformed it into a tabernacle of death and resurrection. I was shooting at myself, at society with its injustices. I was shooting at my own violence and the violence of the times. By shooting at my own violence, I didn't have to carry it inside myself.».

After this very provocative artistic strategy that nonetheless drew attention to her, she decided to create works with a more intimate and feminine dimension. She began to paint brides and pregnant women, women whose roles we find preponderant in society. Two years later the Tirs created the temporary installation Hon/Elle: a huge multicolored pregnant woman designed for the Stockholm Museum. The public could enter this giant plastic body through an opening placed at the vagina. Inside Hon was a planetarium, an aquarium, a cinema, an art gallery and even a bar. Niki thus fills in the female body, the dark ancestral mystery of her body: Hon, female and a giantess, imposes herself on the city, its inhabitants, and even the Art system. In this pop reinterpretation of the feminine, however, she remains a woman who "envelops, overpowers, dominates and naturally determines pleasure and desire," as Martina Corgnati writes in her Artiste. Hon, predictably, aroused considerable controversy. But the figures with which the artist's name is most frequently associated are the Nanas, huge polychrome female sculptures with a pop flavor that contrast with the pin-up figures. Nanas are bursting, with accentuated breasts, buttocks and abdomens, and they certainly do not correspond to the erotic and sensual ideal dictated by fashion or advertising.

With the Nanas, women free themselves from stereotypes and return to the Great Primitive Mother, removing themselves from the role of object of desire and becoming subjects. They are, as she likes to call them, "the free, confident women ... who have conquered their own power." She first made them around 1965 and they were created with wool, papier-mâché and wire. These materials were later replaced by polyester. It was precisely the inhalation of that substance's fumes that caused her serious health problems in her lungs. Martina Corgnati again writes:

«... to the masculine idea of power, to the symbolic domination over the other as the origin of all greatness, Niki de Saint Phalle contrasts a feminine idea of greatness as a physical, fertile, friendly and nurturing condition. To the symbolic incumbency of male power, great as it is oppressive, the artist replaces the gigantic generosity of the female body..».

The Nanas are certainly original creations that point to a new aesthetic language and force reflection on both the feminine and feminism.

   

In the mid-1970s, she elaborated on the idea of creating a sculpture park in a dreamlike place where she could unleash her imagination, creating joy and lightheartedness in the souls of visitors and female visitors. Thus was born The Tarot Garden, in a vast area near Capalbio, donated by Marella Caracciolo. This is an open-air work of art inspired by the twenty-two major arcana of the tarot with large metal sculptures covered in concrete and decorated with mosaics of mirror, ceramic and glass. It is a happy combination of art and architecture immersed in nature. The creation of the Garden is definitely influenced by the influences of Barcelona's Guell Park and Bomarzo's Sacred Forest, but here the atmosphere one feels when visiting it is joyful. There are no angular corners, curves dominate, the sculptures have a high sinuosity while fragments of mirrors and majolica tiles capture, break down and return the sunlight. Even the colors have a symbolic code, and on the Park's alleys are quotes, thoughts, drawings and messages of faith and hope. The construction of the Tarot Garden was entirely financed by the author herself with a sum of about ten billion old lira. To raise this large sum, Niki de Saint Phalle also signed a contract to make Cochran perfume in a little blue crystal bottle that is a small work of art: "This garden was my spouse, my love. It was everything to me. No sacrifice was too great." Inside the park is the Empress-Sphinx sculpture where the artist lived during the construction work that lasted a full ten years.

When her husband died in 1991, Niki inherited his estate, which she decided to donate to the city of Basel to build a museum named after him. Shortly thereafter she left Europe for good and moved to California. Her surroundings influenced her artistic production and so it was that she began to create sculptures of seagulls, dolphins, orcas, and seals. Niki de Saint Phalle also collaborated with Swiss architect Mario Botta in the creation of Noah's Ark: a sculpture park of animals in Jerusalem that, unlike the story told in the Bible, leave the Ark to seek refuge on Earth. In addition to her artistic activity, it is fitting to mention her involvement in the campaign against AIDS by producing a book she wrote and illustrated and by signing a stamp for the Swiss Post.

On May 21, 2022, she died in San Diego at the age of seventy-one. The Museum of Contemporary Art in Hanover houses the largest collection of this artist whose creative brilliance established her among the most important protagonists of twentieth-century Art.

 

May Morris
Maia Chiara Pulcini

Katarzyna Oliwia

 

Non è purtroppo raro che nel tessuto intricato della storia le donne siano messe in ombra dai loro parenti maschili. Per lungo tempo questo è stato il caso di Mary Morris, meglio conosciuta come May Morris, il cui contributo alla scena artistica inglese è stato oscurato dall’ingombrante figura paterna, il pittore William. Non meno famosa fu sua madre, Jane Burden, modella per eccellenza del movimento preraffaellita. Un’eredità con un peso non indifferente, di cui May si è mostrata più che degna diventando una delle più preminenti e rivoluzionarie ricamatrici d’Inghilterra.

Nata il 25 marzo 1862 a Red House, a Bexleyheath, il giorno della Festa dell’Annunciazione, Mary, con sua sorella Jenny, impara a ricamare dalla madre e dalla zia materna Elizabeth “Bessie” Burden, dimostrando ben presto un eccezionale talento. Il 1862 è anche l’anno in cui il padre William fonda la Morris&Co, azienda che si occupa di produrre tessuti, carta da parati e vetrate colorate. La ragazza dunque cresce circondata dall’arte: nel salotto del maniero a Kelmscott, in West Oxfordshire, passano artisti preraffaelliti come Dante Gabriel Rossetti ed Edward Burne-Jones – di cui Morris sarà spesso una modella – e i più significativi rappresentanti del movimento Arts & Crafts. William ne era il maggiore esponente e si poneva l’obiettivo di combattere l’industrializzazione esaltando il lavoro artigianale, considerato l’unica vera espressione artistica umana, in grado, al contrario dei prodotti industriali, di durare nel tempo ed esser così testimonianza del nostro passaggio su questa terra.

Mary si iscrive alla Royal College of Art dove affina le proprie abilità e nel 1881 entra nella South Kensington School of Design; poco dopo viene a far parte della Socialist League, movimento rivoluzionario dichiaratamente di stampo socialista. A soli 23 anni diventa direttrice della sezione ricamo della Morris&Co, creando nuovi design e realizzando, da sola o con delle collaboratrici, prodotti complessi come arazzi e tovaglie per arredamenti domestici e altari. Seguendo i dettami dell’Arts & Crafts i suoi lavori sono caratterizzati da composizioni floreali riccamente decorate da fogliame e graziosi animali, in parte influenzate dall’arte medievale di cui riprende i disegni gotici e citazioni di versi antichi e moderni, mentre il punto direzionale viene usato per dare maggiore consistenza alla stoffa. Oltre che ricami Morris disegna anche carta da parati, mostrando un’abilità nel riprodurre scenari naturali in forma stilizzata non dissimile da quella paterna.

Copriletto disegnato da May Morris e ricamato dalla madre nel 1900, raffigurante la poesia The Tyger, dell'autore inglese William Blake

Nel 1886 intreccia una relazione con Henry Halliday Sparkling, segretario della Socialist League: per potersi preparare alla vita con un uomo che ancora non ha un lavoro fisso e andando contro il parere materno, la giovane si “allena” a vivere con pochi scellini a settimana per mesi prima di sposarsi nel 1890 a Fulham, un sodalizio che però si scioglie dopo appena otto anni a causa dei tradimenti di lei. Dopo qualche altra effimera relazione Mary decide di mantenere il cognome da nubile e di non sposarsi più. Alla morte di William nel 1896, lascia il lavoro presso l’azienda di famiglia rimanendo però come consulente, e si dedica a raccogliere, editare e pubblicare gli scritti del padre per un totale di 24 volumi che poi promuove personalmente. Diventa anche una appassionata attivista per la conservazione del ricamo, arte antica che stava rischiando di scomparire a causa dell’industrializzazione. A partire dal 1888 è pure ospite fissa di tutte le mostre dell’Arts & Crafts, di cui è ormai uno dei membri più importanti, dove mostra i suoi pezzi unici. Nel 1893, con una solida reputazione di massima esperta del proprio campo alle spalle, pubblica Decorative Needlework, in cui mette nero su bianco il suo pensiero artistico: secondo Mary Morris, chi fa design deve studiare la natura per poterla degnamente riprodurre sulle proprie stoffe; aggiunge inoltre che non bisogna usare troppi punti e che l’obiettivo principale deve rimanere il far sembrare il proprio lavoro vivo. Critica poi come la struttura economica dell’epoca abbia portato il prezzo dei prodotti manuali al ribasso, impedendo che artigiani e artigiane ricevano un degno compenso.

Lynn McClean, principale conservatrice tessile ed Emily Taylor, assistente curatrice, National Museums Scotland, ispezionano i ricami di May Morris.

Con l’avvento del nuovo secolo si avvicina al nascente movimento femminista, guidata soprattutto dall’indignazione per come il lavoro delle donne sia spesso sminuito e svalutato rispetto a quello maschile: convinta che l’arte debba essere accessibile a tutti e, soprattutto, a tutte, nel 1907 fonda assieme all’amica e collaboratrice Mary Elizabeth Turner la Women’s Guild of Arts, di cui diviene presidente fino al 1935, in risposta al divieto della Art Worker’s Guild di accettare nelle sue fila le artiste della Arts & Crafts. A favore del diritto di voto alle donne, inizia a nascondere nelle proprie opere i simboli della lotta per l’uguaglianza e la libertà. Durante un tour in America per la promozione del suo lavoro e di quello del padre si avvicina ai movimenti sindacali e diventa convinta sostenitrice dell’idea che l’educazione sia l’unico modo per riformare una società sessista.

Nel 1914 perde l’adorata madre e inizia a passare molto più tempo nel maniero di Kelmscott. Qui finanzia e realizza grazie all’aiuto dell’architetto Ernest Gimson numerosi edifici dedicati ai genitori, come il nuovo municipio che porta il nome del padre, e due cottage che vanno ad ampliare il castello, che portano il nome della madre. Inoltre, sostiene le associazioni che supportano le donne durante la Grande guerra come la Women’s Land Army, di cui fa parte la sua amica Mary Lobb, che si occupa di aiutare la manodopera agricola femminile che sta sostituendo gli uomini impegnati al fronte. In questo periodo si appassiona alla realizzazione di gioielli: ispirata dallo stile dei coniugi Gaskin, Mary Morris crea personalmente il design e lavora il metallo prezioso su cui poi posa pietre finemente incise in taglio cabochon.

Morris è inoltre una delle insegnanti della Royal School of Art Needlework e della Lcc Central School of Art, entrambe localizzate a Londra e che sono il frutto concreto dei suoi sforzi per preservare l’arte del ricamo, al punto che essa viene inserita nel curriculum di moltissime scuole anche dopo il suo ritiro, rimanendo comunque una preziosa consigliera per studenti e collaboratrici. Non rinnega mai i propri ideali: le paghe che dà alle lavoratrici sono molto più alte di quelle della concorrenza, in linea con l’idea che il lavoro debba essere fonte di un dignitoso sostentamento. Combatte poi lo stereotipo che vuole il ricamo come un’attività di dame annoiate dell’alta società, dimostrando come esso sia stato in realtà per molto tempo uno dei pochi modi che le donne hanno avuto nella storia di poter guadagnare dal proprio lavoro. May Morris si spegne a seguito di un’influenza il 16 ottobre del 1938.

Il suo contributo alla scena artistica inglese è enorme nonostante sia stato a lungo messo in ombra dal lavoro non meno pregevole del padre: la sua eredità continua a tessere il suo percorso attraverso il tempo. Le sue opere sono ancora ammirate per la loro bellezza e maestria tecnica, e molte sono esposte in importanti musei e collezioni private in tutto il mondo.


Traduzione francese

Paola Di Lauro

Il n'est malheureusement pas rare que, dans le tissu complexe de l'histoire, les femmes soient éclipsées par leurs parents masculins. Cela a longtemps été le cas de Mary Morris, mieux connue sous le nom de May Morris, dont la contribution à la scène artistique anglaise a été occultée par la figure paternelle imposante du peintre William. Sa mère, Jane Burden, modèle par excellence du mouvement préraphaélite, n'était pas moins célèbre. Un héritage d'un poids non négligeable, dont May s'est montrée plus que digne en devenant l'une des brodeuses les plus éminentes et les plus révolutionnaires d'Angleterre.

Née le 25 mars 1862 à Red House, à Bexleyheath, le jour de la fête de l'Annonciation, Mary, avec sa sœur Jenny, apprend la broderie auprès de sa mère et de sa tante maternelle Elizabeth « Bessie » Burden, démontrant très tôt un talent exceptionnel. 1862 est également l'année où son père William fonde Morris&Co, une entreprise qui produit des tissus, du papier peint et des vitraux. La jeune fille grandit donc entourée d'art : dans le salon du manoir de Kelmscott, dans l'ouest de l'Oxfordshire, défilent des artistes préraphaélites tels que Dante Gabriel Rossetti et Edward Burne-Jones - dont Morris sera souvent le modèle - et les représentants les plus importants du mouvement Arts & Crafts. William en était le principal représentant et s'était fixé pour objectif de lutter contre l'industrialisation en exaltant le travail artisanal, considéré comme la seule véritable expression artistique humaine, capable, contrairement aux produits industriels, de durer dans le temps et d'être ainsi le témoignage de notre passage sur cette terre.

Mary s'inscrit au Royal College of Art où elle perfectionne ses compétences et, en 1881, elle entre à la South Kensington School of Design ; peu après, elle rejoint la Socialist League, un mouvement révolutionnaire ouvertement socialiste. À seulement 23 ans, elle devient directrice de la section broderie de Morris&Co, créant de nouveaux designs et réalisant, seule ou avec des collaboratrices, des produits complexes tels que des tapisseries et des nappes pour l'ameublement domestique et les autels. Suivant les préceptes de l'Arts & Crafts, ses œuvres se caractérisent par des compositions florales richement décorées de feuillages et d'animaux gracieux, en partie influencées par l'art médiéval dont elle reprend les dessins gothiques et les citations de vers anciens et modernes, tandis que le point directionnel est utilisé pour donner plus de consistance au tissu. Outre la broderie, Morris dessine également des papiers peints, démontrant une habileté à reproduire des scènes naturelles sous une forme stylisée qui n'est pas sans rappeler celle de son père.

Couverture de lit dessinée par May Morris et brodée par sa mère en 1900, représentant le poème The Tyger de l’auteur anglais William Blake.

En 1886, elle entame une relation avec Henry Halliday Sparkling, secrétaire de la Ligue socialiste : afin de se préparer à la vie avec un homme qui n'a pas encore d'emploi fixe et allant à l'encontre de l'avis de sa mère, la jeune femme s'« entraîne » à vivre avec quelques shillings par semaine pendant des mois avant de se marier en 1890 à Fulham, une union qui se dissout cependant après seulement huit ans en raison de ses infidélités. Après quelques autres relations éphémères, Mary décide de conserver son nom de jeune fille et de ne plus se marier. À la mort de William en 1896, elle quitte son emploi dans l'entreprise familiale, mais reste consultante, et se consacre à la collecte, à l'édition et à la publication des écrits de son père, pour un total de 24 volumes qu'elle promeut ensuite personnellement. Elle devient également une militante passionnée pour la préservation de la broderie, un art ancien qui risquait de disparaître en raison de l'industrialisation. À partir de 1888, elle est également invitée régulière de toutes les expositions des Arts & Crafts, dont elle est désormais l'un des membres les plus importants, où elle expose ses pièces uniques. En 1893, forte d'une solide réputation d'experte dans son domaine, elle publie Decorative Needlework, dans lequel elle couche sur papier sa pensée artistique : selon Mary Morris, ceux qui font du design doivent étudier la nature afin de pouvoir la reproduire dignement sur leurs tissus ; elle ajoute également qu'il ne faut pas utiliser trop de points et que l'objectif principal doit rester de donner vie à son travail. Elle critique ensuite la structure économique de l'époque qui a fait baisser le prix des produits artisanaux, empêchant ainsi les artisans et artisanes de recevoir une rémunération décente.

Lynn McClean, conservatrice principale des textiles, et Emily Taylor, assistante conservatrice, au National Museums Scotland, inspectent les broderies de May Morris.

Avec l'avènement du nouveau siècle, elle se rapproche du mouvement féministe naissant, motivée principalement par l'indignation face à la façon dont le travail des femmes est souvent déprécié et dévalorisé par rapport à celui des hommes : convaincue que l'art doit être accessible à tous et, surtout, à toutes, elle fonde en 1907, avec son amie et collaboratrice Mary Elizabeth Turner, la Women's Guild of Arts, dont elle devient présidente jusqu'en 1935, en réponse à l'interdiction faite à l'Art Worker's Guild d'accepter dans ses rangs les artistes de l'Arts & Crafts. En faveur du droit de vote des femmes, elle commence à cacher dans ses œuvres les symboles de la lutte pour l'égalité et la liberté. Lors d'une tournée en Amérique pour promouvoir son travail et celui de son père, elle se rapproche des mouvements syndicaux et devient une fervente partisane de l'idée que l'éducation est le seul moyen de réformer une société sexiste.

En 1914, elle perd sa mère adorée et commence à passer beaucoup plus de temps dans le manoir de Kelmscott. Elle finance et réalise ici, avec l'aide de l'architecte Ernest Gimson, de nombreux bâtiments dédiés à ses parents, comme la nouvelle mairie qui porte le nom de son père, et deux cottages qui agrandissent le château, qui portent le nom de sa mère. Elle soutient également les associations qui viennent en aide aux femmes pendant la Grande Guerre, comme la Women's Land Army, dont fait partie son amie Mary Lobb, qui s'occupe d'aider la main-d'œuvre agricole féminine qui remplace les hommes engagés au front. À cette époque, elle se passionne pour la création de bijoux : inspirée par le style des époux Gaskin, Mary Morris crée elle-même les modèles et travaille le métal précieux sur lequel elle pose ensuite des pierres finement gravées en cabochon.

Morris est également l'une des enseignantes de la Royal School of Art Needlework et de la Lcc Central School of Art, toutes deux situées à Londres, qui sont le fruit concret de ses efforts pour préserver l'art de la broderie, à tel point que celui-ci est inscrit au programme de nombreuses écoles même après son départ à la retraite, tout en restant une précieuse conseillère pour les étudiants et ses collaboratrices.Elle ne renie jamais ses idéaux : les salaires qu'elle verse à ses employées sont bien plus élevés que ceux de la concurrence, conformément à l'idée que le travail doit être une source de revenus décents. Elle combat également le stéréotype selon lequel la broderie serait une activité réservée aux dames ennuyées de la haute société, en démontrant qu'elle a en réalité longtemps été l'un des rares moyens dont disposaient les femmes dans l'histoire pour gagner leur vie grâce à leur travail. May Morris décède des suites d'une grippe le 16 octobre 1938.

Sa contribution à la scène artistique anglaise est énorme, même si elle a longtemps été éclipsée par le travail non moins remarquable de son père : son héritage continue de tisser sa route à travers le temps. Ses œuvres sont toujours admirées pour leur beauté et leur maîtrise technique, et beaucoup sont exposées dans d'importants musées et collections privées à travers le monde.


Traduzione spagnola

Erika Incatasciato

Desafortunadamente, en la compleja trama de la historia, no es raro que las mujeres se queden a la sombra de sus familiares varones. Por mucho tiempo, fue el caso de Mary Morris, más conocida como May Morris, cuya contribución en el panorama artístico inglés fue eclipsado por la corpulenta figura paterna, el pintor William Morris. Su madre no fue menos famosa, modelo por antonomasia del movimiento prerrafaelita. Un legado con un peso notable del cual May demostró ser más que digna, convirtiéndose en una de las más destacadas y revolucionarias bordadoras británicas.

Nacida el 25 de marzo de 1862 en la Red House (Bexleyheath), el día de la Fiesta de la Anunciación, Mary, junto con su hermana Jenny, aprendió a bordar de su madre y su tía materna Elizabeth “Bessie” Burnen y pronto demostró su excepcional talento . El 1862 fue también el año en que su padre fundó la Morris&Co, una empresa dedicada a la producción de telas, papel tintado y vidrieras de colores. Así pues, la joven creció rodeada de arte: en el salón de la mansión en Kelmscott, West Oxfordshire, donde pasaban los artistas prerrafaelitas, como Dante Gabriel Rossetti y Edward Burne-Jones –para quienes a menudo Morris fue modelo– y los representantes más importantes del movimiento Arts & Crafts. William era su mayor exponente y tenía el objetivo de luchar contra la industrialización y exaltar la artesanía, considerada la única y verdadera expresión artística humana que, a diferencia de los productos industriales, era capaz de durar en el tiempo y ser así testimonio de nuestro paso en esta tierra.

Mary se matriculó en la Royal College of Art, donde perfeccionó sus propias habilidades y en 1881 ingresó en la South Kensington School of Design; poco después, se unió a la Liga Socialista, movimiento revolucionario abiertamente socialista. Con tan solo 23 años, se convirtió en directora de la sección de bordado de Morris&Co, en la que creó nuevos diseños y realizó, sola o con unas colaboradoras, productos complejos como tapices y manteles para la decoración del hogar y altares. Siguiendo el estilo de Arts & Crafts, sus trabajos se caracterizaban por ser composiciones florales, ricamente decoradas de follaje y mascotas amables, parcialmente influenciados por el arte medieval, del cual retoma los diseños góticos y citas de versos antiguos y modernos, mientras que se utilizaba dar una direccionalidad al bordado para aportar mayor conistencia al tejido. Además de bordados, Morris diseñó también papeles pintados, demostrando una habilidad en la representación de paisajes naturales de forma estilizada, no muy distinta de la de su padre.

Colcha diseñada por May Morris y bordada por su madre en 1900, que representa el poema The Tyger del autor inglés William Blake.

En 1886, entabló una relación con Henry Halliday Sparkling, secretario de la liga socialista: para prepararse a la vida con un hombre que aún no tenía empleo estable y yendo en contra de la opinión de su madre, la joven se “entrenó” para vivir con pocos chelines por semana durante meses antes de casarse en 1890 en Fulham –un matrimonio que, sin embargo, se disolvió después de apenas ocho años a causa de infidelidades de ella. Tras unas cuantas relaciones efímeras, Mary decidió mantener su apellido de soltera y no volver a casarse. Tras la muerte de William en 1896, dejó su trabajo en la empresa de su familia, aunque permaneció como asesora y se dedicó a recopilar, editar y publicar los escritos de su padre en un total de 24 volúmenes, que luego promovió personalmente. También se convirtió en apasionada activista para la preservación del bordado, un arte antiguo que corría el riesgo de desaparecer debido a la industrialización. Desde 1888, fue también una invitada habitual de todas las exposiciones de Arts & Crafts, donde era ya uno de los miembros más importantes, donde mostraba sus piezas únicas. En 1893, gracias a una sólida reputación como mejor experta en su campo, publicó Decorative Needlework, en el que puso por escrito su pensamiento artístico: según Mary Morris, quien hacía diseño debía estudiar la naturaleza para reproducirla dignamente en sus propias telas; también afirmó que no hay que usar demasiados puntos y el objetivo principal siempre debería ser que su propio trabajo parezca vivo. Luego, criticó como la estructura económica de la época había llevado el precio de los productos manuales a la baja, impidiendo que artesanos y artesanas recibieran una retribución digna.

Lynn McClean, conservadora principal de textiles, y Emily Taylor, asistente de curaduría, en los National Museums Scotland, inspeccionan los bordados de May Morris.

A inicios del nuevo siglo, se acercó al naciente movimiento feminista, sobre todo guiada por la indignación ante el hecho de que el trabajo de las mujeres fuese a menudo menospreciado y devaluado comparado con el los hombres: convencida de que el arte debía ser accesible para todos y, sobre todo, todas, en 1907, junto con su amiga y colaboradora Mary Elizabeth Turner, fundó la Women’s Guild of Arts, de la cual fue presidenta hasta el 1935, como respuesta a la prohibición de la Art Worker’s Guild de aceptar en su plantilla las artistas de Arts & Crafts. En favor del derecho de voto de las mujeres, comenzó a esconder en sus propias obras símbolos de la lucha por la igualdad y la libertad. Durante una gira en los Estados Unidos para la promoción de su trabajo y el de su padre, se acercó a los movimientos sindicales y se convirtió en firme defensora de la idea de que la educación era la única manera para reformar una sociedad sexista.

En 1914, su querida madre murió y comenzó a pasar mucho más tiempo en la mansión de Kelmscott. Allí, con la ayuda del arquitecto Ernest Gimson, financió y realizó numerosos edificios dedicados a sus padres, como el nuevo ayuntamiento que lleva el nombre de su padre y dos cabañas que ampliaron el castillo y llevan el nombre de su madre. Además, apoyó las asociaciones que respaldaban a las mujeres durante la Gran Guerra, como la Women’s Land Army, de la que formaba parte su amiga Mary Lobb, quien se encargó de ayudar a la mano de obra agrícola femenina que estaba reemplazando a los hombres movilizados en el frente. En esa época, se apasionó por la creación de joyas: inspirada por el estilo de los cónyuges Gaskin, Mary Morris creó personalmente el diseño y trabajó el metal precioso sobre el que luego colocó piedras de talla cabujón finamente grabadas.

Además, Morris fue una de las profesoras de la Royal School of Art Needlework y de la Lcc Central School of Art, ambas en Londres, y esto fue el fruto concreto de sus propios esfuerzos para preservar el arte del bordado, hasta el punto en que fue incluida en el plan de estudio de muchísimas escuelas, incluso después de su retiro, mientras siguió siendo valiosa consejera para estudiantes y colaboradoras. Nunca renegó sus propios ideales: el salario que daba a las trabajadoras era mucho más alto frente a la competencia, de acuerdo con la idea de que el trabajo debía ser fuente de un sustento digno. Luego, combatió el estereotipo que consideraba el bordado como una actividad de damas aburridas de la alta sociedad, demostrando como, durante mucho tiempo, en realidad fue una de las pocas formas que tuvieron las mujeres en la historia de ganar dinero con su propio trabajo. May Morris falleció a causa de una gripe el 16 de octubre de 1938.

Su contribución en el panorama artístico inglés es enorme a pesar de que fue eclipsada durante mucho tiempo por la no menos valiosa obra del padre: su legado sigue tejiendo su camino a través del tiempo. Sus obras aún son admiradas por su belleza y su maestría técnica, y muchas de ellas se exponen en museos importantes y colecciones privadas de todo el mundo.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Unfortunately, it is not uncommon for women to be overshadowed by their male relatives in the intricate fabric of history. This was the case for Mary Morris, better known as May Morris, whose contribution to the English art scene was overshadowed by her imposing father, the painter William. No less famous was her mother, Jane Burden, the quintessential model of the Pre-Raphaelite movement. It was a considerable legacy, but May proved herself more than worthy of it, becoming one of the most prominent and revolutionary embroiderers in England.

Born on March 25, 1862, at Red House in Bexleyheath, on the Feast of the Annunciation, Mary, along with her sister Jenny, learned to embroider from her mother and maternal aunt Elizabeth “Bessie” Burden, quickly demonstrating exceptional talent. 1862 was also the year her father William founded Morris & Co, a company that produced fabrics, wallpaper, and stained glass. The girl therefore grew up surrounded by art: the living room of the manor house in Kelmscott, West Oxfordshire, was frequented by Pre-Raphaelite artists such as Dante Gabriel Rossetti and Edward Burne-Jones—for whom Morris often modeled—and the most significant representatives of the Arts & Crafts movement. William was the movement's leading exponent and set himself the goal of combating industrialization by promoting craftsmanship, which he considered the only true form of human artistic expression, capable, unlike industrial products, of lasting over time and thus bearing witness to our passage on this earth.

Mary enrolled at the Royal College of Art, where she honed her skills, and in 1881 she entered the South Kensington School of Design. shortly afterwards she joined the Socialist League, a revolutionary movement of an avowedly socialist nature. At the age of only 23, she became director of the embroidery department at Morris & Co, creating new designs and producing, either alone or with collaborators, complex products such as tapestries and tablecloths for home furnishings and altars. Following the dictates of the Arts & Crafts movement, her works are characterized by floral compositions richly decorated with foliage and graceful animals, partly influenced by medieval art, from which she borrowed Gothic designs and quotations from ancient and modern verses, while the directional stitch was used to give greater consistency to the fabric. In addition to embroidery, Morris also designed wallpaper, showing a skill in reproducing natural scenes in a stylized form not unlike that of her father.

Bedspread designed by May Morris and embroidered by her mother in 1900, depicting the poem The Tyger by the English author William Blake.

In 1886, she began a relationship with Henry Halliday Sparkling, secretary of the Socialist League: in order to prepare for life with a man who did not yet have a steady job and going against her mother’s wishes, the young woman ‘trained’ herself to live on a few shillings a week for months before marrying in 1890 in Fulham, a union that ended after only eight years due to her infidelity. After a few other short-lived relationships, Mary decided to keep her maiden name and not marry again. When William died in 1896, she left her job at the family business but remained as a consultant, devoting herself to collecting, editing, and publishing her father’s writings, a total of 24 volumes, which she then promoted personally. She also became a passionate activist for the preservation of embroidery, an ancient art that was in danger of disappearing due to industrialization. From 1888 onwards, she was a regular guest at all the exhibitions of the Arts & Crafts movement, of which she was now one of the most important members, where she exhibited her unique pieces. In 1893, with a solid reputation as a leading expert in her field behind her, she published Decorative Needlework, in which she put her artistic thoughts down on paper: according to Mary Morris, designers must study nature in order to reproduce it worthily on their fabrics; she added that too many stitches should not be used and that the main objective should be to make the work look alive. She then criticized how the economic structure of the time had driven down the price of handmade products, preventing artisans from receiving fair compensation.

Lynn McClean, principal textile conservator, and Emily Taylor, assistant curator, at National Museums Scotland, inspect May Morris’s embroideries.

With the advent of the new century, she became involved in the nascent feminist movement, driven above all by indignation at how women’s work was often belittled and devalued compared to that of men. Convinced that art should be accessible to everyone and, above all, to all women, in 1907 she founded the Women’s Guild of Arts with her friend and collaborator Mary Elizabeth Turner, becoming its president until 1935, in response to the Art Workers’ Guild’s ban on accepting female artists from the Arts & Crafts movement into its ranks. In favor of women’s right to vote, she began to hide symbols of the struggle for equality and freedom in her works. During a tour of America to promote her work and that of her father, she became involved with trade unions and was a staunch supporter of the idea that education was the only way to reform a sexist society.

In 1914, she lost her beloved mother and began to spend much more time at Kelmscott Manor. Here, with the help of architect Ernest Gimson, she financed and built several buildings dedicated to her parents, such as the new town hall named after her father and two cottages that extended the castle, named after her mother. She also supported associations that helped women during the Great War, such as the Women's Land Army, of which her friend Mary Lobb was a member, which helped female farm workers replacing men who had gone to the front. During this period, she became passionate about jewelry making: inspired by the style of the Gaskins, Mary Morris personally created the designs and worked the precious metal, setting finely engraved cabochon-cut stones into it.

Morris was also a teacher at the Royal School of Art Needlework and the LCC Central School of Art, both located in London, which were the concrete result of her efforts to preserve the art of embroidery, to the point that it was included in the curriculum of many schools even after her retirement, while she remained a valuable advisor to students and colleagues. She never renounced her ideals: she paid her workers much higher wages than her competitors, in line with her belief that work should be a source of decent livelihood. She also fought against the stereotype that embroidery was an activity for bored upper-class ladies, demonstrating how it had in fact been one of the few ways women had been able to earn a living throughout history. May Morris died of influenza on October 16, 1938.

Her contribution to the English art scene is enormous, despite being long overshadowed by her father's equally impressive work: her legacy continues to weave its way through time. Her works are still admired for their beauty and technical mastery, and many are on display in important museums and private collections around the world.

 

Sottocategorie

 

 

 Wikimedia Italia - Toponomastica femminile

    Logo Tf wkpd

 

CONVENZIONE TRA

Toponomastica femminile, e WIKIMEDIA Italia