di Livia Capasso
Piazza della Repubblica, che ancora oggi qualcuno ricorda come piazza Esedra (il nome odierno le è stato dato alla fine della guerra, con la proclamazione della Repubblica), situata a poche centinaia di metri dalla Stazione Termini, sorge nell’area delle antiche Terme di Diocleziano.
Il precedente nome della piazza trae origine dalla grande esedra delle terme romane, il cui perimetro è ricalcato dal colonnato semicircolare che chiude la piazza verso via Nazionale, opera realizzata tra il 1887 e il 1898 dall’architetto Gaetano Koch (Roma 1849–1910). La Fontana delle Naiadi, al centro della piazza, è stata realizzata dallo scultore Mario Rutelli (Palermo, 1859-Roma, 1941) nel 1901. Le quattro Naiadi rappresentate sono la Ninfa dei Laghi, riconoscibile dal cigno che stringe a sé, la Ninfa dei Fiumi, sdraiata su un serpente d’acqua, la Ninfa degli Oceani, in sella su un cavallo (sarebbe piuttosto una Nereide, in quanto le Naiadi sono ninfe delle acque dolci, mentre quelle dei mari sono Nereidi), e la Ninfa delle Acque Sotterranee, poggiata sopra un drago. Avevano fatto da modelle alcune ragazze di Anticoli Corrado, paesino nei pressi di Roma, famoso per la bellezza delle sue donne. Al centro della fontana si trova il gruppo del Glauco, un uomo nudo, dal fisico atletico, che stringe tra le braccia un guizzante delfino, dalla cui bocca sgorga un getto d'acqua: rappresenta l'uomo che sconfigge la forza ostile della natura. A lavoro terminato, la visione delle quattro Naiadi nude, distese in pose lascive di fronte alla basilica di S. Maria degli Angeli, lasciò i Romani sconcertati e la fontana fu temporaneamente chiusa da una cancellata, che una folla incuriosita abbatté. Anche la regina Margherita volle visitare il monumento, che non trovò affatto disdicevole. Sulle Naiadi licenziose compose uno stornello, altrettanto licenzioso, il Sor Capanna: C’è a piazza delle Terme un funta none /Che uno scultore celebre ha guarnito /Co’ quattro donne ignude a pecorone / E un omo in mezzo che fa da marito. /Quant’è bello quer gigante / Lì tra in mezzo a tutte quante: / cor pesce in mano /annaffia a tutt’e quattro il deretano Le terme di Diocleziano, costruite in meno di otto anni tra il 298 e il 305 d.C., furono le più grandi tra tutte quelle realizzate nel mondo romano (erano il doppio di quelle di Caracalla), e le ultime a essere costruite per il popolo (le terme di Costantino, più recenti, furono riservate a un pubblico selezionato). Tutto il complesso occupava una superficie di oltre 13 ettari. Poteva accogliere fino a 3000 persone contemporaneamente, e oltre una piscina di 3500 metri quadrati, e i classici ambienti delle terme, conteneva palestre, biblioteche, sale di studio, spazi deputati al divertimento e allo spettacolo, piccoli teatri, fontane, mosaici, pitture e gallerie d’arte, addirittura negozi. Assolveva quindi anche la funzione di luogo di ritrovo e passatempo oltre che essere usato a scopi terapeutici. La clientela femminile Tra i frequentatori delle terme non mancavano le donne, di tutte le classi sociali. In un primo momento, nell’osservanza del buon costume, gli impianti termali prevedevano una sezione maschile e una femminile, costruite a specchio, con un’unica fornace, o la regolamentazione dell’orario con turni diversi per uomini e donne; queste precauzioni però vennero meno con il tempo, provocando l’indignazione di qualche scrittore, turbato da questa promiscuità. La donna a Roma ha sempre occupato una posizione inferiore rispetto a quella dell’uomo; più libera di quella greca, era comunque sottomessa prima al pater familias e poi al proprio marito, doveva accudire i figli e mantenere la casa ed era totalmente esclusa dall’accesso a cariche pubbliche. Solo nell’età imperiale le donne romane cominciarono a rivendicare una parità di diritti nei confronti degli uomini. Ma erano solo proteste di donne ricche, dell'élite dominante, che pretendevano di gestire il proprio denaro, osavano fare letteratura o esprimere pareri politici, giuridici o filosofici. Le donne umili difficilmente ebbero modo di fare sentire la propria voce. Ma nell’ambiente termale tutte, ricche, potenti e serve, si illudevano di godere pari diritti rispetto all’altro genere e si comportavano come se quella parità l’avessero raggiunta. Le terme di Diocleziano subirono il destino di tutti i monumenti romani, spogliati per essere utilizzati nei secoli come cava di materiali per altre costruzioni, mentre le aule venivano adibite ai più svariati usi. Nell’età di Teodorico (493-526) le Terme erano ancora in funzione. Un primo restauro fu condotto dopo l’invasione di Alarico intorno al 470. Ma dopo la distruzione della città da parte di Totila, furono chiusi gli acquedotti (537) e cominciò per il complesso termale una lenta, inesorabile decadenza. In questa storia spicca una figura femminile: quella di Caterina Nobili Sforza di Santafiora, che ha voluto la costruzione della chiesa di S. Bernardo, dedicandola al santo Bernardo da Chiaravalle, fondatore dell'Ordine dei Cistercensi, al quale la nobildonna era particolarmente devota. Caterina era nata a Montepulciano intorno al 1535, da Vincenzo conte di Civitello e da Maddalena dei conti di Montauto. Da parte paterna poteva vantare un’illustre ascendenza, poiché la nonna Ludovica era sorella del papa Giulio III. Nel 1553 sposò il conte Sforza di Santa Fiora, già precedentemente sposato a Luigia Pallavicino, di quindici anni circa più anziano di lei, capitano generale della cavalleria italiana e spagnola. Seguì il marito, fermandosi a lungo a Parma, dove la famiglia Sforza possedeva un palazzo e vari feudi. Alla morte del marito, si trasferì a Roma, in seguito al matrimonio tra la figlia Costanza e Giacomo Boncompagni, figlio di Gregorio XIII, futuro duca di Sora. Dopo la nomina cardinalizia del figlio Francesco, cominciò a condurre una vita ritirata e contrassegnata dalla devozione. Nel 1593 aveva acquistato dai frati certosini per 10.000 scudi i terreni facenti parte una volta delle terme di Diocleziano, allora chiamati orti Belleiani (dal cardinal Bellaj, precedente proprietario). L'anno successivo li donò ai Foglianti, monaci appartenenti all'ordine sorto dalla riforma introdotta da Jean Baptiste de la Barrière, con l'impegno di farvi edificare una chiesa e un monastero. Nell'atto di donazione fece includere alcune clausole circa il suo diritto di proprietà sugli oggetti venuti alla luce durante gli scavi; inoltre, impegnava i monaci a celebrare messe in suffragio della sua anima e di quella del figlio Francesco. Tali condizioni furono fatte affiggere su una lapide posta sulla porta della sagrestia della chiesa chiamata S. Bernardo alle Terme, terminata nel 1600. All’interno fece apporre altre lapidi commemorative dei suoi familiari, quella al prozio Giulio III, al fratello, all'ava Ludovica, al padre, alla madre e al marito, cosicché la chiesa, grazie anche alla sua forma circolare, prese l'aspetto di un piccolo pantheon. Commissionò inoltre ad alcuni artisti dell'epoca quadri e sculture che ornassero la chiesa stessa. Negli ultimi anni di vita si prodigò molto per aiutare i monaci e convinse anche la figlia Costanza a fare donazioni alla chiesa di S. Bernardo alle Terme. Morì a Roma il 12 dic. 1605 a circa settant'anni di età; la notte stessa il suo corpo fu trasportato a S. Bernardo alle Terme, dove fu sepolto. Caterina, come tutte le nobildonne della sua epoca, era amante dell’arte. Facevano parte della sua collezione lo Sposalizio mistico di s. Caterina del Correggio, due Madonne del Parmigianino, una Decollazione del Battista, probabilmente di Andrea del Sarto o di Leonardo da Vinci e La Fornarina di Raffaello. Questi ultimi due quadri, con grande determinazione, com’era nel suo carattere, rifiutò di venderli al duca di Mantova, adducendo come scusa che ormai erano l’unica consolazione della sua età avanzata. Probabilmente l'opera di Raffaello fu venduta o donata da suo figlio Francesco alla famiglia Barberini. All’interno della chiesa di S. Bernardo, Camillo Mariani (1567-1611), scultore vicentino, realizzò otto statue in stucco disposte nei nicchioni. Esse rappresentano Sant’ Agostino, S. Monica, S. Maria Maddalena, S. Francesco, S. Bernardo, S. Caterina da Siena, S. Girolamo e S. Caterina d'Alessandria. Sono rivolte alternativamente a destra e a sinistra e creano, nell'andamento curvo della Chiesa, quasi un dialogo binario. Santa Monica (Tagaste, 331 – Ostia, 387) nata in un’agiata famiglia cristiana, poté studiare e meditare sulla Bibbia. Convertì al cristianesimo il marito Patrizio, che la lasciò vedova a 39 anni. Ebbe tre figli, e seguì a Roma il primogenito Agostino, che, convertitosi anche lui al cristianesimo, fu filosofo, teologo e vescovo. Monica, anche se all'epoca alle donne non era permesso prendere la parola, partecipava con sapienza ai discorsi del figlio, che volle trascrivere nei suoi scritti le parole della madre. Santa Caterina da Siena, nata Caterina Benincasa (Siena, 1347 – Roma, 1380), è stata proclamata patrona d'Italia nel 1939 da Papa Pio XII (assieme a San Francesco D'Assisi) e compatrona d'Europa da Papa Giovanni Paolo II nel 1999. Figlia di un tintore di panni, ventiquattresima di 25 figli, rifiutò il matrimonio, e a sedici anni entrò a far parte delle Terziarie Domenicane. Presso l'ospedale di Santa Maria della Scala si dedicò all’assistenza di malati e bisognosi. Secondo la leggenda, nell'aprile 1375 Caterina ricevette le stimmate, che solo lei poteva vedere, e che furono rese visibili poco prima della sua morte. Caterina era una visionaria. La notte di carnevale del 1367 le apparve Cristo accompagnato dalla Vergine e da una folla di santi, donandole un anello visibile solo a lei, e sposandola misticamente. Santa Caterina d'Alessandria - Incerta è la sua data di nascita (probabilmente il 287), e altrettanto poco si sa della sua vita, tanto che è difficile distinguere la realtà storica dalle leggende popolari e addirittura si dubita della reale esistenza di una santa Caterina d'Alessandria d'Egitto. Secondo la Leggenda Aurea, che risale al sec. XIII, Caterina sarebbe stata una bella giovane egiziana, educata nelle arti liberali, che, avendo avuto la visione della Madonna con il Bambino che le infilava l'anello al dito, si era fatta suora. Nel 305 un imperatore romano la condannò al martirio su una ruota dentata, avendo lei rifiutato di onorare gli dei pagani; ma lo strumento di tortura si ruppe e fu necessario decapitarla. Nel XIX secolo la studiosa Anna Jameson identificò molte caratteristiche comuni tra santa Caterina d'Alessandria e Ipazia, la matematica e filosofa pagana uccisa proprio ad Alessandria d'Egitto nel 415 da una setta di fanatici cristiani. Altri resti delle terme furono nel ‘600 adibiti a granai, un’aula diventò la chiesa di S. Isidoro, altri locali termali furono adibiti alla conservazione dell’olio. Successivamente tutta la zona fu destinata a opere assistenziali: ospizio per i poveri, carceri, orfanotrofio, Scuola Normale Femminile. Tale scuola preparava le donne alla prima professione “intellettuale” cui loro potessero accedere e che rappresentava anche l’opportunità di procurarsi un’autonomia economica, spesso necessaria alternativa al matrimonio. Diventerà poi Istituto superiore di magistero Femminile. Altri ambienti, rimasti in abbandono, erano stati utilizzati come botteghe di maniscalchi, carbonari, deposito di vetture o trattoria. Furono tutti abbattuti a partire dai primi del‘900, mentre già nel 1894 era stato inaugurato il Grand Hotel. Agli inizi del ‘900 si cominciò a profilare per tutta quest'area un intento di musealizzazione, che si realizzò pienamente solo nel 1936. L'aula ottagona, forse una sorta di frigidario minore per abluzioni, ebbe vita autonoma, diventando dapprima la sede della Scuola Normale di Ginnastica, poi la sala per proiezioni cinematografiche Minerva, infine nel 1928 la sede del Planetario, per proiezioni astronomiche. Nel 1561 le rovine delle grandiose Terme di Diocleziano furono consacrate da Pio IV e si avviò la costruzione di una chiesa dedicata a Santa Maria degli Angeli, ricavata nel grandioso corpo centrale delle distrutte terme. I primi progetti portano i nomi di Giovanni da Sangallo e Baldassarre Peruzzi, in seguito l’incarico fu affidato all’ormai ottantenne Michelangelo, che optò per una pianta centrale a forma di croce greca in cui la grande aula del tepidarium fu trasformata in una lunga e unica navata. Nel 1896 vi si celebrò il matrimonio di Vittorio Emanuele III con Elena di Montenegro e con questa cerimonia la chiesa assunse un ruolo di rappresentanza nazionale e ospita ancora oggi tutte le cerimonie ufficiali dello Stato italiano. Elena di Montenegro, seconda regina d’Italia, fu una figura completamente diversa dalla suocera, prima regina d’Italia. Mentre Margherita amava la vita di corte, i balli, il lusso, i gioielli, Elena era schiva, riservata e amava la sua privacy. Nata nel 1873 a Cettigne, un grosso borgo fra le montagne montenegrine abitato per lo più da pastori, aveva studiato in un collegio di Pietroburgo. Fu la regina Margherita ad appoggiare la sua candidatura a sposa del figlio. Il matrimonio, celebrato il 24 ottobre 1896 in Santa Maria degli Angeli, fu una cerimonia ricca, ma non sfarzosa. Elena assisteva il marito in tutto, gli faceva da traduttrice per il russo, il serbo e il greco moderno; aveva anche imparato il piemontese, per capire il marito quando le si rivolgeva in dialetto. Cosa riprovevole per la suocera, si dedicava personalmente alla cura dei figli e della casa. Indossava il grembiule per dirigere le cameriere; insegnava alle figlie a cucire, a lavorare a maglia, a fare i dolci. Per il tragico terremoto di Messina del 1908, si dedicò ai soccorsi; durante la prima guerra mondiale Elena fece l'infermiera a tempo pieno e trasformò il Quirinale in un ospedale. Terminata la guerra, andò in esilio col marito ad Alessandria d'Egitto, ospite di re Farouk. Elena rimase in Egitto fino alla morte del marito, avvenuta il 28 dicembre del 1947, dopo diciannove mesi d'esilio, poi si trasferì a Montpellier, dove morì di cancro il 28 novembre del 1952.