Käthe Schmidt Kollwitz
Livia Capasso

Laura Zernik

 

Per Käthe Schmidt l’arte grafica è il mezzo espressivo preferito, e le tematiche sociali l’argomento con il quale documentare ingiustizie ed emarginazione e soprattutto le atrocità delle guerre, perché le ha sperimentate sulla propria pelle. Fa parte della Secessione di Berlino, un movimento espressionista che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX rappresentò la realtà tragica dell’Europa di quegli anni dissociandosi dagli stili ufficiali.

Käthe nasce nel 1867 a Königsberg, Prussia orientale (ora Kaliningrad, Russia), quinta di otto figli, da una famiglia della borghesia progressista: il padre era un mastro muratore e la madre era figlia di un predicatore. Insieme al fratello Konrad aderisce all'ideale socialista. Nel 1881 manifesta, assecondata dal padre, la sua vocazione artistica, prende le prime lezioni da Rudolf Mauer, incisore in rame, e dal pittore Gustav Nauyok, e comincia a praticare l’acquaforte. Trasferitasi a Berlino, s'iscrive a una scuola d'arte aperta alle donne, dove si interessa più al disegno che alla pittura. Nel 1889 si sposta a Monaco e prende lezioni da Ludwig von Herterich, pittore e insegnante d’arte; qualche anno dopo sposa Karl Kollowitz, medico socialista, da cui avrà due figli, Hans nel 1892 e Peter nel 1896, e vanno a vivere a Berlino. In questo periodo, dopo aver assistito alla rappresentazione del dramma Die Webern (I tessitori) di Gerhart Hauptmann, produce un ciclo di tre litografie e tre acqueforti: La Rivolta di tessitori, 1895-1898, ispirato alla vicenda.

Tra il 1901 e il 1908 pone mano al ciclo La Guerra dei contadini, ispirato alle rivolte nel sud della Germania negli anni Venti del Cinquecento, una guerra combattuta quindi quasi quattro secoli prima. La ribellione dei contadini fu un fallimento, perché i proprietari terrieri avevano cavalli e artiglieria, i contadini no, ma combatterono con la dignità, il coraggio e la forza dei poveri.

Nel frattempo compie alcuni viaggi: a Parigi, dove conosce Rodin e impara a scolpire, e in Italia, a seguito della vincita del premio Villa Romana che le garantisce per un anno la permanenza in uno studio fiorentino. Arriva la Grande Guerra, Käthe all’inizio la sostiene, ritenendola una guerra di aggressione e di grande pericolo per la Germania, e si impegna nella Commissione ausiliaria femminile. Il suo secondo figlio Peter parte volontario. Ricorda l’artista stessa nel suo diario: «Peter aveva diciotto anni e mezzo. Karl, che sulla guerra non aveva cambiato idea, disse no. Peter si rivolse a me. La mattina dopo ebbi con lui ancora un’altra conversazione e i miei tentativi di trattenerlo furono totalmente inutili». Peter parte il 13 ottobre 1914. Dieci giorni muore sul fronte. La perdita del figlio e via via la morte di tanti giovani come lui gettano Käthe nello sconforto e la inducono a rivedere le sue idee sulla guerra, dove riconosce ora solo follia omicida, distruzione e disumanizzazione. Comincia per lei un lungo periodo di profonda depressione e inattività. Nel 1917 ottiene un grande riconoscimento: in occasione del suo cinquantesimo compleanno, ben 150 opere vengono esposte a Berlino alla galleria di Paul Cassirer e, nello stesso anno, partecipa a numerose mostre in tutta la nazione. Nel 1919 entra come docente all’Accademia d’arte di Berlino, prima donna insegnante, e più tardi, nel 1928, otterrà la direzione della specializzazione in grafica. Solo nel 1920 Käthe trova la forza di riaccostarsi all’arte e di esprimere tutta la sofferenza sua e di quanti, donne, bambini, sopravvissuti, hanno sofferto per le conseguenze della guerra.

«Io devo esprimere il dolore degli uomini, un dolore che non ha mai fine e che ora è enorme. Questo è il mio compito, anche se non è facile assolverlo. Queste incisioni devono girare in tutto il mondo e devono dire in maniera concisa a tutti gli uomini: Così è stato, questo abbiamo noi tutti sofferto in questi anni indicibilmente dolorosi».

A sette anni di distanza dalla morte di Peter, nel 1921-22, esegue un ciclo di sette xilografie, La guerra, ora al MoMA di New York, e racconta un dolore che non è solo il suo, ma di tutte le mamme che hanno perso i loro figli. La guerra, vinta o persa, è comunque una catastrofe per tutti, non solo per i giovani mandati al fronte, ma anche per orfani, e vedove. La xilografia è una tecnica di stampa da legno inciso, più espressiva ed essenziale dell’acquaforte; lascia un segno sintetico, duro, drammatico, e rinunciando a ogni forma di eleganza e chiarezza gioca sull’alternanza del vuoto e del pieno, del bianco e del nero. Il sacrificio mostra una madre che immola il proprio figlio, sollevandolo in alto. I volontari rappresenta la generazione di chi si è votato alla guerra e alla morte. I genitori sono un blocco di dolore, lei piegata e sorretta da lui che si nasconde il viso con una mano. Vedova 1 e Vedova 2 raffigurano entrambe giovani donne, una incinta con il viso reclinato e le braccia incrociate sul ventre a difendere il nascituro, l’altra distesa sulla nuda terra mentre stringe sul petto il figlioletto; Madri rappresenta un gruppo di donne, strette a cerchio, decise a proteggere i loro figli; nella settima xilografia, Il popolo, ancora madri, sole, disperate e rassegnate, assieme ai loro figli. Emergono dal nero, il colore del dolore, che invade tutto il campo, solo volti scheletrici e mani ossute.

L’impegno politico di Käthe si fa sempre più forte, come si può vedere nella xilografia dedicata alla morte di Karl Liebknecht, un avvocato socialista più volte arrestato per le sue idee contrarie alla guerra: torturato e interrogato per diverse ore, fu ucciso il 15 gennaio 1919. Gli operai fanno blocco sulla salma di Liebknecht, le loro grosse mani, allungate sul bianco lenzuolo funebre danno alla scena una forte intensità drammatica. E ancora il manifesto litografico I sopravvissuti del 1922, dove una madre, dalle orbite incavate e nere, è circondata a sinistra da anziani, a destra da mutilati e in basso da bambini che con le sue robuste braccia cerca di proteggere. Nel 1924 il manifesto pacifista Mai più guerra! è una protesta contro il militarismo, dove il gesto imperioso del giovane con un braccio alzato e una mano sul cuore suggella il giuramento.

Il secondo ciclo xilografico, del 1924-1925, ha per titolo Proletariato, ed è composto da tre fogli: Disoccupazione, Fame, I bambini della Germania muoiono di fame. È come sempre caratterizzato dall’essenzialità nel segno, dalla drammaticità della scena, dominata dal colore nero che quasi si impossessa del bianco. Finalmente, iniziato nel 1919 e terminato nel 1932, dopo quattordici anni di gestazione, porta a termine il monumento dedicato al figlio morto e a tutti i suoi compagni caduti nella Grande Guerra. Il memoriale Genitori addolorati, oggi a Vladslo, in Belgio, nel Cimitero di guerra tedesco, è composto da due enormi statue in granito, rappresentanti un padre e una madre chiusi nel loro dolore. Con l’ascesa di Hitler e del suo partito, Käthe è costretta a dimettersi dall’Accademia di Berlino. Ormai è un personaggio scomodo per le sue idee progressiste e pacifiste, anche se non è né ebrea, né esponente dell’arte cosiddetta “degenerata”. Viene lasciata lavorare purché le sue opere non siano esposte. Inizia allora quel lungo “esilio interno” che la vedrà esclusa da tutte le manifestazioni culturali; i suoi lavori vengono rimossi dalle sale e dalle gallerie pubbliche e private. Solo la sua fama internazionale la salva dalla deportazione in un campo di concentramento. Tra il 1937 e il 1939 lavora alla Pietà (Madre col figlio morto), scultura realizzata ancora una volta in memoria del figlio due decenni dopo la sua morte. Il corpo del figlio è quasi completamente avvolto dalle membra e dalle vesti della madre che lo abbraccia, esprimendo un desiderio di protezione e unione anche dopo la morte.

Nel 1993 una versione più grande della scultura è stata installata in modo permanente nella Neue Wache di Berlino, dedicata a tutte le vittime della guerra, trasformando il dolore personale di Käthe in un simbolo di perdita universale. Il suo ultimo ciclo di litografie, Della morte, è ispirato a quella morte con cui ha fatto i conti per tutta la vita.

Nel 1939, la Germania è di nuovo in guerra e Käthe, ormai vecchia e stanca, è colpita da un’altra scomparsa, quella nel 1942 sul fronte orientale del nipote Peter, figlio di Hans. Nello stesso anno realizza un’altra litografia, ultima sua opera a stampa, che ha per titolo una frase di Goethe che per lunghi anni si è portata dentro: Non macinate le sementi; rappresenta una madre che, con uno sguardo deciso e braccia forti, tiene al riparo i tre figlioletti, appunto le sementi. Vive a Berlino in miseria, ormai vedova dal 1940. Vi rimane fino al 1943, quando la popolazione abbandona la capitale per via dei bombardamenti; si rifugia nei pressi di Dresda, dove muore il 22 aprile 1945, pochi giorni prima della resa della Germania nazista. Le sono stati dedicati due musei, uno a Colonia nel 1985 e l’altro a Berlino l’anno successivo. Il suo volto compare su un francobollo nel 1991, nella serie Donne della storia tedesca.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

 

Pour Käthe Schmidt, l’art graphique est le moyen d’expression privilégié, et les thématiques sociales sont les sujets à travers lesquels elle documente les injustices, l’exclusion et, surtout, les atrocités de la guerre, qu’elle a vécues personnellement. Elle fait partie de la Sécession de Berlin, un mouvement expressionniste qui, entre la fin du XIXe siècle et le début du XXe siècle, a représenté la réalité tragique de l’Europe de cette époque en se dissociant des styles officiels.

Käthe naît en 1867 à Königsberg, en Prusse orientale (aujourd’hui Kaliningrad, Russie), cinquième de huit enfants d’une famille de la bourgeoisie progressiste. Son père est maître maçon, et sa mère est la fille d’un prédicateur. Avec son frère Konrad, elle adhère aux idéaux socialistes. En 1881, encouragée par son père, elle manifeste sa vocation artistique, prend ses premières leçons avec Rudolf Mauer, graveur sur cuivre, et avec le peintre Gustav Nauyok, et commence à pratiquer l’eau-forte. Après avoir déménagé à Berlin, elle s’inscrit dans une école d’art ouverte aux femmes, où elle s’intéresse davantage au dessin qu’à la peinture. En 1889, elle se rend à Munich et prend des cours avec Ludwig von Herterich, peintre et professeur d’art. Quelques années plus tard, elle épouse Karl Kollwitz, un médecin socialiste, avec qui elle aura deux enfants : Hans en 1892 et Peter en 1896. Ils s’installent à Berlin.Durant cette période, après avoir assisté à la représentation du drame Die Weber (Les Tisserands) de Gerhart Hauptmann, elle réalise un cycle de trois lithographies et trois eaux-fortes intitulé La Révolte des tisserands (1895-1898), inspiré par cet événement.

Entre 1901 et 1908, elle travaille sur le cycle La Guerre des paysans, inspiré des révoltes dans le sud de l’Allemagne dans les années 1520. Ces révoltes furent un échec, car les paysans ne disposaient ni de chevaux ni d’artillerie, contrairement aux propriétaires terriens. Cependant, ils ont combattu avec dignité, courage et force.

Pendant ce temps, elle effectue plusieurs voyages : à Paris, où elle rencontre Rodin et apprend la sculpture, et en Italie, après avoir remporté le prix Villa Romana, qui lui offre un an dans un atelier à Florence. Avec le début de la Première Guerre mondiale, Käthe soutient initialement le conflit, qu’elle considère comme une guerre d’agression mettant en danger l’Allemagne. Elle s’engage dans la Commission auxiliaire féminine. Son second fils, Peter, s’engage volontairement. Käthe écrit dans son journal : «Peter avait dix-huit ans et demi. Karl, qui n’avait pas changé d’avis sur la guerre, a dit non. Peter s’est tourné vers moi. Le lendemain matin, j’ai encore discuté avec lui, mais mes tentatives pour le retenir ont été totalement vaines.» Peter part le 13 octobre 1914 et meurt dix jours plus tard au front. La perte de son fils, suivie de la mort de nombreux jeunes comme lui, plonge Käthe dans un profond désespoir et l’amène à revoir ses idées sur la guerre, qu’elle perçoit désormais comme une folie meurtrière, une destruction et une déshumanisation. Elle traverse une longue période de dépression et d’inactivité. En 1917, elle reçoit une reconnaissance importante : à l’occasion de son cinquantième anniversaire, 150 de ses œuvres sont exposées à Berlin à la galerie de Paul Cassirer. Elle participe également à plusieurs expositions nationales. En 1919, elle devient professeure à l’Académie des arts de Berlin, première femme à occuper ce poste. En 1928, elle prend la direction de la spécialisation en arts graphiques. En 1920, Käthe retrouve la force de se consacrer à l’art pour exprimer la souffrance des femmes, des enfants et des survivants touchés par la guerre.

«Je dois exprimer la douleur des hommes, une douleur sans fin et aujourd’hui immense. C’est ma mission, même si elle est difficile à accomplir. Ces gravures doivent parcourir le monde entier et dire à tous : Voilà ce que nous avons tous souffert durant ces années indiciblement douloureuses.»

En 1921-22, elle réalise un cycle de sept xylographies intitulé La Guerre, aujourd’hui conservé au MoMA de New York. Ce cycle raconte une douleur universelle, celle des mères ayant perdu leurs fils. La guerre, qu’elle soit gagnée ou perdue, reste une catastrophe pour tous, non seulement pour les jeunes envoyés au front, mais aussi pour les orphelins et les veuves. La xylographie, technique d’impression à partir de bois gravé, est plus expressive et essentielle que l’eau-forte. Elle produit un trait synthétique, dur et dramatique, renonçant à toute forme d’élégance ou de clarté pour jouer sur l’alternance entre vide et plein, blanc et noir. Dans Le Sacrifice, une mère immole son fils en le levant haut dans les airs. Les Volontaires représentent une génération vouée à la guerre et à la mort. Les Parents forment un bloc de douleur : la mère, pliée, est soutenue par le père, qui se cache le visage avec une main. Veuve 1 et Veuve 2 montrent deux jeunes femmes : l’une est enceinte, le visage incliné et les bras croisés sur son ventre pour protéger son futur enfant; l’autre est allongée sur la terre nue, serrant son petit contre sa poitrine. Mères représente un groupe de femmes formant un cercle, déterminées à protéger leurs enfants. Enfin, dans la septième xylographie, Le Peuple, on retrouve encore des mères, seules, désespérées et résignées, accompagnées de leurs enfants. Elles émergent du noir, la couleur de la douleur, qui envahit tout l’espace. Seuls des visages squelettiques et des mains osseuses se détachent dans cette obscurité oppressante.

L’engagement politique de Käthe devient de plus en plus marqué, comme le montre la xylographie dédiée à la mort de Karl Liebknecht, un avocat socialiste plusieurs fois arrêté pour ses idées antimilitaristes. Torturé et interrogé pendant des heures, il est tué le 15 janvier 1919. Dans cette œuvre, les ouvriers forment un bloc autour de la dépouille de Liebknecht. Leurs grandes mains tendues sur le linceul blanc donnent à la scène une intense force dramatique. Elle réalise également le manifeste lithographique Les Survivants en 1922. Une mère, aux orbites noires et creuses, est entourée à gauche de personnes âgées, à droite de mutilés, et en bas d’enfants qu’elle tente de protéger avec ses bras robustes. En 1924, le manifeste pacifiste Plus jamais la guerre! exprime une protestation contre le militarisme. Un jeune homme, le bras levé et la main sur le cœur, scelle ce serment.

Son second cycle de xylographies, réalisé en 1924-1925, est intitulé Prolétariat. Il comprend trois feuilles : Chômage, Faim, et Les Enfants d’Allemagne meurent de faim. Ce cycle est caractérisé, comme toujours, par un trait essentiel et une scène dramatique dominée par le noir, qui envahit presque entièrement le blanc.En 1932, après quatorze ans de travail, elle achève le monument dédié à son fils disparu et à tous ses camarades tombés pendant la Grande Guerre. Le mémorial Parents endeuillés, situé aujourd’hui à Vladslo, en Belgique, dans le cimetière militaire allemand, est composé de deux grandes statues en granit représentant un père et une mère plongés dans leur douleur.Avec l’arrivée au pouvoir d’Hitler et de son parti, Käthe est contrainte de démissionner de l’Académie de Berlin. Ses idées progressistes et pacifistes font d’elle une figure gênante, bien qu’elle ne soit ni juive ni représentante de l’art dit « dégénéré ». Elle est autorisée à travailler à condition que ses œuvres ne soient pas exposées. Elle commence alors un long « exil intérieur », exclue de toutes les manifestations culturelles. Ses œuvres sont retirées des galeries publiques et privées. Seule sa renommée internationale la protège de la déportation dans un camp de concentration. Entre 1937 et 1939, elle travaille à la sculpture Pietà (Mère avec son fils mort), une œuvre réalisée en mémoire de son fils deux décennies après sa disparition. Le corps du fils est presque entièrement enveloppé par les membres et les vêtements de la mère qui l’étreint, exprimant un désir de protection et d’union même après la mort.

En 1993, une version agrandie de cette sculpture est installée en permanence dans la Neue Wache de Berlin, en hommage à toutes les victimes de la guerre, transformant la douleur personnelle de Käthe en un symbole de perte universelle. Son dernier cycle de lithographies, intitulé De la mort, est inspiré par cette présence avec laquelle elle a vécu toute sa vie.

En 1939, l’Allemagne entre à nouveau en guerre. Käthe, âgée et fatiguée, subit une autre perte : en 1942, son petit-fils Peter, fils de Hans, meurt sur le front de l’Est. Cette même année, elle réalise une dernière lithographie, intitulée d’après une phrase de Goethe qui l’a marquée : Ne broyez pas les semences. Elle y représente une mère déterminée, protégeant ses trois enfants, symboles de l’avenir. Elle vit à Berlin dans la misère, veuve depuis 1940. En 1943, face aux bombardements, elle quitte la capitale pour s’installer près de Dresde, où elle meurt le 22 avril 1945, quelques jours avant la capitulation de l’Allemagne nazie. Deux musées lui ont été consacrés: l’un à Cologne en 1985, l’autre à Berlin l’année suivante. En 1991, son visage apparaît sur un timbre de la série Femmes de l’histoire allemande.


Traduzione spagnola

Alessandra Barbagallo

 

 Para Käthe Schmidt, el arte gráfico es su medio de expresión favorito y las cuestiones sociales son el tema con el que documentar las injusticias y la marginación y, sobre todo, las atrocidades de la guerra, porque las ha vivido en primera persona. Forma parte de la Secesión de Berlín, un movimiento expresionista que entre finales del siglo XIX y principios del XX representó la trágica realidad de la Europa de aquellos años, desvinculándose de los estilos oficiales.

Käthe nació en 1867 en Königsberg, Prusia Oriental (ahora Kaliningrado, Rusia), quinta de ocho hijos, en una familia burguesa progresista: su padre era un maestro albañil y su madre era hija de un predicador. Junto con su hermano Konrad, comparte el ideal socialista. En 1881 manifestó, apoyada por su padre, su vocación artística, tomó sus primeras clases de Rudolf Mauer, grabador de cobre, y del pintor Gustav Nauyok y comenzó a practicar el grabado. Tras mudarse a Berlín, se matriculó en una escuela de arte abierta a mujeres, donde estaba más interesada en el dibujo que en la pintura. En 1889 se trasladó a Munich y recibió clases de Ludwig von Herterich, pintor y profesor de arte; unos años más tarde se casó con Karl Kollowitz, médico socialista, con quien tuvo dos hijos, Hans en 1892 y Peter en 1896, y se fueron a vivir a Berlín. En ese período, después de haber asistido a la representación del drama Die Webern (Los tejedores) de Gerhart Hauptmann, realizó un ciclo de tres litografías y tres grabados: La rebelión de los tejedores, 1895-1898, inspirados en la historia.

Entre 1901 y 1908 escribió el ciclo La Guerra de los Campesinos, inspirado en las revueltas del sur de Alemania en la década de 1520, una guerra librada casi cuatro siglos antes. La rebelión de los campesinos fue un fracaso, porque los terratenientes tenían caballos y artillería mientras los campesinos no, pero lucharon con la dignidad, el coraje y la fuerza de los pobres.

Mientras tanto realizó algunos viajes: a París, donde conoció a Rodin y aprendió a esculpir, y a Italia, tras ganar el premio Villa Romana que le garantizaba una estancia de un año en un estudio florentino. Llega la Gran Guerra, Käthe inicialmente la apoya, considerándola una guerra de agresión y de gran peligro para Alemania, y participa en la Comisión Auxiliar de Mujeres. Su segundo hijo, Peter, se fue voluntario. Recuerda la artista misma en su diario: «Peter tenía dieciocho años y medio. Karl, que no había cambiado de opinión sobre la guerra, dijo que no. Peter se volvió hacia mí. A la mañana siguiente tuve otra conversación con él y mis intentos de detenerlo fueron totalmente inútiles". Peter parte el 13 de octubre de 1914. Muere en el frente al cabo de diez días. La pérdida de su hijo, y la muerte de muchos jóvenes como él, hicieron caer a Käthe en la desesperación y la llevaron a revisar sus ideas sobre la guerra, donde ahora sólo reconocía la locura homicida, la destrucción y la deshumanización. Comienza para ella un largo período de profunda depresión e inactividad. En 1917 obtuvo un gran reconocimiento: con motivo de su cincuentenario expuso 150 obras suyas en la galería Paul Cassirer de Berlín y, ese mismo año, participó en numerosas exposiciones por todo el país. En 1919 ingresó como profesora en la Academia de Arte de Berlín, la primera mujer docente, y posteriormente, en 1928, obtuvo la dirección de la especialización en gráfica. Sólo en 1920 Käthe encontró la fuerza para volver a acercarse al arte y expresar todo su sufrimiento y el de todos aquellos (mujeres, niños, supervivientes) que sufrieron las consecuencias de la guerra.

«Tengo que expresar el dolor de los hombres, un dolor que nunca termina y que ahora es enorme. Ésta es mi misión, aunque no sea fácil de realizar. Estos grabados deben viajar por todo el mundo y deben decir concisamente a todos los hombres: así fue, esto es lo que todos hemos sufrido en estos años indeciblemente dolorosos».

Siete años después de la muerte de Peter, entre 1921-22, realizó un ciclo de siete xilografías, La guerra, ahora en el MoMA de Nueva York, donde relata un dolor que no es sólo suyo, sino de todas las madres que han perdido a sus hijos. La guerra, ganada o perdida, sigue siendo una catástrofe para todos, no sólo para los jóvenes enviados al frente, sino también para los huérfanos y las viudas. La xilografía es una técnica de impresión de madera grabada, más expresiva y esencial que el aguafuerte; deja una huella sintética, dura, dramática y, renunciando a cualquier forma de elegancia y claridad, juega con la alternancia del vacío y la plenitud, del blanco y el negro. El sacrificio muestra a una madre ofreciendo a su hijo. Los voluntarios representa la generación de quienes se consagraron a la guerra y a la muerte. Los padres es un bloque de dolor, ella inclinada y sostenida por él que oculta el rostro con una mano. Tanto la La Viuda 1 como la La Viuda 2 representan a mujeres jóvenes, una embarazada con el rostro inclinado y los brazos cruzados sobre el vientre para defender al feto, la otra tumbada en el suelo desnuda mientras sostiene a su pequeño hijo sobre su pecho; Las Madres representa a un grupo de mujeres, reunidas en círculo, decididas a proteger a sus hijos; en el séptimo grabado, El pueblo, otra vez madres, solas, desesperadas y resignadas, junto a sus hijos. Destacan del negro, el color del dolor, que invade todo el campo, sólo rostros esqueléticos y sus manos huesudas.

El compromiso político de Käthe se hizo cada vez más fuerte, como se puede comprobar en el grabado dedicado a la muerte de Karl Liebknecht, un abogado socialista detenido varias veces por sus ideas pacifistas: torturado e interrogado durante varias horas, fue asesinado el 15 de enero de 1919. Los trabajadores bloquean el cuerpo de Liebknecht, sus grandes manos extendidas sobre la sábana blanca del funeral dan a la escena una fuerte intensidad dramática. Y de nuevo el cartel litográfico Los supervivientes de 1922, donde una madre, con las cuencas de los ojos hundidas y moradas, a su izquierda está rodeada de ancianos, a su derecha de mutilados y por debajo de niños a los que intenta proteger con sus fuertes brazos. En 1924 el manifiesto pacifista ¡Nunca jamás otra guerra! es una protesta contra el militarismo, donde el gesto imperioso del joven con el brazo levantado y la mano en el corazón sella el juramento.

El segundo ciclo de xilografía, de 1924-1925, se titula El Proletariado y se compone de tres láminas: En paro, Hambre, Los niños alemanes están hambrientos. Se caracteriza, como siempre, por la esencialidad del trazo, por el dramatismo de la escena, dominada por el color negro que casi se apodera del blanco. Finalmente, iniciado en 1919 y finalizado en 1932, tras catorce años de gestación, completó el monumento dedicado a su hijo muerto y a todos sus compañeros caídos en la Gran Guerra. El homenaje Padres de luto, hoy en Vladslo, Bélgica, en el cementerio de guerra alemán, está compuesto por dos enormes estatuas de granito que representan a un padre y una madre encerrados en su dolor. Con el ascenso de Hitler y su partido, Käthe se ve obligada a dimitir de la Academia de Berlín. Ahora es un personaje incómodo por sus ideas progresistas y pacifistas, aunque no es judía, ni exponente del arte así llamado "degenerado". Se le permite trabajar mientras sus obras no se expongan. Comienza entonces ese largo "exilio interior" que la verá excluida de todos los acontecimientos culturales; sus obras se retiran de salas y galerías públicas y privadas. Sólo su fama internacional la salva de la deportación a un campo de concentración. Entre 1937 y 1939 trabajó en La Piedad (Madre con Hijo Muerto), escultura creada una vez más en memoria de su hijo dos décadas después de su muerte. El cuerpo del hijo está casi envuelto en los miembros y ropas de la madre que lo abraza, expresando un deseo de protección y unión incluso después de la muerte.

En 1993 una versión mayor de la escultura fue instalada permanentemente en la Nueva Guardia (Die Neue Wache) de Berlín, dedicada a todas las víctimas de la guerra, transformando el dolor personal de Käthe en un símbolo de pérdida universal. Su último ciclo de litografías, Muerte, está inspirado en la muerte que ha afrontado a lo largo de su vida.

En 1939, Alemania está de nuevo en guerra y Käthe, ya vieja y cansada, se ve sorprendida por otra desaparición: en 1942, en el frente oriental de su nieto Peter, el hijo de Hans. En el mismo año realizó otra litografía, su última obra estampada, que tiene como título una frase de Goethe que llevó dentro de sí durante muchos años: Las semillas no deben triturarse; representa a una madre que, con mirada decidida y brazos fuertes, mantiene resguardados a sus tres pequeños hijos, o mejor dicho a sus semillas. Vive en Berlín en la pobreza, viuda desde 1940. Permanece allí hasta 1943, cuando la población abandona la capital debido a los bombardeos; se refugia cerca de Dresde, donde muere el 22 de abril de 1945, pocos días antes de la rendición de la Alemania nazi. Se le dedicaron dos museos: uno, en 1985, en Colonia y el otro, al año siguiente, en Berlín. Su rostro aparece en un sello de 1991, en la serie Mujeres de la historia alemana.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

For Käthe Schmidt, graphic art was the preferred medium of expression, and social issues the subject matter with which to document injustice and marginalization and, especially, the atrocities of wars, because she experienced them firsthand. She was part of the Berlin Secession, an expressionist movement that, in the late 19th and early 20th centuries, represented the tragic reality of Europe at that time by dissociating itself from official styles.

Käthe was born in 1867 in Königsberg, East Prussia (now Kaliningrad, Russia), the fifth of eight children, to a progressive middle-class family. Her father was a master mason and her mother was the daughter of a preacher. Together with her brother Konrad, she adhered to the socialist ideal. In 1881 she manifested, indulged by her father, her artistic vocation, took her first lessons from Rudolf Mauer, a copper engraver, and the painter Gustav Nauyok, and began practicing etching. Moving to Berlin, she enrolled in an art school open to women, where she became more interested in drawing than painting. In 1889 she moved to Munich and took lessons from Ludwig von Herterich, a painter and art teacher; a few years later she married Karl Kollwitz, a socialist physician, by whom she had two sons, Hans in 1892 and Peter in 1896, and they went to live in Berlin. During this period, after attending a performance of Gerhart Hauptmann's play Die Webern (The Weavers), she produced a cycle of three lithographs and three etchings, The Weavers' Revolt, 1895-1898, inspired by the story.

Between 1901 and 1908 she put her hand to the cycle The Peasants' War, inspired by uprisings in southern Germany in the 1620s, a war thus fought almost four centuries earlier. The peasants' rebellion was a failure because the landowners had horses and artillery, the peasants did not, but they fought with the dignity, courage and strength of the poor.

In the meantime she made some trips: to Paris, where she met Rodin and learned to sculpt, and to Italy, following her winning the Villa Romana prize, which guaranteed her a year's stay in a Florentine studio. The Great War arrived and Käthe initially supported it, believing it to be a war of aggression and of great danger to Germany, and became involved in the Women's Auxiliary Commission. Her second son Peter left as a volunteer. The artist recalled in her diary, "Peter was eighteen and a half years old. Karl, who had not changed his mind about the war, said no. Peter turned to me. The next morning I had yet another conversation with him, and my attempts to hold him back were totally futile." Peter departed on October 13, 1914. Ten days he died on the front. The loss of her son and gradually the deaths of so many young men like him threw Käthe into despondency and caused her to revise her ideas about war - she now recognized only murderous madness, destruction and dehumanization. A long period of deep depression and inactivity began for her. In 1917 she gained great recognition. On the occasion of her 50th birthday no less than 150 works were exhibited in Berlin at Paul Cassirer's gallery, and in the same year she participated in numerous exhibitions throughout the nation. In 1919 she entered as a lecturer at the Berlin Academy of Art, the first woman teacher, and later, in 1928, she was given the directorship of the graphic design specialization. It was not until 1920 that Käthe found the strength to approach art again and express all the suffering she and other - women, children, and survivors - suffered from the consequences of the war.

"I have to express the pain of men, a pain that never ends and is now enormous. This is my task, although it is not easy to fulfill it. These engravings must go around the world and must concisely say to all men: This is how it was, this is what we all suffered in these unspeakably painful years."

Seven years after Peter's death, in 1921-22, she executed a cycle of seven woodcuts, The War, now at MoMA in New York, and recounted a grief that is not only her own, but that of all mothers who had lost their children. War, won or lost, was still a catastrophe for everyone, not only for the young men sent to the front, but also for orphans, and widows. Woodcut is a printing technique from engraved wood, more expressive and essential than etching - it leaves a synthetic, harsh, dramatic mark, and forsaking all forms of elegance and clarity plays on the alternation of empty and full, black and white. Sacrifice shows a mother offering her son, lifting him on high. Volunteers represents the generation of those who have devoted themselves to war and death. The parents are shown as a block of pain, she bent over and supported by him hiding her face with one hand. Widow 1 and Widow 2 both depict young women, one pregnant with her face recumbent and her arms crossed over her belly defending her unborn child, the other lying on the bare ground as she clutches her small son to her chest. Mothers represents a group of women, huddled in a circle, determined to protect their children; in the seventh woodcut, The People, is still mothers, alone, desperate and resigned, together with their children. Emerging from the black, the color of grief, which invades the entire field, are only skeletal faces and bony hands.

Käthe's political commitment grew stronger and stronger, as can be seen in the woodcut dedicated to the death of Karl Liebknecht, a socialist leader repeatedly arrested for his anti-war views. Tortured and interrogated for several hours, he was killed on January 15, 1919. Workers crowd around Liebknecht's body, their large hands stretched across the white funeral shroud giving the scene a strong dramatic intensity. And again the 1922 lithographic poster The Survivors, where a mother, with hollowed-out black eye sockets, is surrounded on the left by elderly people, on the right by amputees, and at the bottom by children whom she tries to protect with her strong arms. In 1924 the pacifist manifesto Never Again War! is a protest against militarism, where the imperious gesture of the young man with an arm raised and a hand over his heart seals the oath.

The second woodcut cycle, from 1924-1925, is entitled Proletariat, and consists of three pieces: Unemployment, Hunger, and The Children of Germany Starve. It is, as always, characterized by the essentiality in the design, the dramatic nature of the scene, dominated by the black color that almost eliminates the white. Finally, begun in 1919 and finished in 1932, after fourteen years of gestation, she completed the memorial dedicated to her dead son and all his fallen comrades in the Great War. The Grieving Parents memorial, now in Vladslo, Belgium, in the German War Cemetery, consists of two huge granite statues representing a father and mother locked in their grief.With the rise of Hitler and his party, Käthe was forced to resign from the Berlin Academy. By now she was an uncomfortable figure for her progressive and pacifist ideas, even though she is neither Jewish nor an exponent of so-called "degenerate" art. She is allowed to work as long as her works are not exhibited. Then began the long "internal exile" that would see her excluded from all cultural events. Her works were removed from public and private halls and galleries. Only her international fame saved her from deportation to a concentration camp. Between 1937 and 1939 she worked on Pieta (Mother with Dead Son), a sculpture again created in memory of her son two decades after his death. The body of the son is almost completely enveloped by the limbs and robes of the mother who embraces him, expressing a desire for protection and union even after death.

In 1993 a larger version of the sculpture was permanently installed in Berlin's Neue Wache, dedicated to all victims of war, transforming Käthe's personal grief into a symbol of universal loss. Her last cycle of lithographs, Death, was inspired by that death she had come to terms with throughout her life.

In 1939, Germany was again at war, and Käthe, now old and tired, was affected by another death, that in 1942, on the eastern front, of her grandson Peter, Hans' son. In the same year she made another lithograph, her last printed work, which has as its title a phrase from Goethe that she had carried inside herself for long years, Seed Corn Must Not Be Ground. It depicts a mother who, with a determined gaze and strong arms, holds her three little children, the seeds, in shelter. She lived in Berlin in poverty, a widow since 1940. She remained there until 1943, when many were evacuated from the capital due to bombing. She took refuge near Dresden, where she died on April 22, 1945, just days before the surrender of Nazi Germany. Two museums were dedicated to her, one in Cologne in 1985 and the other in Berlin the following year. Her face appeared on a stamp in 1991, in the Women in German History series.

 

Elisabetta Piccini
Emilia Guarneri

Laura Zernik

 

Elisabetta Piccini, nota come suor Isabella Piccini, è stata un’incisora la cui memoria è stata a lungo trascurata, nonostante si tratti di una storia che vale certamente la pena raccontare. Con una lunga vita, trascorsa per la maggior parte tra le mura di un convento, viene ricordata sì per le sue opere, ma anche per lo spirito imprenditoriale che la animerà fino alla fine dei suoi giorni. Nasce nel 1644 a Venezia, ed è fin da subito immersa nell’arte incisoria: il padre Giacomo Piccini, un calcografo di origini padovane arrivato in laguna da giovane, attivo soprattutto come autore di rami di destinazione libraria, si occupa insieme con il fratello Guglielmo di riprodurre dipinti famosi di Rubens e Tiziano su rame, oltre a svolgere il lavoro di illustratore per conto di tipografi ed editori. La giovane cresce dunque tra rame, inchiostro, bulini, libri illustrati e attrezzi da lavoro, imparando ben presto il mestiere e iniziando a incidere in profondità la lastra. Questo le consente di “tirare” –come suggerisce il linguaggio tecnico – un gran numero di stampe, per le quali incontra sempre molta richiesta. È un periodo florido per l’ambito di lavoro della famiglia: vi è una crescita del mercato editoriale, pur considerando le continue crisi e riprese economiche della città di Venezia. Nonostante le guerre di terra e di mare, la peste e l’ostilità con il popolo ottomano, la città lagunare rimane un centro popoloso e colmo di attività artigianali e produttive; l’illustrazione dei libri, destinata a esplodere nel Settecento, si fa strada già nel Seicento, dando un impulso di rinnovamento all’editoria cittadina.

   
Isabella Piccini - Frontispiece of Fatinellus de Fatinellis (1627–1719) - Vita beatae Zitae virginis Lucensi, 1688 Simboli predicabili estratti da Sacri Evangeli

Durante l’adolescenza Elisabetta perde il padre, morto a poco più di quarant’anni, ritrovandosi da sola a gestire gli affari: nel 1663 presenta presso il Doge di Venezia la richiesta dell’autorizzazione per l’esclusiva su una stampa, e la ottiene – si tratta del documento più antico riguardante Elisabetta Piccini di cui disponiamo, e merita di essere riportato:

«Ser.mo Prencipe, tra l’angustie nelle quali la morte del Genitore lasciò me, Isabella figlia del q.m Giacomo Piccini, humilissima serva di V. Ser.tà, ho applicato l’animo a procurar di riuscir non dissimile da lui che lasciò non ordinaria fama delle proprie operationi. Nel corso però di tre anni ch’è seguita la morte stessa, ho inventati alcuni dissegni significanti il fine dell’huomo che mal si governa, et intagliati con l’instrutioni che vivendo il Padre havevo apprese, vorrei esponerli al Mondo con le pubbliche stampe, quando dalla somma benignità dell’E.E. V.V. mi fosse concesso il solito Privileggio che non potessero d’altri esser stampati, affin di poter non solo ricever qualche sollievo, ma ravvivar etiandio l’ottima memoria paterna. Per questa gratia humilmente prostrata, supplico l’infinita pubblica carità, certa che mai cessarano li miei preghi alla Divina bontà per l’esaltatione maggiore della Serenità Vostra. Gratie».

Sono parole significative e rappresentative della figura di una donna che affida al Doge il sogno di fare dell’arte incisoria la propria vita. Nasce in un primo momento il sodalizio col fratello Pietro, con il quale mette in pratica gli insegnamenti del padre, infatti firmano alcune opere con la dicitura «Li figlioli del Piccini». La carriera di Pietro Piccini tuttavia non durerà quanto quella della sorella, che presto inizierà a firmare autonomamente le opere e distaccarsi gradualmente dallo stile acquisito tramite la famiglia. Nonostante il lavoro avviato, per una ragazza rimasta orfana la scelta del convento appare quasi obbligata, così nel 1666 entra nel convento francescano di Santa Croce in Venezia, dal quale non uscirà mai. Da questo momento in poi Elisabetta Piccini diventa suor Isabella, ma non cambia la sua attività. I ritmi da monaca le permettono di mantenere e alimentare la sua passione e continuare a rifornire gli editori veneziani. Collabora con Bartoli a Venezia, con la Tipografia del Seminario a Padova, Gromi a Brescia, Remondini a Bassano; sono questi infatti i luoghi in cui il ricordo di suor Isabella è più vivo. Gli affari vanno bene, perciò riesce a contribuire alle spese di mantenimento del monastero e all’età di settantaquattro anni viene nominata Vicaria del convento, ricoprendo l’incarico per sei anni. Nel frattempo aiuta economicamente la sorella Francesca, che la raggiungerà prendendo i voti nel 1673, per poi scioglierli undici anni dopo andando incontro al matrimonio.

La parte più consistente del lavoro dell’incisora è composta da illustrazioni di testi sacri, messali, libri di preghiere, biografie di sante e santi, breviari, illustrazioni di manuali. Lavora da sola, senza un aiuto – l’unico supporto che accetterà, negli ultimi anni, sarà quello di suor Angela Baroni – e incessantemente, guadagnandosi la fiducia di clienti in grado di offrirle le lastre di rame sulle quali inciderà a bulino. La tecnica del bulino è una tecnica di incisione su superfici metalliche come rame, ottone o acciaio; prende il nome dallo strumento a punta di metallo affilata utilizzato per incidere le linee sulla superficie della lastra. L'artista lo utilizza per tracciare linee sottili di precisione, che possono essere utilizzate per creare dettagli o sfumature nelle opere d'arte. La pressione e l'angolazione con cui si utilizza lo strumento determinano la larghezza e la profondità delle linee incise. Tornando alla nostra storia, il rapporto professionale più nutrito sarà quello con la famiglia Remondini, con la quale intratterrà anche una lunga corrispondenza di cui si sono conservate alcune tracce. È soprattutto da queste lettere che emerge il lato imprenditoriale della monaca, pronta sempre a far valere il proprio lavoro e a reclamare i pagamenti dovuti. È così che accumulerà un gran numero di manufatti, tant’è che, analizzando i libri pubblicati tra la seconda metà del Seicento e i primi decenni del Settecento, non sarà inusuale trovare la firma di Piccini, in particolare nei testi liturgici.

Molte opere, naturalmente, non si sono conservate, ma sappiamo della presenza anche di fogli sciolti o libri di storia. È bene precisare che non tutti i disegni incisi sono stati fatti proprio da suor Isabella, numerosi infatti appartengono ad artisti e artiste più o meno famose che alimentavano proficuamente la collaborazione tra mondo editoriale e mondo pittorico. Non va dimenticato che Piccini è un’incisora, e dunque un’artigiana, quando si guarda alle sue creazioni che lasciano trasparire una certa ingenuità formale. Questo è in realtà un aspetto che arricchisce l’opera, che diventa traccia dell’incontro tra diverse abilità, saperi, esperienze e tecniche. Un altro cavallo di battaglia della monaca sono i ritratti, molto richiesti dal popolo veneziano e dei quali si conservano quelli dedicati ad alcuni sovrani come Carlo II o il doge Marcantonio Giustinian; le sue innegabili capacità emergono con evidenza nei ritratti della duchessa Aurelia Spinola.

Giovanni Antonio Lazzari e Isabella Piccini, ritratto di Carlo II di Spagna in Historie cronologiche della vera origine di tutti gl'ordini equestri di Bernardo Giustiniani, Venezia, presso Combi, & LaNoù, 1672 Martial Desbois e Isabella Piccini, ritratto di Marcantonio Giustinian in Historia veneta di Alessandro Maria Vianoli, Venezia, presso Giovanni Giacomo Hertz, 1680.

È molto interessante notare come, nonostante la fissità richiesta dalla vita monacale, la sua carriera sia paragonabile a quella di altre figure artistiche o editoriali che avevano la possibilità di muoversi alla ricerca di nuovi clienti di città in città. Appare necessario soffermarsi un momento anche sul fatto che Elisabetta Piccini opera in un settore prettamente maschile, inserendosi ugualmente nelle vicende veneziane con enorme successo. Con una notevole limpidezza di intenti e una forte dedizione, con costanza e perseveranza, con passione e determinazione, riesce non solo a emanciparsi dal cognome, costruendo nuovi stili, ma anche a essere orgogliosamente autonoma e indipendente per tutta la vita. Suor Isabella muore il 29 aprile 1734, a novant’anni e dopo una lunga e artistica esistenza.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

 

Elisabetta Piccini, connue sous le nom de sœur Isabella Piccini, a été une graveuse dont la mémoire a longtemps été négligée, bien qu’il s’agisse d’une histoire qui mérite d’être racontée. Elle a mené une longue vie, principalement passée entre les murs d’un couvent, et est rappelée non seulement pour ses œuvres, mais également pour l’esprit entrepreneurial qui l’a animée jusqu’à la fin de ses jours. Elle est née en 1644 à Venise et a été plongée dès son plus jeune âge dans l’art de la gravure. Son père, Giacomo Piccini, un graveur d’origine padouane arrivé jeune dans la lagune, travaillait surtout comme auteur de gravures destinées aux livres. Avec son frère Guglielmo, il reproduisait des peintures célèbres de Rubens et de Titien sur des plaques de cuivre, tout en collaborant avec des typographes et des éditeurs comme illustrateur. La jeune Elisabetta a donc grandi entourée de plaques de cuivre, d’encre, de burins, de livres illustrés et d’outils de travail. Elle a rapidement appris le métier et a commencé à graver profondément les plaques, ce qui lui permettait de produire – pour reprendre le langage technique – un grand nombre d’estampes, toujours très demandées. C’était une période florissante pour l’activité familiale : le marché éditorial connaissait une croissance, malgré les crises économiques récurrentes de la ville de Venise. Malgré les guerres terrestres et maritimes, la peste et les tensions avec l’Empire ottoman, la cité lagunaire restait un centre dynamique, riche en activités artisanales et productives. L’illustration de livres, destinée à exploser au XVIIIe siècle, avait déjà commencé à se développer au XVIIe siècle, donnant un élan nouveau à l’édition vénitienne.

   
Isabella Piccini - Frontispice de Fatinellus de Fatinellis (1627–1719) - Vita beatae Zitae virginis Lucensi, 1688. Symboles prêchables extraits des Saintes Évangiles.

Pendant son adolescence, Elisabetta perd son père, mort à un peu plus de quarante ans, se retrouvant seule pour gérer les affaires familiales. En 1663, elle présente au Doge de Venise une demande d'autorisation pour obtenir l'exclusivité sur une gravure, et elle l'obtient. Ce document est le plus ancien que nous possédions concernant Elisabetta Piccini et mérite d’être cité:

«Ser.mo Prencipe, parmi les difficultés dans lesquelles la mort de mon père m’a laissée, moi, Isabella, fille du feu Giacomo Piccini, humble servante de V. Ser.tà, j’ai appliqué mon esprit à m’efforcer de ne pas être différente de lui, qui a laissé une renommée peu ordinaire pour ses œuvres. Au cours des trois années qui ont suivi cette mort, j’ai inventé quelques dessins représentant la fin de l’homme qui se gouverne mal, et je les ai gravés avec les instructions que, de son vivant, mon père m’avait enseignées. Je voudrais les présenter au monde par le biais des impressions publiques, si la grande bienveillance de V.V. E.E. m’accordait le privilège habituel qu’ils ne puissent être imprimés par d’autres, afin de recevoir non seulement un certain réconfort, mais aussi de raviver la mémoire exceptionnelle de mon père. Pour cette grâce, humblement prosternée, je supplie l’infinie charité publique, certaine que mes prières à la Divine Bonté pour l’exaltation de Votre Sérénité ne cesseront jamais. Merci»..

Ces paroles sont significatives et représentatives de la figure d'une femme qui confie au Doge son rêve de faire de l'art de la gravure sa vie. Elle commence d’abord une collaboration avec son frère Pietro, avec qui elle met en pratique les enseignements de leur père. En effet, ils signent certaines œuvres avec l’inscription «Les enfants de Piccini». Cependant, la carrière de Pietro ne durera pas aussi longtemps que celle de sa sœur, qui commencera rapidement à signer ses œuvres de manière autonome et à se détacher progressivement du style hérité de sa famille. Malgré son travail, pour une jeune fille orpheline, le choix du couvent semble presque inévitable. Ainsi, en 1666, elle entre au couvent franciscain de Santa Croce à Venise, où elle restera jusqu’à la fin de sa vie. À partir de ce moment, Elisabetta Piccini devient sœur Isabella, mais son activité artistique ne change pas. Les rythmes de la vie monastique lui permettent de maintenir et d’alimenter sa passion tout en continuant à fournir les éditeurs vénitiens. Elle collabore avec Bartoli à Venise, avec la Tipografia del Seminario à Padoue, avec Gromi à Brescia, et avec Remondini à Bassano ; ce sont d’ailleurs les lieux où le souvenir de sœur Isabella reste le plus vivant. Ses affaires prospèrent, lui permettant de contribuer aux dépenses du monastère. À l’âge de soixante-quatorze ans, elle est nommée vicaire du couvent, un poste qu’elle occupera pendant six ans. Parallèlement, elle aide financièrement sa sœur Francesca, qui la rejoint en prenant les vœux en 1673, avant de les rompre onze ans plus tard pour se marier.

La majeure partie de l’œuvre de la graveuse consiste en des illustrations de textes sacrés, de missels, de livres de prières, de biographies de saints et saintes, de bréviaires, et d’illustrations de manuels. Elle travaille seule, sans aucune aide – le seul soutien qu’elle acceptera dans ses dernières années sera celui de sœur Angela Baroni – et de manière incessante, gagnant la confiance de clients qui lui fournissent les plaques de cuivre sur lesquelles elle grave au burin. La technique du burin est une méthode de gravure sur des surfaces métalliques comme le cuivre, le laiton ou l’acier. Elle tire son nom de l’outil à pointe métallique aiguisée utilisé pour graver des lignes sur la surface de la plaque. L’artiste utilise cet outil pour tracer des lignes fines et précises, qui peuvent être employées pour créer des détails ou des nuances dans les œuvres d’art. La pression et l’angle d’utilisation déterminent la largeur et la profondeur des lignes gravées. Revenant à notre histoire, la relation professionnelle la plus nourrie sera celle avec la famille Remondini, avec laquelle elle entretiendra également une longue correspondance dont quelques traces ont été conservées. C’est surtout à travers ces lettres que se révèle le côté entrepreneurial de la religieuse, toujours prête à défendre son travail et à réclamer les paiements qui lui sont dus. C’est ainsi qu’elle accumulera un grand nombre de créations. En analysant les livres publiés entre la seconde moitié du XVIIe siècle et les premières décennies du XVIIIe siècle, il n’est pas rare de trouver la signature de Piccini, en particulier dans les textes liturgiques.

Bien sûr, de nombreuses œuvres n’ont pas été conservées, mais nous savons qu’elle a également réalisé des feuilles volantes et des livres d’histoire. Il est important de préciser que toutes les gravures ne sont pas directement d’elle : nombre d’entre elles proviennent d’artistes, hommes et femmes, plus ou moins célèbres, qui enrichissaient les collaborations entre le monde de l’édition et celui de la peinture. Il ne faut pas oublier que Piccini est une graveuse, donc une artisane, lorsqu’on regarde ses créations qui laissent transparaître une certaine naïveté formelle. Cela constitue en réalité un aspect enrichissant de son œuvre, qui devient la trace de la rencontre entre diverses compétences, savoirs, expériences et techniques. Un autre point fort de la religieuse est le portrait, très demandé par le peuple vénitien. Parmi ceux qui ont été conservés, on trouve des portraits de souverains comme Charles II ou le Doge Marcantonio Giustinian, mais aussi de la duchesse Aurelia Spinola, où ses indéniables capacités ressortent clairement.

Giovanni Antonio Lazzari et Isabella Piccini, portrait de Charles II d'Espagne dans Historie cronologiche della vera origine di tutti gl'ordini equestri de Bernardo Giustiniani, Venise, chez Combi, & LaNoù, 1672 Martial Desbois et Isabella Piccini, portrait de Marcantonio Giustinian dans Historia veneta d'Alessandro Maria Vianoli, Venise, chez Giovanni Giacomo Hertz, 1680.

Il est intéressant de noter que, malgré la fixité imposée par la vie monastique, sa carrière peut être comparée à celle d’autres figures artistiques ou éditoriales qui avaient la possibilité de se déplacer de ville en ville à la recherche de nouveaux clients. Il est également essentiel de souligner qu’Elisabetta Piccini opère dans un domaine essentiellement masculin, s’y insérant pourtant avec un grand succès dans le contexte vénitien. Avec une clarté d’intention remarquable, une forte dévotion, de la constance, de la persévérance, de la passion et de la détermination, elle parvient non seulement à s’émanciper de son nom de famille en développant de nouveaux styles, mais aussi à être fièrement autonome et indépendante tout au long de sa vie. Sœur Isabella meurt le 29 avril 1734, à l’âge de 90 ans, après une longue et artistique existence.


Traduzione spagnola

Ramona Carobene

 

Elisabetta Piccini, conocida como la hermana Isabella Piccini, fue una grabadora cuya memoria ha sido descuidada durante mucho tiempo, aunque es una historia que ciertamente vale la pena contar. Con una larga vida, pasada la mayor parte del tiempo entre las paredes de un convento, se la recuerda por sus obras, pero también por el espíritu emprendedor que la animará hasta el final de sus días. Nace en 1644 en Venecia y desde el primer momento se sumerge en el arte del grabado: su padre Giacomo Piccini, un calcógrafo de origen paduano que llegó a la laguna cuando era joven, activo sobre todo como autor de grabados para librerías junto con su hermano Guillermo, reproduce pinturas famosas de Rubens y Tiziano sobre cobre, además de realizar trabajos como ilustrador para impresores y editores. La joven crece pues entre cobre, tinta, buriles, libros ilustrados y herramientas de trabajo, aprendiendo muy pronto el oficio y empezando a grabar la placa en profundidad. Esto le permite ‘tirar’ –como sugiere el lenguaje técnico– un gran número de impresiones, para las cuales siempre encuentra mucha demanda. Es un período próspero para el ámbito de trabajo de la familia: hay un crecimiento del mercado editorial, a pesar de las continuas crisis y recuperaciones económicas de la ciudad de Venecia. A pesar de las guerras terrestres y marítimas, la peste y la hostilidad con el pueblo otomano, la ciudad de la laguna sigue siendo un centro poblado y lleno de actividades artesanales y productivas; la ilustración de los libros, destinada a explotar en el siglo XVIII, se hace camino ya en el siglo XVII, dando un impulso de renovación al mundo editorial de la ciudad.

   
Isabella Piccini - Frontispicio de Fatinellus de Fatinellis (1627–1719) - Vida de la beata Zita virgen lucense, 1688. Símbolos predicables extraídos de los Santos Evangelios.

Durante la adolescencia, Elisabetta pierde a su padre, muerto con poco más de cuarenta años, y se encuentra sola para administrar los negocios: en 1663 presenta una solicitud al Dogo de Venecia para que le conceda la exclusividad de un grabado, exclusiva que obtiene –es el documento más antiguo sobre Elisabetta Piccini del que disponemos, y merece ser recogido:

«Serenísimo Príncipe, entre las angustias en que la muerte de mi Padre me dejó, yo Isabella hija, del señor Giacomo Piccini, humilde sierva de Su Serenísima, he aplicado el alma a procurar no ser distinta de él, que dejó una fama extraordinaria de sus propias operaciones. Pero en los tres años que siguieron a su muerte, he inventado algunos dibujos sobre el fin del hombre que mal se gobierna, y tallados con las instrucciones que había aprendido de mi Padre en vida, quisiera exponerlos al Mundo con impresiones públicas, si la suma benignidad de Su Excelencia me concediera el habitual Privilegio para que no puedan ser impresos por otros, a fín de poder no solo recibir un poco de alivio, sino también reavivar la excelente memoria paterna. Humildemente postrada para esta gracia suplico la infinita caridad pública, segura de que nunca cesarán mis oraciones a la Divina bondad para la exaltación mayor de Su Serenidad. Gracias».

Son palabras significativas y representativas de la figura de una mujer que le confía al Dogo el sueño de hacer del arte del grabado su vida. Nace en un primer momento la asociación con el hermano Pietro, con quien pone en práctica las enseñanzas del padre, de hecho firman algunas obras con la inscripción «Li figlioli del Piccini» (los hijos de Piccini). Sin embargo, la carrera de Pietro Piccini no durará tanto como la de su hermana, que pronto comenzará a firmar las obras por sí misma y se separará gradualmente del estilo adquirido mediante la familia. A pesar del trabajo iniciado, para una muchacha que se quedó huérfana la elección del convento parece casi obligada, así que en 1666 entra en el convento franciscano de Santa Croce en Venecia, del que nunca saldrá. A partir de ese momento Elisabetta Piccini se convierte en ‘la hermana Isabella’, pero no cambia su actividad. Los ritmos de monja le permiten mantener y alimentar su pasión y continuar abasteciendo a los editores venecianos. Colabora con Bartoli en Venecia, con la Tipografía del Seminario de Padua, con Gromi en Brescia, con Remondini en Bassano; son estos los lugares donde el recuerdo de la hermana Isabella es más vivo. Los negocios van bien, por lo tanto consigue contribuir a los gastos de mantenimiento del monasterio y a la edad de setenta y cuatro años la nombran Vicaria del convento, cargo que ocupa durante seis años. Mientras tanto ayuda económicamente a su hermana Francesca, que la alcanzará tomando los votos en 1673, para luego disolverlos once años después yendo al encuentro del matrimonio.

La parte más consistente del trabajo de la grabadora está compuesta por ilustraciones de textos sagrados, misales, libros de oraciones, biografías de santos y santas, breviarios, ilustraciones de manuales. Trabaja sola, sin ayuda –el único apoyo que aceptará en los últimos años será el de la hermana Angela Baroni– e incesantemente, ganándose la confianza de clientes capaces de ofrecerle las planchas de cobre sobre las cuales hará sus grabados. La técnica del buril es una técnica de grabado en superficies metálicas como cobre, latón o acero; toma su nombre del instrumento de punta metálica afilada utilizado para grabar líneas en la superficie de la placa. El artista lo utiliza para trazar líneas finas de precisión, que se pueden utilizar para crear detalles o matices en las obras de arte. La presión y el ángulo de uso del instrumento determinan el ancho y la profundidad de las líneas grabadas. Volviendo a nuestra historia, la relación profesional más nutrida será con la familia Remondini, con la cual mantendrá también una larga correspondencia de la que se han conservado algunos rastros. De estas cartas emerge sobre todo el lado emprendedor de la monja, siempre dispuesta a hacer valer su trabajo y reclamar los pagos debidos. Así es como acumulará un gran número de grabados, tanto que, analizando los libros publicados entre la segunda mitad del siglo XVII y las primeras décadas del siglo XVIII, no será inusual encontrar la firma de Piccini, en particular en los textos litúrgicos.

Muchas obras, por supuesto, no se han conservado, pero también sabemos de la presencia de hojas sueltas o de libros de historia. Es bueno precisar que no todos los dibujos grabados fueron hechos por sor Isabella, muchos pertenecen a artistas más o menos famosos que alimentaban provechosamente la colaboración entre el mundo editorial y el mundo pictórico. No hay que olvidar que Piccini es una grabadora, y por tanto una artesana, cuando se observan sus creaciones que dejan traslucir cierta ingenuidad formal. Este es en realidad un aspecto que enriquece su obra, que se convierte en rastro del encuentro entre diferentes habilidades, conocimientos, experiencias y técnicas. Otro caballo de batalla de la monja son los retratos, muy solicitados por la población veneciana y de los cuales se conservan aquellos dedicados a algunos soberanos, como Carlos II, o el dogo Marcantonio Giustinian; sus habilidades indiscutibles destacan en los retratos de la duquesa Aurelia Spinola.

Giovanni Antonio Lazzari e Isabella Piccini, retrato de Carlos II de España en Historia cronológica de la verdadera origen de todos los órdenes ecuestres de Bernardo Giustiniani, Venecia, en Combi & LaNoù, 1672. Martial Desbois e Isabella Piccini, retrato de Marcantonio Giustiniano en Historia veneta de Alessandro Maria Vianoli, Venecia, en Giovanni Giacomo Hertz, 1680.

Es muy interesante observar que, a pesar de la fisonomía requerida por la vida monástica, su carrera es comparable a la de otras figuras artísticas o editoriales que tenían la posibilidad de moverse de ciudad en ciudad en busca de nuevos clientes. Parece necesario detenerse un momento también en el hecho de que Elisabetta Piccini opera en un sector puramente masculino, pero se introduce igualmente en las vicisitudes venecianas con enorme éxito. Con una notable claridad de propósitos y una fuerte dedicación, con constancia y perseverancia, con pasión y determinación, no solo logra emanciparse de su apellido, construyendo nuevos estilos, sino también ser orgullosamente autónoma e independiente para toda la vida. La hermana Isabel muere el 29 de abril de 1734, a los noventa años y después de una larga y artística existencia.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

Elisabetta Piccini, known as Sister Isabella Piccini, was an engraver whose memory has long been neglected, although her story is certainly worth telling. With a long life, spent mostly within the walls of a convent, she is remembered, yes, for her works, but also for the entrepreneurial spirit that animated her until the end of her days. She was born in 1644 in Venice, and from the very beginning she was immersed in the art of engraving. Her father Giacomo Piccini, a chalcographer (engraver of copper or other metals) of Paduan origin, who had arrived in the lagoon as a young man and was active above all as an author of material destined for books, was involved with his brother Guglielmo in reproducing famous paintings by Rubens and Titian on copper, as well as carrying out the work of illustrator on behalf of printers and publishers. The young woman thus grew up among copper, ink, engraving tools and illustrated books, soon learning the trade and beginning to engrave deep into the plate. This allows her to "pull"-as the technical language suggests-a large number of prints, for which she always encountered much demand. It was a prosperous period for the family's sphere of work. There was a growth in the publishing market, even considering the continuous economic crises and recoveries in the city of Venice. Despite wars of land and sea, the plague and hostility with the Ottomans, the lagoon city remained a populous center filled with craft and productive activities. Book illustration, destined to explode in the eighteenth century, made its way as early as the seventeenth century, giving a significant impetus to the city's publishing industry.

   
Isabella Piccini - Frontispiece of Fatinellus de Fatinellis (1627–1719) - Vita beatae Zitae virginis Lucensi, 1688. Preachable symbols extracted from the Sacri Evangeli.

In her teens Elisabetta lost her father, who died when he was just over forty, and found herself alone in running the business. In 1663 she applied to the Doge of Venice for authorization for exclusivity on a printing press, and obtained it - this is the oldest document concerning Elisabetta Piccini that we have, and it deserves to be reported:

«Most Serene Prince, amidst the distress in which the death of the my Father left me, Isabella daughter of Giacomo Piccini, most humble servant of V. Ser.tà, I have applied my mind to procuring to succeed not unlike him who experienced not ordinary fame from his own creations. In the course of the three years that have followed his death itself, however, I have invented some sketches signifying the end of the man who governs himself badly, and carved them with the instructions that while Father was living I had learned, I should like to expose them to the world by public printing, when by the supreme benevolence of Your Eminence V.E. I am granted the usual privilege that they may not be printed by others, so that I may not only receive some relief, but also revive the excellent paternal memory. For this grace humbly prostrate, I beseech the infinite public charity, certain that they will never cease my prayers to the Divine goodness for the greater exaltatione of Your Serenity. Thank you»..

Most Serene Prince, amidst the distress in which the death of the my Father left me, Isabella daughter of Giacomo Piccini, most humble servant of V. Ser.tà, I have applied my mind to procuring to succeed not unlike him who experienced not ordinary fame from his own creations. In the course of the three years that have followed his death itself, however, I have invented some sketches signifying the end of the man who governs himself badly, and carved them with the instructions that while Father was living I had learned, I should like to expose them to the world by public printing, when by the supreme benevolence of Your Eminence V.E. I am granted the usual privilege that they may not be printed by others, so that I may not only receive some relief, but also revive the excellent paternal memory. For this grace humbly prostrate, I beseech the infinite public charity, certain that they will never cease my prayers to the Divine goodness for the greater exaltatione of Your Serenity. Thank you.

These words are significant and representative of the figure of a woman who entrusts the Doge with the dream of making the art of engraving her life. An association with her brother Pietro was born at first, with whom she put her father's teachings into practice. They signed some works with the words "Li figlioli del Piccini" (the children of Piccini). Pietro Piccini's career, however, did not last as long as that of his sister, who soon began to sign works independently and gradually detach herself from the style acquired through the family. Despite the work she started, for a girl who was orphaned the choice of the convent seemed almost obligatory, so in 1666 she entered the Franciscan convent of Santa Croce in Venice, which she would never leave. From this time on Elisabetta Piccini became Sister Isabella, but her activities did not change. Nun-like rhythms allowed her to maintain and nurture her passion and continue to supply Venetian publishers. She collaborated with Bartoli in Venice, with the Tipografia del Seminario in Padua, Gromi in Brescia, and Remondini in Bassano. Indeed, these are the places where Sister Isabella's memory is most vivid. Business was good, so she managed to contribute to the costs of maintaining the monastery, and at the age of seventy-four she was appointed vicar of the convent, holding the post for six years. In the meantime she helped her sister Frances financially, who would join her by taking vows in 1673, only to dissolve them eleven years later on her way to marriage.

The bulk of the engraver's work consists of illustrations of sacred texts, missals, prayer books, biographies of saints and holy men, breviaries, and illustrations of manuals. She worked alone, without help - the only support she would accept, in her later years, would be that of Sister Angela Baroni - and unceasingly, gaining the trust of clients who could offer her the copper plates on which she would engrave by burin. The burin technique is an engraving technique on metal surfaces such as copper, brass or steel. It takes its name from the sharp metal-tipped tool used to etch lines on the surface of the plate. The artist uses it to draw fine precision lines, which can be used to create details or shading in works of art. The pressure and angle at which the tool is used determine the width and depth of the engraved lines. Returning to our story, her most nurturing professional relationship was with the Remondini family, with whom she would also have a long correspondence of which some traces have been preserved. It is especially from these letters that the entrepreneurial side of the nun emerges, always ready to assert her work and claim payments due. This was how she accumulated a large number of artifacts, so much so that, analyzing the books published between the second half of the seventeenth century and the first decades of the eighteenth century, it is not be unusual to find Piccini's signature, particularly in liturgical texts.

Many works, of course, have not been preserved, but we know of the presence of loose sheets and history books as well. It is good to point out that not all of the engraved drawings were done by Sister Isabella herself, many, in fact, belong to more or less famous artists who profitably nurtured the collaboration between the publishing and painting worlds. It should not be forgotten that Piccini is an engraver, and therefore a craftswoman, when one looks at her creations, which hint at a certain formal naiveté. This is actually an aspect that enriches the work, which becomes a trace of the encounter between different skills, knowledge, experience and techniques. Another workhorse of the nun's are the portraits, which were in great demand among the Venetian people and of which those dedicated to some sovereigns such as Charles II or Doge Marcantonio Giustinian are preserved. Her undeniable skills emerge clearly in the portraits of Duchess Aurelia Spinola.

Giovanni Antonio Lazzari and Isabella Piccini, portrait of Charles II of Spain in Historie cronologiche della vera origine di tutti gl'ordini equestri by Bernardo Giustiniani, Venice, published by Combi, & LaNoù, 1672. Martial Desbois and Isabella Piccini, portrait of Marcantonio Giustinian in Historia veneta by Alessandro Maria Vianoli, Venice, published by Giovanni Giacomo Hertz, 1680.

It is very interesting to note how, despite the fixity required by the monastic life, her career is comparable to that of other artistic or editorial figures who had the ability to move in search of new clients from city to city. It seems necessary to also dwell for a moment on the fact that Elisabetta Piccini operated in a purely male sector, inserting herself equally into Venetian affairs with enormous success. With remarkable clarity of purpose and strong dedication, with constancy and perseverance, with passion and determination, she managed not only to emancipate herself from her surname, building new styles, but also to be proudly autonomous and independent throughout her life. Sister Isabella died on April 29, 1734, at the age of ninety and after a long and artistic existence.

 

Diana Scultori Ghisi
Alice Vergnaghi

Laura Zernik

 

Traduzione francese

Rachele Stanchina

 

“La chose la plus étonnante, c’est une jeune fille, nommée Diana, qui engrave d’une façon extraodinaire. Je l’ai vue, elle est très charmante et aimable, ses œuvres sont magnifiques et m’ont stupéfait”

S’il existait une échelle pour mesurer la renommée d’une artiste du seizième siècle, le fait d’ être mentionnée dans l’édition Giuntina des VITE de Giorgio Vasari aurait un poids non indifférent: la présence de Diana Mantuana ou Mantovana dans ce recueil d’artistes est vraiment un fait étonnant. D’après les mots de Vasari qu’on a cité au dessus, la protagoniste de la biographie est tout d’abord “une fille très charmante et aimable”, tandis que, en parlant de Michelange, l’artiste et critique d’art de Arezzo ne nous donne pas d’ indications sur son aspect physique, nous en décrivant seulement les qualités artistiques. Pour une femme, au contraire, le prémier élément de valutation c’est l’apparence physique, puis éventuellement le mérite pour son travail. Dans une optique d’égalité, si l’œil veut sa part, devrait être ainsi pour tous les genres, non seulement pour celui féminin. Cependant, Vasari est fils de son époque et il y correspond sans se poser la question.

Cependant il faut lui reconnaître le mérite d’avoir parlé, dans ses VITE, de Diana Mantuana, une artiste capable de réaliser par la gravure des œuvres précieuses, alors qu’ à l’époque les femmes étaient assujettées à toute une série de limitations qui pouvaient arriver à en compromettre la carrière. On verra comme les limites qu’on lui imposa en tant que femme lui donnèrent moins de possibilités de se faire une rénommée par rapport à un graveur du temps, tel que son frére Adamo par exemple. Mais commençons par le début en partant de son nom. Diana Mantuana (nom qu’elle a utilisé pour signer ses œuvres), est connue aussi sous les noms Scultori et Ghisi. Le premier lui vient de son père, connu comme Giovanni Battista Scultori à cause de la profession qu’il exerçait. Le deuxième, Ghisi, est la conséquence d’un malentendu car dans le passé on avait cru que Diana avait des liens familiaux avec Giorgio Ghisi, un graveur de Mantoue qui se faisait appeller Mantovano. Diana est née à Mantoue en 1547, fille d’art de Giovanni Battista Scultori, natif de Verona, et de Osanna de Acquanegra. Elle savoure le goût de l’art dans l’atelier de son père à Mantoue et en devient apprentie. Selon les reconstructions Giovanni s’ installe dans la ville de Mantoue et devient élève de Giulio Romano. Il collabore avec lui pour les travaux de Palazzo Te en réalisant des stuc. Giulio Romano donne vie à Mantoue à une “nouvelle et bizarre manière (d’après l’appellation de Vasari) laquelle definit les caractéristiques d’une façon originale de faire de l’art. Au cours du XVIIème et XVIIIème siècles cette nouvelle vogue acquiert une connotation négative avec le nom de Maniérisme.

Dans le domaine architectural les traits fondants du mouvement se présentent à travers un langage plus flamboyant et articulé, qui vise à la réutilisation d’éléments de la tradition classique, bizarrement enrichis d’autres décorations. Pour ce qui concerne le domaine sculptural, les corps deviennent plus longilignes et, grâce au mouvement, acquièrent plus de dynamisme. Dans la peinture, la perspective centrale et le décor architectural classique laissent la place à des compositions plus libres, qui représentent des milieux naturels. En plus, on introduit des nouvelles nuances de rose et de violet, la lumière est utilisée soit pour donner une tridimensionnalité à l’œuvre, soit pour en augmenter le caractère dramatique. Au niveau des sujets, on reprends ce qui était à la mode pendant la Renaissance: scènes sacrées, scènes de la mythologie et portraits. Dans ce cas, il ne s’agit plus de mi-bustes ou de poses sur le côté: on préfère représenter une partie du corps plus grande, souvent entourée d’un arrière-plan foncé. Diana Mantuana est considérée une artiste manieriste précisément parce-qu’ elle se forme là où ce courant artistique a du succès, la Mantoue des Gonzaga; en plus, elle se teste dans une technique qui s’était diffusée en Italie justement entre le XVIème et le XVIIème siècle, la technique de gravure en taille-douce.

Vasari lui- même écrit que les fils de Giovanni Battista Scultori étaient devenus talentueux dans la technique de la gravure sur les plaques de cuivre avec le burin. C’est difficile d’établir le lieu et la date de naissance de la gravure en taille-douce en Italie. C’est toujours Vasari à nous donner d’importantes informations à ce sujet, lorsqu’il raconte que, en 1450 environ, les orfèvres de Florence avaient realisé des plaques en argent gravées pour la décoration de différents objets. En conclusion, nous pouvons dire que cette technique, dont Diana Mantuana est une excellente artiste, est née dans les atéliers d’orfèvrerie de Florence et se déplace successivement en domaine artistique, quelle que soit sa diffusion en Allemagne, et qui trouve en Durer son expression la plus importante. On utilise toujours le burin, un outil très difficile à manier à cause de la façon de l’empoigner entre l’index et le pouce. Pour arriver à obtenir une marque nette et corréspondante à l’image que l’on veut représenter, il faut une pratique et une précision continuelles. Les gravures de Diana Mantuana sont surtout realisées au burin et la médaille en cuivre ci- dessous représente au recto son visage et au verso l’outil qu’elle utilisait.

A Mantoue, dans l’atelier paternel qui se trouvait dans le quartier de l’unicorne, Diana reçoit directement de son père des cours particuliers, qui lui permettent d’acquérir les concepts fondamentaux du dessin et de la gravure. Pendant la Renaissance le nombre des femmes qui atteindent aux arts graphiques s’accroît, mais elles ont quand- même des limitations: elles ne peuvent pas étudier le corps humain en vrai et, pour ce qui concerne le dessin, elles ne reçoivent que des notions de base. Cela limite fortement leur possibilité de développer un trait et un style personnels. Surtout dans le cas de la gravure les artistes étaient conduites à une production de traduction, c’est à dire de replique d’ouvrages crées par d’autres artistes. L’artiste principal que l’on peut reconnaître dans les gravures de Diana Mantuana c’est Giulio Romano, comme c’est évident dans l’ouvrage suivant, représentant Latona qui donne naissance aux jumeaux divins Apollon et Diana sur l’île de Délos. En comparant la gravure avec le tableau auquel elle s’inspire, on remarque des différences au niveau de l’arrière -plan: d’habitude Diana modifiait le paysage naturel d’origine.

Mais Diana ne se limite pas aux sujets de la mythologie: elle se rapproche aussi à ceux sacrés en reproduisant les ouvrages de grands artistes. C’est le cas de la gravure suivante, toujour réalisée au burin, dans laquelle elle réutilise La remise des clés de Raffaello Sanzio tout en réinterprétant le fond.

Lorsque Diana s’installe à Rome, elle a la chance de pouvoir se rapprocher et étudier les œuvres statuaires de l’antiquité, vers lesquelles elle montre un grand intérêt et qui deviennent source d’inspiration. Nous en trouvons un exemple ci dessous, représentant Hercule et les pommes d’or.

Comme dit auparavant, la période artistique mantouane est suivie par celle romaine: le déplacement est probablement une conséquence du mariage , en 1567, avec Francesco da Volterra (nommé aussi Francesco Cipriani), un architecte qui travaillait pour la très puissante famille romaine des Caetani et qui obtient en 1579 la citoyenneté de Volterra. Cela explique la présence de la signature Diana Mantuana civis Volterrana dans certains travaux à partir des années quatre-vingt. C’est à Rome que Diana atteint la maturité artistique: ses œuvres obtiennent des appréciations si fortes qui lui permettent de se rapprocher de la cour papale. Le 5 juin 1575 elle reçoit du Pape Grégoire XIII le privilège de signer ses propres plaques, en détenant ainsi la propriété intellectuelle et matérielle, et de distribuer ses gravures de façon exclusive pendant dix ans. Diana Mantuana a été la prémière artiste dans l’histoire de l’art féminine italienne qui a obtenu en concession cette possibilité. On comprend ainsi à quel point la graveur avait bien saisi l’importance de sauvegarder son travail pour en traire la subsistance de sa famille. Les seules sources de profit du couple étaient le travail de Diana et les commandes de son époux, qui étaient elles- mêmes reliées à la capacité de faire apprécier et de promouvoir son œuvre.

Diana se montre vraiment capable de donner plus de visibilité à son époux Francesco: elle reproduit par la gravure les dessins des travaux architecturaux de son mari, lequel, par conséquence, obtient un nombre plus consistant de tâches. Le couple vit dans Via della Scrofa; en 1577 Diana donne naissance à un fils qui prend le nom du grand- père maternel: Giovanni Battista. Un autre événement important dans la vie de Diane c’est l’entrée, en 1580, à l’Académie des vertueux du Panthéon. Les artistes de genre féminin pouvaient y accéder, mais toujours sous des restrictions: leur rôle était limité aux activités sociales et elles ne pouvaient exposer leurs travaux que le jour de la Saint Joseph. Diana Mantouana a su exploiter son talent pour rendre la gravure une profession, aussi bien féminine, réconnue à travers la protection de la propriété intellectuelle et la vente en exclusive des œuvres. Tout cela, malgré les limitation qui touchaient les femmes artistes de cette période, dans leur parcours de formation ainsi que dans l’exercice de leur activité. D’après-moi, un des travaux les plus intéressants de l’artiste c’est le Lunaire, un almanach gravé et réalisé en collaboration avec son prémier époux, tout à fait unique dans sa production.

Les dernières gravures de Diana datent du 1588. On ne connaît pas les causes de l’interruption de son activité artistique. Certains critiques ont pris en considération une forme sévère d’arthrose, tandis que d’autres ne sont pas persuadés par cette supposition. En effet, des ouvrages tels que La Visitation du 1588 sont réalisés avec des traits encore très précis qui sont incompatibles avec une maladie dégénérative comme l’arthrose.

C’est plus probable que, une fois que son époux atteint la prospérité économique, elle arrête de graver. Francesco meurt en 1594 et deux ans après Diana se marie à nouveau avec un autre architecte, Giulio Pelosi. Le couple s’installe en Via del Corso, où Diana meurt le 5 avril 1612. Un grand merci pour la précieuse consultation au professeur Elena Amoriello, enseignante de Disciplines picturales au lycée Artistique “Callisto Piazza” de Lodi. M.me Amoriello est elle- même graveur, responsable du laboratoire de chalcographie du lycée où elle enseigne et transmet cette ancienne et inestimable forme d’art.

Clara Abkar
Ester Rizzo

Viola Gesmundo

 

A Clara Abkar si attribuisce il primato di essere stata la prima miniaturista iraniana. Era nata a Teheran il 5 novembre del 1915, in seno a una famiglia armena che risiedeva a Nuova Julfa, un antico quartiere di Isfahan. Secondo fonti iraniane, all’inizio del Milleseicento, più di 150.000 armeni si trasferirono lì per fuggire dalle persecuzioni dell’Impero Ottomano. Le persone profughe rispettarono le leggi iraniane ma mantennero la propria cultura, la propria lingua e le proprie tradizioni. Non ci sono notizie certe sulla data di trasferimento della famiglia di Clara Abkar in questo luogo ma sicuramente lei ricevette l'istruzione primaria presso la scuola armena di Davotian e sin da piccola manifestò il suo precoce talento incoraggiata sia dalla famiglia che dal corpo docente. Con i primi risparmi comprò delle monete d’oro che trasformò in sottili strati per indorare le miniature che dipingeva, proseguendo in questo modo un’antica tradizione della pittura miniaturistica iraniana. Lei stessa affermava che quando frequentava il Liceo era sostenuta e incoraggiata a proseguire nell’esercizio della sua arte e ricordava in particolare l'insegnante di Disegno, Margar Gharabeikan, che era anche una poeta e che aveva avuto un ruolo significativo nella sua vita. 

Alla Teheran Women’s Art School tra i suoi docenti era pure Hossein Kashi-Tarash, creatore di piastrelle Girih molto utilizzate nell’architettura islamica iraniana. Così raccontava Clara: «…Quando nel mio lungo viaggio verso l’arte, ho incontrato questo eccezionale maestro e il suo straordinario genio, non ho potuto resistere a bere un sorso della sua conoscenza. Sotto la sua guida, ho iniziato ad imparare l’arte della produzione di piastrelle Girih, un’arte che era davvero molto difficile e richiedeva molto tempo». Dopo il diploma in miniatura frequentò l’Accademia Superiore di Belle Arti raggiungendo una perfezione artistica notevole. Era già un’esperta, insegnava e al contempo lavorava nel Servizio Pubblico Statale, ma all’età di 40 anni si iscrisse alla Scuola di Belle Arti dell’Università di Teheran e dopo tre anni conseguì la laurea.

Una vita dedicata alla sua passione: fece parte dell’Iranian Art Organization e le sue opere vennero esposte in molteplici mostre, diffondendo così la sua fama in tutto il Paese. Nel 1988, all’età di 73 anni, ottenne una esposizione personale al Museo Nazionale dell’Arte in Iran che suscitò una notevole ammirazione. L’anno dopo le verrà conferita un’onorificenza dal Ministero della Cultura. Sempre quell’anno maturò la decisione di trasformare la propria abitazione in un laboratorio di pittura e in una galleria d’arte che esponeva le sue opere. In seguito, la casa e il suo patrimonio furono donati all’Organizzazione per il Patrimonio Culturale dell’Iran. Clara Abkar non trascorse la sua vita in condizioni agiate ma, nonostante ciò, non mise mai in vendita i suoi lavori. A chi insisteva per acquistarli rispondeva che li considerava come figli e quindi non poteva distaccarsene. La sua fu una esistenza dedicata interamente all’arte e al lavoro e quando, per raggiunti limiti d’età, dovette andare in pensione dichiarò che artiste e artisti non avrebbero mai dovuto smettere di operare perché spesso quella è l’età in cui sono all’apice della propria creatività. Il governo iraniano il 18 maggio del 1994, Giornata Internazionale dei Musei, ha aperto a visitatori e visitatrici il Museo Clara Akbar nei giardini dell’ex Palazzo Reale di Saad Abad, un complesso di sontuosi edifici nella capitale. È morta il 20 marzo del 1996 e le sue spoglie riposano nel cimitero armeno Nor Burastan di Teheran.

La sua produzione artistica è molto vasta e connotata sempre dalla minuziosa verosimiglianza dei soggetti. Alcune opere sorprendono chi le ammira e spesso si fa fatica a riconoscere i materiali usati. Lei stessa, in un’intervista, raccontò che una volta aveva disegnato su un foglio di carta bianca un pezzo di vecchio tessuto di seta e un intenditore d’arte le aveva chiesto:

«È un dipinto o un vero pezzo di stoffa?»

I soggetti da lei preferiti per le miniature erano le nature morte e le scene di equitazione. Dipingeva spesso anche i mausolei di Khayyam e Attar, poeti persiani sepolti a poca distanza l’uno dall’altro. Molto nota è la sua cosiddetta “doratura ottagonale con disegno paisley”. Questo tipo di disegno ha origini antichissime, forse indiane ma le prime notizie ci giungono proprio dalla Persia. La sua forma ricorda quella di una foglia stilizzata a goccia, un motivo quindi vegetale che in Iran viene definito Boteh Jegheg e che, ancora oggi, in tante parti del mondo costituisce fonte di ispirazione per designer, pittori, pittrici e stiliste/i.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

 

Clara Abkar est reconnue comme la première miniaturiste iranienne. Elle est née à Téhéran le 5 novembre 1915, dans une famille arménienne qui vivait à New Julfa, un ancien quartier d'Ispahan. Selon des sources iraniennes, au début du XVIIe siècle, plus de 150 000 Arméniens se sont installés là pour fuir les persécutions de l'Empire ottoman. Les réfugiés respectaient les lois iraniennes, mais ils ont maintenu leur culture, leur langue et leurs traditions. On ne sait pas avec certitude quand la famille de Clara Abkar a déménagé dans cette région, mais il est certain qu’elle a reçu son éducation primaire à l’école arménienne de Davotian, et dès son plus jeune âge, elle a montré un talent précoce, encouragée par sa famille et les enseignants. Avec ses premières économies, elle a acheté des pièces d'or qu'elle a transformées en fines couches pour dorer les miniatures qu’elle peignait, poursuivant ainsi une ancienne tradition de la peinture miniature iranienne. Elle disait que lorsqu’elle fréquentait le lycée, elle était soutenue et encouragée à continuer à pratiquer son art, et elle se souvenait particulièrement de son professeur de dessin, Margar Gharabeikan, qui était aussi poète et avait joué un rôle important dans sa vie.

À l'école des Beaux-Arts pour femmes de Téhéran, l'un de ses enseignants était Hossein Kashi-Tarash, créateur de carreaux Girih, très utilisés dans l'architecture islamique iranienne. Clara racontait : « ... Lorsque dans mon long voyage vers l'art, j'ai rencontré ce maître exceptionnel et son génie extraordinaire, je n'ai pas pu résister à boire un peu de sa connaissance. Sous sa direction, j'ai commencé à apprendre l'art de la production de carreaux Girih, un art vraiment difficile et qui prenait beaucoup de temps. » Après son diplôme en miniature, elle a fréquenté l'Académie supérieure des beaux-arts, atteignant une perfection artistique remarquable. Elle était déjà une experte, enseignait et travaillait en même temps dans le service public, mais à l'âge de 40 ans, elle s’est inscrite à l'école des beaux-arts de l’Université de Téhéran et après trois ans, elle a obtenu son diplôme.

Une vie consacrée à sa passion : elle faisait partie de l'Iranian Art Organization et ses œuvres ont été exposées dans de nombreuses expositions, diffusant ainsi sa renommée dans tout le pays. En 1988, à l'âge de 73 ans, elle a eu une exposition personnelle au Musée national de l'art en Iran, qui a suscité une grande admiration. L'année suivante, elle a reçu une distinction du ministère de la Culture. La même année, elle a pris la décision de transformer sa maison en un atelier de peinture et en une galerie d'art où ses œuvres étaient exposées. Par la suite, la maison et son patrimoine ont été donnés à l'Organisation pour le patrimoine culturel de l'Iran. Clara Abkar n’a pas vécu dans des conditions aisées, mais malgré cela, elle n’a jamais mis ses œuvres en vente. À ceux qui insistaient pour les acheter, elle répondait qu'elle les considérait comme des enfants et qu'elle ne pouvait pas s’en séparer. Sa vie a été entièrement dédiée à l'art et au travail, et lorsqu'elle a dû prendre sa retraite en raison de son âge, elle a déclaré que les artistes ne devraient jamais cesser de travailler, car c'est souvent à cet âge qu'ils sont au sommet de leur créativité. Le gouvernement iranien a ouvert le Musée Clara Akbar le 18 mai 1994, lors de la Journée internationale des musées, au public, dans les jardins de l'ancien palais royal de Saad Abad, un complexe de bâtiments somptueux dans la capitale. Elle est décédée le 20 mars 1996 et repose au cimetière arménien Nor Burastan de Téhéran.

Sa production artistique est très vaste et se caractérise toujours par une minutieuse vraisemblance des sujets. Certaines de ses œuvres surprennent ceux qui les admirent, et il est souvent difficile de reconnaître les matériaux utilisés. Elle racontait elle-même, dans une interview, qu’une fois, elle avait dessiné sur une feuille de papier blanc un morceau de vieux tissu en soie, et un connaisseur d'art lui avait demandé :

«Est-ce un tableau ou un véritable morceau de tissu ?»

Ses sujets préférés pour les miniatures étaient les natures mortes et les scènes d'équitation. Elle peignait aussi fréquemment les mausolées de Khayyam et Attar, deux poètes persans enterrés à proximité l’un de l’autre. Très connue est sa « dorure octogonale avec dessin paisley ». Ce type de dessin a des origines très anciennes, peut-être indiennes, mais les premières informations à ce sujet proviennent de Perse. Sa forme rappelle celle d'une feuille stylisée en goutte, un motif végétal appelé Boteh Jegheg en Iran, et qui, encore aujourd’hui, inspire de nombreux designers, peintres et stylistes à travers le monde.


Traduzione spagnola

Gabriela Zappulla

 

A Clara Abkar se le atribuye haber sido la primera miniaturista iraní. Nació en Teherán el 5 de noviembre de 1945, en una familia armenia que residía en Nueva Julfa, un antiguo barrio de Isfahan. Según fuentes iraníes, a principios de mil seiscientos, más de 150.000 armenios se trasladaron allí para huir de la persecución del Imperio Otomano. Las personas prófugas respetaron las leyes iraníes, pero conservaron su propia cultura, su propia lengua y sus tradiciones. No se sabe con certeza cuándo se trasladó la familia de Clara Abkar a este lugar, pero sin duda ella recibió su educación primaria en la escuela armenia de Davotian y desde niña manifestó su talento precoz alentada tanto por su familia como por el personal docente. Con sus primeros ahorros compró monedas de oro que transformó en finas capas para dorar las miniaturas que pintaba, continuando de esta manera una antigua tradición de la pintura iraní en miniatura. Ella misma afirmaba que cuando estaba en el instituto la apoyaron y la alentaron a seguir con la práctica de su arte y recordaba en particular una docente de dibujo, Margar Gharabeikan, que también era poeta y que había desempeñado un papel significativo en su vida.

Entre sus docentes en la Teheran Women’s Art School también estaba Hossein Kahitarash, creador de los azulejos Girih, muy utilizados en la arquitectura islámico- iraní. Esto es lo que dijo Clara: “…Cuando en mi largo viaje hacia el arte conocí a este excepcional maestro y su extraordinario genio, no pude resistirme a tomar un sorbo de sus conocimientos. Bajo su guía, empecé a aprender el arte de la producción de los azulejos Girih, un arte que era muy difícil y que requería mucho tiempo”. Después de diplomarse en la pintura de miniaturas asistió a la Academia de Bellas Artes alcanzando una notable perfección artística. Ya era una experta, enseñ aba y al mismo tiempo trabajaba en la Administración Pública del Estado, pero a los 40 años se matriculó en la Escuela de Bellas Artes de la Universidad de Teherán y tres años más tarde se graduó.

Una vida dedicada a su pasión: formó parte de la Iranian Art Organization y sus obras se exhibieron en numerosas exposiciones, difundiendo su fama por todo el país. En el 1988, a los 73 años, realizó una exposición personal en el Museo Nacional de Arte de Irán que despertó una gran admiración. Al año siguiente recibió una condecoración del Ministerio de Cultura. Ese mismo año, ella tomo la decisión de trasformar su casa en un laboratorio de pintura y en una galería de arte que exponía sus obras. Luego, su casa y sus bienes fueron donados a la Organización del Patrimonio Cultural de Irán. Clara Abkar no pasó su vida en condiciones acomodadas pero, a pesar de ello, nunca puso a la venta sus obras. A quienes insistían en comprarlas les contestaba que las consideraba como hijos suyos y que, por tanto, no podía desprenderse de ellos. La suya fue una existencia dedicada por entero al arte y al trabajo y cuando, debido a la edad, tuvo que jubilarse, declaró que las y los artistas nunca deberían dejar de obrar crear porque esa suele ser la edad en la que están en la cumbre de su creatividad. El 18 de mayo de 1994, Día internacional de los museos, el gobierno iraní abrió al público el Museo Clara Abkar en los jardines del antiguo Palacio Real de Saad Abad, un complejo de suntuosos edificios en la capital. Murió el 20 de marzo de 1996 y sus restos descansan en el cementerio armenio Nor Burastan de Teherán.

Su producción artística es muy amplia y se caracteriza por la minuciosísima verosimilitud de sus temas. Algunas obras sorprenden a quienes las admiran y a menudo resulta difícil reconocer los materiales utilizados. Ella misma, en una entrevista, contó que una vez había dibujado un trozo de tela de seda en una hoja en blanco y un conocedor de arte le preguntó: “… Es un cuadro o un trozo de tela?”. Sus temas favoritos para las miniaturas eran las naturalezas muertas y las escenas de equitación. También pintó a menudo los mausoleos de Khayyam y Attar, poetas persas enterrados a poca distancia el uno del otro. Bien conocido es su llamado “dorado octogonal con diseño paisley”. Este tipo de diseño tiene orígenes muy antiguos, quizá indias, pero la información más antigua nos llega de Persia. Su forma recuerda la de una hoja de estilizada,como una lágrima un motivo vegetal que en Irán se llama Boteh Jegheg y que todavía hoy, en muchas partes del mundo, es fuente de inspiración para diseñadores, pintores, pintoras y estilistas.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

Clara Abkar is credited with being the first Iranian miniaturist. She was born in Tehran on Nov. 5, 1915, into an Armenian family residing in New Julfa, an ancient neighborhood of Isfahan. According to Iranian sources, more than 150,000 Armenians moved there in the early 1600s to escape persecution by the Ottoman Empire. The displaced people respected Iranian laws but retained their own culture, language and traditions. There is no certain information about the date of Clara Abkar's family's move to this place but she certainly received her primary education at the Davotian Armenian school and from an early age manifested her precocious talent, encouraged by both family and faculty. With her early savings she bought gold coins which she turned into thin layers to gild the miniatures she painted, thus continuing an ancient tradition of Iranian miniature paintings. She herself said that when she attended high school she was supported and encouraged to pursue the practice of her art, and she especially remembered her drawing teacher, Margar Gharabeikan, who was also a poet and played a significant role in her life.

Among her teachers at the Tehran Women's Art School was also Hossein Kashi-Tarash, creator of Girih tiles widely used in Iranian Islamic architecture. This is what Clara recounted, "...When in my long journey to art, I met this outstanding master and his extraordinary genius, I could not resist taking a sip of his knowledge. Under his guidance, I began to learn the art of Girih tile making, an art that was really very difficult and time-consuming." After graduating in miniature art, she attended the Higher Academy of Fine Arts, achieving remarkable artistic perfection. She was already an expert, teaching and working in the State Public Service at the same time, but at the age of 40 she enrolled in the School of Fine Arts at Tehran University and after three years earned her degree.

It was a life dedicated to her passion. She was a member of the Iranian Art Organization and her works were displayed in multiple exhibitions, thus spreading her fame throughout the country. In 1988, at the age of 73, she obtained a solo exhibition at the National Museum of Art in Iran that aroused considerable admiration. The following year she would be honored by the Ministry of Culture. Also that year, she made the decision to turn her home into a painting workshop and art gallery displaying her works. Later, the house and its assets were donated to the Cultural Heritage Organization of Iran. Clara Abkar did not spend her life in affluent conditions but, despite this, she never put her works up for sale. To those who insisted on buying them she replied that she regarded them as her children and therefore could not detach herself from them. Hers was an existence devoted entirely to art and work, and when, due to age limits she had to retire, she declared that women artists should never stop working because that is often the age when they are at the peak of their creativity. The Iranian government on May 18, 1994, International Museum Day, opened the Clara Akbar Museum in the gardens of the former Saad Abad Royal Palace, a complex of lavish buildings in the capital, to visitors and visitors. She died on March 20, 1996, and her remains rest in the Armenian cemetery Nor Burastan in Tehran.

Her artistic output is vast and marked always by the meticulous verisimilitude of her subjects. Some works surprise those who admire them, and one often has trouble recognizing the materials used. She herself recounted in an interview that she once drew a piece of old silk fabric on a sheet of white paper and an art connoisseur asked her, "Is it a painting or a real piece of fabric?" Her favorite subjects for miniatures were still lifes and riding scenes. She also often painted the mausoleums of Khayyam and Attar, Persian poets buried a short distance from each other. Well known is her so-called "octagonal gilding with paisley design." This type of design has very ancient origins, perhaps Indian but the earliest records come to us from Persia itself. Its shape resembles that of a stylized teardrop leaf, a plant motif therefore, which in Iran is called Boteh Jegheg and which, even today, in many parts of the world is a source of inspiration for designers, painters, and fashion designers.

 

Giovanna Garzoni
Nicole Maria Rana

Viola Gesmundo

 

Giovanna Garzoni è stata una miniaturista nata ad Ascoli Piceno nel 1600 e morta a Roma nel febbraio 1670. La sua bravura le viene da subito riconosciuta: per primo Carlo Ridolfi, scrittore e pittore italiano, parla di lei nel volume Le Maraviglie dell'arte, ovvero Le vite degli Illustri Pittori Veneti e dello Stato. Durante la vita e successivamente, dopo la morte, verrà elogiata senza indugio e apprezzata per la tecnica finissima. Come avveniva di consueto all’epoca, le donne impegnate nell’arte ricoprivano un ruolo inedito e quasi inaccessibile: a predominare nell’ambito, non ci stupisce, erano gli uomini. Lo studio delle arti non era una scelta comune per le giovani la cui vita poteva essere votata all’attività ecclesiastica o alla casa. Era normale, infatti, che le figure femminili della famiglia si dedicassero alla pittura solamente in convento, nel caso in cui avessero preso i voti, e che le raffigurazioni fossero in larga prevalenza a scopo devozionale; negli altri rari casi in cui non fosse stato scelto il percorso religioso, le figlie di proprietari di botteghe o di maestri erano costrette, secondo le informazioni a noi pervenute, a vestire con abiti considerati maschili per poter accedere a questo tipo di mestiere, camuffando quindi la loro identità.

Ritratto di Giovanna Garzoni, di Carlo Maratti, circa 1665, Ascoli Piceno, Pinacoteca Civica.

La dirompenza e la temerarietà – o meglio, la personale necessità e aspirazione – di valicare i confini di un’epoca che vedeva (nella maggior parte dei casi) le donne o suore o madri, si incarna in figure come quella di Giovanna Garzoni che decide di intraprendere una strada alternativa: il suo lavoro conta molte opere di diversa tipologia fra cui tele, stampe, miniature su pergamena e tessuti; divenne eccellente nella riproduzione di nature morte, senza tralasciare opere a carattere mitologico e ritratti. Questo ricco bagaglio di conoscenze e abilità affonda le radici in una fitta rete parentale e di amicizie; dopotutto della sua famiglia non si conosce molto ma ciò che è emerso ha portato alla luce dati rilevanti nell’ottica della formazione della miniaturista: sua madre proveniva infatti da una famiglia di orafi e le basi del disegno le furono impartite dallo zio Pietro Gaia, figura molto attiva ad Ascoli Piceno, e che a sua volta era stato seguace di Palma il Giovane, importante esponente della Scuola veneta. Garzoni, quanto la sua famiglia prima di lei fra Marche e Veneto, prese a viaggiare sin da giovane: una delle prime tracce la vede a Venezia prima dei trent’anni con suo fratello Mattio; durante questo soggiorno avrebbe seguito un corso di calligrafia di Giacomo Rogni dove compose il Libro de’ caratteri cancellereschi corsivi. Quest’opera ha la straordinaria capacità di rendere esplicita la relazione fra la calligrafia e i dipinti realizzati dalla pittrice cosmopolita: il volume tratta di un particolare stile calligrafico sviluppato in Italia, formato da lettere oblique ascendenti e discendenti e dalle linee sporgenti.

Nel Libro si possono trovare testi di tipo religioso e storico, ma anche un epistolario che conta alcune lettere indirizzate a molteplici persone: vengono qui intrecciate le immagini a caratteri calligrafici, come è possibile notare nella resa grafica di una nave che spicca fra le pagine. Ed è proprio in tal caso che abbiamo la possibilità di vedere l’immensa sete di erudizione della calligrafa: in uno studio pubblicato da Aoife Cosgrove nell’anno accademico 2018/2019, la ricercatrice si focalizza sul documento ora preso in esame, cercando più notizie sull’educazione e sulla relazione di Garzoni con altre figure dell’epoca che potevano aver contribuito alla sua preparazione; oltre alla formazione con Rogni, Cosgrove evidenzia il legame con un calligrafo olandese di nome Jan van de Velde, detto il Vecchio: dall’attenta analisi della studiosa, troviamo, sul frontespizio di un pubblicazione nel 1605 del maestro, il disegno di una nave che appare incredibilmente simile a quello presente nel manuale di Garzoni.

Galeone in mare, 1617-1622 circa, di Giovanna Garzoni. in Libro de' Caratteri Cancellereschi Corsivi, Folio 44r. Inchiostro nero su carta preparata; 11 3/8 pollici per 8 1/8 pollici. Accademia Nazionale di San Luca, Roma

La maturità artistica raggiunta da questa sublime protagonista del Seicento si rende evidente nel perseguimento di uno stile raffinato ma fortemente espressivo, che conferisce alle sue creazioni pittoriche la sensazione di star osservando qualcosa di verosimilmente vivo, reale. È questo l’esempio della creatività sul Libro dove, ad adornare le parole, già mirabilmente impresse su carta, spuntano uccellini, fiori e delicate rappresentazioni che assai somigliano ai suoi quadri di oggetti inanimati: è possibile osservare una superba organizzazione compositiva, dove al centro è presente un elemento caratterizzante attorno a cui ruotano altri dettagli ornamentali. Il risultato di questo lavoro certifica l’eccezionale capacità raggiunta dall’artista che le ha permesso di affinare la raffigurazione ed elaborare uno registro calligrafico degno di nota. Garzoni vivrà in diverse città italiane fra cui la già citata Venezia, poi Napoli, Roma e Firenze, soggiornando in queste ultime due durante la fase più adulta della sua vita. Sembra possibile però, data la stretta connessione delle sue opere con lo stile d’Oltralpe, che sia stata anche in Francia, probabilmente pure in Inghilterra: del periodo che va dall’anno 1637 al 1641 non c’è traccia ma è facile ricondurre il percorso garzoniano a quello di correnti quali quelle inglese e fiamminga, di cui diventa probabile abbia fatto esperienza diretta. In particolare, possiamo rintracciare delle somiglianze con la ritrattistica inglese di John Hoskins il Vecchio (anch’egli inserito nella tradizione miniaturistica, in epoca elisabettiana), in dettagli nelle nature morte che rimandano al disegno francese del tempo ma soprattutto, come si è già visto, alla cultura figurativa fiamminga di cui effettua un’interessante rielaborazione: se l’attenzione degli olandesi, tra gli altri elementi, si concentra sulla disseminazione dei particolari, l’artista italiana li organizza in gabbie che li contengono e li dispongono nell’orbita dell’oggetto principale, un’impostazione che ci riporta immediatamente al Libro de’ caratteri cancellereschi corsivi.

Dopo aver ripercorso la sua carriera calligrafica e pittorica, è doveroso concentrarsi anche sulle miniature realizzate in età matura fra Firenze e Roma, che confermarono il prestigio ottenuto durante gli anni passati: in tali opere, che mescolano le tecniche e gli stili appresi nelle esperienze precedenti, la padronanza e un personale rigore compositivo si incontrano, dando come risultato miniature incantevoli di bouquet di fiori e piatti di frutta, in cui la luce accarezza gli oggetti in maniera delicata ma vibrante: nelle sue raffigurazioni è semplice rintracciare dei soggetti che si ripetono e compongono variazioni di un tema comune; dopotutto, la perizia di questa eccelsa protagonista seicentesca si vede nello studio approfondito del mondo naturale e botanico che riproduce con attenzione scientifica. Nel complesso le sue opere sono contraddistinte da uno stampo chiaro e limpido che propone su tela nature morte che vengono concepite per riprodurre i diversi stadi del ciclo di vita delle piante, come se fossero analizzate in laboratorio.

Giovanna Garzoni – Natura morta con fichi Natura morta, tempera su pergamena, 1660

Le sue abilità furono apprezzate largamente: fu chiamata al servizio del viceré F. Alfán de Ribera duca di Alcalà a Napoli, successivamente la duchessa di Savoia, Cristina di Francia, la richiese presso la corte sabauda, come più tardi accadde con la famiglia dei Medici a Firenze, la cui collaborazione fu duratura e rimarchevole. La città toscana, cruciale nel percorso di Garzoni, è diventata casa di un cospicuo numero di sue opere che si trovano presso la Galleria degli Uffizi, il Gabinetto Disegni e Stampe e la Galleria Palatina: sono esposti ritratti, vasi e dipinti di straordinario pregio; altri prodotti del suo talento sono conservati a Roma nell’Accademia Nazionale di San Luca, a Venezia nelle Gallerie dell’Accademia e a Torino nel Palazzo Reale: tappe culturali e turistiche conosciute che, come nel caso delle opere di Giovanna Garzoni, conservano tesori inaspettati da scoprire.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

 

Giovanna Garzoni est une miniaturiste née à Ascoli Piceno en 1600 et morte à Rome en février 1670. Son talent a été reconnu dès le début : Carlo Ridolfi, écrivain et peintre italien, parle d'elle dans son ouvrage Le Meraviglie dell'arte, ovvero Le vite degli Illustri Pittori Veneti e dello Stato. Tout au long de sa vie et après sa mort, elle a été louée sans hésitation et admirée pour sa technique extrêmement fine. Comme cela se passait souvent à l’époque, les femmes engagées dans l’art occupaient un rôle inédit et presque inaccessible : il n’est pas surprenant que ce soient les hommes qui dominaient ce domaine. L’étude des arts n’était pas un choix courant pour les jeunes filles, dont la vie pouvait être consacrée à la vie religieuse ou à la maison. Il était en effet normal que les femmes de la famille se consacrent à la peinture uniquement si elles entraient dans un couvent, et que leurs œuvres soient principalement à but dévotionnel. Dans les rares cas où elles ne choisissaient pas la voie religieuse, les filles de propriétaires de boutiques ou de maîtres étaient souvent obligées, selon les informations dont nous disposons, de porter des vêtements considérés comme masculins pour pouvoir accéder à ce type de métier, dissimulant ainsi leur identité.

Portrait de Giovanna Garzoni, de Carlo Maratti, vers 1665, Ascoli Piceno, Pinacothèque Civique.

L’audace et la détermination – ou plutôt, le besoin personnel et l’aspiration – de franchir les frontières d’une époque qui voyait (dans la plupart des cas) les femmes soit religieuses, soit mères, se manifestent dans des figures comme celle de Giovanna Garzoni, qui décide de suivre une voie différente : son travail comprend de nombreuses œuvres de types variés, notamment des toiles, des gravures, des miniatures sur parchemin et des tissus. Elle devient excellente dans la reproduction de natures mortes, sans négliger les œuvres à caractère mythologique et les portraits. Ce riche bagage de connaissances et de compétences trouve ses racines dans un réseau familial et amical très dense. Bien que l’on ne sache pas grand-chose sur sa famille, ce qui a été découvert a permis de mettre en lumière des éléments importants pour la formation de la miniaturiste : sa mère venait d’une famille d’orfèvres, et les bases du dessin lui ont été enseignées par son oncle Pietro Gaia, une figure très active à Ascoli Piceno, qui était lui-même un suiveur de Palma il Giovane, un important représentant de l’école vénitienne. Garzoni, tout comme sa famille avant elle entre les Marches et la Vénétie, commence à voyager dès son jeune âge : l’une des premières traces la montre à Venise avant ses trente ans avec son frère Mattio ; pendant ce séjour, elle suit un cours de calligraphie avec Giacomo Rogni et compose le Libro de’ caratteri cancellereschi corsivi. Cet ouvrage a la capacité extraordinaire de rendre explicite la relation entre la calligraphie et les peintures réalisées par la peintre cosmopolite : le volume traite d’un style particulier de calligraphie développé en Italie, composé de lettres obliques ascendantes et descendantes, avec des lignes saillantes.

Dans ce livre, on trouve des textes religieux et historiques, mais aussi une correspondance comprenant plusieurs lettres adressées à diverses personnes : ici, les images sont mêlées aux caractères calligraphiques, comme on peut le voir dans la représentation graphique d’un navire qui se distingue parmi les pages. Et c’est dans ce cas que nous avons la possibilité de voir l’immense soif d’érudition de la calligraphe : dans une étude publiée par Aoife Cosgrove en 2018/2019, la chercheuse se concentre sur ce document, cherchant plus d’informations sur l’éducation de Garzoni et ses relations avec d’autres figures de l’époque qui auraient pu contribuer à sa préparation ; au-delà de la formation avec Rogni, Cosgrove met en évidence le lien avec un calligraphe néerlandais nommé Jan van de Velde, dit le Vieux : grâce à l’analyse attentive de la chercheuse, on trouve, sur le frontispice d’une publication de 1605 du maître, un dessin d’un navire qui ressemble étonnamment à celui présent dans le manuel de Garzoni.

Galeon en mer, vers 1617–1622, de Giovanna Garzoni. Dans le Libro de’ Caratteri Cancellereschi Corsivi, Folio 44r. Encre noire sur papier préparé; 11 3/8 pouces sur 8 1/8 pouces. Académie Nationale de San Luca, Rome.

La maturité artistique de cette figure sublime du XVIIe siècle se manifeste dans la recherche d’un style raffiné mais fortement expressif, qui donne à ses créations picturales la sensation d’observer quelque chose de vraisemblablement vivant, réel. C’est l’exemple de la créativité dans le Livre où, pour orner les mots, déjà magnifiquement inscrits sur le papier, apparaissent des oiseaux, des fleurs et des représentations délicates qui ressemblent beaucoup à ses tableaux d’objets inanimés : il est possible de voir une superbe organisation compositionnelle, où un élément central est entouré de détails ornementaux. Le résultat de ce travail témoigne de l’extraordinaire capacité atteinte par l’artiste, qui lui a permis d’affiner la représentation et de développer un registre calligraphique remarquable. Garzoni vit dans plusieurs villes italiennes, dont la déjà mentionnée Venise, puis Naples, Rome et Florence, séjournant dans ces deux dernières pendant la phase la plus adulte de sa vie. Il semble cependant possible, en raison de la forte connexion de ses œuvres avec le style d’Outre-Manche, qu’elle ait aussi été en France, probablement aussi en Angleterre : il n’y a pas de traces du période de 1637 à 1641, mais il est facile de relier le parcours de Garzoni à des courants comme ceux de l’Angleterre et des Flandres, auxquels elle a probablement eu une expérience directe. En particulier, on peut retrouver des similitudes avec le portraitisme anglais de John Hoskins le Vieux (également inscrit dans la tradition de la miniature à l’époque élisabéthaine), dans les détails des natures mortes qui rappellent le dessin français de l’époque, mais surtout, comme on l’a déjà vu, avec la culture figurative flamande, qu’elle réélabore de manière intéressante : si l’attention des Néerlandais se concentre sur la dispersion des détails, l’artiste italienne les organise en cages qui les contiennent et les dispose autour de l’objet principal, une approche qui nous ramène immédiatement au Libro de’ caratteri cancellereschi corsivi.

Après avoir retracé sa carrière calligraphique et picturale, il est également important de se concentrer sur les miniatures réalisées à un âge plus avancé entre Florence et Rome, qui ont confirmé le prestige qu’elle avait acquis au cours des années précédentes : dans ces œuvres, qui mélangent les techniques et les styles appris lors des expériences passées, la maîtrise et une rigueur personnelle se rencontrent, donnant comme résultat des miniatures enchanteresses de bouquets de fleurs et de plats de fruits, où la lumière caresse les objets de manière délicate mais vibrante : dans ses représentations, il est facile de retrouver des sujets qui se répètent et composent des variations d’un même thème ; après tout, la compétence de cette grande figure du XVIIe siècle se manifeste dans l’étude approfondie du monde naturel et botanique qu’elle reproduit avec une précision scientifique. Dans l’ensemble, ses œuvres se distinguent par une touche claire et limpide qui propose sur toile des natures mortes conçues pour reproduire les différents stades du cycle de vie des plantes, comme si elles étaient étudiées en laboratoire.

Giovanna Garzoni – Nature morte avec des figues Nature morte, tempera sur parchemin, 1660

Ses compétences ont été largement appréciées : elle a été appelée à servir le vice-roi F. Alfán de Ribera, duc d’Alcalà à Naples, puis la duchesse de Savoie, Cristina de France, l’a demandée à la cour savoyarde, comme cela s’est produit plus tard avec la famille des Médicis à Florence, avec qui elle a entretenu une collaboration durable et remarquable. La ville toscane, cruciale dans le parcours de Garzoni, est devenue la maison d’un grand nombre de ses œuvres, qui se trouvent à la Galerie des Offices, au Cabinet des Dessins et Gravures et à la Galerie Palatine : des portraits, des vases et des tableaux de grand prix sont exposés ; d’autres produits de son talent sont conservés à Rome à l’Académie Nationale de San Luca, à Venise aux Galeries de l’Académie et à Turin au Palais Royal : des étapes culturelles et touristiques connues qui, comme dans le cas des œuvres de Giovanna Garzoni, conservent des trésors inattendus à découvrir.


Traduzione spagnola

Erika Incatasciato

 

Giovanna Garzoni fue una miniaturista que nació en 1600 en Ascoli Piceno y murió en Roma en febrero de 1670. Su maestría fue reconocida inicialmente por Carlo Ridolfi, escritor y pintor italiano, quien la nombró en su libro Le Maraviglie dell'arte, ovvero Le vite degli Illustri Pittori Veneti e dello Stato. A lo largo de su vida y posteriormente, tras su muerte, siempre fue elogiada y apreciada por su fina técnica. Como era habitual en esa época, las mujeres que se dedicaban al arte desempeñaban un papel inédito e inaccesible: no sorprende pues que fueran los hombres quienes predominaban en este ámbito. El estudio de las artes no era una opción común para las jóvenes, que podían dedicar su vida a la actividad eclesiástica o a la familia. De hecho, era normal que las mujeres solo se dedicaran a la pintura en el convento, en caso de haber hecho los votos, y que sus representaciones fueran en gran parte con fines devocionales; en los otros raros casos en que no se tratara de religiosas, según la información que nos ha llegado, como las hijas de propietarios de talleres o de maestros estaban obligadas a vestir ropa considerada masculina para acceder a este tipo de oficio, disfrazando así su identidad.

Retrato de Giovanna Garzoni, de Carlo Maratti, alrededor de 1665, Ascoli Piceno, Pinacoteca Cívica.

La audacia y la temeridad –o mejor dicho, la necesitad personal y la aspiración– de cruzar los límites de una época que (en la mayoría de los casos) veía en las mujeresa o monjas o madre se encarnan en figuras como la de Giovanna Garzoni, que decidió tomar otro camino: su trabajo cuenta con obras de diferentes tipos entre los cuales se incluyen telas, estampas, miniaturas en pergamino y tejidos; alcanzó la excelencia en la reproducción de bodegones, sin descuidar obras de carácter mitológico y retratos. Este rico bagaje de conocimientos y habilidades tuvo raíces en una densa red parental y de amistades; de todos modos, de su familia no se sabe mucho, pero lo que se ha averiguado aporta datos relevantes respecto a su formación como miniaturista: su madre descendía de una familia de orfebres y recibió las bases del dibujo de su tío Pietro Gaia, figura muy activa en Ascoli Piceno, quien a su vez fue seguidor de Palma el Joven, importante exponente de la Escuela Veneciana. Al igual que su familia viajó entre las Marcas y el Véneto antes que ella, Garzoni comenzó a viajar desde joven: una de las primeras pistas la ubica en Venecia antes de los treinta años con su hermano Mattio; durante esta estancia, parece que tomó un curso de caligrafía de Giacomo Rogni, durante el cual realizó el libro Caratteri Cancellereschi Corsivi. Dicha obra tiene la extraordinaria habilidad de explicitar la relación entre la caligrafía y las pinturas realizadas por la pintora cosmopolita: el volumen trata de un particular estilo de caligrafía desarrollado en Italia, formado por letras oblicuas ascendientes y descendientes y líneas sobresalientes.

En el libro se pueden encontrar tanto textos de género religioso e histórico como un epistolario que cuenta con algunas cartas dirigidas a varias personas: aquí las imágenes se entrelazan con caracteres caligráficos, como podemos ver en la representación gráfica de un barco que destaca entre las páginas. Y precisamente en este caso tenemos la oportunidad de aprecar la inmensa sed de erudición de la caligrafa: en un estudio publicado por Aoife Cosgrove en el año académico 2018/2019, esta investigadora se centró en el documento examinado y buscó más noticias sobre la educación y la relación que tenía Garzoni con otras figuras de la época que pudieron haber contribuido a su preparación; además de la formación con Rogni, Cosgrove destacó la conexión con un calígrafo holandés llamado Jan van de Velde conocido como El Viejo: según el análisis atento de la investigadora, el dibujo de un barco en el frontispicio de una publicación del maestro de 1605 parece increíblemente similar al del manual de Garzoni.

Galeón en el mar, alrededor de 1617–1622, de Giovanna Garzoni. En el Libro de’ Caratteri Cancellereschi Corsivi, Folio 44r. Tinta negra sobre papel preparado; 11 3/8 pulgadas por 8 1/8 pulgadas. Academia Nacional de San Luca, Roma.

La madurez artística alcanzada por esta sublime protagonista del siglo XVII es evidente en la búsqueda de un estilo refinado, pero fuertemente expresivo, que confiere a sus creaciones pictóricas la sensación de observar algo que parece estar vivo, ser real. Este es el ejemplo de la creatividad del Libro donde, adornando las palabras, ya admirablemente impresas en papel, brotan pájaros, flores y delicadas representaciones que se parecen mucho a sus cuadros de objetos inanimados: es posible observar una magnifica organización compositiva, en cuyo centro hay un elemento característico alrededor del cual giran otros detalles ornamentales. El resultado de este trabajo confirma la excepcional habilidad de la artista que le permitió refinar la representación y elaborar un registro caligráfico notable. Garzoni vivió en distintas ciudades italianas, entre ellas la ya mencionada Venecia y luego Nápoles, Roma y Florencia, permaneciendo en estas dos últimas durante la fase más adulta de su vida. Sin embargo, dada la estrecha conexión con el estilo francés, parece posible que también hubiera estado en Francia y probablemente incluso en el Reino Unido: del periodo entre 1637 y 1641 no hay rastro, pero es fácil relacionar el camino de Garzoni con el de las corrientes, como la inglesa y la flamenca, de las que es probable que hubiera tenido experiencias directas. En particular, se pueden encontrar parecidos con el retrato inglés de John Hoskins el Viejo (él también fue incluido en la tradición miniaturista de la época Isabelina), en los detalles de los bodegones que remiten al dibujo francés de la época y, sobre todo, como ya se ha anticipado, a la cultura figurativa flamenca, de la que realizó una interesante reelaboración: si la atención de los holandeses, entre otros elementos, se centraba en la diseminación de los detalles, la artista italiana los organizó en jaulas que los contenían y los disponían en la órbita del objeto principal; un entorno que nos lleva en seguida al Libro Caratteri Cancellereschi Corsivi.

Después de haber revivido su carrera caligráfica y pictórica, tenemos que centrarnos también en las miniaturas realizadas en su edad madura entre Florencia y Roma, las cuales confirman el prestigio obtenido en los años anteriores: en estas obras, en las que mezclaba las técnicas y los estilos aprendidos en experiencias pasadas, se aunan el control y un rigor compositivo personal cuyo resultado son miniaturas encantadoras de ramos de flores y canastas de frutas, donde la luz acaricia los objetos de manera suave, pero vibrante: en sus representaciones es fácil hallar elementos que se repiten y componen variaciones de un tema común; al fin y al cabo, la habilidad de esta excelsa protagonista del siglo XVII se aprecia en el estudio exhaustivo del mundo de la naturaleza y la botánica que representa con atención científica. En general, sus obras se caracterizan por un patrón claro y nítido que propone bodegones sobre lienzo concebidos para reproducir las diferentes etapas del ciclo de vida de las plantas, como si se tratara de un análisis de laboratorio.

Giovanna Garzoni – Bodegón con higos Bodegón, temple sobre pergamino, 1660

Sus habilidades fueron ampliamente apreciadas: convocada al servicio del virrey F. Alfán de Ribera, duque de Alcalá en Nápoles, sucesivamente, la duquesa de Saboya Cristina de Francia la solicitó en la corte de los Saboya, como sucedió más tarde con la familia de los Médicis en Florencia, colaboración que fue duradera y notable. La ciudad toscana, crucial en el camino de Garzoni, se convirtió en el hogar de un gran número de sus obras que se pueden contemplar en el departamento de Grabados y Dibujos de la Galería de los Uffizi y en la Galería Palatina: hay expuestos retratos, jarrones y pinturas de extraordinario valor; otros productos de su talento están conservados en la Academia de San Lucas de Roma, en la Galería de la Academia de Venecia y en el Palacio Real de Turín; famosas etapas culturales y turísticas que, en el caso de las obras de Giovanna Garzoni, conservan tesoros inesperados por descubrir.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

Giovanna Garzoni was a miniaturist who was born in Ascoli Piceno, Italy in 1600 and died in Rome in February 1670. Her skill was immediately recognized. First Carlo Ridolfi, an Italian writer and painter, spoke of her in his volume Le Maraviglie dell'arte, ovvero Le vite degli Illustri Pittori Veneti e dello Stato (The Wonders of Art, or The Lives of the Illustrious Painters of Venice and the State). During her lifetime and later, after her death, she was praised without delay and appreciated for her very fine technique. As was customary at the time, women engaged in the arts played an unprecedented and almost inaccessible role. Dominating the field, unsurprisingly, were men. The study of the arts was not a common choice for young women whose lives might have been devoted to ecclesiastical activity or the home. It was normal, in fact, for female figures in the family to devote themselves to painting only in a convent, in cases where they had taken vows, and for the depictions to be largely for religious purposes. In the other rare cases where the religious path had not been chosen, the daughters of store owners or masters were forced, according to the information we have received, to dress in clothes considered masculine in order to gain access to this type of craft, thus disguising their identity.

Portrait of Giovanna Garzoni, by Carlo Maratti, circa 1665, Ascoli Piceno, Civic Art Gallery.

The disruptiveness and boldness - or rather, the personal need and aspiration - to cross the boundaries of an era that saw (in most cases) women as either nuns or mothers, is embodied in figures such as Giovanna Garzoni, who decided to take an alternative path. Her work includes many skills of different types including canvases, prints, miniatures on parchment and textiles. She became excellent at reproducing still lifes, without neglecting works of a mythological character, and portraits. This rich store of knowledge and skill was rooted in a dense network of family and friendships. After all this time, not much is known about her family, but what has emerged has brought to light relevant data from the perspective of the miniaturist's training. Her mother came from a family of goldsmiths, and the basics of drawing were imparted to her by her uncle Pietro Gaia, a very active figure in Ascoli Piceno, and who in turn had been a follower of Palma il Giovane, an important exponent of the Venetian School. Garzoni, as much as her family before her between Marche and Veneto, took to traveling from an early age - one of the first traces of her sees her in Venice before the age of thirty with her brother Mattio. During this stay she took a calligraphy course from Giacomo Rogni where she composed the Libro de' caratteri cancellereschi corsivi (Book of Chancery Cursive Characters). This work has the extraordinary ability to make explicit the relationship between calligraphy and the paintings made by the cosmopolitan painter. The volume deals with a particular calligraphic style developed in Italy, formed by ascending and descending oblique letters and protruding lines.

In the Libro we can find religious and historical texts, but also an epistolary that counts some letters addressed to multiple people. Images are interwoven here with calligraphic characters, as can be seen in the graphic rendering of a ship that stands out among the pages. And it is precisely in this case that we have the opportunity to see the calligrapher's immense thirst for erudition. In a study published by Aoife Cosgrove in the 2018/2019 academic year, the researcher focuses on the document now under review, looking for more information about Garzoni's education and relationship with other figures of the time who may have contributed to her preparation. In addition to her training with Rogni, Cosgrove highlights her connection with a Dutch calligrapher named Jan van de Velde, known as the Elder. From the scholar's careful analysis, we find, on the title page of a publication in 1605 by the master, a drawing of a ship that appears strikingly similar to the one in Garzoni's manual.

Galleon at Sea, circa 1617–1622, by Giovanna Garzoni. in Libro de’ Caratteri Cancellereschi Corsivi, Folio 44r. Black ink on prepared paper; 11 3/8 inches by 8 1/8 inches. National Academy of San Luca, Rome

The artistic maturity attained by this sublime protagonist of the seventeenth century is evident in the pursuit of a refined but highly expressive style, which gives her pictorial creations the feeling of observing something verisimilarly alive, real. This is the example of the creativity in the Libro where, to adorn the words, already admirably imprinted on paper, sprout birds, flowers and delicate representations that very much resemble her paintings of inanimate objects. It is possible to observe a superb compositional organization, where at the center is a characterizing element around which other ornamental details revolve. The result of this work certifies the exceptional ability achieved by the artist, which allowed her to refine her depictions and elaborate a noteworthy calligraphic register. Garzoni would live in several Italian cities including the aforementioned Venice, then Naples, Rome and Florence, staying in the latter two during the more adult phase of her life. It seems possible, however, given the close connection of her works with the transalpine style, that she was also in France, probably also in England. There is no trace of the period from the year 1637 to 1641, but it is easy to trace Garzoni's path back to that of currents such as the English and Flemish, of which it becomes likely that she had direct experience. In particular, we can trace similarities with the English portraiture of John Hoskins the Elder (who was also included in the miniature tradition, in the Elizabethan era), in details in still lifes that hark back to the French drawing of the time but above all, as we have already seen, to the Flemish figurative culture of which she makes an interesting reworking. If the attention of the Dutch, among other elements, focused on the scattering of details, the Italian artist organized them in settings that contain and arrange them in the orbit of the main object, an approach that immediately brings us back to the Libro de' caratteri cancellereschi corsivi.

After retracing her calligraphic and pictorial career, it is only right to focus also on the miniatures she produced in her mature years between Florence and Rome, which confirmed the prestige she had obtained during her earlier years. In such works, which mix the techniques and styles learned in her previous experiences, mastery and a personal compositional rigor meet, resulting in enchanting miniatures of bouquets of flowers and plates of fruit, in which the light caresses the objects in a delicate but vibrant way. In her depictions it is easy to trace subjects that are repeated and compose variations of a common theme, After all, the expertise of this outstanding seventeenth-century protagonist is seen in her in-depth study of the natural and botanical world, which she reproduces with scientific attention. Overall, her works are marked by a clear and limpid mold that offers still lifes on canvas that are designed to reproduce the different stages of the life cycle of plants, as if they were analyzed in a laboratory.

Giovanna Garzoni – Still life with figs Still life, tempera on parchment, 1660

Her skills were widely appreciated, and she was called to the service of viceroy F. Alfán de Ribera duke of Alcalà in Naples. Later the duchess of Savoy, Christina of France, requested her at the Savoy court, as later happened with the Medici family in Florence, whose collaboration was lasting and remarkable. The Tuscan city, crucial in Garzoni's career, became home to a conspicuous number of her works, which can be found in the Uffizi Gallery, the Gabinetto Disegni e Stampe and the Palatina Gallery. Portraits, vases and paintings of extraordinary value are on display. Other products of her talent are preserved in Rome in the Accademia Nazionale di San Luca, in Venice in the Gallerie dell'Accademia and in Turin in the Palazzo Reale. These are well-known cultural and touristic stops that, as in the case of Giovanna Garzoni's works, hold unexpected treasures to be discovered.

 


Dal 12 Marzo al 16 Aprile - Venezia - ore

Ciclo di seminari

14 febbraio 2025 - Lodi - ore - ore 12,00

Flash mob OBR One billion rising, mobilitazione mondiale contro la violenza su donne e bambine, per un San Valentino diverso, di rispetto e libertà.

21 Gennaio

CICLO DI CONFERENZE A PALAZZO VALENTINI. Martedì 21 gennaio intervento di Toponomastica femminile dal titolo La presunta neutralità dello spazio urbano.

Dal 30 gennaio 2025 - Ancona - ore -

Toponomastica femminile insieme all'associazione "Cambiamo discorso" di Ancona hanno concordato un'iniziativa sulla Medicina di Genere per il 30 gennaio 2025

30 gennaio 2025 - Monselice (Padova) - ore -Sala Polivalente del Redentore ore 15,30

L'Università del Tempo Libero di Monselice in collaborazione con Toponomastica femminile presenta, al termine del progetto pilota dal titolo Biografie femminili con parole nostre, in un incontro aperto al pubblico, il risultato del lavoro di gruppo e consegnerà alle Autorità presenti la biografia con la proposta di intitolazione di un luogo pubblico e la raccolta firme a supporto.

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