Dagmar Olrik
Chiara Baldini

Giulia Canetto

 

Se siete appassionate/i di arti tessili e figurative, la conoscenza della figura di Dagmar Olrik vi regalerà qualche bella emozione, accompagnata ahimè però da altrettanti imbarazzi. A iniziare dal fatto che, inserendo il suo nome su Wikipedia, sarete accolte/i da questa precisa frase: «Dagmar Olrik (1860-1932) è stato un pittore e artista di arazzi danese». Benissimo. Tutto esatto, fuorché un piccolo, insignificante dettaglio: Dagmar, in danese, è un nome femminile e la nostra straordinaria artista non era affatto un pittore, ma una pittrice, tessitrice, decoratrice, artista e chi più ne ha più ne metta. Un’artista a tutto tondo, insomma, un genio assoluto di testa e di mani. Una delle tantissime anime grandi, intelligenze folgoranti, cancellate con una semplice E in fondo al sostantivo dalla storia della cultura. Eh no, cari/e signori/e, sarà davvero il caso di restituire a ciascuna/o i propri meriti e ad altri le proprie responsabilità. Iniziando, ovviamente, dalla consultazione di siti e pagine web più affidabili e approfondite di Wikipedia, che ogni tanto ci trascina in scivoloni di stile e di contenuti di cui sarebbe opportuno riuscire a fare a meno. 

Conosciamo allora un pochino meglio Dagmar Olrik, figlia primogenita di una famiglia benestante della Copenaghen del XIX secolo, nata nel 1860. Una ragazzina certamente fortunata, poiché nonostante il numero ragguardevole di fratelli e sorelle (ben sei, tutti nati e nate dopo di lei), ebbe in sorte genitori tanto illuminati da far studiare e crescere culturalmente tutti i loro figli e le loro figlie, secondo le relative inclinazioni. Il padre, Henrik Benedictus Olrik, era un quotato pittore, esperto non soltanto dell’arte del pennello, ma anche di scultura e di lavorazione della porcellana. La madre, Hermina Valentiner, apparteneva anch’essa a una famiglia altoborghese e visse per quasi ottant’anni immersa in un ambiente familiare ricco di cultura e arte, ma insieme di lavoro e apprendimento, cui diede certamente in prima persona il proprio contributo. Dopo aver trascorso un anno nel prestigioso Collegio d'arte femminile di Tegne-og Kunstindustriskolen for Kvinder, nel 1879 Dagmar, che mostrava un talento e una passione fuori dal comune, iniziò un percorso di crescita artistica e tecnica sotto la guida attenta e amorevole di suo padre e, successivamente, del pittore Viggo Pedersen, amico di famiglia, valente paesaggista e conoscitore profondo dell’arte europea, soprattutto di stampo impressionista. Pedersen, oltre ad aver studiato per sette anni all’Accademia delle Belle Arti, aveva anch’egli imparato il mestiere dal padre e seppe instaurare con la sua allieva un legame di tipo paterno, insegnandole con grande efficacia le tecniche del colore e dell’immagine.

Fattoria con polli Natura morta con crescione indiano, 1850
Una mattina di Settembre nel giardino di Haveselskabet

Dagmar divenne in breve tempo così abile nella pittura, da riuscire a esporre le sue opere per la prima volta a Charlottenborg nel 1893, un fatto eccezionale per una donna a fine Ottocento. La mostra fu tanto apprezzata, che nel corso degli anni successivi le fu chiesto più volte di esporre di nuovo lì le sue opere. Tuttavia, tre anni dopo, furono gli arazzi a diventare l'interesse principale di Dagmar, già dal 1896, quando creò un quadro intrecciato sulla base di un cartone creato da Johanne Frimondt. Da un’artista all’altra, quindi, nel reciproco riconoscimento dei rispettivi talenti, le donne di Danimarca stavano dando vita a una vera rivoluzione al femminile nel campo delle arti figurative. Consiglio a tutte e tutti di cercare nel Web i dipinti di Johanne Frimondt. Vi ci vorrà un pochino di pazienza, perché si trova solo materiale in lingua danese, ma non occorre certo essere poliglotte/i per cogliere immediatamente la bellezza dei paesaggi di questa semi sconosciuta, eppure incredibilmente talentuosa, pittrice del XIX secolo. Certamente le splendide linee e il senso delicato del colore non sfuggirono a Dagmar, che scelse proprio un dipinto di Johanne per iniziare a cimentarsi in quella che sarebbe diventata la forma d’arte più importante della sua vita. 

Spinta dal desiderio costante di imparare e animata da un profondissimo desiderio di conoscenza, decide, nel 1900, di intraprendere un viaggio-studi in giro per l'Europa, l'occasione che doveva cambiare per sempre la sua esistenza e offrirle l’opportunità di dar lustro al proprio talento. Fu proprio in Italia, infatti, che apprese l'arte della tessitura e della creazione di arazzi, soprattutto a Roma e a Firenze. Ne fu talmente folgorata, che gettò tutta sé stessa nello studio della tecnica del nodo e della produzione tessile. Due anni dopo, nel 1902, ormai abilissima, divenne capo del laboratorio di tessitura di arazzi nel municipio di Copenaghen. Lì, su iniziativa del fratello Axel, iniziò a decorare le sale del Municipio con arazzi basati sulla storia della Danimarca di Fabricius (Johann Albert Fabricius, vissuto a cavallo tra Sei e Settecento, è considerato il fondatore della storiografia nell'ambito della letteratura latina e greca). L'incarico durò ben 18 anni e la produzione contò decine di opere dalle dimensioni ragguardevoli e dal valore artistico inestimabile. Intraprese anche lavori di riparazione e ristrutturazione di antichi arazzi per il Museo Nazionale, per l'Università di Copenaghen e per diverse case padronali. Dagmar Olrik divenne così indiscussa protagonista della rinascita dell'interesse danese per l'arte dell'arazzo, che andava ormai perdendosi anche a causa della precisione richiesta da questa forma espressiva estremamente complessa.

Dagmar Olrik con un assistente a Copenhagen

Sempre attenta alla necessità di tramandare le forme artistiche da una generazione all’altra, formò un certo numero di studenti e soprattutto studentesse, affinché la assistessero nel suo lavoro e insieme avessero la possibilità di seguire le proprie passioni e inclinazioni con competenza. Sul Web è disponibile una bellissima fotografia in bianco e nero che ritrae Dagmar, ormai canuta, nel suo laboratorio, mentre assiste al lavoro di due apprendiste, chine sugli intrecci. Sullo sfondo una grande finestra fa entrare nel vasto salone un po’ di luce naturale, mentre l’insegnante tiene la mano sinistra appoggiata a un grosso arazzo, ancora incompleto, incorniciato da un pannello di legno a tutta parete. Alle sue spalle un altro grande pannello rappresenta una scena di battaglia, con spade sguainate, soldati, fiamme. In primo piano, sulla sinistra di chi guarda, le mani di una ragazza, che appaiono bianche e delicate e insieme forti e capaci. Proprio come lei, probabilmente. E come tutte le donne che hanno saputo, grazie al loro indomabile coraggio e all’immenso talento, fare la storia. Ed è proprio questo che accadeva nel laboratorio di Dagmar Olrik: nel ricostruire, un nodo alla volta, fotogrammi del passato danese, le apprendiste impegnate nella tessitura stavano scrivendo la storia vera, quella fatta di lavoro e di impegno, di intelligenza femminile e di arte del sapere e del saper fare. Ieri come oggi.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

 

Si vous êtes passionné/e par les arts textiles et figuratifs, découvrir la figure de Dagmar Olrik vous procurera de belles émotions, accompagnées, hélas, de quelques embarras. À commencer par le fait qu'en recherchant son nom sur Wikipédia, vous serez accueilli/e par cette phrase précise: «Dagmar Olrik (1860-1932) était un peintre et artiste de tapisseries danois.» Très bien. Tout est exact, sauf un petit détail insignifiant: Dagmar, en danois, est un prénom féminin, et notre artiste extraordinaire n’était en aucun cas un peintre, mais bien une peintre, tisserande, décoratrice, artiste et bien plus encore. Une artiste complète, un véritable génie de l’esprit et des mains. Une des innombrables grandes âmes, des intelligences fulgurantes, effacées de l’histoire de la culture par une simple lettre à la fin d’un mot. Eh bien non, chers et chères lecteur/rice)s, il est vraiment temps de rendre à chacun/e ses mérites et à d’autres leurs responsabilités. En commençant, bien sûr, par la consultation de sites et de pages web plus fiables et approfondis que Wikipédia, qui nous entraîne parfois dans des faux pas de style et de contenu dont il vaudrait mieux se passer.

Apprenons donc à mieux connaître Dagmar Olrik, fille aînée d’une famille aisée de Copenhague au XIXe siècle, née en 1860. Une enfant certainement chanceuse, car malgré le nombre impressionnant de frères et sœurs (six, tous nés après elle), elle a eu la chance d’avoir des parents assez éclairés pour offrir à tous leurs enfants une éducation et une culture en accord avec leurs inclinations. Son père, Henrik Benedictus Olrik, était un peintre réputé, expert non seulement dans l’art du pinceau, mais aussi dans la sculpture et le travail de la porcelaine. Sa mère, Hermina Valentiner, appartenait également à une famille de la haute bourgeoisie et vécut près de quatre-vingts ans dans un environnement familial riche en culture et en art, mais aussi en travail et en apprentissage, auquel elle contribue certainement en première ligne. Après avoir passé une année dans le prestigieux Collège d’art féminin Tegne- og Kunstindustriskolen for Kvinder, en 1879, Dagmar, qui montrait un talent et une passion hors du commun, entame un parcours de formation artistique et technique sous la direction attentive et bienveillante de son père, puis du peintre Viggo Pedersen, un ami de la famille, paysagiste talentueux et fin connaisseur de l’art européen, en particulier de l’impressionnisme. Pedersen, qui avait étudié pendant sept ans à l’Académie des Beaux-Arts et appris son métier auprès de son propre père, établit avec son élève un lien de type paternel, lui enseignant avec efficacité les techniques de la couleur et de l’image.

Ferme avec des poules Nature morte avec cresson indien, 1850
Un matin de septembre dans le jardin de Haveselskabet

En peu de temps, Dagmar développe une grande maîtrise de la peinture, si bien qu’elle put exposer ses œuvres pour la première fois à Charlottenborg en 1893, un fait exceptionnel pour une femme à la fin du XIXe siècle. L’exposition a été tellement appréciée que, dans les années suivantes, elle a reçu plusieurs invitations pour y présenter à nouveau ses œuvres. Cependant, trois ans plus tard, c'étaient les tapisseries qui capturaient son intérêt principal. Dès 1896, elle a créé une œuvre tissée sur la base d’un carton dessiné par Johanne Frimondt. D’une artiste à une autre, dans une reconnaissance mutuelle de leurs talents respectifs, les femmes du Danemark donnaient naissance à une véritable révolution féminine dans le domaine des arts figuratifs. Je vous conseille vivement de rechercher sur Internet les peintures de Johanne Frimondt. Il faudra faire preuve d’un peu de patience, car le matériel disponible est uniquement en danois, mais il n’est pas nécessaire d’être polyglotte pour saisir immédiatement la beauté des paysages de cette artiste du XIXe siècle, à la fois méconnue et incroyablement talentueuse. Dagmar ne manqua certainement pas d’apprécier ces magnifiques lignes et ce sens délicat de la couleur, au point de choisir précisément une peinture de Johanne pour commencer à explorer ce qui allait devenir la forme d’art la plus importante de sa vie.

Poussée par un désir constant d’apprendre et animée par une soif profonde de connaissance, elle prend en 1900 la décision d’entreprendre un voyage d’étude à travers l’Europe, une expérience qui devait bouleverser son existence et lui offrir l’opportunité de mettre son talent en lumière. C’est en Italie qu’elle découvre l’art du tissage et de la création de tapisseries, notamment à Rome et à Florence. Elle en est tellement fascinée qu’elle se consacre entièrement à l’étude des techniques du nouage et de la production textile. Deux ans plus tard, en 1902, désormais experte, elle prend la tête de l’atelier de tapisserie de l’hôtel de ville de Copenhague. Là, sous l’impulsion de son frère Axel, elle se lance dans la décoration des salles municipales avec des tapisseries inspirées de l’histoire du Danemark de Fabricius (Johann Albert Fabricius, historien du tournant des XVIIe et XVIIIe siècles, considéré comme le fondateur de l’historiographie dans le domaine de la littérature latine et grecque). Cette mission dure dix-huit ans et aboutit à la création de dizaines d’œuvres de grandes dimensions et d’une valeur artistique inestimable. Elle entreprend également des travaux de restauration et de réparation de tapisseries anciennes pour le Musée National, l’Université de Copenhague et plusieurs demeures aristocratiques. Dagmar Olrik devient ainsi l’indiscutable figure de proue de la renaissance de l’intérêt danois pour l’art de la tapisserie, une tradition en voie de disparition en raison de la précision extrême exigée par cette forme d’expression particulièrement complexe.

Dagmar Olrik avec un assistant à Copenhague

Toujours soucieuse de transmettre les savoirs artistiques d’une génération à l’autre, elle forme un certain nombre d’élèves, surtout des jeunes femmes, qui les assistent dans son travail et peuvent ainsi suivre leurs passions et développer leurs compétences. Sur Internet, il est possible de trouver une magnifique photographie en noir et blanc représentant Dagmar, déjà âgée et aux cheveux blancs, dans son atelier, observant le travail de deux apprenties penchées sur leurs métiers à tisser. À l’arrière-plan, une grande fenêtre laisse entrer un peu de lumière naturelle dans la vaste salle, tandis que l’enseignante repose sa main gauche sur une immense tapisserie encore inachevée, encadrée par un panneau de bois couvrant tout le mur. Derrière elle, un autre panneau représente une scène de bataille, avec des épées dégainées, des soldats et des flammes. Au premier plan, sur la gauche, on distingue les mains d’une jeune femme, à la fois blanches et délicates, mais aussi fortes et habiles. Probablement à l’image de Dagmar elle-même. Et de toutes ces femmes qui, grâce à leur courage indomptable et à leur immense talent, ont fait l’Histoire. C’est précisément ce qui se passait dans l’atelier de Dagmar Olrik: en reconstruisant, un nœud à la fois, des fragments du passé danois, les apprenties en train de tisser écrivaient la véritable histoire, celle qui se nourrit de travail et d’effort, d’intelligence féminine et de l’art du savoir et du savoir-faire. Hier comme aujourd’hui.


Traduzione spagnola

Francesco Rapisarda

 

Si les apasionan las artes textiles y figurativas, conocer la figura de Dagmar Olrik les regalará algunas hermosas emociones, aunque, lamentablemente, también hechos embarazosos como la versión italiana de Wikipedia que la transforma en un pintor (pittorE). Perfecto. Todo correcto, salvo un pequeño e insignificante detalle: Dagmar, en danés, es un nombre femenino y nuestra extraordinaria artista no era en absoluto un pintor, sino una pintora, tejedora, decoradora, artista y mucho más. En definitiva, una artista de pies a cabeza, un genio absoluto tanto de mente como de manos. Una de esas tantísimas almas grandiosas, inteligencias deslumbrantes, borradas de la historia de la cultura con una simple letra final que las masculiniza. Pues no, queridas/os señoras/es, es realmente el momento de devolver a cada persona sus méritos y a otros sus responsabilidades. Empezando, por supuesto, por consultar sitios y páginas web más fiables y detalladas que Wikipedia, que de vez en cuando nos arrastra a deslices de estilo y contenido de los que sería mejor prescindir.

Entonces, conozcamos un poco mejor a Dagmar Olrik, la hija primogénita de una familia acomodada de la Copenhague del siglo XIX, nacida en 1860. Una niña ciertamente afortunada, ya que, a pesar del considerable número de hermanos y hermanas (nada menos que seis, todos nacidos después de ella), tuvo la suerte de contar con unos padres lo suficientemente ilustrados como para permitir que todas sus hijas e hijos recibieran educación y crecieran culturalmente según sus respectivas inclinaciones. Su padre, Henrik Benedictus Olrik, era un pintor de renombre, experto no solo en el arte del pincel, sino también en escultura y en el trabajo de la porcelana. Su madre, Hermina Valentiner, también pertenecía a una familia de la alta burguesía y vivió casi ochenta años en un entorno familiar rico en cultura y arte, pero también en trabajo y aprendizaje, al que sin duda contribuyó personalmente. Después de pasar un año en el prestigioso Colegio de Arte Femenino Tegne-og Kunstindustriskolen for Kvinder, en 1879 Dagmar, quien mostraba un talento y una pasión fuera de lo común, inició un camino de crecimiento artístico y técnico bajo la atenta y afectuosa guía de su padre y, posteriormente, del pintor Viggo Pedersen, amigo de la familia, destacado paisajista y profundo conocedor del arte europeo, especialmente de influencia impresionista. Pedersen, además de haber estudiado durante siete años en la Academia de Bellas Artes, también había aprendido el oficio de su padre y logró establecer con su alumna un vínculo de tipo paternal, enseñándole con gran eficacia las técnicas del color y la imagen.

Granja con gallinas Bodegón con berro indio, 1850
Una mañana de septiembre en el jardín de Haveselskabet

Dagmar se volvió tan hábil en la pintura en poco tiempo que, en 1893, logró exponer sus obras por primera vez en Charlottenborg, un hecho excepcional para una mujer a finales del siglo XIX. La muestra fue tan apreciada que, en los años siguientes, le solicitaron en varias ocasiones que volviera a exhibir allí sus obras. Sin embargo, tres años después, los tapices se convirtieron en el interés principal de Dagmar, ya desde 1896, cuando creó una obra entretejida basada en un cartón diseñado por Johanne Frimondt. Por tanto, de una artista a otra, en un reconocimiento mutuo de sus respectivos talentos, las mujeres de Dinamarca estaban dando vida a una verdadera revolución femenina en el campo de las artes figurativas. Recomiendo a todas y todos buscar en la web las pinturas de Johanne Frimondt. Hará falta un poco de paciencia, ya que solo se encuentra material en danés, pero no es necesario ser políglota para captar de inmediato la belleza de los paisajes de esta pintora del siglo XIX, casi desconocida y, sin embargo, increíblemente talentosa. Sin duda, las espléndidas líneas y el delicado sentido del color no le pasaron desapercibidos a Dagmar, quien eligió precisamente una pintura de Johanne para comenzar a adentrarse en lo que se convertiría en la forma de arte más importante de su vida.

En 1900, impulsada por el constante deseo de aprender y animada por un profundo anhelo de conocimiento, decidió emprender un viaje de estudios por Europa, una oportunidad que cambiaría para siempre su existencia y le ofrecería la posibilidad de dar brillo a su talento. Fue precisamente en Italia donde aprendió el arte de la tejeduría y la creación de tapices, especialmente en Roma y Florencia. Se sintió tan cautivada por ello que se entregó por completo al estudio de la técnica del nudo y la producción textil. Dos años después, en 1902, ya sumamente hábil, obtuvo el cargo de directora del taller de tapicería del municipio de Copenhague. Allí, por iniciativa de su hermano Axel, comenzó a decorar las salas del Ayuntamiento con tapices basados en la historia de Dinamarca según Fabricius (Johann Albert Fabricius, que vivió entre los siglos XVII y XVIII, es considerado el fundador de la historiografía en la literatura latina y griega). El cargo duró 18 años y la producción incluyó decenas de obras de grandes dimensiones y un valor artístico incalculable. También emprendió trabajos de reparación y restauración de antiguos tapices para el Museo Nacional, la Universidad de Copenhague y varias casas señoriales. Dagmar Olrik se convirtió en la indiscutida protagonista del renacimiento del interés danés por el arte del tapiz, que ya comenzaba a perderse debido a la precisión requerida por esta forma de expresión extremadamente compleja.

Dagmar Olrik con un asistente en Copenhague

Siempre atenta a la necesidad de transmitir las formas artísticas de una generación a otra, formó a un cierto número de estudiantes y, sobre todo, de mujeres, para que la asistieran en su trabajo e, inclusive, pudieran seguir sus pasiones e inclinaciones con competencia. En la web se puede ver una hermosa fotografía en blanco y negro que retrata a Dagmar, ya canosa, en su taller, mientras observa el trabajo de dos aprendices, inclinadas sobre los entrelazados. En el fondo, una gran ventana deja entrar algo de luz natural al amplio salón, mientras la maestra tiene la mano izquierda apoyada sobre un gran tapiz, aún incompleto, enmarcado por un panel de madera que ocupa toda la pared. Detrás de ella, otro gran panel representa una escena de batalla, con espadas desenvainadas, soldados y llamas. En primer plano, a la izquierda de quien mira, las manos de una joven, que parecen blancas y delicadas y, al mismo tiempo, fuertes y capaces. Probablemente, como ella. Y como todas las mujeres que, gracias a su indomable coraje y su inmenso talento, hicieron la historia. Y eso es precisamente lo que ocurría en el taller de Dagmar Olrik: al reconstruir, nudo por nudo, fotogramas del pasado danés, las aprendices que se dedicaban a la tejeduría estaban escribiendo la verdadera historia, la que se basa en el trabajo y el esfuerzo, en la inteligencia femenina y en el arte del saber y del saber hacer. Tanto ayer como hoy.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

If you are a lover(s) of textile and figurative arts, knowledge of the figure of Dagmar Olrik will give you some good excitement, accompanied alas, however, by just as many embarrassments. Starting with the fact that, upon entering her name on Italian Wikipedia, you will be greeted by this exact sentence: "Dagmar Olrik (1860-1932) è stato un pittore e artista di arazzi danese." Very good. All correct, except for one small, insignificant detail - Dagmar, in Danish, is a feminine name, and our remarkable artist was not a male painter at all, but a female painter, weaver, decorator, artist, you name it. A well-rounded artist, in short, an absolute genius of head and hands. One of the many great souls, dazzling intelligences, erased with a simple E (“pittore”) at the end of the noun from the history of culture. Eh no, dear ladies and gentlemen, it will indeed be a case of giving back to each of them their merits and to others their responsibilities. Beginning, of course, by consulting more reliable and in-depth sites and web pages than Italian Wikipedia, which occasionally drags us into slips of style and content that we should be able to do without.

Let us then get to know Dagmar Olrik a little better, the eldest daughter of a wealthy family in 19th-century Copenhagen, born in 1860. She was certainly a lucky little girl, for despite the considerable number of brothers and sisters (as many as six, all of whom were born and born after her), she was blessed with such enlightened parents that all their sons and daughters were educated and culturally raised according to their relative inclinations. The father, Henrik Benedictus Olrik, was a notable painter, skilled not only in the art of the brush but also in sculpture and porcelain work. Her mother, Hermina Valentiner, also belonged to an upper-class family and lived for nearly eighty years immersed in a family environment rich in culture and art, but at the same time in work and learning, to which she certainly made her own contribution. After spending a year at the prestigious Tegne-og Kunstindustriskolen for Kvinder's Women's Art College, in 1879 Dagmar, who displayed an uncommon talent and passion, began a path of artistic and technical growth under the careful and loving guidance of her father and, later, of the painter Viggo Pedersen, a family friend, talented landscape painter and profound connoisseur of European art, especially Impressionist art. Pedersen, in addition to having studied for seven years at the Academy of Fine Arts, had also learned his trade from his father and was able to establish a father-like bond with his pupil, teaching her very effectively the techniques of color and image.

Farm with chickens Still life with Indian cress, 1850
A September morning in the garden of Haveselskabet

Dagmar quickly became so adept at painting that she was able to exhibit her works for the first time in Charlottenborg in 1893, which was exceptional for a woman in the late nineteenth century. The exhibition was so well-received that over the next few years she was asked several times to exhibit her works there again. Three years later, however, it was tapestries that became Dagmar's main interest, as early as 1896, when she created a woven painting based on a cartoon created by Johanne Frimondt. From one artist to another, then, in mutual recognition of each other's talents, the women of Denmark were starting a true feminine revolution in the field of fine arts. I advise everyone to search the Web for the paintings of Johanne Frimondt. It will take you a tiny bit of patience, because only Danish-language material can be found, but you certainly do not have to be a polyglot to immediately grasp the beauty of the landscapes of this semi-unknown, yet incredibly talented, 19th-century painter. Certainly the beautiful lines and delicate sense of color did not escape Dagmar, who chose one of Johanne's paintings in particular to begin to try her hand at what would become the most important art form of her life.

Driven by a constant desire to learn and animated by a very deep desire for knowledge, she decided, in 1900, to embark on a study trip around Europe, an opportunity that was to change her existence forever and offer her the chance to lend luster to her talent. It was in Italy, in fact, that she learned the art of weaving and tapestry making, especially in Rome and Florence. She was so thunderstruck by it that she threw her whole self into the study of knot technique and textile production. Two years later, in 1902, then very skilled, she became head of the tapestry weaving workshop in Copenhagen City Hall. There, on the initiative of her brother Axel, she began decorating the halls of City Hall with tapestries based on Fabricius's history of Denmark (Johann Albert Fabricius, who lived at the turn of the seventeenth and eighteenth centuries, is considered the founder of historiography in the field of Latin and Greek literature). The assignment lasted a full 18 years and the production included dozens of works of considerable size and priceless artistic value. She also undertook repair and renovation work on old tapestries for the National Museum, the University of Copenhagen and several manor houses. Olrik thus became an undisputed protagonist of the revival of Danish interest in the art of tapestry, which was now also being lost due to the precision required by this extremely complex form of expression.

Dagmar Olrik with an assistant in Copenhagen

Always mindful of the need to pass on artistic forms from one generation to the next, she trained a number of students and especially female students to assist her in her work and together have the opportunity to follow their passions and inclinations competently. A beautiful black-and-white photograph is available on the Web showing Dagmar, then with a cane, in her workshop, assisting the work of two female apprentices, bent over weaving. In the background a large window lets some natural light into the vast hall, while the teacher holds her left hand resting on a large tapestry, still unfinished, framed by a full-wall wooden panel. Behind her, another large panel depicts a battle scene, with drawn swords, soldiers, and flames. In the foreground, on the viewer's left, are the hands of a girl, appearing white and delicate and at the same time strong and capable. Just like her, probably. And like all women who have been able, through their indomitable courage and immense talent, to make history. And that is precisely what was happening in Dagmar Olrik's workshop - in reconstructing, one knot at a time, frames of the Danish past, the apprentices engaged in weaving were writing the real history, the one made of work and commitment, of female intelligence and the art of knowing and knowing how to make. Yesterday as today.

 

Marianna Elmo
Gemma Pacella

Giulia Canetto

 

Marianna Elmo, per la sapienza con la quale reinterpretava in fili incollati le opere paterne e di altri famosi pittori del Seicento e del Settecento, divenne figura di spicco nella scuola di ricamatori leccesi, al fianco di Leonardo Quesi e ai fratelli Angelo e Gaetano Pati, arrivando con le sue opere a conquistare il mercato napoletano. L’artista nacque a Lecce nel 1730 (non si hanno notizie sulla data esatta di nascita) e della sua biografia si sa pochissimo: una delle prime cose che colpisce nello studio e nella ricerca di dati certi è proprio la presenza di informazioni quasi esclusivamente legate alla sua arte e al suo impegno professionale.

Di lei non sappiamo se fosse stata sposata, se avesse avuto figlie/i, ma sappiamo che si formò in una scuola di ricamatori e ricamatrici di dipinti piuttosto famosi già all’epoca, diventandone una delle capostipiti. Figlia del famoso pittore salentino Serafino Elmo, Marianna iniziò assai giovane a dedicarsi a una tecnica artistica, tuttora considerata minore, ma di grande originalità, ovvero la tecnica delle broderies à fils collés, letteralmente tecnica del ricamo a filo incollato. Infatti si trattava di realizzare immagini incollando dei fili di seta policromi, molto spesso argentati o dorati, su un supporto di cartone rigido, prima spalmato con uno strato di cera vergine d’api. I fili colorati seguivano il disegno precedentemente tratteggiato a tempera o ad acquarello e servivano per creare, per lo più, paesaggi e abiti, mentre i volti e le altre parti anatomiche dei soggetti venivano dipinti a tempera.  

ome gli altri e le altre appartenenti alla scuola del ricamo a filo incollato su tela, anche Marianna Elmo utilizzava opere preesistenti, tra cui quelle realizzate dal padre e da altri pittori come Pietro da Cortona, Carlo Maratta e Bartolomé Esteban Murillo, per reinterpretarle con la sua tecnica. Il lavoro finale risultava particolarmente dinamico e luminoso per la presenza dei fili di seta delicati che cambiavano sfumature di colore a seconda dell’esposizione alla luce. Quest’arte fu adottata per pannelli di piccole e medie dimensioni, utilizzati poi come quadri da parete, oppure per coperchi e specchiature di cofanetti o medaglioni figurati per adornare paliotti d’altare e stendardi di confraternite. Molto spesso decoravano pure le case aristocratiche. Tuttavia, la preziosa arte della broderies à fils collés decadde già nell'Ottocento e, di conseguenza, è stata nel tempo dimenticata.

Riscoprire, dunque, il lavoro di Marianna Elmo ci aiuta a ridare lustro anche a una tecnica di grande originalità. Proprio rispetto all’opera di questa artista, infatti, si nota una sorta di capovolgimento di ciò che accade per lo più: non è lo studio di una grande forma d’arte che ci consente di riscoprire un’artista minore, bensì è lo studio di una grande professionista che ci permette di recuperare un’antica tecnica quasi sconosciuta. In effetti, Marianna Elmo non ha dovuto attendere una fama postuma, come è successo per molte altre artiste, oggi note in quanto riscoperte dalla sapiente ricerca di storiche e studiose; lei ha acquisito notorietà quando era in vita, ricevendo commissioni importanti dalla Curia cardinalizia romana, dalla Corte del Palazzo Reale di Napoli e per tutto il Regno di Napoli.

A soli ventiquattro anni, nel 1754, era considerata una ricamatrice d’eccellenza. Risulta già abbastanza eccezionale per il tempo che a una donna venissero richieste opere da istituzioni di prestigio e, per di più, lei non è mai passata in sordina, come si suol dire, fin dalle sue prime esperienze artistiche. I suoi preziosi lavori sono tutt’oggi esposti in Italia e all’estero, in occasione di mostre ed eventi dedicati alla specifica tecnica e proprio il loro studio consente di riportare alla luce la maestria del broderies à fils collés. Tali opere furono rinomate nel Salento, ma ebbero maggiore diffusione soprattutto nella zona di Napoli e proprio nella città partenopea, nel Museo di San Martino, si conserva oggi un suo capolavoro: La fuga in Egitto. Un certo numero di manufatti sono, poi, attualmente custoditi nel Museo Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce.

Madonna con bambino su opera di Carlo Maratta Sant’Oronzo in gloria che protegge Lecce Comunione di S. Maria Egiziaica

Tra coloro che hanno lavorato per la valorizzazione della tecnica del ricamo a filo incollato è nota anche una omonima di Marianna, probabilmente una sua prozia, oggi conosciuta come Marianna Elmo senior e anche Irene Elmo, riconosciuta da fonti certe come la sorella maggiore di Marianna. Riscoprire questa genealogia femminile di un’arte originale, che si tramanda tra donne della stessa famiglia, aggiunge ulteriore entusiasmo alla ricerca. Tuttavia della prestigiosa artista non si rinvengono molte altre notizie: la sua morte è datata nel 1800, senza indicazioni più precise. Dunque, di lei non ci restano che le sue creazioni.

Il rito del ricamo contiene di per sé una simbologia molto legata alle donne, quasi iconicamente femminile: dalla dea Nut dell’antico Egitto, alle tele epiche di Penelope, al mito di Aracne, ma la tecnica i cui si parla non è propriamente una tessitura: trattandosi di cucitura a filo incollato, ci troviamo di fronte a una vera e propria arte a sé, un mestiere estremamente originale per quei tempi che diventa fonte di celebrità per la nostra artista. Con la sua minuziosissima tecnica, che richiede infinita pazienza e attenzione, Marianna Elmo ha sempre firmato e datato con precisione le proprie opere, consapevole e orgogliosa della grandiosità della sua arte, desiderosa di valorizzarla come meritava e di diffonderla.


Traduzione francese

Maria Pia Ercolini

 

Grâce à l'habileté avec laquelle Marianna Elmo réinterprétait en fils collés les œuvres de son père et d'autres peintres célèbres des XVIIe et XVIIIe siècles, elle est devenue une figure marquante de l'école des brodeurs de Lecce, aux côtés de Leonardo Quesi et des frères Angelo et Gaetano Pati, conquérant le marché napolitain avec ses œuvres. L'artiste est née à Lecce en 1730 (il n’y a pas d’informations sur sa date de naissance) et sa biographie est très peu connue: l'une des premières choses qui nous frappent lorsqu'on étudie et recherche son histoire est la présence d'informations presque exclusivement liées à son art et à son engagement professionnel.

On ne sait pas si elle était mariée, si elle avait des enfants, mais on sait qu'elle a suivi une formation dans une école de brodeuses et de brodeurs de tableaux déjà assez célèbre à l'époque et qu'elle en est devenue l'une des chefs de file. Fille du célèbre peintre salentin Serafino Elmo, Marianna se consacre très tôt à une technique artistique, encore considérée comme mineure, mais d'une grande originalité, la technique de la broderie au fil collé. Il s'agissait de créer des images en collant des fils de soie polychrome, très souvent argentés ou dorés, sur un support en carton rigide, préalablement enduit d'une couche de cire d'abeille vierge. Les fils colorés suivaient le dessin préalablement esquissé à la détrempe ou à l'aquarelle et étaient principalement utilisés pour créer des paysages et des vêtements, tandis que les visages et autres parties anatomiques des sujets étaient peints à la détrempe.

Comme les autres appartenant à l'école de broderie au fil collé sur toile, Marianna Elmo a également utilisé des œuvres préexistantes, notamment celles créées par son père et d'autres peintres tels que Pietro da Cortona, Carlo Maratta et Bartolomé Esteban Murillo, pour les réinterpréter avec sa technique. L’œuvre finale était particulièrement dynamique et lumineuse en raison de la présence de fils de soie délicats qui changeaient de nuances de couleur en fonction de l’exposition à la lumière. Cet art fut adopté pour des panneaux de petite et moyenne taille, utilisés plus tard comme peintures murales, ou pour des couvercles et des miroirs de coffrets ou des médaillons figurés pour orner les devants d'autel et les bannières des confréries. Très souvent, ils décoraient également les maisons aristocratiques. Cependant, l'art précieux des broderies à fils collés tomba en déclin au XIXe siècle et fut par conséquent oublié au fil du temps.

La redécouverte de l'œuvre de Marianna Elmo nous permet donc également de redonner du lustre à une technique d'une grande originalité. En effet, en ce qui concerne l'œuvre de cette artiste, nous pouvons observer une sorte d'inversion de ce qui se passe habituellement: ce n'est pas l'étude d'une grande forme d'art qui nous permet de redécouvrir une artiste mineure, mais plutôt l'étude d’une grande spécialiste qui nous permet de récupérer une technique ancienne, presque inconnue. En effet, Marianna Elmo n'a pas eu à attendre une gloire posthume, comme ce fut le cas pour de nombreuses autres artistes qui sont aujourd'hui connues parce qu'elles ont été redécouvertes grâce aux recherches habiles d'historiennes et d'érudites; elle a acquis sa notoriété de son vivant, en recevant d'importantes commandes de la curie cardinalice romaine, de la Cour du Palais Royal de Naples et de l'ensemble du Royaume de Naples.

A seulement vingt-quatre ans, en 1754, elle était considérée comme une brodeuse d'excellence. Il est déjà tout à fait exceptionnel pour l'époque qu'une femme soit sollicitée pour des travaux par des institutions prestigieuses et, de plus, elle n'est jamais passée inaperçue dès ses premières expériences artistiques. Ses précieuses œuvres sont encore exposées en Italie et à l'étranger, dans le cadre d'expositions et de manifestations consacrées à cette technique spécifique, et c'est précisément leur étude qui nous permet de mettre en lumière la maîtrise des broderies à fils collés. Ces œuvres étaient renommées dans la région de Salento, mais c'est dans la région de Naples qu'elles étaient le plus appréciées, et c'est précisément dans la ville napolitaine, au musée de San Martino, qu'est aujourd'hui conservé l'un de ses chefs-d'œuvre: La Fuite en Égypte. Un certain nombre de ses œuvres sont également conservées au Museo Provinciale Sigismondo Castromediano de Lecce.
Madone à l'Enfant sur une œuvre de Carlo Maratta Saint Oronzo en gloire protégeant Lecce Communion de Sainte Marie Égyptienne

Parmi les personnes qui ont travaillé à l'amélioration de la technique de broderie au fil collé, on trouve l’homonyme de Marianna, probablement l'une de ses grands-tantes, connue aujourd'hui sous le nom de Marianna Elmo senior, ainsi que Irene Elmo, reconnue par des sources fiables comme étant la sœur aînée de Marianna. La redécouverte de cette généalogie féminine d'un art original, transmis entre femmes d'une même famille, rend la recherche encore plus passionnante. Cependant, il y a peu d’informations concernant la prestigieuse artiste: sa mort est datée de 1800, sans indications plus précises. Il ne reste donc que ses créations.

Le rituel de la broderie contient un symbolisme très lié aux femmes, presque iconiquement féminin: de l'ancienne déesse égyptienne Nout aux peintures épiques de Pénélope, en passant par le mythe d'Arachné, mais la technique dont nous parlons n'est pas proprement du tissage: puisqu'il s'agit d'une couture de fils collés, nous avons affaire à un véritable art à part entière, un artisanat extrêmement original pour l'époque qui est devenu une source de notoriété pour notre artiste. Avec sa technique méticuleuse, nécessitant une patience et une attention infinies, Marianna Elmo a toujours signé et daté ses œuvres avec précision, consciente et fière de la grandeur de son art, désireuse de le valoriser comme elle le méritait et de le diffuser.


Traduzione spagnola

Lisa Lanteri

 

Por la sabiduría con que reinterpretaba en hilos pegados las obras paternas y de otros famosos pintores de los siglos XVII y XVIII, Marianna Elmo se convirtió en una figura destacada de la escuela de bordadores de Lecce, junto con Leonardo Quesi y los hermanos Ángelo y Gaetano Pati, llegando a conquistar el mercado napolitano gracias a sus obras. La artista nació en Lecce en 1730 (no hay noticias de la fecha exacta de su nacimiento) y de su biografía se sabe muy poco: una de las primeras cosas que llama la atención en el estudio y en la búsqueda de datos ciertos es precisamente la presencia de informaciones casi exclusivamente relacionadas con su arte y su compromiso profesional.

De ella no sabemos si se casó, si tuvo hijas/o, pero sabemos que fue educada en una escuela de bordadores y bordadoras de pinturas bastante famosas ya en esa época, convirtiéndose en una de las fundadoras. Hija del famoso pintor salentino Serafino Elmo, Marianna empezó desde muy joven a dedicarse a una técnica artística, todavía considerada menor, pero de gran originalidad, es decir la técnica de las broderies à fils collés, literalmente técnica del bordado con hilos pegados. En efecto, se trataba de realizar imágenes pegando hilos de seda policromos, generalmente plateados o dorados, en un soporte de cartón rígido, primero untado con una capa de cera virgen de abeja. Los hilos de colores seguían el dibujo previamente trazado con témpera o con acuarela y servían para crear, en gran medida, paisajes y vestidos, mientras que las caras y las otras partes anatómicas de los cuadros se pintaban con témpera.

Como las demás personas pertenecientes a la escuela de bordado con hilos pegados sobre lienzo, Marianna Elmo utilizaba obras preexistentes, entre las cuales las realizadas por su padre y otros pintores como Pietro da Cortona, Carlo Maratta y Bartolomé Esteban Murillo, para reinterpretarlas con su técnica. El trabajo final resultaba particularmente dinámico y luminoso por la presencia de hilos de seda delicados que cambiaban de matices de color según la exposición a la luz. Este arte se adoptó para paneles de pequeñas y medianas dimensiones, luego utilizados como cuadros de pared, o para tapas y espejos de cofres o medallones figurados para adornar retablos de altar o estandartes de cofradías. Muchas veces decoraban incluso casas aristocráticas. Sin embargo, el precioso arte de las broderies à fils collés decayó ya en el siglo XIX y, por consiguiente, se olvidó con el tiempo. Redescubrir, por lo tanto, el trabajo de Marianna Elmo nos ayuda a devolver importancia incluso a una técnica de gran originalidad. Justo con respecto a la obra de esta artista, de hecho, se nota una especie de inversión de lo que pasa la mayoría de las veces: no es el estudio de una gran forma de arte lo que nos permite redescubrir una artista menor, sino el estudio de una gran profesional el que nos permite recuperar una técnica antigua casi desconocida.

Efectivamente, Marianna Elmo no tuvo que esperar una fama póstuma, como sucedió para muchas otras artistas, conocidas hoy gracias a la eficaz investigación de historiadoras y estudiosas; ella adquirió notoriedad cuando estaba viva, recibiendo encargos importantes de la curia cardenalicia romana, de la Corte del Palacio Real de Nápoles y para todo el reino de Nápoles.

Con solo veinticuatro años, en 1754, era considerada una bordadora de excelencia. Resulta ya bastante excepcional que en esa época instituciones de prestigio solicitaran obras a una mujer y, además, ella nunca pasó desapercibida, desde sus primeras experiencias artísticas. Sus preciosos trabajos se exponen todavía en Italia y en el extranjero, durante exposiciones y eventos dedicados a esta técnica especifica y precisamente su estudio permite sacar a la luz la maestría del broderies à fils collés. Dichas obras fueron famosas en Salento, pero tuvieron mayor difusión sobre todo en la zona de Nápoles, y precisamente en la ciudad partenopea, en el Museo de San Martino, se conserva hoy una de sus obras maestras: La fuga a Egipto. Un cierto número de obras suyas están, además, actualmente guardadas en el Museo Provincial Sigismondo Castromediano de Lecce.

Madonna con bambino en obra de Carlo Maratta San Oronzo en gloria que protege Lecce Comunión de Santa María Egipciaca

Entre quienes han trabajado para la valorización de la técnica del bordado en hilos pegados se encuentran también una homónima de Marianna, probablemente una tía abuela suya, conocida hoy como Marianna Elmo e incluso Irene Elmo, reconocida por fuentes seguras como la hermana mayor de Marianna. Redescubrir esta genealogía femenina de un arte original, que se transmite entre mujeres de la misma familia, añade aún más entusiasmo a la investigación. Sin embargo, de la prestigiosa artista no se encuentran muchas otras noticias: su muerte data de 1800, sin indicaciones más precisas. Entonces, de ella no nos quedan más que sus creaciones.

El rito del bordado contiene en sí mismo una simbología muy ligada a las mujeres, casi icónicamente femenina: de la diosa Nut del antiguo Egipto, a los lienzos épicos de Penélope, al mito de Aracne, pero la técnica de la que se habla no es propiamente un tejido: tratándose de costura con hilos pegados, nos encontramos ante un verdadero arte en sí mismo, un oficio extremadamente original para la época, que se convierte en fuente de celebridad para nuestra artista. Con su minuciosísima técnica, que requiere infinita paciencia y atención, Marianna Elmo cada vez firmó y fechó con precisión sus obras, consciente y orgullosa de la genialidad de su arte, deseosa de valorizarla como merecía y de difundirla.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

Marianna Elmo, for the skill with which she reinterpreted in pasted threads the works of her father and other famous painters of the seventeenth and eighteenth centuries, became a leading figure in the Lecce school of embroiderers, alongside Leonardo Quesi and the brothers Angelo and Gaetano Pati, arriving with her works to conquer the Neapolitan market. The artist was born in Lecce, Italy in 1730 (there is no information on the exact date of her birth) and very little is known about her biography. One of the first things that strikes one when studying and searching for certain data is precisely the presence of information almost exclusively related to her art and her professional commitment.

Of her, we do not know whether she was married, whether she had daughters or sons, but we do know that she was trained in a school of embroiderers and embroiderers of paintings that was quite famous even at that time, becoming one of its leaders. Daughter of the famous Salento painter Serafino Elmo, Marianna began at a very young age to devote herself to an artistic technique, still considered minor, but of great originality, namely the technique of broderies à fils collés, literally the technique of glued-thread embroidery. In fact, it involved making images by gluing polychrome silk threads, very often silvered or gilded, onto a rigid cardboard support, first smeared with a layer of virgin beeswax. The colored threads followed the drawing previously sketched in tempera or watercolor and were used to create, for the most part, landscapes and clothing, while the faces and other anatomical parts of the subjects were painted in tempera.

Like the others belonging to the school of glued-thread embroidery on canvas, Marianna Elmo used pre-existing works, including those created by her father and other painters such as Pietro da Cortona, Carlo Maratta and Bartolomé Esteban Murillo, to reinterpret them with her technique. The final work was particularly dynamic and luminous because of the delicate silk threads that changed shades of color depending on exposure to light. This art was adopted for small and medium-sized panels, later used as wall paintings, or for lids and mirrors of caskets or figured medallions to adorn altar frontals and confraternity banners. Very often they decorated aristocratic homes as well. However, the precious art of broderies à fils collés declined as early as the nineteenth century and, as a result, was over time forgotten.

Rediscovering, therefore, the work of Marianna Elmo helps us also restore luster to a technique of great originality. Indeed, precisely with respect to the work of this artist, we see a kind of reversal of what mostly happens - it is not the study of a great art form that allows us to rediscover a minor artist, but rather it is the study of a great practitioner that allows us to recover an ancient, almost unknown technique. In fact, Marianna Elmo did not have to wait for posthumous fame, as has happened with many other artists who are known today as they have been rediscovered by the skillful research of historians and scholars. She gained notoriety while she was alive, receiving important commissions from the Roman Cardinal's Curia, the Court of the Royal Palace of Naples, and throughout the Kingdom of Naples.

At only twenty-four years old, in 1754, she was considered an embroiderer of excellence. It is already quite exceptional for the time that a woman was asked for works by prestigious institutions, and what is more, she never went unnoticed, as they say, from her earliest artistic experiences. Her precious works are still on display in Italy and abroad at exhibitions and events dedicated to the specific technique, and it is precisely their study that allows the mastery of broderies à fils collés to be brought to light. Such works were renowned in Salento, but they were more popular especially in the Naples area, and it is in the Neapolitan city, in the Museum of San Martino, that one of his masterpieces, The Flight into Egypt, is preserved today. A number of artifacts are, then, currently housed in the Museo Provinciale Sigismondo Castromediano in Lecce.

Madonna with Child in a work by Carlo Maratta Saint Oronzo in glory protecting Lecce Communion of St. Mary of Egypt

Among those who worked for the enhancement of the technique of glued-thread embroidery is also known to be a namesake of Marianna, probably one of her great-aunts, known today as Marianna Elmo senior and also Irene Elmo, recognized by reliable sources as Marianna's older sister. Rediscovering this female genealogy of an original art passed down among women of the same family adds further excitement to the research. However, not much more is found of the prestigious artist. Her death is dated in 1800, without more precise indications. Therefore, all that remains of her are her creations.

The ritual of embroidery in itself contains a symbolism very much linked to women, almost iconically feminine - from the ancient Egyptian goddess Nut, to the epic paintings of Penelope, to the myth of Arachne - but the technique we are talking about is not really weaving. Since it is glued-thread stitching, we are dealing with a real art in its own right, an extremely original craft for those times that became a source of celebrity for our artist. With her meticulous technique, requiring infinite patience and attention, Marianna Elmo always signed and precisely dated her works, aware and proud of the grandeur of her art, eager to enhance it as it deserved and to spread it.

 

Maria
Barbara Belotti

Giulia Canetto

 

Il termine ricamo deriva dall’arabo raqam, ossia disegno, segno; si realizzava con il lavoro ad ago, impiegando filati di seta, di cotone, di lino, fili d’oro e d’argento, talvolta inserendo pietre preziose e perle. Il genere artistico del ricamo è stata un’espressione in cui le donne hanno avuto un posto significativo fin dai secoli più antichi, grazie al loro tradizionale legame con i mestieri della filatura e della tessitura e al fatto che la perizia nel ricamare è stata a lungo considerata un tratto fondante dell’educazione e della formazione femminile.

Francesco Del Cossa, Il Trionfo di Minerva, part., 1468-1470, affresco, Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi

Dalla creatività, dall’abilità e dalla pazienza di numerose donne sono nati bellissimi e delicati ricami, straordinarie opere d’arte che spesso servivano a impreziosire gli arredi ecclesiastici e i paramenti sacri dei prelati. Moltissime di queste artiste ‒ perché così dobbiamo considerarle ‒ sono però rimaste nascoste nelle pieghe del tempo trascorso e poche sono riuscite a vincere il buio dell’anonimato. Il loro contributo allo sviluppo della storia dell’arte non è facilmente ricostruibile perché molti dei manufatti sono andati perduti, opere troppo fragili e soggette all’usura dei secoli, più delle pagine miniate di un manoscritto. Alcuni nomi sono però giunti fino a noi e uno di questi è quello di Maria, abile ricamatrice vissuta in Catalogna nel X secolo, che con l’ago ha scritto il proprio nome sull’orlo della Stola di San Narciso, conservata nella chiesa di San Feliu a Girona. Un atto forte e determinato il suo, nel quale si può leggere tutta la consapevolezza di sé e la fierezza per il lavoro svolto; un gesto audace per l’epoca, capace di sfidare il tempo e i limiti della propria condizione femminile, di porla tra le prime protagoniste nella genealogia dell’arte tessile dell’Europa occidentale.

 

Maria, La Stola di San Narciso, part., X secolo

Girona, La chiesa di San Feliu

Le ricamatrici più abili sono state molto spesso donne aristocratiche o monache, quest’ultime figlie comunque di famiglie facoltose e di rango che, proprio per l’appartenenza a classi privilegiate, potevano perfezionare ed esprimere il proprio talento restando lontane dalle incombenze quotidiane e dalle necessità della vita familiare. Erano donne benestanti, quando non ricche, la cui raffinata cultura trovava adeguata espressione nei manufatti realizzati. Anche se Maria ha voluto “firmare” con il suo nome la Stola di San Narciso, su di lei si hanno poche informazioni e più che i riferimenti documentali sono le ipotesi, a volte affascinanti, a prevalere. Una di queste cerca di assegnarle un ruolo di prestigio all’interno della comunità monastica di Santa Maria de les Puelles di Girona, convento probabilmente sorto in seguito al lascito testamentario della viscontessa Riquilda di Narbonne, figlia di Wifredo II conte di Barcellona e di Garsenda, che nel 962 destinò parte dei suoi beni affinché, nel giro di due anni, venisse costruito a Girona un monastero in onore di Santa Maria; trent’anni dopo un suo cugino, il conte Borrell II di Barcellona, con un lascito in favore del convento di Santa Maria de les Puelles, attestò che la comunità monastica era effettivamente sorta.

La storia del monastero femminile non durò molto, già conclusa nel secondo decennio del secolo successivo. Un segno però è restato ed è particolarmente intrigante: una lastra sepolcrale, risalente al X secolo, in cui si ricorda la badessa Maria «di venerabile ricordo, che si è impegnata ogni giorno della sua vita in sante opere e nei comandamenti; perseverante, assolutamente, nelle elemosine, molto devota alle memorie e orazioni dei santi, conservando con cura estrema la regola del monastero, rimane nella verginità di Dio». Questo fu inciso sulla lastra tombale in ricordo della badessa Maria, devota nella preghiera e solerte nell’aiuto al prossimo, pia e consacrata per la vita a Dio. E se la badessa e l’abile maestra del ricamo della Stola di San Narciso fossero la stessa persona? L’ipotesi non ha trovato fino a oggi conferme certe, ma neanche decise smentite.

Maria era valente nel ricamo, tanto da essere definita la “brodadora exquisida” (la squisita ricamatrice), ed era anche una donna colta: infatti sulla Stola di San Narciso, recuperata nel 1936 all’interno del sarcofago del Santo, compaiono sia un frammento appartenente alle Laudi, intonate nelle cerimonie di incoronazione dei sovrani carolingi, che la benedizione episcopale impartita al termine di una funzione sacra; oltre al nome, sull’orlo della stola si legge la frase: «… amice, Maria me fecit; qui ista stola portaverit super se ora pro me si Deum abead a[tiutorem] (amico, Maria mi fece, chi porterà questa stola su di sé, interceda per me affinché Dio mi aiuti)». La formula “Maria me fecit”, tradizionalmente utilizzata per indicare un atto artistico e creativo, apre all’interessante ipotesi che la “brodadora exquisida” non abbia solo concepito la stola ma abbia anche patrocinato la sua realizzazione, esprimendo attraverso di essa un’offerta sacra e spirituale a Dio. Se i ricami erano considerati utili strumenti per l’espressione della fede e la comunicazione di essa verso le comunità religiose e il mondo dei/delle fedeli, allora la badessa Maria va considerata come una figura ben più complessa della semplice esecutrice di un’opera.

Le parti che compongono la Stola di San Narciso, X secolo, Girona, Chiesa di San Feliu

La stola è formata da tre pezzi di stoffa bianca contornati da bordi con iscrizioni bianche su sfondo rosso. Nella parte centrale della fascia più estesa è collocata la raffigurazione a ricamo della Madonna in posizione frontale, con la veste d’oro e la scritta «Ora pro nobis»; alle estremità di una delle parti corte sono applicati due ricami trapezoidali raffiguranti la scena del martirio di San Lorenzo e del battesimo di Cristo, immagini caratterizzate dall’uso di colori vividi. Il lino e la seta sono i tessuti prevalenti della stola, i cui ricami sono stati eseguiti con filo bianco, rosso, blu e oro su taffetà di lino bianco. Un lavoro di grande perizia e pazienza quello della “brodadora exquisida” Maria e, come quello di tantissime altre ricamatrici rimaste anonime, eseguito nel silenzio delle mura conventuali, con le spalle e il capo chini sul telaio che teneva ferma e distesa la stoffa; il gesto di infilare l’ago e tirare il filo, ripetuto migliaia di volte, avveniva al baluginio delle candele o alla poca luce proveniente da piccole finestre, con gli occhi ben fissi sul proprio lavoro, attenti a dar forma e colore all’inesprimibile, all’intangibile, al divino. Un’orazione intensa e profonda fatta di piccoli punti.

La raffigurazione di Maria, X secolo

Il martirio di San Lorenzo, X secolo

Il battesimo di Cristo nel fiume Giordano, X sec.

Traduzione francese

Maria Pia Ercolini

 

Le mot broderie est dérivé de l'arabe raqam, qui signifie dessin ou signe. La broderie était réalisée à l'aiguille, avec des fils de soie, de coton et de lin, des fils d'or et d'argent, et parfois des pierres précieuses et des perles. Le genre artistique de la broderie est un genre dans lequel les femmes ont joué un rôle important depuis les premiers siècles, en raison de leur lien traditionnel avec les métiers du filage et du tissage et du fait que la maîtrise de la broderie a longtemps été considérée comme un élément fondamental de l'éducation et de la formation des femmes.

Francesco Del Cossa, Le triomphe de Minerve, détail, 1468-1470, fresque, Ferrare, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi

La créativité, l'habileté et la patience de nombreuses femmes ont donné vie à de belles et délicates broderies, des œuvres d'art extraordinaires qui étaient souvent utilisées pour embellir le mobilier ecclésiastique et les vêtements sacrés des prélats. Cependant, beaucoup de ces femmes artistes ‒ car c'est ainsi qu’elles devraient être considérées ‒ sont restées cachées dans les plis du temps et peu ont réussi à surmonter l'obscurité de l'anonymat. Leur contribution au développement de l'histoire de l'art n'est pas facile à reconstituer parce que beaucoup d'objets ont été perdus, des œuvres trop fragiles et soumises à l'usure des siècles, plus que les pages enluminées d'un manuscrit. Cependant, certains noms nous sont parvenus, comme celui de Maria, une habile brodeuse qui vivait en Catalogne au Xe siècle et qui a écrit son nom à l'aiguille sur l'ourlet de l'Étole de Saint Narcisse, conservée dans l'église de San Feliu, à Gérone. Un acte fort et déterminé, dans lequel on peut lire une affirmation de soi et l’orgueil du travail accompli; un geste audacieux pour l'époque, capable de défier le temps et les limites de sa condition féminine, qui la place parmi les premières protagonistes de la généalogie de l'art textile de l’Europe occidentale.

Maria, L’ Étole de Saint Narcisse, détail, Xe siècle

Gérone, L’église de San Feliu

Les brodeuses les plus habiles étaient très souvent des femmes de l'aristocratie ou des religieuses, ces dernières cependant filles de familles riches et de haut rang qui, précisément parce qu'elles appartenaient à des classes privilégiées, pouvaient perfectionner et exprimer leur talent tout en restant loin des tâches quotidiennes et des besoins de la vie familiale. C'étaient des femmes aisées, voire riches, dont la culture raffinée trouvait une expression adéquate dans les objets qu'elles produisaient. Même si Maria ait voulu “signer” de son nom l’Étole de Saint Narcisse, il existe peu d'informations à son sujet et, plutôt que des références documentaires, ce sont les hypothèses, parfois fascinantes, qui prévalent. L'une d'entre elles tente de lui attribuer un rôle prestigieux au sein de la communauté monastique de Santa Maria de les Puelles à Gérone, un couvent probablement né du legs testamentaire de la vicomtesse Riquilda de Narbonne, fille de Wifredo II, comte de Barcelone et de Garsenda, qui, en 962, a affecté une partie de ses biens pour que, dans les deux ans, un monastère en l'honneur de Santa Maria soit construit à Gérone; trente ans plus tard, un de ses cousins, le comte Borrell II de Barcelone, avec un legs en faveur du couvent de Santa Maria de les Puelles, attesta que la communauté monastique était réellement née.

L'histoire du monastère féminin n'a pas duré longtemps, puisqu'elle s'est achevée dans la deuxième décennie du siècle suivant. Un signe, cependant, subsiste et il est particulièrement intrigant: une pierre tombale, datant du Xe siècle, qui rappelle l'abbesse Maria «de vénérable mémoire, qui s'est consacrée chaque jour de sa vie aux œuvres saintes et aux commandements; persévérante, absolument, dans les aumônes, très dévouée aux mémoires et aux oraisons des saints, conservant avec un soin extrême la règle du monastère, demeurant dans la virginité de Dieu». Cette inscription a été gravée sur la pierre tombale en mémoire de l'abbesse Maria, dévouée à la prière et diligente à aider son prochain, pieuse et consacrée pour la vie à Dieu. Et si l'abbesse et l’habile brodeuse de l’Étole de Saint Narcisse étaient une la même personne? L'hypothèse n'a pas encore été confirmée avec certitude, mais elle n'a pas non plus été réfutée de manière décisive.

Maria était douée pour la broderie, à tel point qu'on l'appelait la “brodadora exquisida” (la brodeuse exquise), et elle était aussi une femme cultivée: en effet, sur l'Étole de Saint Narcisse, récupérée en 1936 à l'intérieur du sarcophage du Saint, apparaissent à la fois un fragment appartenant aux Laudes, chantées lors des cérémonies de couronnement des souverains carolingiens, et la bénédiction épiscopale donnée à la fin d'une service religieux; en plus du nom, sur l'ourlet de l'étole, on peut lire la phrase: «... amice, Maria me fecit; qui ista stola portaverit super se ora pro me si Deum abead a[tiutorem] (ami, Maria me créa, qui portera cette étole sur lui, intercède pour moi afin que Dieu puisse m’aider)». La formule “Maria me fecit”, traditionnellement utilisée pour indiquer un acte artistique et créatif, ouvre l'hypothèse intéressante que la “brodadora exquisida” n'a pas seulement conçu l'étole, mais qu'elle en a aussi patronné la réalisation, exprimant à travers elle une offrande sacrée et spirituelle à Dieu. Si la broderie était considérée comme un outil utile à l'expression de la foi et à sa communication aux communautés religieuses et au monde des fidèles, l'abbesse Maria devrsit être considérée comme une figure beaucoup plus complexe que la simple exécutante d'une œuvre.

Les parties qui composent l'Étole de Saint Narcisse, Xe siècle, Gérone, Église de San Feliu

L'étole est composée de trois pièces de tissu blanc entourées de bordures avec des inscriptions blanches sur fond rouge. Dans la partie centrale de la plus grande bande se trouve la représentation brodée de la Madone en position frontale, vêtue d'une robe dorée et portant l'inscription «Ora pro nobis»; aux extrémités de l'une des pièces courtes se trouvent deux broderies trapézoïdales représentant la scène du martyre de Saint Laurent et le baptême du Christ, des images caractérisées par l'utilisation de couleurs vives. Le lin et la soie sont les tissus dominants de l'étole, dont la broderie est réalisée avec des fils blancs, rouges, bleus et or sur un taffetas de lin blanc. Un travail de grande habileté et de patience que la “brodadora exquisida” Maria, comme tant d'autres brodeuses restées anonymes, réalisé dans le silence des murs du couvent, les épaules et la tête penchées sur le métier qui maintenait le tissu immobile et tendu; le geste d'enfiler l'aiguille et de tirer le fil, répété des milliers de fois, s'est déroulé à la lueur des bougies ou dans la faible lumière provenant des petites fenêtres, les yeux fermement fixés sur leur travail, attentifs à donner forme et couleur à l'inexprimable, à l'intangible, au divin. Une prière intense et profonde faite de petits points.

La représentation de la Vierge Marie, Xe siècle

Le martyre de Saint Laurent, Xe siècle

Le baptême du Christ dans le Jourdain, Xe siècle

Traduzione spagnola

Maria Carreras i Goicoechea

 

El término “bordado” deriva del latín medieval brusdus, que significa “dibujo que se hace en una tela pespunteado con una aguja”; se realizaba con trabajo de aguja, empleando hilos de seda, algodón, lino, oro y plata, y en ocasiones insertando piedras preciosas y perlas. El bordado ha sido una expresión artística en la que las mujeres han tenido un papel significativo desde la antigüedad, gracias a su relación tradicional con los oficios de la hilatura y el tejido y al hecho de que la destreza en el bordado fue considerada durante mucho tiempo un rasgo fundamental en la educación y formación femenina.

Francesco Del Cossa, El Triunfo di Minerva, detalle, 1468-1470, fresco, Ferrara, Palacio Schifanoia, Salón de los Meses

De la creatividad, habilidad y paciencia de numerosas mujeres nacieron hermosos y delicados bordados, extraordinarias obras de arte que a menudo servían para embellecer los ornamentos eclesiásticos y las vestiduras sagradas de los prelados. Muchas de estas artistas —porque así debemos considerarlas— han permanecido ocultas en las sombras del tiempo y pocas han logrado vencer el anonimato. Su contribución al desarrollo de la historia del arte no es fácil de reconstruir, ya que muchas de sus obras se han perdido, siendo demasiado frágiles y más sujetas al desgaste de los siglos que las páginas iluminadas de un manuscrito. Sin embargo, algunos nombres han llegado hasta nosotros, y uno de ellos es el de Maria, hábil bordadora que vivió en Cataluña en el siglo X y que con su aguja escribió su nombre en el borde de la Estola de San Narciso, conservada en la iglesia de San Feliu en Girona. Su acción fue fuerte y determinada, reflejando toda su conciencia de sí misma y el orgullo por su trabajo; un gesto audaz para su época, capaz de desafiar el tiempo y las limitaciones de su condición femenina, situándola entre las primeras protagonistas de la genealogía del arte textil en Europa occidental.

Maria, La Estola de San Narciso, detalle, siglo X

Girona, La iglesia de San Feliu

Las bordadoras más hábiles solían ser mujeres aristocráticas o monjas, estas últimas, también hijas de familias adineradas y de alto rango, que debido a su pertenencia a clases privilegiadas podían perfeccionar y expresar su talento sin estar atadas a las tareas cotidianas y las necesidades de la vida familiar. Eran mujeres acomodadas, cuando no ricas, cuya refinada cultura encontraba una adecuada expresión en los objetos que creaban. Aunque Maria quiso "firmar" con su nombre la Estola de San Narciso, disponemos de pocas informaciones sobre ella, y más que referencias documentales, predominan las hipótesis, algunas de ellas fascinantes. Una de estas teorías le atribuye un papel de prestigio dentro de la comunidad monástica de Santa Maria de les Puelles en Girona, convento que probablemente surgió tras la donación testamentaria de la vizcondesa Riquilda de Narbona, hija de Guifré II, conde de Barcelona, y de Garsenda, quien en 962 destinó parte de sus bienes para que en el plazo de dos años se construyera en Girona un monasterio en honor a Santa María. Treinta años después, un primo suyo, el conde Borrell II de Barcelona, con otra donación a favor del convento de Santa Maria de les Puelles, confirmó la existencia de la comunidad monástica.

La historia del monasterio femenino no duró mucho, ya que terminó en la segunda década del siglo siguiente. Sin embargo, quedó una huella particularmente intrigante: una lápida sepulcral del siglo X que recuerda a la abadesa Maria como "de venerable memoria, que se dedicó cada día de su vida a obras santas y a los mandamientos; perseverante en las limosnas, muy devota en la memoria y oraciones de los santos, conservando con extremo cuidado la regla del monasterio, permaneciendo en la virginidad de Dios". Este fue el epitafio en la lápida en recuerdo de la abadesa Maria, devota en la oración y diligente en la ayuda al prójimo, piadosa y consagrada a Dios por toda su vida. ¿Podrían la abadesa y la hábil maestra del bordado de la Estola de San Narciso ser la misma persona? La hipótesis no ha sido confirmada hasta hoy, pero tampoco ha sido refutada. Maria era una bordadora excepcional, hasta el punto de ser llamada la brodadora exquisida ("la exquisita bordadora"), y también era una mujer culta: en la Estola de San Narciso, recuperada en 1936 dentro del sarcófago del Santo, aparecen un fragmento de las Laudes, entonadas en las ceremonias de coronación de los soberanos carolingios, y la bendición episcopal impartida al final de una función sagrada. Además del nombre, en el borde de la estola se puede leer la frase: “… amice, Maria me fecit; qui ista stola portaverit super se ora pro me si Deum abead a[tiutorem]” (amigo, María me hizo, quien lleve esta estola sobre sí, que interceda por mí para que Dios me ayude).

La fórmula "Maria me fecit", utilizada tradicionalmente para indicar un acto artístico y creativo, abre la interesante hipótesis de que la brodadora exquisida no solo concibiera la estola, sino que también patrocinara su realización, expresando a través de ella una ofrenda sagrada y espiritual a Dios. Si los bordados eran considerados herramientas útiles para la expresión de la fe y su comunicación hacia las comunidades religiosas y el mundo de los y las fieles, entonces la abadesa María debe considerarse una figura mucho más compleja que la de la simple ejecutora de una obra.

Las partes que componen la Estola de San Narciso, siglo X, Girona, Iglesia de San Feliu

La estola está compuesta por tres piezas de tela blanca bordeadas con inscripciones blancas sobre fondo rojo. En la parte central de la franja más extensa se encuentra la representación bordada de la Virgen María en posición frontal, con un vestido dorado y la inscripción "Ora pro nobis". En los extremos de una de las partes cortas se han aplicado dos bordados trapezoidales que representan la escena del martirio de San Lorenzo y el bautismo de Cristo, imágenes caracterizadas por el uso de colores vivos. El lino y la seda son los tejidos predominantes de la estola, cuyos bordados fueron realizados con hilo blanco, rojo, azul y dorado sobre tafetán de lino blanco. Un trabajo de gran destreza y paciencia el de la brodadora exquisida Maria, al igual que el de muchas otras bordadoras anónimas, realizado en el silencio de los conventos, con la espalda y la cabeza inclinadas sobre el bastidor que mantenía firme y extendida la tela. El gesto de ensartar la aguja y tirar del hilo, repetido miles de veces, ocurría a la luz parpadeante de las velas o con la escasa iluminación de pequeñas ventanas, con los ojos fijos en su labor, atentos a dar forma y color a lo inefable, lo intangible, lo divino. Una oración intensa y profunda hecha de pequeñas puntadas.

La representación de María, siglo X

El martirio de San Lorenzo, siglo X

El bautismo de Cristo en el río Jordán, siglo X


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

The term for embroidery in Italian comes from the Arabic raqam, meaning drawing, design. It was done by needlework, employing silk, cotton, linen, gold and silver threads, sometimes inserting precious stones and pearls. The artistic genre of embroidery has been an expression in which women have had a significant place since the earliest centuries, due to their traditional connection to the crafts of spinning and weaving, and to the fact that expertise in embroidery has long been considered a foundational feature of female education and training.

rancesco Del Cossa, The Triumph of Minerva, 1468-1470, fresco, Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi

 From the creativity, skill and patience of numerous women came beautiful and delicate embroideries, extraordinary works of art that often served to embellish ecclesiastical furnishings and the sacred vestments of prelates. A great many of these female artists - for this is how we should consider them - have, however, remained hidden in the folds of the past, and few have managed to overcome the darkness of anonymity. Their contribution to the development of art history is not easily reconstructed because many of the artifacts have been lost - works that are too fragile and subject to the wear and tear of centuries, more so than the illuminated pages of a manuscript. Some names, however, have come down to us, and one of them is that of Maria, a skilled embroiderer who lived in Catalonia in the 10th century and wrote her name with her needle on the hem of the Stole of Saint Narcissus, preserved in the church of San Feliu in Girona. It was a strong and determined step to complete this work, in which one can read all the self-awareness and pride for the work done. A daring gesture for the time, capable of defying time and the limits of her own female condition, of placing her among the first protagonists in the genealogy of textile art in Western Europe.

Maria, The Stole of St. Narcissus, 10th century

Girona, The Church of San Feliu

The most skilled embroiderers were very often aristocratic women or nuns, the latter daughters in any case of wealthy families of rank who, precisely because they belonged to privileged classes, were able to perfect and express their talents while staying away from the daily chores and necessities of family life. They were wealthy women, whose refined culture found adequate expression in the artifacts they made. Although Mary wanted to "sign" the Stole of St. Narcissus with her name, little information is available about her, and rather than documentary references it is sometimes fascinating hypotheses that prevail. One of these seeks to assign her a prestigious role within the monastic community of Santa Maria de les Puelles in Girona, a convent that probably arose as a result of the testamentary bequest of the viscountess Riquilda of Narbonne, daughter of Wifredo II, count of Barcelona and Garsenda, who in 962 earmarked part of her property so that, within two years, a monastery in honor of St. Mary would be built in Girona. Thirty years later a cousin of hers, Count Borrell II of Barcelona, with a bequest in favor of the convent of Santa Maria de les Puelles, attested that the monastic community had indeed sprung up.

The history of the women's monastery did not last long, already ending in the second decade of the following century. One sign, however, has remained and is particularly intriguing: a tomb slab, dating from the 10th century, which records the abbess Maria "of venerable memory, who committed herself every day of her life to holy works and commandments; persevering, absolutely, in alms, very devoted to the memories and prayers of the saints, preserving with extreme care the rule of the monastery, she remains in the virginity of God." This was engraved on the tombstone in memory of Abbess Maria, devoted in prayer and diligent in helping her neighbor, pious and consecrated for life to God. What if the abbess and the skilled embroidery master of the Stole of St. Narcissus were the same person? The hypothesis has not been firmly confirmed to date, but neither has it been decisively disproved.

Maria was skilled in embroidery, so much so that she was called the "brodadora exquisida" (the exquisite embroiderer), and she was also an educated woman. In fact, on the Stole of St. Narcissus, recovered in 1936 inside the saint's sarcophagus, appear both a fragment belonging to the Lauds, intoned in the coronation ceremonies of Carolingian sovereigns, and the episcopal blessing given at the end of a sacred service. In addition to the name, on the hem of the stole we read the phrase: "... amice, Maria me fecit; qui ista stola portaverit super se ora pro me si Deum abead a[tiutorem] (friend, Maria made me; whoever will bear this stole upon himself, intercede for me that God may help me)." The formula "Maria me fecit," traditionally used to denote an artistic and creative act, opens to the interesting hypothesis that the "brodadora exquisida" not only conceived the stole but also sponsored its making, expressing through it a sacred and spiritual offering to God. If embroideries were considered useful tools for the expression of faith and the communication of it to religious communities and the world of the faithful, then Abbess Maria should be considered as a figure far more complex than the mere executor of a work.

The parts that make up the Stole of Saint Narcissus, 10th century, Girona, Church of San Feliu

The stole consists of three pieces of white cloth outlined by borders with white inscriptions on a red background. In the central part of the largest band is placed the embroidered depiction of Our Lady in a frontal position, wearing a golden robe and the inscription "Ora pro nobis." At the ends of one of the short parts are applied two trapezoidal embroideries depicting the scene of the martyrdom of St. Lawrence and the baptism of Christ, images characterized by the use of vivid colors. Linen and silk are the prevailing fabrics of the stole, the embroidery of which was done with white, red, blue, and gold thread on white linen taffeta. It was a work of great skill and patience, that of the "brodadora exquisida" Maria and, like that of so many other embroiderers who have remained anonymous, was executed in the silence of the convent walls, with her shoulders and head bent over the loom that held the fabric steady and spread out. The gesture of threading the needle and pulling the thread, repeated thousands of times, took place in the flicker of candles or in the little light coming from small windows, eyes firmly fixed on their work, attentive to giving form and color to the inexpressible, the intangible, the divine. An intense and profound prayer made up of small dots.

The depiction of Mary, 10th century

The Martyrdom of St. Lawrence, 10th century

The Baptism of Christ in the River Jordan, 10th cent.

Marie Laurencin
Livia Capasso

Laura Zernik

 

Protagonista indiscussa della scena artistica e sociale dell’Europa degli inizi del Novecento, amica di Pablo Picasso, Francis Picabia, Georges Braque, Marie Laurencin così è descritta da Guillaume Apollinaire: «È allegra, è brava, è spirituale, e ha tanto talento». Nei suoi dipinti trasmette la gioia e la sensualità della giovinezza tanto da venire chiamata da Cocteau “la gazzella”. Parlando di lei si incrociano le vite di tanti pittori, scrittori, artisti del suo tempo, ma lei non è stata “l’amica di” o “la musa di”, ha saputo farsi spazio in un mondo dominato dal maschilismo, e ha lasciato il proprio segno, come donna, e come artista. Senza dubbio ha promosso il coinvolgimento delle donne nel mondo dell’arte contro il potere maschile delle accademie e ha esposto più volte alla Societé des Femmes Artistes Modernes, creata a Parigi nel 1930 come associazione per le artiste, attiva dal 1931 al 1938. Le sue opere includono dipinti, acquerelli, disegni e stampe. Marie Laurencin nasce a Parigi il 31 ottobre 1883, figlia illegittima di una ricamatrice e di un diplomatico; riceve un’ottima educazione: il padre, infatti, pur non riconoscendola ufficialmente, la sostiene economicamente; la madre è una donna molto colta e cresce la figlia seguendo i dettami dell’educazione tradizionale, e principi molto rigorosi. Marie a diciotto anni si avvicina al mondo della pittura e a Sèvres studia i decori su ceramica. Torna a Parigi e perfeziona i suoi studi all’Accademia Humbert, dove si interessa alla pittura a olio.

Autoritratto, 1906 - Marie Laurencin

Frequenta l’ambiente cubista, e a partire dal 1907 espone al Salon des Indépendants soprattutto ritratti, autoritratti e gruppi di personaggi. Nello stesso anno Picasso le presenta il poeta e critico d’arte Guillaume Apollinaire. Dall'incontro nasce una relazione sentimentale che durerà, tumultuosa, fino al 1912, per la quale Marie è stata spesso identificata come la musa ispiratrice del poeta. A questo amore dobbiamo opere molto conosciute, da una parte e dall’altra: Apollinaire le dedica scritti e poesie, lei lo ritrae nei suoi quadri. Il più celebre, in due versioni, è Apollinaire e i suoi amici, che secondo una leggenda il poeta morente avrebbe chiesto che fosse appeso nella sua stanza d’ospedale.

Réunion à la campagne (Apollinaire et ses amis), 1909 - Marie Laurencinn

Il legame tra Marie Laurencin e Guillaume Apollinaire fu una delle grandi storie d’amore dell’epoca, tanto da far scrivere al poeta: «Il mio destino, Maria, è di vivere ai vostri piedi, ripetendo senza fine quanto vi ami». La pittrice fa da modella per alcuni artisti e intanto inizia a sperimentare un proprio stile, che svilupperà nei dipinti successivi: lo sfondo è appena accennato, i colori iniziano a farsi più tenui, i volti più luminosi. Bal élégant, La Danse à la campagne fu esposto al Salon des Independants del 1913.

Bal élégant, La Danse à la campagne 1913 - Marie Laurencinn

Entra nel gruppo dei cubisti associati alla Section d'Or, espone con loro, ed è l’unica pittrice a essere messa sotto contratto per oltre trent’anni dal notissimo mercante d’arte Paul Rosenberg. Il suo successo cresce, tanto da essere chiamata a ritrarre personalità del calibro di Coco Chanel e Jean Cocteau.

Ritratto di Coco Chanel, 1923

Ritratto di Jean Cocteau, 1921

L’artista dipinge Coco Chanel seduta, in una posa sognante, con il braccio sollevato a sorreggere la testa, un barboncino bianco accucciato sulle sue ginocchia, mentre un altro cane, sul lato destro del dipinto, balza verso una tortora. Nei quadri di Marie Laurencin sono spesso ritratti animali domestici e selvatici. La stilista non apprezzò l’opera e si rifiutò di acquistarla. Marie Laurencin, furiosa, non volle dipingere un secondo ritratto e tenne per sé l’originale. Nel 1914 sposa il barone Otto von Wätjen. La coppia si trasferisce in Spagna dopo la dichiarazione di guerra, poiché a causa del suo matrimonio Marie aveva perso la cittadinanza francese ed era diventata cittadina tedesca. Sono prima a Madrid e poi a Barcellona, dove frequentano Sonia e Robert Delaunay, poi brevemente a Düsseldorf. Dopo il divorzio nel 1920, la pittrice torna a Parigi e trova definitivamente il suo stile. Laurencin rappresenta senza censure l’amore tra donne, e non nasconderà mai le sue relazioni omosessuali, come quella durata quarant'anni con la stilista Nicole Groult, o l’altra, che porterà avanti fino alla sua morte, con Suzanne Moreau, che invita a vivere con lei, adottandola infine come figlia.

Danzatrici spagnole, 1921

Il bacio, 1927

Femmes au chien, 1924-1925

I suoi dipinti conquistano i salotti parigini e la pittrice è gratificata dal successo fino alla depressione economica degli anni Trenta. In questo periodo lavora come insegnante d'arte presso una scuola privata. Nel 1935 riceve la Legione d’onore e un paio di anni dopo alcuni dei suoi dipinti vengono scelti per l’Esposizione Universale. La Seconda guerra mondiale segna il declino dell’artista, che deve anche difendersi dall’accusa di collaborazionismo. In realtà, tale accusa non fu mai provata, anche se qualcuno suggerisce malignamente che le indagini non furono approfondite perché il presidente della commissione giudicante era Picasso. Dopo la guerra, Marie Laurencin si ritira a vita privata. Vivrà a Parigi fino alla morte, avvenuta l’8 giugno 1956, a 72 anni, nella propria abitazione, per arresto cardiaco. Secondo le sue ultime volontà, riposa in un abito bianco, nelle mani una lettera d’amore di Guillaume Apollinaire. Marcel Jouhandeau, amico della pittrice, pronuncia queste parole al suo funerale: «È morta: quale racconto di fate si conclude!». Per quanto compagna dei pittori astrattisti, non fece mai pittura astratta, nella ricerca di un'estetica specificamente femminile. Le sue tele sono poetiche, malinconiche, hanno colori pallidi come il rosa, l’azzurro, il bianco e le tinte pastello. Le sue pennellate tenui, le forme curvilinee, le figure femminili flessuose ed eteree, una composizione semplice, evocano un mondo incantato. La maggior parte delle sue opere sono ritratti, di committenti, ma anche di amici. Non mancano però nature morte e composizioni floreali.

Jeune fille la guirlande de fleurs, 1935

La Dame et le Bouquet, 1938

I suoi dipinti sono presenti nei più importanti musei e nelle collezioni di tutto il mondo. Nel centenario della nascita, nel 1983, in Giappone, a Nagano, è stato fondato un museo dedicato unicamente a lei, con le opere collezionate da Masahiro Takano, un industriale giapponese innamorato della visione del mondo sensuale e lirica di Laurencin. Dopo la sua chiusura nel 2011, è stato riaperto in una nuova sede a Tokyo, con oltre 600 opere che vanno dalla pittura, agli acquerelli, ai disegni, fino alle stampe e ai libri illustrati che coprono tutta la sua vita lavorativa dall’inizio fino agli ultimi anni. Il Musée Marie Laurencin ad oggi è l'unico museo al mondo che contiene esclusivamente opere di una pittrice.

Femme allongée,circa-1938

Nel 2023, la Barnes Foundation ha aperto, a Filadelfia, una retrospettiva del lavoro di Laurencin, intitolata Marie Laurencin: Sapphic Paris, la prima grande mostra americana del lavoro dell'artista francese. Eppure, Marie Laurencin è stata a lungo dimenticata, considerata una pittrice frivola. In realtà la sua è una ricerca che ha come obiettivo quello di rappresentare l’universo femminile non filtrato dall’occhio maschile o da pregiudizi sociali. Parallelamente alle opere pittoriche realizza delle opere grafiche, incisioni, crea scenografie e costumi per il balletto; illustra testi di numerosi scrittori. E scrive Cahiers des nuits, lo scrive per sé stessa nella sua casa parigina. Non si tratta di un diario, ma di una raccolta di pensieri, con in mezzo poesie, frammenti di frasi e una serie di disegni estremamente personali.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

 

Marie Laurencin a été une protagoniste incontestée de la scène artistique et sociale de l’Europe du début du XXe siècle, amie de Pablo Picasso, Francis Picabia et Georges Braque. Guillaume Apollinaire la décrivait ainsi : «Elle est joyeuse, elle est douée, elle est spirituelle et elle a beaucoup de talent.» Dans ses peintures, elle transmettait la joie et la sensualité de la jeunesse, au point que Cocteau l’appelait « la gazelle ». En parlant d’elle, on croise les vies de nombreux peintres, écrivains et artistes de son époque. Mais elle n’a pas été «l’amie de» ou «la muse de»: elle a su se faire une place dans un monde dominé par le machisme et laisser sa marque en tant que femme et artiste. Elle a sans aucun doute promu l’implication des femmes dans le monde de l’art contre le pouvoir masculin des académies et a exposé à plusieurs reprises à la Société des Femmes Artistes Modernes, créée à Paris en 1930 comme association pour les femmes artistes, active de 1931 à 1938. Ses œuvres incluaient des peintures, aquarelles, dessins et estampes. Marie Laurencin est née à Paris le 31 octobre 1883, fille illégitime d’une brodeuse et d’un diplomate. Elle a reçu une excellente éducation: son père, bien qu’il ne l’ait pas reconnue officiellement, la soutenait financièrement; sa mère, femme très cultivée, élevait sa fille selon des principes rigoureux et l’éducation traditionnelle. À dix-huit ans, Marie s’est intéressée à la peinture et a étudié les décors sur céramique à Sèvres. Elle est ensuite retournée à Paris et a perfectionné ses études à l’Académie Humbert, où elle s’intéressait à la peinture à l’huile.

Autoportrait, 1906 - Marie Laurencin

Elle fréquente le milieu cubiste et, à partir de 1907, elle expose au Salon des Indépendants, en présentant surtout des portraits, des autoportraits et des groupes de personnages. La même année, Picasso lui a présenté le poète et critique d’art Guillaume Apollinaire. De cette rencontre est née une relation sentimentale tumultueuse qui a duré jusqu’en 1912. À cet amour, nous devons des œuvres très connues, des deux côtés : Apollinaire lui a dédié des écrits et des poèmes, et elle l’a représenté dans ses tableaux. Le plus célèbre, en deux versions, est Apollinaire et ses amis, qui, selon une légende, aurait été demandé par le poète mourant pour être accroché dans sa chambre d’hôpital.

Réunion à la campagne (Apollinaire et ses amis), 1909 - Marie Laurencinn

Le lien entre Marie Laurencin et Guillaume Apollinaire était l’une des grandes histoires d’amour de l’époque, au point que le poète écrivait : «Mon destin, Maria, est de vivre à vos pieds, répétant sans fin combien je vous aime.» La peintre posait comme modèle pour certains artistes tout en expérimentant un style personnel qu’elle a développé dans ses peintures suivantes: les fonds étaient à peine esquissés, les couleurs devenaient plus douces, les visages plus lumineux. Bal élégant, La Danse à la campagne a été exposé au Salon des Indépendants en 1913.

Bal élégant, La Danse à la campagne 1913 - Marie Laurencinn

Elle est entrée dans le groupe des cubistes associés à la Section d’Or, a exposé avec eux, et est devenue la seule femme peintre à signer un contrat de plus de trente ans avec le célèbre marchand d’art Paul Rosenberg. Son succès grandissait, au point qu’elle a été appelée à peindre des personnalités comme Coco Chanel et Jean Cocteau.

Portrait de Coco Chanel, 1923

Portrait de Jean Cocteau, 1921

L'artiste peint Coco Chanel assise, dans une pose rêveuse, avec le bras levé soutenant sa tête, un caniche blanc blotti sur ses genoux, tandis qu'un autre chien, sur le côté droit du tableau, saute vers une colombe. Dans les tableaux de Marie Laurencin, des animaux domestiques et sauvages sont souvent représentés. La créatrice n'a pas apprécié l'œuvre et refuse de l'acheter. Marie Laurencin, furieuse, ne veut pas peindre un second portrait et garde l'original pour elle. En 1914, Marie Laurencin a épousé le baron Otto von Wätjen. Après la déclaration de guerre, le couple s’est installé en Espagne, car, en raison de son mariage, Marie avait perdu sa citoyenneté française et était devenue citoyenne allemande. Ils vivaient d’abord à Madrid, puis à Barcelone, où ils fréquentaient Sonia et Robert Delaunay, et enfin brièvement à Düsseldorf. Après le divorce en 1920, la peintre est revenue à Paris et a trouvé définitivement son style. Marie Laurencin représentait sans censure l’amour entre femmes et n’a jamais caché ses relations homosexuelles, comme celle qui a duré quarante ans avec la styliste Nicole Groult, ou une autre, qu’elle a maintenue jusqu’à sa mort, avec Suzanne Moreau, qu’elle a invitée à vivre avec elle et qu’elle a finalement adoptée comme fille.

Danseuses espagnoles, 1921

Le Baiser, 1927

Femmes au chien, 1924-1925

Ses peintures ont conquis les salons parisiens, et la peintre était gratifiée de succès jusqu’à la dépression économique des années trente. Pendant cette période, elle travaillait comme enseignante d’art dans une école privée. En 1935, elle a reçu la Légion d’honneur et, quelques années plus tard, certains de ses tableaux ont été choisis pour l’Exposition universelle. La Seconde Guerre mondiale a marqué le déclin de l’artiste, qui a dû aussi se défendre contre des accusations de collaboration. En réalité, ces accusations n’ont jamais été prouvées, bien que certains insinuaient que les enquêtes n’avaient pas été approfondies parce que le président de la commission était Picasso. Après la guerre, Marie Laurencin s’est retirée dans une vie privée. Elle a vécu à Paris jusqu’à sa mort, le 8 juin 1956, à 72 ans, dans sa maison, d’un arrêt cardiaque. Selon ses dernières volontés, elle repose dans une robe blanche, tenant dans ses mains une lettre d’amour de Guillaume Apollinaire. Marcel Jouhandeau, ami de la peintre, prononce ces mots lors de ses funérailles : «Elle est morte: quel conte de fées se termine!». Bien qu'elle ait été la compagne des peintres abstraits, elle n'a jamais pratiqué la peinture abstraite, cherchant plutôt une esthétique spécifiquement féminine. Ses toiles sont poétiques, mélancoliques, avec des couleurs pâles comme le rose, le bleu, le blanc et des teintes pastel. Ses coups de pinceau délicats, ses formes courbes, ses figures féminines souples et éthérées, une composition simple, évoquent un monde enchanté. La majorité de ses œuvres sont des portraits, de commanditaires, mais aussi d'amis. Cependant, il y a aussi des natures mortes et des compositions florales.

Jeune fille la guirlande de fleurs, 1935

La Dame et le Bouquet, 1938

Ses œuvres figurent dans les plus grands musées du monde. En 1983, à l’occasion du centenaire de sa naissance, un musée lui a été dédié au Japon, à Nagano, grâce à la collection de Masahiro Takano, un industriel japonais amoureux de sa vision du monde sensuelle et lyrique. Après sa fermeture en 2011, le musée a rouvert dans un nouvel emplacement à Tokyo, avec plus de 600 œuvres, allant de peintures aux aquarelles, dessins, estampes et livres illustrés couvrant toute sa carrière. Le Musée Marie Laurencin est aujourd’hui le seul musée au monde entièrement consacré à une femme peintre.

Femme allongée,circa-1938

En 2023, la Barnes Foundation a ouvert, à Philadelphie, une rétrospective du travail de Laurencin intitulée Marie Laurencin: Sapphic Paris, la première grande exposition américaine consacrée à l’artiste française. Pourtant, Marie Laurencin a longtemps été oubliée, considérée comme une peintre frivole. En réalité, son travail visait à représenter l’univers féminin sans le filtre du regard masculin ou des préjugés sociaux. Parallèlement à ses œuvres picturales, elle a également réalisé des œuvres graphiques, des gravures, créé des décors et des costumes pour le ballet, et illustré des textes de nombreux écrivains. Elle a aussi écrit Cahiers des nuits, qu’elle rédigeait pour elle-même dans sa maison parisienne. Ce n’était pas un journal, mais une collection de pensées mêlant poèmes, fragments de phrases et une série de dessins extrêmement personnels.


Traduzione spagnola

Laura Cavallaro

 

Protagonista indiscutible de la escena artística y social de la Europa de principios del siglo XX, amiga de Pablo Picasso, Francis Picabia y Georges Braque, Marie Laurencin fue descrita así por Guillaume Apollinaire: «Es alegre, es genial, es espiritual y tiene mucho talento». En sus pinturas ella transmite la alegría y la sensualidad de la juventud, lo que llevó a Cocteau a apodarla “la gacela”. Hablando de ella se entrecruzan las vidas de muchos pintores y pintoras, escritores y escritoras y artistas de su tiempo, pero ella no fue simplemente “la amiga de” o “la musa de”, logró abrirse camino en un mundo dominado por el machismo y dejó su huella, como mujer y como artista. Promovió sin duda el papel de las mujeres en el mundo del arte frente al poder masculino de las academias y expuso repetidamente en la Société des Femmes Artistes Modernes, creada en París en 1930 como asociación para mujeres artistas, activa entre 1931 y 1938. Sus obras incluyen pinturas, acuarelas, dibujos y grabados. Marie Laurencin nace en París el 31 de octubre de 1883, hija ilegítima de una bordadora y un diplomático. Recibe una excelente educación: su padre, aunque no la reconoció oficialmente, la apoyó económicamente, y su madre era una mujer culta y la educó según principios tradicionales y rigurosos. A los 18 años Marie comienza a interesarse por el mundo de la pintura y estudia decoración sobre cerámica en Sèvres. Más tarde regresa a París y perfecciona sus estudios en la Academia Humbert, donde se interesa por la pintura al óleo.

Autorretrato, 1906 - Marie Laurencin

Laurencin frecuenta el ambiente cubista y, a partir de 1907, expone en el Salon des Indépendants, principalmente retratos, autorretratos y grupos de personajes. Ese mismo año, Picasso le presenta al poeta y crítico de arte Guillaume Apollinaire. A partir del encuentro, inicia una tumultuosa relación que durará hasta 1912, por la cual Marie ha sido vista como la musa inspiradora del poeta. A este amor se deben obras muy conocidas, por una parte y por la otra: Apollinaire le dedica escritos y poemas; ella lo retrata en sus cuadros. El más famoso, en dos versiones, es Apollinaire y sus amigos, que –según una leyenda– el poeta, moribundo, pidió que colgaran en su habitación del hospital.

Réunion à la campagne (Apollinaire et ses amis), 1909 - Marie Laurencinn

La relación entre Marie Laurencin y Guillaume Apollinaire fue una de las grandes historias de amor de aquella época, tanto que hizo escribir al poeta: «Mi destino, María, es vivir a tus pies, repitiendo sin cesar cuánto te amo». La pintora es modelo para artistas y mientras tanto comienza a experimentar su propio estilo, que se desarrollará en las pinturas posteriores: el fondo apenas se vislumbra, los colores comienzan a hacerse más tenues, los rostros más luminosos. Bal élégant, La Danse a la campagne fue exhibido en el Salon des Independants de 1913.

Bal élégant, La Danse à la campagne 1913 - Marie Laurencinn

Entra en el grupo de cubistas asociados a la Section d'Or, expone con el grupo, y es la única pintora contratada durante más de 30 años por el famoso marchante de arte Paul Rosenberg. Su éxito crece y llega a retratar a figuras como Coco Chanel y Jean Cocteau.

Retrato de Coco Chanel, 1923

Retrato de Jean Cocteau, 1921

La artista pinta a Coco Chanel sentada, en una pose soñadora, con el brazo levantado para sostener la cabeza, un caniche blanco acurrucado sobre sus rodillas, mientras otro perro, en el lado derecho del cuadro, salta hacia una tórtola. En sus cuadros Marie Laurencin retrata a menudo animales domésticos y salvajes. La modista no apreció la obra y se negó a comprarla. Marie Laurencin, furiosa, no quiso pintar un segundo retrato y guardó para sí el original. En 1914, Laurencin se casó con el barón Otto von Wätjen. La pareja se trasladó a España después de la declaración de guerra, porque debido a su matrimonio, Marie había perdido la ciudadanía francesa y se había convertido en ciudadana alemana. Están primero en Madrid y después en Barcelona, donde frecuentan a Sonia y Robert Delaunay, luego brevemente en Düsseldorf. Tras su divorcio en 1920, la pintora vuelve a París y encuentra definitivamente su estilo. Laurencin representa sin censura el amor entre mujeres y nunca ocultará sus relaciones homosexuales, como la que duró cuarenta años con la modista Nicole Groult, o la otra, que mantendrá hasta su muerte, con Suzanne Moreau, a quien invita a vivir con ella, adoptándola por fin como hija.

Bailarinas españolas, 1921

El beso, 1927

Femmes au chien, 1924-1925

Sus pinturas conquistan los salones parisinos y la pintora es gratificada por el éxito hasta la depresión económica de los años treinta. En ese período trabaja como profesora de arte en una escuela privada. En 1935 recibe la Legión de Honor y un par de años después algunos de sus cuadros son elegidos para la Exposición Universal. La Segunda Guerra Mundial marca el declive de la artista, que también debe defenderse de las acusaciones de colaboracionismo. En realidad, dicha acusación nunca fue probada, aunque algunos sugieren malignamente que la investigación no fue profundizada porque el presidente del Comité de depuración era Picasso. Después de la guerra, Marie Laurencin se retira a su vida privada. Vivirá en París hasta su muerte, el 8 de junio de 1956, a los 72 años, en su propia casa, por paro cardíaco. Según su última voluntad, descansa en un vestido blanco, entre las manos una carta de amor de Guillaume Apollinaire. Marcel Jouhandeau, amigo de la pintora, pronunció estas palabras en su funeral: «Está muerta: ¡qué cuento de hadas se concluye!». Aunque fue compañera de los pintores abstractos, nunca hizo pintura abstracta, en búsqueda de una estética específicamente femenina. Sus lienzos son poéticos, melancólicos, tienen colores pálidos como el rosa, el azul, el blanco y los tonos pastel. Sus pinceladas suaves, las formas curvilíneas, las figuras femeninas ágiles y etéreas, una composición simple, evocan un mundo encantado. La mayoría de sus obras son retratos, de clientes, pero también de amigos. No faltan, sin embargo, naturalezas muertas y composiciones florales.

Jeune fille la guirlande de fleurs, 1935

La Dame et le Bouquet, 1938

Sus pinturas están presentes en los museos más importantes y en las colecciones de todo el mundo. En el centenario de su nacimiento, en 1983, en Japón, en Nagano, se fundó un museo dedicado únicamente a ella, con las obras coleccionadas por Masahiro Takano, un industrial japonés enamorado de la visión del mundo sensual y lírica de Laurencin. Después de su cierre en 2011, ha reabierto en una nueva sede en Tokio, con más de 600 obras que van desde la pintura hasta los libros ilustrados que pasando por acuarelas, dibujos, hasta las impresiones y cubren toda su vida laboral desde el principio hasta los últimos años. El Musée Marie Laurencin es actualmente el único museo del mundo que contiene exclusivamente obras de una pintora.

Femme allongée,circa-1938

En 2023, la Fundación Barnes abrió, en Filadelfia, una retrospectiva del trabajo de Laurencin titulada Marie Laurencin: Sapphic Paris, la primera gran exposición estadounidense del trabajo de la artista francesa. Sin embargo, Marie Laurencin ha sido olvidada durante mucho tiempo, considerada una pintora frívola. En realidad su exploración tiene como objetivo representar el universo femenino sin el filtro del ojo masculino o de los prejuicios sociales. Paralelamente a las obras pictóricas realiza obras gráficas, grabados, crea escenografías y trajes para el ballet e ilustra textos de numerosos escritores. Escribe los Cahiers des nuits, lo hace para ella misma en su casa de París. No es un diario, sino una colección de pensamientos, que se alternan con poemas, fragmentos de frases y una serie de dibujos extremadamente personales.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

An undisputed protagonist of the artistic and social scene of early twentieth-century Europe, a friend of Pablo Picasso, Francis Picabia, and Georges Braque, Marie Laurencin is described as follows by Guillaume Apollinaire: "She is cheerful, she is good, she is spiritual, and she is so talented." In her paintings she conveys the joy and sensuality of youth so much so that she was called by Cocteau "the gazelle." Talking about her crosses the lives of so many painters, writers, and artists of her time, but she was not "the friend of" or "the muse of," she was able to make her place in a world dominated by machismo, and she left her own mark, as a woman, and as an artist. She undoubtedly promoted women's involvement in the art world against the male power of the academies and exhibited several times at the Societé des Femmes Artistes Modernes, created in Paris in 1930 as an association for women artists, active from 1931 to 1938. Her works include paintings, watercolors, drawings, and prints. Marie Laurencin was born in Paris on October 31, 1883, the illegitimate daughter of an embroiderer and a diplomat. She received an excellent education - her father, although he did not officially recognize her, supported her financially. Her mother was a very cultured woman and raised her daughter following the dictates of traditional education, and very strict principles. At eighteen Marie approached the world of painting and in Sèvres studied decorations on ceramics. She returned to Paris and perfected her studies at the Humbert Academy, where she became interested in oil painting.

Self-portrait, 1906 - Marie Laurencin

She frequented the Cubist milieu, and starting in 1907 exhibited at the Salon des Indépendants mainly portraits, self-portraits and groups of figures. In the same year Picasso introduced her to poet and art critic Guillaume Apollinaire. From the meeting came a romantic relationship that would last, tumultuously, until 1912, for which Marie has often been identified as the poet's muse. To this love we owe well-known works, on both sides: Apollinaire dedicated writings and poems to her, she portrayed him in her paintings. The most famous, in two versions, is Apollinaire and His Friends, which according to one legend the dying poet asked be hung in his hospital room.

Réunion à la campagne (Apollinaire et ses amis), 1909 - Marie Laurencinn

The bond between Marie Laurencin and Guillaume Apollinaire was one of the great love stories of the era, so much so that the poet wrote, "My destiny, Marie, is to live at your feet, endlessly repeating how much I love you." She modeled for a number of artists and in the meantime began to experiment with her own style, which she would develop in later paintings: the background is barely hinted at, the colors begin to become softer, the faces brighter. Bal élégant, La Danse à la campagne was exhibited at the 1913 Salon des Independants.

Bal élégant, La Danse à la campagne 1913 - Marie Laurencinn

She joined the group of Cubists associated with the Section d'Or, exhibited with them, and was the only painter to be put under contract for over thirty years by the well-known art dealer Paul Rosenberg. Her success grew, so much so that she was called upon to portray the likes of Coco Chanel and Jean Cocteau.

Portrait of Coco Chanel, 1923

Portrait of Jean Cocteau, 1921

The artist painted Coco Chanel seated, in a dreamy pose, with her arm raised to support her head, a white poodle crouched on her lap, while another dog, on the right side of the painting, leaps toward a turtledove. Domestic and wild animals are often portrayed in Marie Laurencin's paintings. The designer did not appreciate the work and refused to purchase it. Marie Laurencin, furious, did not want to paint a second portrait and kept the original for herself. In 1914 she married Baron Otto von Wätjen. The couple moved to Spain after the declaration of war, since because of her marriage Marie had lost her French citizenship and become a German citizen. They were first in Madrid and then in Barcelona, where they frequented Sonia and Robert Delaunay, then briefly in Düsseldorf. After a divorce in 1920, the painter returned to Paris and finally found her style. Laurencin portrayed uncensored love between women, and she would never hide her homosexual relationships, such as the one that lasted forty years with fashion designer Nicole Groult, or the other, which she carried on until her death, with Suzanne Moreau, whom she invited to live with her, eventually adopting her as her daughter.

Spanish Dancers, 1921

The Kiss, 1927

Femmes au chien, 1924-1925

Her paintings conquered Parisian salons and the painter was gratified by her success until the economic depression of the 1930s. During this period she worked as an art teacher at a private school. In 1935 she received the Legion of Honor, and a couple of years later some of her paintings were chosen for the Universal Exhibition. World War II marked the decline of the artist, who also had to defend herself against charges of collaborationism. In fact, that charge was never proven, although some maliciously suggest that the investigation was not thorough because the chairman of the judging commission was Picasso. After the war, Marie Laurencin retired to private life. She lived in Paris until her death on June 8, 1956, at the age of 72, at her home from cardiac arrest. According to her last will, she rests in a white dress, in her hands a love letter from Guillaume Apollinaire. Marcel Jouhandeau, a friend of the painter, pronounced these words at her funeral, "She is dead: what a tale of fairies ends!" Although a companion of the abstractionist painters, she never did abstract painting, in the pursuit of a specifically feminine aesthetic. Her canvases are poetic, melancholy, have pale colors such as pink, blue, white and pastel shades. Her soft brushstrokes, curvilinear forms, supple and ethereal female figures, and simple composition evoke an enchanted world. Most of her works are portraits, of patrons as well as friends. However, there is no shortage of still lifes and floral compositions.

Jeune fille la guirlande de fleurs, 1935

La Dame et le Bouquet, 1938

Her paintings can be found in major museums and collections around the world. On the centenary of her birth in 1983, a museum dedicated solely to her was founded in Nagano, Japan, with works collected by Masahiro Takano, a Japanese industrialist who fell in love with Laurencin's sensual and lyrical worldview. After its closure in 2011, it was reopened in a new location in Tokyo, with more than 600 works ranging from paintings, watercolors, and drawings to prints and illustrated books covering her entire working life from the beginning to her final years. The Musée Marie Laurencin to date is the only museum in the world that exclusively contains works by a female painter.

Femme allongée,circa-1938

In 2023, the Barnes Foundation opened a retrospective of Laurencin's work in Philadelphia, entitled Marie Laurencin: Sapphic Paris, the first major U.S. exhibition of the French artist's work. Yet, Marie Laurencin has long been forgotten, considered a frivolous painter. In reality, hers was a quest to represent the female universe unfiltered by the male eye or social prejudices. Parallel to her pictorial works, she created graphic works, engravings, created sets and costumes for ballet, and illustrated texts by numerous writers. And she wrote Cahiers des nuits, writing it for herself in her Parisian home. It is not a diary, but a collection of thoughts, with poems, fragments of sentences and a series of extremely personal drawings in between.

Käthe Schmidt Kollwitz
Livia Capasso

Laura Zernik

 

Per Käthe Schmidt l’arte grafica è il mezzo espressivo preferito, e le tematiche sociali l’argomento con il quale documentare ingiustizie ed emarginazione e soprattutto le atrocità delle guerre, perché le ha sperimentate sulla propria pelle. Fa parte della Secessione di Berlino, un movimento espressionista che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX rappresentò la realtà tragica dell’Europa di quegli anni dissociandosi dagli stili ufficiali.

Käthe nasce nel 1867 a Königsberg, Prussia orientale (ora Kaliningrad, Russia), quinta di otto figli, da una famiglia della borghesia progressista: il padre era un mastro muratore e la madre era figlia di un predicatore. Insieme al fratello Konrad aderisce all'ideale socialista. Nel 1881 manifesta, assecondata dal padre, la sua vocazione artistica, prende le prime lezioni da Rudolf Mauer, incisore in rame, e dal pittore Gustav Nauyok, e comincia a praticare l’acquaforte. Trasferitasi a Berlino, s'iscrive a una scuola d'arte aperta alle donne, dove si interessa più al disegno che alla pittura. Nel 1889 si sposta a Monaco e prende lezioni da Ludwig von Herterich, pittore e insegnante d’arte; qualche anno dopo sposa Karl Kollowitz, medico socialista, da cui avrà due figli, Hans nel 1892 e Peter nel 1896, e vanno a vivere a Berlino. In questo periodo, dopo aver assistito alla rappresentazione del dramma Die Webern (I tessitori) di Gerhart Hauptmann, produce un ciclo di tre litografie e tre acqueforti: La Rivolta di tessitori, 1895-1898, ispirato alla vicenda.

Tra il 1901 e il 1908 pone mano al ciclo La Guerra dei contadini, ispirato alle rivolte nel sud della Germania negli anni Venti del Cinquecento, una guerra combattuta quindi quasi quattro secoli prima. La ribellione dei contadini fu un fallimento, perché i proprietari terrieri avevano cavalli e artiglieria, i contadini no, ma combatterono con la dignità, il coraggio e la forza dei poveri.

Nel frattempo compie alcuni viaggi: a Parigi, dove conosce Rodin e impara a scolpire, e in Italia, a seguito della vincita del premio Villa Romana che le garantisce per un anno la permanenza in uno studio fiorentino. Arriva la Grande Guerra, Käthe all’inizio la sostiene, ritenendola una guerra di aggressione e di grande pericolo per la Germania, e si impegna nella Commissione ausiliaria femminile. Il suo secondo figlio Peter parte volontario. Ricorda l’artista stessa nel suo diario: «Peter aveva diciotto anni e mezzo. Karl, che sulla guerra non aveva cambiato idea, disse no. Peter si rivolse a me. La mattina dopo ebbi con lui ancora un’altra conversazione e i miei tentativi di trattenerlo furono totalmente inutili». Peter parte il 13 ottobre 1914. Dieci giorni muore sul fronte. La perdita del figlio e via via la morte di tanti giovani come lui gettano Käthe nello sconforto e la inducono a rivedere le sue idee sulla guerra, dove riconosce ora solo follia omicida, distruzione e disumanizzazione. Comincia per lei un lungo periodo di profonda depressione e inattività. Nel 1917 ottiene un grande riconoscimento: in occasione del suo cinquantesimo compleanno, ben 150 opere vengono esposte a Berlino alla galleria di Paul Cassirer e, nello stesso anno, partecipa a numerose mostre in tutta la nazione. Nel 1919 entra come docente all’Accademia d’arte di Berlino, prima donna insegnante, e più tardi, nel 1928, otterrà la direzione della specializzazione in grafica. Solo nel 1920 Käthe trova la forza di riaccostarsi all’arte e di esprimere tutta la sofferenza sua e di quanti, donne, bambini, sopravvissuti, hanno sofferto per le conseguenze della guerra.

«Io devo esprimere il dolore degli uomini, un dolore che non ha mai fine e che ora è enorme. Questo è il mio compito, anche se non è facile assolverlo. Queste incisioni devono girare in tutto il mondo e devono dire in maniera concisa a tutti gli uomini: Così è stato, questo abbiamo noi tutti sofferto in questi anni indicibilmente dolorosi».

A sette anni di distanza dalla morte di Peter, nel 1921-22, esegue un ciclo di sette xilografie, La guerra, ora al MoMA di New York, e racconta un dolore che non è solo il suo, ma di tutte le mamme che hanno perso i loro figli. La guerra, vinta o persa, è comunque una catastrofe per tutti, non solo per i giovani mandati al fronte, ma anche per orfani, e vedove. La xilografia è una tecnica di stampa da legno inciso, più espressiva ed essenziale dell’acquaforte; lascia un segno sintetico, duro, drammatico, e rinunciando a ogni forma di eleganza e chiarezza gioca sull’alternanza del vuoto e del pieno, del bianco e del nero. Il sacrificio mostra una madre che immola il proprio figlio, sollevandolo in alto. I volontari rappresenta la generazione di chi si è votato alla guerra e alla morte. I genitori sono un blocco di dolore, lei piegata e sorretta da lui che si nasconde il viso con una mano. Vedova 1 e Vedova 2 raffigurano entrambe giovani donne, una incinta con il viso reclinato e le braccia incrociate sul ventre a difendere il nascituro, l’altra distesa sulla nuda terra mentre stringe sul petto il figlioletto; Madri rappresenta un gruppo di donne, strette a cerchio, decise a proteggere i loro figli; nella settima xilografia, Il popolo, ancora madri, sole, disperate e rassegnate, assieme ai loro figli. Emergono dal nero, il colore del dolore, che invade tutto il campo, solo volti scheletrici e mani ossute.

L’impegno politico di Käthe si fa sempre più forte, come si può vedere nella xilografia dedicata alla morte di Karl Liebknecht, un avvocato socialista più volte arrestato per le sue idee contrarie alla guerra: torturato e interrogato per diverse ore, fu ucciso il 15 gennaio 1919. Gli operai fanno blocco sulla salma di Liebknecht, le loro grosse mani, allungate sul bianco lenzuolo funebre danno alla scena una forte intensità drammatica. E ancora il manifesto litografico I sopravvissuti del 1922, dove una madre, dalle orbite incavate e nere, è circondata a sinistra da anziani, a destra da mutilati e in basso da bambini che con le sue robuste braccia cerca di proteggere. Nel 1924 il manifesto pacifista Mai più guerra! è una protesta contro il militarismo, dove il gesto imperioso del giovane con un braccio alzato e una mano sul cuore suggella il giuramento.

Il secondo ciclo xilografico, del 1924-1925, ha per titolo Proletariato, ed è composto da tre fogli: Disoccupazione, Fame, I bambini della Germania muoiono di fame. È come sempre caratterizzato dall’essenzialità nel segno, dalla drammaticità della scena, dominata dal colore nero che quasi si impossessa del bianco. Finalmente, iniziato nel 1919 e terminato nel 1932, dopo quattordici anni di gestazione, porta a termine il monumento dedicato al figlio morto e a tutti i suoi compagni caduti nella Grande Guerra. Il memoriale Genitori addolorati, oggi a Vladslo, in Belgio, nel Cimitero di guerra tedesco, è composto da due enormi statue in granito, rappresentanti un padre e una madre chiusi nel loro dolore. Con l’ascesa di Hitler e del suo partito, Käthe è costretta a dimettersi dall’Accademia di Berlino. Ormai è un personaggio scomodo per le sue idee progressiste e pacifiste, anche se non è né ebrea, né esponente dell’arte cosiddetta “degenerata”. Viene lasciata lavorare purché le sue opere non siano esposte. Inizia allora quel lungo “esilio interno” che la vedrà esclusa da tutte le manifestazioni culturali; i suoi lavori vengono rimossi dalle sale e dalle gallerie pubbliche e private. Solo la sua fama internazionale la salva dalla deportazione in un campo di concentramento. Tra il 1937 e il 1939 lavora alla Pietà (Madre col figlio morto), scultura realizzata ancora una volta in memoria del figlio due decenni dopo la sua morte. Il corpo del figlio è quasi completamente avvolto dalle membra e dalle vesti della madre che lo abbraccia, esprimendo un desiderio di protezione e unione anche dopo la morte.

Nel 1993 una versione più grande della scultura è stata installata in modo permanente nella Neue Wache di Berlino, dedicata a tutte le vittime della guerra, trasformando il dolore personale di Käthe in un simbolo di perdita universale. Il suo ultimo ciclo di litografie, Della morte, è ispirato a quella morte con cui ha fatto i conti per tutta la vita.

Nel 1939, la Germania è di nuovo in guerra e Käthe, ormai vecchia e stanca, è colpita da un’altra scomparsa, quella nel 1942 sul fronte orientale del nipote Peter, figlio di Hans. Nello stesso anno realizza un’altra litografia, ultima sua opera a stampa, che ha per titolo una frase di Goethe che per lunghi anni si è portata dentro: Non macinate le sementi; rappresenta una madre che, con uno sguardo deciso e braccia forti, tiene al riparo i tre figlioletti, appunto le sementi. Vive a Berlino in miseria, ormai vedova dal 1940. Vi rimane fino al 1943, quando la popolazione abbandona la capitale per via dei bombardamenti; si rifugia nei pressi di Dresda, dove muore il 22 aprile 1945, pochi giorni prima della resa della Germania nazista. Le sono stati dedicati due musei, uno a Colonia nel 1985 e l’altro a Berlino l’anno successivo. Il suo volto compare su un francobollo nel 1991, nella serie Donne della storia tedesca.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

 

Pour Käthe Schmidt, l’art graphique est le moyen d’expression privilégié, et les thématiques sociales sont les sujets à travers lesquels elle documente les injustices, l’exclusion et, surtout, les atrocités de la guerre, qu’elle a vécues personnellement. Elle fait partie de la Sécession de Berlin, un mouvement expressionniste qui, entre la fin du XIXe siècle et le début du XXe siècle, a représenté la réalité tragique de l’Europe de cette époque en se dissociant des styles officiels.

Käthe naît en 1867 à Königsberg, en Prusse orientale (aujourd’hui Kaliningrad, Russie), cinquième de huit enfants d’une famille de la bourgeoisie progressiste. Son père est maître maçon, et sa mère est la fille d’un prédicateur. Avec son frère Konrad, elle adhère aux idéaux socialistes. En 1881, encouragée par son père, elle manifeste sa vocation artistique, prend ses premières leçons avec Rudolf Mauer, graveur sur cuivre, et avec le peintre Gustav Nauyok, et commence à pratiquer l’eau-forte. Après avoir déménagé à Berlin, elle s’inscrit dans une école d’art ouverte aux femmes, où elle s’intéresse davantage au dessin qu’à la peinture. En 1889, elle se rend à Munich et prend des cours avec Ludwig von Herterich, peintre et professeur d’art. Quelques années plus tard, elle épouse Karl Kollwitz, un médecin socialiste, avec qui elle aura deux enfants : Hans en 1892 et Peter en 1896. Ils s’installent à Berlin.Durant cette période, après avoir assisté à la représentation du drame Die Weber (Les Tisserands) de Gerhart Hauptmann, elle réalise un cycle de trois lithographies et trois eaux-fortes intitulé La Révolte des tisserands (1895-1898), inspiré par cet événement.

Entre 1901 et 1908, elle travaille sur le cycle La Guerre des paysans, inspiré des révoltes dans le sud de l’Allemagne dans les années 1520. Ces révoltes furent un échec, car les paysans ne disposaient ni de chevaux ni d’artillerie, contrairement aux propriétaires terriens. Cependant, ils ont combattu avec dignité, courage et force.

Pendant ce temps, elle effectue plusieurs voyages : à Paris, où elle rencontre Rodin et apprend la sculpture, et en Italie, après avoir remporté le prix Villa Romana, qui lui offre un an dans un atelier à Florence. Avec le début de la Première Guerre mondiale, Käthe soutient initialement le conflit, qu’elle considère comme une guerre d’agression mettant en danger l’Allemagne. Elle s’engage dans la Commission auxiliaire féminine. Son second fils, Peter, s’engage volontairement. Käthe écrit dans son journal : «Peter avait dix-huit ans et demi. Karl, qui n’avait pas changé d’avis sur la guerre, a dit non. Peter s’est tourné vers moi. Le lendemain matin, j’ai encore discuté avec lui, mais mes tentatives pour le retenir ont été totalement vaines.» Peter part le 13 octobre 1914 et meurt dix jours plus tard au front. La perte de son fils, suivie de la mort de nombreux jeunes comme lui, plonge Käthe dans un profond désespoir et l’amène à revoir ses idées sur la guerre, qu’elle perçoit désormais comme une folie meurtrière, une destruction et une déshumanisation. Elle traverse une longue période de dépression et d’inactivité. En 1917, elle reçoit une reconnaissance importante : à l’occasion de son cinquantième anniversaire, 150 de ses œuvres sont exposées à Berlin à la galerie de Paul Cassirer. Elle participe également à plusieurs expositions nationales. En 1919, elle devient professeure à l’Académie des arts de Berlin, première femme à occuper ce poste. En 1928, elle prend la direction de la spécialisation en arts graphiques. En 1920, Käthe retrouve la force de se consacrer à l’art pour exprimer la souffrance des femmes, des enfants et des survivants touchés par la guerre.

«Je dois exprimer la douleur des hommes, une douleur sans fin et aujourd’hui immense. C’est ma mission, même si elle est difficile à accomplir. Ces gravures doivent parcourir le monde entier et dire à tous : Voilà ce que nous avons tous souffert durant ces années indiciblement douloureuses.»

En 1921-22, elle réalise un cycle de sept xylographies intitulé La Guerre, aujourd’hui conservé au MoMA de New York. Ce cycle raconte une douleur universelle, celle des mères ayant perdu leurs fils. La guerre, qu’elle soit gagnée ou perdue, reste une catastrophe pour tous, non seulement pour les jeunes envoyés au front, mais aussi pour les orphelins et les veuves. La xylographie, technique d’impression à partir de bois gravé, est plus expressive et essentielle que l’eau-forte. Elle produit un trait synthétique, dur et dramatique, renonçant à toute forme d’élégance ou de clarté pour jouer sur l’alternance entre vide et plein, blanc et noir. Dans Le Sacrifice, une mère immole son fils en le levant haut dans les airs. Les Volontaires représentent une génération vouée à la guerre et à la mort. Les Parents forment un bloc de douleur : la mère, pliée, est soutenue par le père, qui se cache le visage avec une main. Veuve 1 et Veuve 2 montrent deux jeunes femmes : l’une est enceinte, le visage incliné et les bras croisés sur son ventre pour protéger son futur enfant; l’autre est allongée sur la terre nue, serrant son petit contre sa poitrine. Mères représente un groupe de femmes formant un cercle, déterminées à protéger leurs enfants. Enfin, dans la septième xylographie, Le Peuple, on retrouve encore des mères, seules, désespérées et résignées, accompagnées de leurs enfants. Elles émergent du noir, la couleur de la douleur, qui envahit tout l’espace. Seuls des visages squelettiques et des mains osseuses se détachent dans cette obscurité oppressante.

L’engagement politique de Käthe devient de plus en plus marqué, comme le montre la xylographie dédiée à la mort de Karl Liebknecht, un avocat socialiste plusieurs fois arrêté pour ses idées antimilitaristes. Torturé et interrogé pendant des heures, il est tué le 15 janvier 1919. Dans cette œuvre, les ouvriers forment un bloc autour de la dépouille de Liebknecht. Leurs grandes mains tendues sur le linceul blanc donnent à la scène une intense force dramatique. Elle réalise également le manifeste lithographique Les Survivants en 1922. Une mère, aux orbites noires et creuses, est entourée à gauche de personnes âgées, à droite de mutilés, et en bas d’enfants qu’elle tente de protéger avec ses bras robustes. En 1924, le manifeste pacifiste Plus jamais la guerre! exprime une protestation contre le militarisme. Un jeune homme, le bras levé et la main sur le cœur, scelle ce serment.

Son second cycle de xylographies, réalisé en 1924-1925, est intitulé Prolétariat. Il comprend trois feuilles : Chômage, Faim, et Les Enfants d’Allemagne meurent de faim. Ce cycle est caractérisé, comme toujours, par un trait essentiel et une scène dramatique dominée par le noir, qui envahit presque entièrement le blanc.En 1932, après quatorze ans de travail, elle achève le monument dédié à son fils disparu et à tous ses camarades tombés pendant la Grande Guerre. Le mémorial Parents endeuillés, situé aujourd’hui à Vladslo, en Belgique, dans le cimetière militaire allemand, est composé de deux grandes statues en granit représentant un père et une mère plongés dans leur douleur.Avec l’arrivée au pouvoir d’Hitler et de son parti, Käthe est contrainte de démissionner de l’Académie de Berlin. Ses idées progressistes et pacifistes font d’elle une figure gênante, bien qu’elle ne soit ni juive ni représentante de l’art dit « dégénéré ». Elle est autorisée à travailler à condition que ses œuvres ne soient pas exposées. Elle commence alors un long « exil intérieur », exclue de toutes les manifestations culturelles. Ses œuvres sont retirées des galeries publiques et privées. Seule sa renommée internationale la protège de la déportation dans un camp de concentration. Entre 1937 et 1939, elle travaille à la sculpture Pietà (Mère avec son fils mort), une œuvre réalisée en mémoire de son fils deux décennies après sa disparition. Le corps du fils est presque entièrement enveloppé par les membres et les vêtements de la mère qui l’étreint, exprimant un désir de protection et d’union même après la mort.

En 1993, une version agrandie de cette sculpture est installée en permanence dans la Neue Wache de Berlin, en hommage à toutes les victimes de la guerre, transformant la douleur personnelle de Käthe en un symbole de perte universelle. Son dernier cycle de lithographies, intitulé De la mort, est inspiré par cette présence avec laquelle elle a vécu toute sa vie.

En 1939, l’Allemagne entre à nouveau en guerre. Käthe, âgée et fatiguée, subit une autre perte : en 1942, son petit-fils Peter, fils de Hans, meurt sur le front de l’Est. Cette même année, elle réalise une dernière lithographie, intitulée d’après une phrase de Goethe qui l’a marquée : Ne broyez pas les semences. Elle y représente une mère déterminée, protégeant ses trois enfants, symboles de l’avenir. Elle vit à Berlin dans la misère, veuve depuis 1940. En 1943, face aux bombardements, elle quitte la capitale pour s’installer près de Dresde, où elle meurt le 22 avril 1945, quelques jours avant la capitulation de l’Allemagne nazie. Deux musées lui ont été consacrés: l’un à Cologne en 1985, l’autre à Berlin l’année suivante. En 1991, son visage apparaît sur un timbre de la série Femmes de l’histoire allemande.


Traduzione spagnola

Alessandra Barbagallo

 

 Para Käthe Schmidt, el arte gráfico es su medio de expresión favorito y las cuestiones sociales son el tema con el que documentar las injusticias y la marginación y, sobre todo, las atrocidades de la guerra, porque las ha vivido en primera persona. Forma parte de la Secesión de Berlín, un movimiento expresionista que entre finales del siglo XIX y principios del XX representó la trágica realidad de la Europa de aquellos años, desvinculándose de los estilos oficiales.

Käthe nació en 1867 en Königsberg, Prusia Oriental (ahora Kaliningrado, Rusia), quinta de ocho hijos, en una familia burguesa progresista: su padre era un maestro albañil y su madre era hija de un predicador. Junto con su hermano Konrad, comparte el ideal socialista. En 1881 manifestó, apoyada por su padre, su vocación artística, tomó sus primeras clases de Rudolf Mauer, grabador de cobre, y del pintor Gustav Nauyok y comenzó a practicar el grabado. Tras mudarse a Berlín, se matriculó en una escuela de arte abierta a mujeres, donde estaba más interesada en el dibujo que en la pintura. En 1889 se trasladó a Munich y recibió clases de Ludwig von Herterich, pintor y profesor de arte; unos años más tarde se casó con Karl Kollowitz, médico socialista, con quien tuvo dos hijos, Hans en 1892 y Peter en 1896, y se fueron a vivir a Berlín. En ese período, después de haber asistido a la representación del drama Die Webern (Los tejedores) de Gerhart Hauptmann, realizó un ciclo de tres litografías y tres grabados: La rebelión de los tejedores, 1895-1898, inspirados en la historia.

Entre 1901 y 1908 escribió el ciclo La Guerra de los Campesinos, inspirado en las revueltas del sur de Alemania en la década de 1520, una guerra librada casi cuatro siglos antes. La rebelión de los campesinos fue un fracaso, porque los terratenientes tenían caballos y artillería mientras los campesinos no, pero lucharon con la dignidad, el coraje y la fuerza de los pobres.

Mientras tanto realizó algunos viajes: a París, donde conoció a Rodin y aprendió a esculpir, y a Italia, tras ganar el premio Villa Romana que le garantizaba una estancia de un año en un estudio florentino. Llega la Gran Guerra, Käthe inicialmente la apoya, considerándola una guerra de agresión y de gran peligro para Alemania, y participa en la Comisión Auxiliar de Mujeres. Su segundo hijo, Peter, se fue voluntario. Recuerda la artista misma en su diario: «Peter tenía dieciocho años y medio. Karl, que no había cambiado de opinión sobre la guerra, dijo que no. Peter se volvió hacia mí. A la mañana siguiente tuve otra conversación con él y mis intentos de detenerlo fueron totalmente inútiles". Peter parte el 13 de octubre de 1914. Muere en el frente al cabo de diez días. La pérdida de su hijo, y la muerte de muchos jóvenes como él, hicieron caer a Käthe en la desesperación y la llevaron a revisar sus ideas sobre la guerra, donde ahora sólo reconocía la locura homicida, la destrucción y la deshumanización. Comienza para ella un largo período de profunda depresión e inactividad. En 1917 obtuvo un gran reconocimiento: con motivo de su cincuentenario expuso 150 obras suyas en la galería Paul Cassirer de Berlín y, ese mismo año, participó en numerosas exposiciones por todo el país. En 1919 ingresó como profesora en la Academia de Arte de Berlín, la primera mujer docente, y posteriormente, en 1928, obtuvo la dirección de la especialización en gráfica. Sólo en 1920 Käthe encontró la fuerza para volver a acercarse al arte y expresar todo su sufrimiento y el de todos aquellos (mujeres, niños, supervivientes) que sufrieron las consecuencias de la guerra.

«Tengo que expresar el dolor de los hombres, un dolor que nunca termina y que ahora es enorme. Ésta es mi misión, aunque no sea fácil de realizar. Estos grabados deben viajar por todo el mundo y deben decir concisamente a todos los hombres: así fue, esto es lo que todos hemos sufrido en estos años indeciblemente dolorosos».

Siete años después de la muerte de Peter, entre 1921-22, realizó un ciclo de siete xilografías, La guerra, ahora en el MoMA de Nueva York, donde relata un dolor que no es sólo suyo, sino de todas las madres que han perdido a sus hijos. La guerra, ganada o perdida, sigue siendo una catástrofe para todos, no sólo para los jóvenes enviados al frente, sino también para los huérfanos y las viudas. La xilografía es una técnica de impresión de madera grabada, más expresiva y esencial que el aguafuerte; deja una huella sintética, dura, dramática y, renunciando a cualquier forma de elegancia y claridad, juega con la alternancia del vacío y la plenitud, del blanco y el negro. El sacrificio muestra a una madre ofreciendo a su hijo. Los voluntarios representa la generación de quienes se consagraron a la guerra y a la muerte. Los padres es un bloque de dolor, ella inclinada y sostenida por él que oculta el rostro con una mano. Tanto la La Viuda 1 como la La Viuda 2 representan a mujeres jóvenes, una embarazada con el rostro inclinado y los brazos cruzados sobre el vientre para defender al feto, la otra tumbada en el suelo desnuda mientras sostiene a su pequeño hijo sobre su pecho; Las Madres representa a un grupo de mujeres, reunidas en círculo, decididas a proteger a sus hijos; en el séptimo grabado, El pueblo, otra vez madres, solas, desesperadas y resignadas, junto a sus hijos. Destacan del negro, el color del dolor, que invade todo el campo, sólo rostros esqueléticos y sus manos huesudas.

El compromiso político de Käthe se hizo cada vez más fuerte, como se puede comprobar en el grabado dedicado a la muerte de Karl Liebknecht, un abogado socialista detenido varias veces por sus ideas pacifistas: torturado e interrogado durante varias horas, fue asesinado el 15 de enero de 1919. Los trabajadores bloquean el cuerpo de Liebknecht, sus grandes manos extendidas sobre la sábana blanca del funeral dan a la escena una fuerte intensidad dramática. Y de nuevo el cartel litográfico Los supervivientes de 1922, donde una madre, con las cuencas de los ojos hundidas y moradas, a su izquierda está rodeada de ancianos, a su derecha de mutilados y por debajo de niños a los que intenta proteger con sus fuertes brazos. En 1924 el manifiesto pacifista ¡Nunca jamás otra guerra! es una protesta contra el militarismo, donde el gesto imperioso del joven con el brazo levantado y la mano en el corazón sella el juramento.

El segundo ciclo de xilografía, de 1924-1925, se titula El Proletariado y se compone de tres láminas: En paro, Hambre, Los niños alemanes están hambrientos. Se caracteriza, como siempre, por la esencialidad del trazo, por el dramatismo de la escena, dominada por el color negro que casi se apodera del blanco. Finalmente, iniciado en 1919 y finalizado en 1932, tras catorce años de gestación, completó el monumento dedicado a su hijo muerto y a todos sus compañeros caídos en la Gran Guerra. El homenaje Padres de luto, hoy en Vladslo, Bélgica, en el cementerio de guerra alemán, está compuesto por dos enormes estatuas de granito que representan a un padre y una madre encerrados en su dolor. Con el ascenso de Hitler y su partido, Käthe se ve obligada a dimitir de la Academia de Berlín. Ahora es un personaje incómodo por sus ideas progresistas y pacifistas, aunque no es judía, ni exponente del arte así llamado "degenerado". Se le permite trabajar mientras sus obras no se expongan. Comienza entonces ese largo "exilio interior" que la verá excluida de todos los acontecimientos culturales; sus obras se retiran de salas y galerías públicas y privadas. Sólo su fama internacional la salva de la deportación a un campo de concentración. Entre 1937 y 1939 trabajó en La Piedad (Madre con Hijo Muerto), escultura creada una vez más en memoria de su hijo dos décadas después de su muerte. El cuerpo del hijo está casi envuelto en los miembros y ropas de la madre que lo abraza, expresando un deseo de protección y unión incluso después de la muerte.

En 1993 una versión mayor de la escultura fue instalada permanentemente en la Nueva Guardia (Die Neue Wache) de Berlín, dedicada a todas las víctimas de la guerra, transformando el dolor personal de Käthe en un símbolo de pérdida universal. Su último ciclo de litografías, Muerte, está inspirado en la muerte que ha afrontado a lo largo de su vida.

En 1939, Alemania está de nuevo en guerra y Käthe, ya vieja y cansada, se ve sorprendida por otra desaparición: en 1942, en el frente oriental de su nieto Peter, el hijo de Hans. En el mismo año realizó otra litografía, su última obra estampada, que tiene como título una frase de Goethe que llevó dentro de sí durante muchos años: Las semillas no deben triturarse; representa a una madre que, con mirada decidida y brazos fuertes, mantiene resguardados a sus tres pequeños hijos, o mejor dicho a sus semillas. Vive en Berlín en la pobreza, viuda desde 1940. Permanece allí hasta 1943, cuando la población abandona la capital debido a los bombardeos; se refugia cerca de Dresde, donde muere el 22 de abril de 1945, pocos días antes de la rendición de la Alemania nazi. Se le dedicaron dos museos: uno, en 1985, en Colonia y el otro, al año siguiente, en Berlín. Su rostro aparece en un sello de 1991, en la serie Mujeres de la historia alemana.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

For Käthe Schmidt, graphic art was the preferred medium of expression, and social issues the subject matter with which to document injustice and marginalization and, especially, the atrocities of wars, because she experienced them firsthand. She was part of the Berlin Secession, an expressionist movement that, in the late 19th and early 20th centuries, represented the tragic reality of Europe at that time by dissociating itself from official styles.

Käthe was born in 1867 in Königsberg, East Prussia (now Kaliningrad, Russia), the fifth of eight children, to a progressive middle-class family. Her father was a master mason and her mother was the daughter of a preacher. Together with her brother Konrad, she adhered to the socialist ideal. In 1881 she manifested, indulged by her father, her artistic vocation, took her first lessons from Rudolf Mauer, a copper engraver, and the painter Gustav Nauyok, and began practicing etching. Moving to Berlin, she enrolled in an art school open to women, where she became more interested in drawing than painting. In 1889 she moved to Munich and took lessons from Ludwig von Herterich, a painter and art teacher; a few years later she married Karl Kollwitz, a socialist physician, by whom she had two sons, Hans in 1892 and Peter in 1896, and they went to live in Berlin. During this period, after attending a performance of Gerhart Hauptmann's play Die Webern (The Weavers), she produced a cycle of three lithographs and three etchings, The Weavers' Revolt, 1895-1898, inspired by the story.

Between 1901 and 1908 she put her hand to the cycle The Peasants' War, inspired by uprisings in southern Germany in the 1620s, a war thus fought almost four centuries earlier. The peasants' rebellion was a failure because the landowners had horses and artillery, the peasants did not, but they fought with the dignity, courage and strength of the poor.

In the meantime she made some trips: to Paris, where she met Rodin and learned to sculpt, and to Italy, following her winning the Villa Romana prize, which guaranteed her a year's stay in a Florentine studio. The Great War arrived and Käthe initially supported it, believing it to be a war of aggression and of great danger to Germany, and became involved in the Women's Auxiliary Commission. Her second son Peter left as a volunteer. The artist recalled in her diary, "Peter was eighteen and a half years old. Karl, who had not changed his mind about the war, said no. Peter turned to me. The next morning I had yet another conversation with him, and my attempts to hold him back were totally futile." Peter departed on October 13, 1914. Ten days he died on the front. The loss of her son and gradually the deaths of so many young men like him threw Käthe into despondency and caused her to revise her ideas about war - she now recognized only murderous madness, destruction and dehumanization. A long period of deep depression and inactivity began for her. In 1917 she gained great recognition. On the occasion of her 50th birthday no less than 150 works were exhibited in Berlin at Paul Cassirer's gallery, and in the same year she participated in numerous exhibitions throughout the nation. In 1919 she entered as a lecturer at the Berlin Academy of Art, the first woman teacher, and later, in 1928, she was given the directorship of the graphic design specialization. It was not until 1920 that Käthe found the strength to approach art again and express all the suffering she and other - women, children, and survivors - suffered from the consequences of the war.

"I have to express the pain of men, a pain that never ends and is now enormous. This is my task, although it is not easy to fulfill it. These engravings must go around the world and must concisely say to all men: This is how it was, this is what we all suffered in these unspeakably painful years."

Seven years after Peter's death, in 1921-22, she executed a cycle of seven woodcuts, The War, now at MoMA in New York, and recounted a grief that is not only her own, but that of all mothers who had lost their children. War, won or lost, was still a catastrophe for everyone, not only for the young men sent to the front, but also for orphans, and widows. Woodcut is a printing technique from engraved wood, more expressive and essential than etching - it leaves a synthetic, harsh, dramatic mark, and forsaking all forms of elegance and clarity plays on the alternation of empty and full, black and white. Sacrifice shows a mother offering her son, lifting him on high. Volunteers represents the generation of those who have devoted themselves to war and death. The parents are shown as a block of pain, she bent over and supported by him hiding her face with one hand. Widow 1 and Widow 2 both depict young women, one pregnant with her face recumbent and her arms crossed over her belly defending her unborn child, the other lying on the bare ground as she clutches her small son to her chest. Mothers represents a group of women, huddled in a circle, determined to protect their children; in the seventh woodcut, The People, is still mothers, alone, desperate and resigned, together with their children. Emerging from the black, the color of grief, which invades the entire field, are only skeletal faces and bony hands.

Käthe's political commitment grew stronger and stronger, as can be seen in the woodcut dedicated to the death of Karl Liebknecht, a socialist leader repeatedly arrested for his anti-war views. Tortured and interrogated for several hours, he was killed on January 15, 1919. Workers crowd around Liebknecht's body, their large hands stretched across the white funeral shroud giving the scene a strong dramatic intensity. And again the 1922 lithographic poster The Survivors, where a mother, with hollowed-out black eye sockets, is surrounded on the left by elderly people, on the right by amputees, and at the bottom by children whom she tries to protect with her strong arms. In 1924 the pacifist manifesto Never Again War! is a protest against militarism, where the imperious gesture of the young man with an arm raised and a hand over his heart seals the oath.

The second woodcut cycle, from 1924-1925, is entitled Proletariat, and consists of three pieces: Unemployment, Hunger, and The Children of Germany Starve. It is, as always, characterized by the essentiality in the design, the dramatic nature of the scene, dominated by the black color that almost eliminates the white. Finally, begun in 1919 and finished in 1932, after fourteen years of gestation, she completed the memorial dedicated to her dead son and all his fallen comrades in the Great War. The Grieving Parents memorial, now in Vladslo, Belgium, in the German War Cemetery, consists of two huge granite statues representing a father and mother locked in their grief.With the rise of Hitler and his party, Käthe was forced to resign from the Berlin Academy. By now she was an uncomfortable figure for her progressive and pacifist ideas, even though she is neither Jewish nor an exponent of so-called "degenerate" art. She is allowed to work as long as her works are not exhibited. Then began the long "internal exile" that would see her excluded from all cultural events. Her works were removed from public and private halls and galleries. Only her international fame saved her from deportation to a concentration camp. Between 1937 and 1939 she worked on Pieta (Mother with Dead Son), a sculpture again created in memory of her son two decades after his death. The body of the son is almost completely enveloped by the limbs and robes of the mother who embraces him, expressing a desire for protection and union even after death.

In 1993 a larger version of the sculpture was permanently installed in Berlin's Neue Wache, dedicated to all victims of war, transforming Käthe's personal grief into a symbol of universal loss. Her last cycle of lithographs, Death, was inspired by that death she had come to terms with throughout her life.

In 1939, Germany was again at war, and Käthe, now old and tired, was affected by another death, that in 1942, on the eastern front, of her grandson Peter, Hans' son. In the same year she made another lithograph, her last printed work, which has as its title a phrase from Goethe that she had carried inside herself for long years, Seed Corn Must Not Be Ground. It depicts a mother who, with a determined gaze and strong arms, holds her three little children, the seeds, in shelter. She lived in Berlin in poverty, a widow since 1940. She remained there until 1943, when many were evacuated from the capital due to bombing. She took refuge near Dresden, where she died on April 22, 1945, just days before the surrender of Nazi Germany. Two museums were dedicated to her, one in Cologne in 1985 and the other in Berlin the following year. Her face appeared on a stamp in 1991, in the Women in German History series.

 

Elisabetta Piccini
Emilia Guarneri

Laura Zernik

 

Elisabetta Piccini, nota come suor Isabella Piccini, è stata un’incisora la cui memoria è stata a lungo trascurata, nonostante si tratti di una storia che vale certamente la pena raccontare. Con una lunga vita, trascorsa per la maggior parte tra le mura di un convento, viene ricordata sì per le sue opere, ma anche per lo spirito imprenditoriale che la animerà fino alla fine dei suoi giorni. Nasce nel 1644 a Venezia, ed è fin da subito immersa nell’arte incisoria: il padre Giacomo Piccini, un calcografo di origini padovane arrivato in laguna da giovane, attivo soprattutto come autore di rami di destinazione libraria, si occupa insieme con il fratello Guglielmo di riprodurre dipinti famosi di Rubens e Tiziano su rame, oltre a svolgere il lavoro di illustratore per conto di tipografi ed editori. La giovane cresce dunque tra rame, inchiostro, bulini, libri illustrati e attrezzi da lavoro, imparando ben presto il mestiere e iniziando a incidere in profondità la lastra. Questo le consente di “tirare” –come suggerisce il linguaggio tecnico – un gran numero di stampe, per le quali incontra sempre molta richiesta. È un periodo florido per l’ambito di lavoro della famiglia: vi è una crescita del mercato editoriale, pur considerando le continue crisi e riprese economiche della città di Venezia. Nonostante le guerre di terra e di mare, la peste e l’ostilità con il popolo ottomano, la città lagunare rimane un centro popoloso e colmo di attività artigianali e produttive; l’illustrazione dei libri, destinata a esplodere nel Settecento, si fa strada già nel Seicento, dando un impulso di rinnovamento all’editoria cittadina.

   
Isabella Piccini - Frontispiece of Fatinellus de Fatinellis (1627–1719) - Vita beatae Zitae virginis Lucensi, 1688 Simboli predicabili estratti da Sacri Evangeli

Durante l’adolescenza Elisabetta perde il padre, morto a poco più di quarant’anni, ritrovandosi da sola a gestire gli affari: nel 1663 presenta presso il Doge di Venezia la richiesta dell’autorizzazione per l’esclusiva su una stampa, e la ottiene – si tratta del documento più antico riguardante Elisabetta Piccini di cui disponiamo, e merita di essere riportato:

«Ser.mo Prencipe, tra l’angustie nelle quali la morte del Genitore lasciò me, Isabella figlia del q.m Giacomo Piccini, humilissima serva di V. Ser.tà, ho applicato l’animo a procurar di riuscir non dissimile da lui che lasciò non ordinaria fama delle proprie operationi. Nel corso però di tre anni ch’è seguita la morte stessa, ho inventati alcuni dissegni significanti il fine dell’huomo che mal si governa, et intagliati con l’instrutioni che vivendo il Padre havevo apprese, vorrei esponerli al Mondo con le pubbliche stampe, quando dalla somma benignità dell’E.E. V.V. mi fosse concesso il solito Privileggio che non potessero d’altri esser stampati, affin di poter non solo ricever qualche sollievo, ma ravvivar etiandio l’ottima memoria paterna. Per questa gratia humilmente prostrata, supplico l’infinita pubblica carità, certa che mai cessarano li miei preghi alla Divina bontà per l’esaltatione maggiore della Serenità Vostra. Gratie».

Sono parole significative e rappresentative della figura di una donna che affida al Doge il sogno di fare dell’arte incisoria la propria vita. Nasce in un primo momento il sodalizio col fratello Pietro, con il quale mette in pratica gli insegnamenti del padre, infatti firmano alcune opere con la dicitura «Li figlioli del Piccini». La carriera di Pietro Piccini tuttavia non durerà quanto quella della sorella, che presto inizierà a firmare autonomamente le opere e distaccarsi gradualmente dallo stile acquisito tramite la famiglia. Nonostante il lavoro avviato, per una ragazza rimasta orfana la scelta del convento appare quasi obbligata, così nel 1666 entra nel convento francescano di Santa Croce in Venezia, dal quale non uscirà mai. Da questo momento in poi Elisabetta Piccini diventa suor Isabella, ma non cambia la sua attività. I ritmi da monaca le permettono di mantenere e alimentare la sua passione e continuare a rifornire gli editori veneziani. Collabora con Bartoli a Venezia, con la Tipografia del Seminario a Padova, Gromi a Brescia, Remondini a Bassano; sono questi infatti i luoghi in cui il ricordo di suor Isabella è più vivo. Gli affari vanno bene, perciò riesce a contribuire alle spese di mantenimento del monastero e all’età di settantaquattro anni viene nominata Vicaria del convento, ricoprendo l’incarico per sei anni. Nel frattempo aiuta economicamente la sorella Francesca, che la raggiungerà prendendo i voti nel 1673, per poi scioglierli undici anni dopo andando incontro al matrimonio.

La parte più consistente del lavoro dell’incisora è composta da illustrazioni di testi sacri, messali, libri di preghiere, biografie di sante e santi, breviari, illustrazioni di manuali. Lavora da sola, senza un aiuto – l’unico supporto che accetterà, negli ultimi anni, sarà quello di suor Angela Baroni – e incessantemente, guadagnandosi la fiducia di clienti in grado di offrirle le lastre di rame sulle quali inciderà a bulino. La tecnica del bulino è una tecnica di incisione su superfici metalliche come rame, ottone o acciaio; prende il nome dallo strumento a punta di metallo affilata utilizzato per incidere le linee sulla superficie della lastra. L'artista lo utilizza per tracciare linee sottili di precisione, che possono essere utilizzate per creare dettagli o sfumature nelle opere d'arte. La pressione e l'angolazione con cui si utilizza lo strumento determinano la larghezza e la profondità delle linee incise. Tornando alla nostra storia, il rapporto professionale più nutrito sarà quello con la famiglia Remondini, con la quale intratterrà anche una lunga corrispondenza di cui si sono conservate alcune tracce. È soprattutto da queste lettere che emerge il lato imprenditoriale della monaca, pronta sempre a far valere il proprio lavoro e a reclamare i pagamenti dovuti. È così che accumulerà un gran numero di manufatti, tant’è che, analizzando i libri pubblicati tra la seconda metà del Seicento e i primi decenni del Settecento, non sarà inusuale trovare la firma di Piccini, in particolare nei testi liturgici.

Molte opere, naturalmente, non si sono conservate, ma sappiamo della presenza anche di fogli sciolti o libri di storia. È bene precisare che non tutti i disegni incisi sono stati fatti proprio da suor Isabella, numerosi infatti appartengono ad artisti e artiste più o meno famose che alimentavano proficuamente la collaborazione tra mondo editoriale e mondo pittorico. Non va dimenticato che Piccini è un’incisora, e dunque un’artigiana, quando si guarda alle sue creazioni che lasciano trasparire una certa ingenuità formale. Questo è in realtà un aspetto che arricchisce l’opera, che diventa traccia dell’incontro tra diverse abilità, saperi, esperienze e tecniche. Un altro cavallo di battaglia della monaca sono i ritratti, molto richiesti dal popolo veneziano e dei quali si conservano quelli dedicati ad alcuni sovrani come Carlo II o il doge Marcantonio Giustinian; le sue innegabili capacità emergono con evidenza nei ritratti della duchessa Aurelia Spinola.

Giovanni Antonio Lazzari e Isabella Piccini, ritratto di Carlo II di Spagna in Historie cronologiche della vera origine di tutti gl'ordini equestri di Bernardo Giustiniani, Venezia, presso Combi, & LaNoù, 1672 Martial Desbois e Isabella Piccini, ritratto di Marcantonio Giustinian in Historia veneta di Alessandro Maria Vianoli, Venezia, presso Giovanni Giacomo Hertz, 1680.

È molto interessante notare come, nonostante la fissità richiesta dalla vita monacale, la sua carriera sia paragonabile a quella di altre figure artistiche o editoriali che avevano la possibilità di muoversi alla ricerca di nuovi clienti di città in città. Appare necessario soffermarsi un momento anche sul fatto che Elisabetta Piccini opera in un settore prettamente maschile, inserendosi ugualmente nelle vicende veneziane con enorme successo. Con una notevole limpidezza di intenti e una forte dedizione, con costanza e perseveranza, con passione e determinazione, riesce non solo a emanciparsi dal cognome, costruendo nuovi stili, ma anche a essere orgogliosamente autonoma e indipendente per tutta la vita. Suor Isabella muore il 29 aprile 1734, a novant’anni e dopo una lunga e artistica esistenza.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

 

Elisabetta Piccini, connue sous le nom de sœur Isabella Piccini, a été une graveuse dont la mémoire a longtemps été négligée, bien qu’il s’agisse d’une histoire qui mérite d’être racontée. Elle a mené une longue vie, principalement passée entre les murs d’un couvent, et est rappelée non seulement pour ses œuvres, mais également pour l’esprit entrepreneurial qui l’a animée jusqu’à la fin de ses jours. Elle est née en 1644 à Venise et a été plongée dès son plus jeune âge dans l’art de la gravure. Son père, Giacomo Piccini, un graveur d’origine padouane arrivé jeune dans la lagune, travaillait surtout comme auteur de gravures destinées aux livres. Avec son frère Guglielmo, il reproduisait des peintures célèbres de Rubens et de Titien sur des plaques de cuivre, tout en collaborant avec des typographes et des éditeurs comme illustrateur. La jeune Elisabetta a donc grandi entourée de plaques de cuivre, d’encre, de burins, de livres illustrés et d’outils de travail. Elle a rapidement appris le métier et a commencé à graver profondément les plaques, ce qui lui permettait de produire – pour reprendre le langage technique – un grand nombre d’estampes, toujours très demandées. C’était une période florissante pour l’activité familiale : le marché éditorial connaissait une croissance, malgré les crises économiques récurrentes de la ville de Venise. Malgré les guerres terrestres et maritimes, la peste et les tensions avec l’Empire ottoman, la cité lagunaire restait un centre dynamique, riche en activités artisanales et productives. L’illustration de livres, destinée à exploser au XVIIIe siècle, avait déjà commencé à se développer au XVIIe siècle, donnant un élan nouveau à l’édition vénitienne.

   
Isabella Piccini - Frontispice de Fatinellus de Fatinellis (1627–1719) - Vita beatae Zitae virginis Lucensi, 1688. Symboles prêchables extraits des Saintes Évangiles.

Pendant son adolescence, Elisabetta perd son père, mort à un peu plus de quarante ans, se retrouvant seule pour gérer les affaires familiales. En 1663, elle présente au Doge de Venise une demande d'autorisation pour obtenir l'exclusivité sur une gravure, et elle l'obtient. Ce document est le plus ancien que nous possédions concernant Elisabetta Piccini et mérite d’être cité:

«Ser.mo Prencipe, parmi les difficultés dans lesquelles la mort de mon père m’a laissée, moi, Isabella, fille du feu Giacomo Piccini, humble servante de V. Ser.tà, j’ai appliqué mon esprit à m’efforcer de ne pas être différente de lui, qui a laissé une renommée peu ordinaire pour ses œuvres. Au cours des trois années qui ont suivi cette mort, j’ai inventé quelques dessins représentant la fin de l’homme qui se gouverne mal, et je les ai gravés avec les instructions que, de son vivant, mon père m’avait enseignées. Je voudrais les présenter au monde par le biais des impressions publiques, si la grande bienveillance de V.V. E.E. m’accordait le privilège habituel qu’ils ne puissent être imprimés par d’autres, afin de recevoir non seulement un certain réconfort, mais aussi de raviver la mémoire exceptionnelle de mon père. Pour cette grâce, humblement prosternée, je supplie l’infinie charité publique, certaine que mes prières à la Divine Bonté pour l’exaltation de Votre Sérénité ne cesseront jamais. Merci»..

Ces paroles sont significatives et représentatives de la figure d'une femme qui confie au Doge son rêve de faire de l'art de la gravure sa vie. Elle commence d’abord une collaboration avec son frère Pietro, avec qui elle met en pratique les enseignements de leur père. En effet, ils signent certaines œuvres avec l’inscription «Les enfants de Piccini». Cependant, la carrière de Pietro ne durera pas aussi longtemps que celle de sa sœur, qui commencera rapidement à signer ses œuvres de manière autonome et à se détacher progressivement du style hérité de sa famille. Malgré son travail, pour une jeune fille orpheline, le choix du couvent semble presque inévitable. Ainsi, en 1666, elle entre au couvent franciscain de Santa Croce à Venise, où elle restera jusqu’à la fin de sa vie. À partir de ce moment, Elisabetta Piccini devient sœur Isabella, mais son activité artistique ne change pas. Les rythmes de la vie monastique lui permettent de maintenir et d’alimenter sa passion tout en continuant à fournir les éditeurs vénitiens. Elle collabore avec Bartoli à Venise, avec la Tipografia del Seminario à Padoue, avec Gromi à Brescia, et avec Remondini à Bassano ; ce sont d’ailleurs les lieux où le souvenir de sœur Isabella reste le plus vivant. Ses affaires prospèrent, lui permettant de contribuer aux dépenses du monastère. À l’âge de soixante-quatorze ans, elle est nommée vicaire du couvent, un poste qu’elle occupera pendant six ans. Parallèlement, elle aide financièrement sa sœur Francesca, qui la rejoint en prenant les vœux en 1673, avant de les rompre onze ans plus tard pour se marier.

La majeure partie de l’œuvre de la graveuse consiste en des illustrations de textes sacrés, de missels, de livres de prières, de biographies de saints et saintes, de bréviaires, et d’illustrations de manuels. Elle travaille seule, sans aucune aide – le seul soutien qu’elle acceptera dans ses dernières années sera celui de sœur Angela Baroni – et de manière incessante, gagnant la confiance de clients qui lui fournissent les plaques de cuivre sur lesquelles elle grave au burin. La technique du burin est une méthode de gravure sur des surfaces métalliques comme le cuivre, le laiton ou l’acier. Elle tire son nom de l’outil à pointe métallique aiguisée utilisé pour graver des lignes sur la surface de la plaque. L’artiste utilise cet outil pour tracer des lignes fines et précises, qui peuvent être employées pour créer des détails ou des nuances dans les œuvres d’art. La pression et l’angle d’utilisation déterminent la largeur et la profondeur des lignes gravées. Revenant à notre histoire, la relation professionnelle la plus nourrie sera celle avec la famille Remondini, avec laquelle elle entretiendra également une longue correspondance dont quelques traces ont été conservées. C’est surtout à travers ces lettres que se révèle le côté entrepreneurial de la religieuse, toujours prête à défendre son travail et à réclamer les paiements qui lui sont dus. C’est ainsi qu’elle accumulera un grand nombre de créations. En analysant les livres publiés entre la seconde moitié du XVIIe siècle et les premières décennies du XVIIIe siècle, il n’est pas rare de trouver la signature de Piccini, en particulier dans les textes liturgiques.

Bien sûr, de nombreuses œuvres n’ont pas été conservées, mais nous savons qu’elle a également réalisé des feuilles volantes et des livres d’histoire. Il est important de préciser que toutes les gravures ne sont pas directement d’elle : nombre d’entre elles proviennent d’artistes, hommes et femmes, plus ou moins célèbres, qui enrichissaient les collaborations entre le monde de l’édition et celui de la peinture. Il ne faut pas oublier que Piccini est une graveuse, donc une artisane, lorsqu’on regarde ses créations qui laissent transparaître une certaine naïveté formelle. Cela constitue en réalité un aspect enrichissant de son œuvre, qui devient la trace de la rencontre entre diverses compétences, savoirs, expériences et techniques. Un autre point fort de la religieuse est le portrait, très demandé par le peuple vénitien. Parmi ceux qui ont été conservés, on trouve des portraits de souverains comme Charles II ou le Doge Marcantonio Giustinian, mais aussi de la duchesse Aurelia Spinola, où ses indéniables capacités ressortent clairement.

Giovanni Antonio Lazzari et Isabella Piccini, portrait de Charles II d'Espagne dans Historie cronologiche della vera origine di tutti gl'ordini equestri de Bernardo Giustiniani, Venise, chez Combi, & LaNoù, 1672 Martial Desbois et Isabella Piccini, portrait de Marcantonio Giustinian dans Historia veneta d'Alessandro Maria Vianoli, Venise, chez Giovanni Giacomo Hertz, 1680.

Il est intéressant de noter que, malgré la fixité imposée par la vie monastique, sa carrière peut être comparée à celle d’autres figures artistiques ou éditoriales qui avaient la possibilité de se déplacer de ville en ville à la recherche de nouveaux clients. Il est également essentiel de souligner qu’Elisabetta Piccini opère dans un domaine essentiellement masculin, s’y insérant pourtant avec un grand succès dans le contexte vénitien. Avec une clarté d’intention remarquable, une forte dévotion, de la constance, de la persévérance, de la passion et de la détermination, elle parvient non seulement à s’émanciper de son nom de famille en développant de nouveaux styles, mais aussi à être fièrement autonome et indépendante tout au long de sa vie. Sœur Isabella meurt le 29 avril 1734, à l’âge de 90 ans, après une longue et artistique existence.


Traduzione spagnola

Ramona Carobene

 

Elisabetta Piccini, conocida como la hermana Isabella Piccini, fue una grabadora cuya memoria ha sido descuidada durante mucho tiempo, aunque es una historia que ciertamente vale la pena contar. Con una larga vida, pasada la mayor parte del tiempo entre las paredes de un convento, se la recuerda por sus obras, pero también por el espíritu emprendedor que la animará hasta el final de sus días. Nace en 1644 en Venecia y desde el primer momento se sumerge en el arte del grabado: su padre Giacomo Piccini, un calcógrafo de origen paduano que llegó a la laguna cuando era joven, activo sobre todo como autor de grabados para librerías junto con su hermano Guillermo, reproduce pinturas famosas de Rubens y Tiziano sobre cobre, además de realizar trabajos como ilustrador para impresores y editores. La joven crece pues entre cobre, tinta, buriles, libros ilustrados y herramientas de trabajo, aprendiendo muy pronto el oficio y empezando a grabar la placa en profundidad. Esto le permite ‘tirar’ –como sugiere el lenguaje técnico– un gran número de impresiones, para las cuales siempre encuentra mucha demanda. Es un período próspero para el ámbito de trabajo de la familia: hay un crecimiento del mercado editorial, a pesar de las continuas crisis y recuperaciones económicas de la ciudad de Venecia. A pesar de las guerras terrestres y marítimas, la peste y la hostilidad con el pueblo otomano, la ciudad de la laguna sigue siendo un centro poblado y lleno de actividades artesanales y productivas; la ilustración de los libros, destinada a explotar en el siglo XVIII, se hace camino ya en el siglo XVII, dando un impulso de renovación al mundo editorial de la ciudad.

   
Isabella Piccini - Frontispicio de Fatinellus de Fatinellis (1627–1719) - Vida de la beata Zita virgen lucense, 1688. Símbolos predicables extraídos de los Santos Evangelios.

Durante la adolescencia, Elisabetta pierde a su padre, muerto con poco más de cuarenta años, y se encuentra sola para administrar los negocios: en 1663 presenta una solicitud al Dogo de Venecia para que le conceda la exclusividad de un grabado, exclusiva que obtiene –es el documento más antiguo sobre Elisabetta Piccini del que disponemos, y merece ser recogido:

«Serenísimo Príncipe, entre las angustias en que la muerte de mi Padre me dejó, yo Isabella hija, del señor Giacomo Piccini, humilde sierva de Su Serenísima, he aplicado el alma a procurar no ser distinta de él, que dejó una fama extraordinaria de sus propias operaciones. Pero en los tres años que siguieron a su muerte, he inventado algunos dibujos sobre el fin del hombre que mal se gobierna, y tallados con las instrucciones que había aprendido de mi Padre en vida, quisiera exponerlos al Mundo con impresiones públicas, si la suma benignidad de Su Excelencia me concediera el habitual Privilegio para que no puedan ser impresos por otros, a fín de poder no solo recibir un poco de alivio, sino también reavivar la excelente memoria paterna. Humildemente postrada para esta gracia suplico la infinita caridad pública, segura de que nunca cesarán mis oraciones a la Divina bondad para la exaltación mayor de Su Serenidad. Gracias».

Son palabras significativas y representativas de la figura de una mujer que le confía al Dogo el sueño de hacer del arte del grabado su vida. Nace en un primer momento la asociación con el hermano Pietro, con quien pone en práctica las enseñanzas del padre, de hecho firman algunas obras con la inscripción «Li figlioli del Piccini» (los hijos de Piccini). Sin embargo, la carrera de Pietro Piccini no durará tanto como la de su hermana, que pronto comenzará a firmar las obras por sí misma y se separará gradualmente del estilo adquirido mediante la familia. A pesar del trabajo iniciado, para una muchacha que se quedó huérfana la elección del convento parece casi obligada, así que en 1666 entra en el convento franciscano de Santa Croce en Venecia, del que nunca saldrá. A partir de ese momento Elisabetta Piccini se convierte en ‘la hermana Isabella’, pero no cambia su actividad. Los ritmos de monja le permiten mantener y alimentar su pasión y continuar abasteciendo a los editores venecianos. Colabora con Bartoli en Venecia, con la Tipografía del Seminario de Padua, con Gromi en Brescia, con Remondini en Bassano; son estos los lugares donde el recuerdo de la hermana Isabella es más vivo. Los negocios van bien, por lo tanto consigue contribuir a los gastos de mantenimiento del monasterio y a la edad de setenta y cuatro años la nombran Vicaria del convento, cargo que ocupa durante seis años. Mientras tanto ayuda económicamente a su hermana Francesca, que la alcanzará tomando los votos en 1673, para luego disolverlos once años después yendo al encuentro del matrimonio.

La parte más consistente del trabajo de la grabadora está compuesta por ilustraciones de textos sagrados, misales, libros de oraciones, biografías de santos y santas, breviarios, ilustraciones de manuales. Trabaja sola, sin ayuda –el único apoyo que aceptará en los últimos años será el de la hermana Angela Baroni– e incesantemente, ganándose la confianza de clientes capaces de ofrecerle las planchas de cobre sobre las cuales hará sus grabados. La técnica del buril es una técnica de grabado en superficies metálicas como cobre, latón o acero; toma su nombre del instrumento de punta metálica afilada utilizado para grabar líneas en la superficie de la placa. El artista lo utiliza para trazar líneas finas de precisión, que se pueden utilizar para crear detalles o matices en las obras de arte. La presión y el ángulo de uso del instrumento determinan el ancho y la profundidad de las líneas grabadas. Volviendo a nuestra historia, la relación profesional más nutrida será con la familia Remondini, con la cual mantendrá también una larga correspondencia de la que se han conservado algunos rastros. De estas cartas emerge sobre todo el lado emprendedor de la monja, siempre dispuesta a hacer valer su trabajo y reclamar los pagos debidos. Así es como acumulará un gran número de grabados, tanto que, analizando los libros publicados entre la segunda mitad del siglo XVII y las primeras décadas del siglo XVIII, no será inusual encontrar la firma de Piccini, en particular en los textos litúrgicos.

Muchas obras, por supuesto, no se han conservado, pero también sabemos de la presencia de hojas sueltas o de libros de historia. Es bueno precisar que no todos los dibujos grabados fueron hechos por sor Isabella, muchos pertenecen a artistas más o menos famosos que alimentaban provechosamente la colaboración entre el mundo editorial y el mundo pictórico. No hay que olvidar que Piccini es una grabadora, y por tanto una artesana, cuando se observan sus creaciones que dejan traslucir cierta ingenuidad formal. Este es en realidad un aspecto que enriquece su obra, que se convierte en rastro del encuentro entre diferentes habilidades, conocimientos, experiencias y técnicas. Otro caballo de batalla de la monja son los retratos, muy solicitados por la población veneciana y de los cuales se conservan aquellos dedicados a algunos soberanos, como Carlos II, o el dogo Marcantonio Giustinian; sus habilidades indiscutibles destacan en los retratos de la duquesa Aurelia Spinola.

Giovanni Antonio Lazzari e Isabella Piccini, retrato de Carlos II de España en Historia cronológica de la verdadera origen de todos los órdenes ecuestres de Bernardo Giustiniani, Venecia, en Combi & LaNoù, 1672. Martial Desbois e Isabella Piccini, retrato de Marcantonio Giustiniano en Historia veneta de Alessandro Maria Vianoli, Venecia, en Giovanni Giacomo Hertz, 1680.

Es muy interesante observar que, a pesar de la fisonomía requerida por la vida monástica, su carrera es comparable a la de otras figuras artísticas o editoriales que tenían la posibilidad de moverse de ciudad en ciudad en busca de nuevos clientes. Parece necesario detenerse un momento también en el hecho de que Elisabetta Piccini opera en un sector puramente masculino, pero se introduce igualmente en las vicisitudes venecianas con enorme éxito. Con una notable claridad de propósitos y una fuerte dedicación, con constancia y perseverancia, con pasión y determinación, no solo logra emanciparse de su apellido, construyendo nuevos estilos, sino también ser orgullosamente autónoma e independiente para toda la vida. La hermana Isabel muere el 29 de abril de 1734, a los noventa años y después de una larga y artística existencia.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

Elisabetta Piccini, known as Sister Isabella Piccini, was an engraver whose memory has long been neglected, although her story is certainly worth telling. With a long life, spent mostly within the walls of a convent, she is remembered, yes, for her works, but also for the entrepreneurial spirit that animated her until the end of her days. She was born in 1644 in Venice, and from the very beginning she was immersed in the art of engraving. Her father Giacomo Piccini, a chalcographer (engraver of copper or other metals) of Paduan origin, who had arrived in the lagoon as a young man and was active above all as an author of material destined for books, was involved with his brother Guglielmo in reproducing famous paintings by Rubens and Titian on copper, as well as carrying out the work of illustrator on behalf of printers and publishers. The young woman thus grew up among copper, ink, engraving tools and illustrated books, soon learning the trade and beginning to engrave deep into the plate. This allows her to "pull"-as the technical language suggests-a large number of prints, for which she always encountered much demand. It was a prosperous period for the family's sphere of work. There was a growth in the publishing market, even considering the continuous economic crises and recoveries in the city of Venice. Despite wars of land and sea, the plague and hostility with the Ottomans, the lagoon city remained a populous center filled with craft and productive activities. Book illustration, destined to explode in the eighteenth century, made its way as early as the seventeenth century, giving a significant impetus to the city's publishing industry.

   
Isabella Piccini - Frontispiece of Fatinellus de Fatinellis (1627–1719) - Vita beatae Zitae virginis Lucensi, 1688. Preachable symbols extracted from the Sacri Evangeli.

In her teens Elisabetta lost her father, who died when he was just over forty, and found herself alone in running the business. In 1663 she applied to the Doge of Venice for authorization for exclusivity on a printing press, and obtained it - this is the oldest document concerning Elisabetta Piccini that we have, and it deserves to be reported:

«Most Serene Prince, amidst the distress in which the death of the my Father left me, Isabella daughter of Giacomo Piccini, most humble servant of V. Ser.tà, I have applied my mind to procuring to succeed not unlike him who experienced not ordinary fame from his own creations. In the course of the three years that have followed his death itself, however, I have invented some sketches signifying the end of the man who governs himself badly, and carved them with the instructions that while Father was living I had learned, I should like to expose them to the world by public printing, when by the supreme benevolence of Your Eminence V.E. I am granted the usual privilege that they may not be printed by others, so that I may not only receive some relief, but also revive the excellent paternal memory. For this grace humbly prostrate, I beseech the infinite public charity, certain that they will never cease my prayers to the Divine goodness for the greater exaltatione of Your Serenity. Thank you»..

Most Serene Prince, amidst the distress in which the death of the my Father left me, Isabella daughter of Giacomo Piccini, most humble servant of V. Ser.tà, I have applied my mind to procuring to succeed not unlike him who experienced not ordinary fame from his own creations. In the course of the three years that have followed his death itself, however, I have invented some sketches signifying the end of the man who governs himself badly, and carved them with the instructions that while Father was living I had learned, I should like to expose them to the world by public printing, when by the supreme benevolence of Your Eminence V.E. I am granted the usual privilege that they may not be printed by others, so that I may not only receive some relief, but also revive the excellent paternal memory. For this grace humbly prostrate, I beseech the infinite public charity, certain that they will never cease my prayers to the Divine goodness for the greater exaltatione of Your Serenity. Thank you.

These words are significant and representative of the figure of a woman who entrusts the Doge with the dream of making the art of engraving her life. An association with her brother Pietro was born at first, with whom she put her father's teachings into practice. They signed some works with the words "Li figlioli del Piccini" (the children of Piccini). Pietro Piccini's career, however, did not last as long as that of his sister, who soon began to sign works independently and gradually detach herself from the style acquired through the family. Despite the work she started, for a girl who was orphaned the choice of the convent seemed almost obligatory, so in 1666 she entered the Franciscan convent of Santa Croce in Venice, which she would never leave. From this time on Elisabetta Piccini became Sister Isabella, but her activities did not change. Nun-like rhythms allowed her to maintain and nurture her passion and continue to supply Venetian publishers. She collaborated with Bartoli in Venice, with the Tipografia del Seminario in Padua, Gromi in Brescia, and Remondini in Bassano. Indeed, these are the places where Sister Isabella's memory is most vivid. Business was good, so she managed to contribute to the costs of maintaining the monastery, and at the age of seventy-four she was appointed vicar of the convent, holding the post for six years. In the meantime she helped her sister Frances financially, who would join her by taking vows in 1673, only to dissolve them eleven years later on her way to marriage.

The bulk of the engraver's work consists of illustrations of sacred texts, missals, prayer books, biographies of saints and holy men, breviaries, and illustrations of manuals. She worked alone, without help - the only support she would accept, in her later years, would be that of Sister Angela Baroni - and unceasingly, gaining the trust of clients who could offer her the copper plates on which she would engrave by burin. The burin technique is an engraving technique on metal surfaces such as copper, brass or steel. It takes its name from the sharp metal-tipped tool used to etch lines on the surface of the plate. The artist uses it to draw fine precision lines, which can be used to create details or shading in works of art. The pressure and angle at which the tool is used determine the width and depth of the engraved lines. Returning to our story, her most nurturing professional relationship was with the Remondini family, with whom she would also have a long correspondence of which some traces have been preserved. It is especially from these letters that the entrepreneurial side of the nun emerges, always ready to assert her work and claim payments due. This was how she accumulated a large number of artifacts, so much so that, analyzing the books published between the second half of the seventeenth century and the first decades of the eighteenth century, it is not be unusual to find Piccini's signature, particularly in liturgical texts.

Many works, of course, have not been preserved, but we know of the presence of loose sheets and history books as well. It is good to point out that not all of the engraved drawings were done by Sister Isabella herself, many, in fact, belong to more or less famous artists who profitably nurtured the collaboration between the publishing and painting worlds. It should not be forgotten that Piccini is an engraver, and therefore a craftswoman, when one looks at her creations, which hint at a certain formal naiveté. This is actually an aspect that enriches the work, which becomes a trace of the encounter between different skills, knowledge, experience and techniques. Another workhorse of the nun's are the portraits, which were in great demand among the Venetian people and of which those dedicated to some sovereigns such as Charles II or Doge Marcantonio Giustinian are preserved. Her undeniable skills emerge clearly in the portraits of Duchess Aurelia Spinola.

Giovanni Antonio Lazzari and Isabella Piccini, portrait of Charles II of Spain in Historie cronologiche della vera origine di tutti gl'ordini equestri by Bernardo Giustiniani, Venice, published by Combi, & LaNoù, 1672. Martial Desbois and Isabella Piccini, portrait of Marcantonio Giustinian in Historia veneta by Alessandro Maria Vianoli, Venice, published by Giovanni Giacomo Hertz, 1680.

It is very interesting to note how, despite the fixity required by the monastic life, her career is comparable to that of other artistic or editorial figures who had the ability to move in search of new clients from city to city. It seems necessary to also dwell for a moment on the fact that Elisabetta Piccini operated in a purely male sector, inserting herself equally into Venetian affairs with enormous success. With remarkable clarity of purpose and strong dedication, with constancy and perseverance, with passion and determination, she managed not only to emancipate herself from her surname, building new styles, but also to be proudly autonomous and independent throughout her life. Sister Isabella died on April 29, 1734, at the age of ninety and after a long and artistic existence.

 

Sottocategorie

 

 

 Wikimedia Italia - Toponomastica femminile

    Logo Tf wkpd

 

CONVENZIONE TRA

Toponomastica femminile, e WIKIMEDIA Italia