SANTA CATERINA DA SIENA

La prima donna a essere proclamata Dottore della Chiesa

Siena 1347 -  Roma 1380

Nel 1970 papa Paolo VI proclamò Dottori della Chiesa le prime due donne: Santa Teresa d'Avila e Santa Caterina da Siena, un titolo tutto al maschile attribuito a partire dal XIII secolo ai padri della chiesa san Gregorio Magno, sant'Ambrogio, san Girolamo e sant'Agostino, autori di speculazioni teologiche fondamentali per la dottrina cattolica.
Forse non è solo una coincidenza che il riconoscimento sia arrivato diversi secoli dopo la morte, quando ormai nel parallelo mondo laico occidentale le donne avevano accesso all'istruzione e a cariche e professioni maschili, superando l'etichetta di essere subalterno.
L'esperienza mistica di santa Caterina, come racconta il suo biografo e confessore Raimondo da Capua, si sviluppò precocemente in un quotidiano fatto di digiuni, preghiere e penitenza quando ancora viveva nella casa natale senese con la sua numerosissima famiglia. Caterina si tagliò i capelli e fece voto di verginità quando era poco più che una bambina, diremmo oggi, opponendosi al matrimonio organizzatole dai genitori. In diverse occasioni furono degli eventi prodigiosi a spianarle la strada e piegare la volontà di chi la circondava, come l'apparizione di una colomba sulla sua testa che fece sfumare definitivamente il programma del padre di vederla andare in sposa. Fu così che a sedici anni, invece dell'abito bianco, indossò quello nero delle Mantellate domenicane, una scelta controcorrente poiché si trattava di un ordine di vedove e donne anziane che, dopo un primo rifiuto, si arresero alla sua giovinezza e alla sua determinazione. Con le consorelle si dedicò all’assistenza delle persone inferme e indigenti e l’esempio fu imitato da un gruppo di donne e uomini, la cosiddetta Bella Brigata, che la seguiva devotamente nell'impegno sociale e assisteva alle sue estasi mistiche.
Pur avendo appreso tardi a leggere e scrivere, dopo essere entrata a contatto con l'ambiente domenicano, il suo pensiero trovò espressione soprattutto in una fitta corrispondenza epistolare con i papi Gregorio XI e Urbano VI oltre a varie autorità laiche come i Visconti: ci è stato tramandato un corpus di circa 380 lettere scritte, o per lo più dettate ai suoi seguaci, testimonianza dell'impegno politico condotto in nome di Dio. Oltre a dissertare di problemi di ordine religioso e morale, con forte trasporto spirituale, Caterina scriveva per chiedere la pace in un'Italia dilaniata da lotte interne, ma soprattutto invocava il ritorno a Roma del Papa dalla sede avignonese. Tutto quel coraggio nel parlare al potere, così insolito per una donna, stupì i Domenicani che vollero interrogarla e le assegnarono il confessore Raimondo da Capua come guida spirituale.
Nel 1376 Caterina si recò personalmente in Francia con lo scopo di incontrare il pontefice per negoziare la pace con la Repubblica di Firenze, interdetta a causa della politica antipapale, ma anche a far propaganda per un'ennesima crociata in Terra Santa, cercando di convincerlo a rientrare in Italia. Nonostante il quasi completo fallimento della missione diplomatica, tre mesi dopo il papa vinse le incertezze e lasciò la corte avignonese per tornare a Roma. La situazione politica si complicò ulteriormente e Caterina trascorse gli ultimi anni della sua breve vita in uno dei periodi più bui della Chiesa Cattolica. La sua ultima fatica fu, infatti, battersi a favore del nuovo successore di Pietro, Urbano VI, contro il quale venne eletto nel 1378 l’antipapa Clemente VII: iniziava lo Scisma d'Occidente.
Caterina morì a soli trentatré anni nel 1380 e fu canonizzata da Pio II nel 1460.
Oltre alle numerose lettere della santa, ci sono pervenuti i testi delle preghiere recitate durante il trasporto estatico e il Dialogo della Divina Provvidenza, entrambi dettati ai discepoli, ma solo la seconda opera pare sia stata concepita con l'intento di rivolgersi a un pubblico ampio e rappresenta la summa dei suoi ammaestramenti spirituali.

Saveria Rito

Fonti: 
Eugenio Dupré Theseider, Caterina da Siena, santa, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. XXII, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1979.
Claudio Leonardi, Caterina la mistica, in Medioevo al femminile, a cura di Ferruccio Bertini, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 171-195

 

 

 

 

 

 


ELENA LUZZATTO

La prima architetta italiana

Ancona 30.10.1900 – Roma 1983

Non risulta alcuna area di circolazione dedicata alla prima architetta italiana, né ad Ancona, città natale, né a Bracciano, Taormina, Napoli, dove lasciò tracce visibili del suo ingegno, né a Roma, città di studio e di lavoro, dove concluse la sua vita.


Elena Luzzatto è stata la prima donna in Italia a laurearsi in architettura: si era iscritta nel 1921 alla Regia Scuola Superiore di Architettura di Roma, l’anno stesso in cui l’Istituto iniziò la sua attività, e ottenne il diploma nel 1925. La donna “angelo del focolare” cominciò così a dimostrare che il focolare sapeva anche costruirlo, smentendo l’affermazione che Mussolini ebbe a fare in un discorso del 1927: «La donna è estranea all’architettura, che è sintesi di tutte le arti; essa è analitica, non sintetica. Ha forse mai fatto l’architettura in tutti questi secoli? Le si dica di costruirmi una capanna non dico un tempio! Non lo può». 
Non meraviglia la posizione antifemminista del duce e conosciamo la sua disistima sulla capacità della donna di sentirsi autonoma e realizzata al di fuori delle mura domestiche. Per lungo tempo la professione dell’architetto è stata appannaggio maschile: si riteneva poco adatta a una donna, costretta a cimentarsi con le varie fasi della progettazione e a seguire la messa in opera nei cantieri.
Ma, intanto, diverse donne diventavano architette: le romane Anna Luzzatto, detta Annarella, madre di Elena, laureatasi due anni dopo la figlia, e Attilia Travaglio Vaglieri, progettista di palazzi, impianti sportivi e ricreativi in puro stile littorio, vincitrice di un concorso Internazionale ad Alessandria d’Egitto che non poté ritirare il premio in ossequio alle leggi musulmane che lo vietavano ad una donna; arredatrici di interni come Luisa Lovarini ed Elvira Luigia Morassi, fautrici di uno stile sobrio e funzionale; Carla Maria Bassi, autrice della Cassa di Risparmio di Milano; napoletana Stefania Filo, napoletana, che progettò giardini pubblici e sanatori e partecipò alla realizzazione della Mostra delle Terre Italiane d'Oltremare a Napoli voluta da Benito Mussolini. Queste sono solo alcune tra le architette, o “architettrici” come allora venivano chiamate, più attive negli anni Venti del Novecento. Non ebbero vita facile, l’architettura “rosa” veniva accusata di essere timida, troppo attenta agli spazi familiari; in realtà fu un’architettura dalle linee semplici e pulite, funzionale, razionale e sensibile alla luce, apprezzabile per le soluzioni tecniche adottate e per la chiarezza delle concezioni planimetriche.

Appena laureata Elena Luzzatto entrò nell’Ufficio Tecnico del Comune di Roma e fino al 1934 fu assistente alla cattedra del prof. Fasolo. Partecipò e vinse numerosi concorsi; già nel 1928 progettò un villino a Ostia per il gerarca fascista Giuseppe Bottai e sempre a Ostia vinse un concorso per un gruppo di villini, in seguito non realizzati. 
Oltre all’edilizia residenziale di villini, palazzine e case popolari, progettò numerose opere pubbliche e vinse concorsi per progetti di tipologie assai diverse: dalle steli funerarie nel cimitero Verano di Roma alle stazioni, dai fabbricati rurali coloniali in Somalia a sanatori e ospedali, come quelli di Viterbo e Bolzano, dalle chiese alle scuole, dai cimiteri militari e civili ai negozi e mercati. Tra le opere pubbliche realizzate ricordiamo il Cimitero di Prima Porta (1945), il mercato di Primavalle (1950) e la scuola media di Villa Chigi (1960) a Roma, e l’attuale mercato coperto di Piazza Alessandria a Napoli, ancora in uso. 
Nel dopoguerra fu a capo dell’equipe di progettazione delle case popolari per l'Istituto Ina-Casa nell' Italia meridionale.

Livia Capasso

Fonti: 
Katrin Cosseta, Ragione e sentimento dell'abitareLa casa e l'architettura nel pensiero femminile tra le due guerre, Architecture, 2000
www.architettiroma.it

 

 

 

 


 

EVA MAMELI CALVINO

La prima donna docente di Botanica

 Sassari 12.2.1886 – Sanremo 31.3.1978

A Eva Mameli non risulta intitolata alcuna via. È stato dato il suo nome a un Istituto Tecnico Commerciale di Cagliari.

Eva Mameli, all’anagrafe Giuliana Luigia Evelina Mameli, nacque a Sassari il 12 febbraio 1886 da Giovanni Battista, colonnello dei carabinieri, e Maddalena Cubeddu. 
Quando il padre andò in pensione la famiglia si trasferì a Cagliari, dove Eva frequentò il liceo statale e poi l'Università, laureandosi in matematica già nel 1905 a soli 19 anni. Successivamente si trasferì a Pavia e si iscrisse al corso di laurea in scienze naturali, laureandosi nel 1907. Nell'anno accademico 1911-12, con l'incarico di assistente di botanica, poté dedicarsi agli studi di fisiologia e patologia vegetale che nel 1915 le avrebbero permesso di conseguire, prima donna in Italia, la libera docenza in botanica a soli 29 anni.
Pur continuando gli studi scientifici, sebbene a ritmo ridotto, durante la Prima guerra mondiale Eva si dedicò alla cura dei soldati feriti e dei malati di tifo ricoverati all'ospedale Ghislieri, impegno che le valse una medaglia d'argento della Croce Rossa e di una di bronzo del Ministero dell'Interno. Nel 1919 ottenne il premio per le scienze naturali dell'Accademia nazionale dei Lincei.
La sua fama giunse fino a Cuba dove Mario Calvino, eminente agronomo sanremese, dirigeva la Stazione sperimentale agronomica di Santiago de lasVegas. Tenutosi sempre in contatto con la Società botanica italiana, egli conosceva i lavori di Eva Mameli e, dovendo inserire nel gruppo di lavoro un botanico esperto di genetica per condurre le ricerche sulle piante tropicali, scelse proprio Eva. 
I due si innamorarono, si sposarono e a Cuba iniziarono subito le nuove ricerche. Dopo tre anni la coppia ebbe il primo figlio, Italo Giovanni, che sarebbe diventato uno fra i maggiori scrittori italiani del XX secolo. Oltre alle iniziative scientifiche, sull’isola caraibica i coniugi avviarono anche iniziative sociali.
Nel 1925 rientrarono in Italia, stabilendosi a Sanremo, e portarono per la prima volta nel nostro Paese alcuni tipi di piante tra le quali palme, pompelmi e kiwi.
L'anno successivo Eva Mameli vinse il concorso per la cattedra di botanica a Cagliari, che mantenne, dal 1926 al 1928 insieme con la direzione dell'orto botanico: due posizioni accademiche di prestigio che nessuna donna aveva fino ad allora ottenuto. La nascita del secondogenito Floriano la costrinse però a lasciare gli incarichi accademici.
Da allora, a Sanremo, Eva si dedicò al laboratorio e alla Stazione sperimentale di floricoltura organizzata dal marito; diresse con lui due riviste tecniche, si impegnò nella redazione de periodico Il Giardino fiorito, da loro fondato nel 1931; collaborò con l'Enciclopedia Italiana e con l'Enciclopedia dell'agricoltura. A tali attività aggiunse anche un impegno protezionista.
Eva Mameli, la cui figura è stata spesso celata dalle ingombranti personalità del marito e del primogenito, svolse un ruolo fondamentale nello sviluppo della floricoltura ligure, divenendo una personalità di rilievo nella ricerca scientifica botanica del Novecento. I suoi studi spaziarono tra numerosi filoni di ricerca di base e applicata: crittogamologia, fisiologia, genetica vegetale, fitopatologia e floricoltura, concretizzandosi in più di 200 pubblicazioni. Rilevante fu anche il suo impegno di divulgatrice.
Durante il periodo della Repubblica di Salò, la famiglia Calvino diede ospitalità ai più autorevoli antifascisti sanremesi nella propria casa, dove si preparò il piano per liberare alcuni prigionieri politici dei tedeschi.
I figli Italo e Floriano, renitenti alla leva dell'esercito di Salò, parteciparono alla Resistenza con i nomi di "Partigiano Santiago" e "Partigiano Floriano". La reazione fu immediata e spietata: Mario ed Eva, arrestati perché fornissero informazioni sul nascondiglio dei figli, subirono entrambi false fucilazioni. Il marito, sconvolto dalla notizia della falsa fucilazione della moglie, ne restò segnato per il resto della vita.
Il 25 ottobre 1951 Calvino morì ed Eva prese il suo posto alla direzione della Stazione sperimentale, che lasciò solo nel 1959 per raggiunti limiti d'età. In ricordo del marito scrisse una biografia, Mario Calvino 1875-1951, in cui riportò le tappe operative e le scelte ideologiche del loro sodalizio umano e scientifico: la comune visione laica del mondo, le scelte morali e la visione sociale. 
Dedicò gli ultimi anni di vita a registrare, ordinare e riscrivere tutto il materiale raccolto nei lunghi anni di intensa attività di studio e di sperimentazione in campo botanico, agronomico e floricolo.
Morì a Sanremo il 31 marzo 1978.
Il "Fondo Mario Calvino ed Eva Mameli Calvino", costituito da circa 12.000 pubblicazioni tra cui libri, riviste, opuscoli, estratti, documenti e numerosissime fotografie, fu donato da Italo e Floriano, alla morte della madre, alla Biblioteca civica di Sanremo.
Il figlio Italo così scrisse della madre: «Che la vita fosse anche spreco, questo mia madre non l’ammetteva: cioè che fosse anche passione. Perciò non usciva mai dal suo giardino etichettato pianta per pianta, dalla casa tappezzata di bouganvillea, dallo studio col microscopio sotto la campana di vetro e gli erbari.  Senza incertezze, ordinata, trasformava le passioni in dovere e ne viveva».
In occasione dei 25 anni dalla morte dello scrittore Italo Calvino, nel 2010, è uscita la prima monografia italiana di Eva Mameli, da cui si evince come all’inizio del Novecento rarissime sono state le figure di donne italiane che si sono dedicate con tanta assiduità alla causa della ricerca e della divulgazione scientifica. Eva fu «tessitrice di competenze attraverso gli oceani e scienziata rigorosa quanto attenta agli aspetti sociali del proprio lavoro».

Annarita Alescio

Fonti
http://www.treccani.it/enciclopedia/giuliana-eva-mameli_(Dizionario-Biografico)
http://www.iodonna.it/personaggi/interviste/2012/vite-straordinarie-eva-mameli-calvino-40801124911.shtml 
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/eva-mameli-calvino/“Noi donne” Dicembre 2010 pag. 34

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

MARGHERITA DI SAVOIA

La prima regina d'Italia

Torino 20.11.1851 – Bordighera 4.1.1926

 

In Italia sono innumerevoli le vie, le piazze, i corsi, i viali, le ville e i parchi intitolati a lei; hanno il suo nome anche molte scuole, ospedali e teatri. È in assoluto la donna che ha più intitolazioni e dediche di ogni genere nel nostro Paese.

 

Margherita Maria Teresa Giovanna di Savoia nacque a Torino il 20 novembre 1851 dal duca di Genova (fratello di Vittorio Emanuele II) e da Maria Elisabetta di Sassonia.

Bionda e non particolarmente bella, anche se dotata di una personalità affascinante e di un carattere volitivo, ebbe una educazione vasta ma superficiale, tanto che per tutta la vita la sua corrispondenza fu costellata da errori ortografici e sintattici. Profondamente cattolica, uniformò sempre le sue scelte alla fede, anche quando il Regno d’Italia entrò in conflitto con il Papa dopo la presa di Roma nel 1870.

Nel 1868 sposò il cugino Umberto, principe ereditario di casa Savoia. Dopo un trionfale viaggio di nozze per tutta Italia, i futuri sovrani stabilirono la propria residenza a Napoli. Margherita non fu estranea alla scelta, più consapevole del marito della necessità di costruire nel Paese un’unità di sentimenti dopo il raggiungimento dell’unione politica. A Napoli venne alla luce l’unico figlio della coppia, il futuro Vittorio Emanuele III, al quale fu assegnato il titolo di principe di Napoli.
Per lei consolidare la simpatia popolare intorno alla casa regnante, anche restando al fianco di un marito che non l’amava, fu un imperativo categorico e il suo intuito politico fece scrivere a Indro Montanelli: «Era una vera e seria professionista del trono, e gl'italiani lo sentirono. Essi compresero che, anche se non avessero avuto un gran Re, avrebbero avuto una grande Regina».

Quando nel 1878 Vittorio Emanuele II morì, Umberto salì al trono e Margherita divenne così la prima regina d’Italia dato che il suocero - primo re dell'Italia unita - era vedovo.

Ebba grande influenza sulle scelte del marito anche se all’apparenza sembrava dedicarsi solo alle feste danzanti e ai ricevimenti: in realtà questo era il suo modo di fare politica, una vera e propria “missione dinastica” che contribuì in maniera determinante al radicamento e alla costruzione della dimensione nazionale della casa regnante.

Durante la vita si dedicò con grande impegno alle attività filantropiche e alla promozione delle arti e della cultura: per esempio introdusse la musica da camera in Italia, seguì con attenzione la fondazione e l’attività concertistica del Quintetto d’archi di Roma, agevolò con una borsa di studio la formazione del giovane Giacomo Puccini al Conservatorio di Milano; nel 1892, col suo patrocinio, nacque a Firenze la prima biblioteca per non vedenti.

Convinta sostenitrice dell’automobile, ne possedeva una ventina e su quattro ruote compì avventurosi raid e molti viaggi di stato. Fu anche un’appassionata alpinista.

L’abilità comunicativa di Margherita, la consapevolezza che per il destino di casa Savoia e il consolidamento del trono fosse fondamentale l’amore del popolo, la resero la migliore ambasciatrice della monarchia sabauda. I ricevimenti, le feste danzanti, la beneficenza, l’abbigliamento elegantissimo, la passione per le automobili e i viaggi, l’amicizia con il repubblicano Carducci (che le dedicò l’ode Alla regina d’Italia) nascosero agli occhi della popolazione italiana quello che era Margherita in realtà: una reazionaria e una conservatrice, una vera nazionalista, antisocialista e antiparlamentare, convinta sostenitrice di Crispi e della sua politica imperialista.
Nel 1900, dopo l’uccisione a Monza del re Umberto I, Margherita fu costretta a farsi da parte. Il nuovo sovrano, suo figlio Vittorio Emanuele III, aveva sposato Elena del Montenegro e Margherita dovette cedere a lei il ruolo principale e diventare regina madre. Fra Margherita ed Elena i rapporti non furono mai molto calorosi: se Margherita era una regina madre ingombrante Elena, soprannominata da molti “la pastora”, sembrava alla suocera una donna impacciata e goffa, non adatta alla corte italiana. Ma più che il cambio di ruolo, pesò su Margherita la consapevolezza che il regicidio aveva infranto per sempre l’idillio fra casa Savoia e l’Italia.
Dopo il periodo di lutto, si stabilì a Roma, nel palazzo Boncompagni
Ludovisi che da allora fu chiamato “Palazzo Margherita”. Riprese a occuparsi delle arti, di opere di beneficenza, di istituzioni culturali, continuando a essere polo di attrazione per intellettuali e artisti, nobili e uomini di mondo e cercando sempre di condizionare le scelte del figlio, di cui non condivideva le pur timide aperture liberali.
Alla vigilia della Grande Guerra, Margherita cercò di indurre Vittorio Emanuele III a mantenere gli accordi stipulati con la Triplice Alleanza. Dopo aver dichiarato inizialmente la neutralità, Vittorio Emanuele III decise però di entrare in guerra contro l’Austria e la Germania. Margherita, anche se contrariata, non poté far altro che trasformare la sua residenza romana in ospedale, dove anche la regina Elena prestò la propria opera come crocerossina.
Terminata la guerra, Margherita lasciò definitivamente Roma per ritirarsi a Bordighera dove morì il 4 gennaio 1926, non senza aver gioito per la presa del potere da parte di Mussolini e per i matrimoni prestigiosi delle nipoti Mafalda (con il principe tedesco Filippo d’Assia) e Giovanna (con il re Boris III di Bulgaria).                                                                                              
Ebbe onoranze funebri prima a Bordighera e poi a Roma, dove fu tumulata nelle tombe reali del Pantheon. In questa occasione si dimostrò tutto l'affetto popolare per Margherita: al passaggio del convoglio ferroviario una folla commossa rallentò il movimento del treno per potersi avvicinare e gettare fiori.
A riprova del mito che si creò attorno alla sua persona, e che lei stessa contribuì ad alimentare, rimangono a lei dedicati: la capanna Margherita, il rifugio costruito a ridosso della cima del Monte Rosa, la punta Margherita delle Grandes Jorassesnel massiccio del Monte Bianco, il comune di Margherita di Savoia (già Saline di Barletta), il lago Margherita in Etiopia, scoperto e a lei dedicato dall’esploratore Vittorio Bottego, la prima scuola pubblica dell’unità italiana fondata a Roma nel quartiere di Trastevere. Le sono state inoltre dedicate una rosa rara, un modello di macchina da cucire, la pizza Margherita, la torta Margherita,il Panforte Margherita a Siena e le Margheritine, i dolci tipici di Stresa. Durante la sua reggenza venne pubblicata persino una rivista con il suo nome, dedicata esclusivamente allo straordinario abbigliamento di sovrana e al suo personalissimo stile. L’Italia unita ha avuto solo tre regine: Margherita, Elena e Maria Josè. La più predisposta, la più adatta, la più “professionale” fu sicuramente Margherita.

 

Roberta Pinelli

 

Fonti: 
Claudia Bocca, I Savoia, Roma, Newton Compton, 2002
Carlo Casalegno, La regina Margherita, Bologna,Il Mulino, 2001
Laura Civinini, La regina di spade e la regina di cuori: Margherita di Savoia e Eugenia Litta, e Sandrino Schiffini, Il compito regale di Margherita, entrambi in Monza 29 luglio 1900. Il regicidio, dalla cronaca alla storia, a cura di Paolo Fiora, Milano, Spirali/Vel, 2000
Giovanni Gigliozzi, Le Regine d’Italia, Roma, Newton Compton,1997
Indro Montanelli, Storia d'Italia (1861-1919), Milano, Rizzoli, 2003
Onorato Roux, La prima regina d'Italia nella vita privata, nella vita del Paese, nelle arti e nelle lettere, Londra, Forgotten Books, 2013
http://www.museoauto.it/
http://www.weloooooveit.com/
http://www.treccani.it/enciclopedia/margherita-di-savoia-regina-d-italia/
http://www.ftvm.it/museo/storia
http://www.italiadonna.it/public/percorsi/biografie/f043.htm

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


MARIE PARADIS

La prima donna a raggiungere la vetta del Monte Bianco

Chamonix 1778 – 1839

 

A lei sono intitolate una strada di Chamonix e una scuola elementare di Sant-Gervais-les-Bains.

Fu la prima donna a raggiungere la cima del Monte Bianco il 14 luglio 1808.
Faceva la cameriera in una locanda di Chamonix quando accettò di seguire un gruppo di temerari, tra cui Jacques Balmat, che volevano scalare la montagna. Le guide volevano tentare questa impresa per ottenere un po' di pubblicità, Marie nella speranza di ottenere qualche mancia in più dai suoi clienti. Non pensava che sarebbe passata alla storia!
Non aveva alcuna esperienza alpinistica e non era abituata alla quota; durante la scalata, effettuata insieme al figlio Gédéon di quattordici anni, era stanca e stravolta, non riusciva a respirare, a parlare e iniziava a offuscarsi anche la sua vista. Lei stessa raccontò, molto ironicamente: «Sul Grand Plateu mi buttai a terra come le pollastre quando hanno troppo caldo e dissi che se non ce l’avessi fatta da sola a proseguire, che mi buttassero pure in un crepaccio […] Sono salita, mi è mancato il respiro, ho creduto di morire, sono stata trascinata, portata, ho visto un po' di bianco, un po' di nero e sono scesa». Nonostante tutto riuscì così a raggiungere la vetta. Dopo l'impresa tutti la chiamarono “Marie du Mont Blanc”. 
Ufficialmente la prima donna a scalare il Monte Bianco fu, trent’anni dopo, Henriette D’Angeville. Non si può ignorare però che, nella realtà, Marie Paradis fu la prima ad arrivare in vetta senza allenamento e senza attrezzatura idonea, aiutata unicamente dal gruppo di guide.  

Ester Rizzo

 

Fonti: 
Cristina Marrone,  La conquista femminile delle quote 150 anni di scalate in montagna, in“Corriere della Sera-La ventisettesima ora”
http://www.caisem.org/pdf/csc_2013/lo_sguardo_delle_donne-posani.pdf
http://www.angeloelli.it/alpinisti/file/Paradis%20Marie.html

 

 

 

 


 

GERTY THERESA RADNIZ CORI

La prima donna a vincere il Nobel per la medicina

Praga 15.8.1896 – Glendale (Usa) 26.10.1957

 

A Gerty Theresa Radnitz Cori sono dedicati un pezzettino di Luna e di Venere, i “Crateri di Cori”.

 

In segno di riconoscenza per aver messo a disposizione dell’umanità

il suo tempo,

la sua scintilla di genialità scientifica

e il suo amore per la conoscenza.

 

Prima donna al mondo, nel 1947 Gerty vinse il Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina avendo scoperto, in collaborazione con il marito Carl Cori, anch’egli medico, che esiste un rapporto strettissimo tra muscoli e fegato che collaborano in un ciclo, detto appunto “Ciclo di Cori”, per la riconversione dell’acido lattico in glucosio.

A sedici anni Gerty desiderava diventare medica. La famiglia la sostenne in tal senso, anche se viveva in un periodo difficile della storia, ancor più difficile per le donne, che le procurò molte delusioni ma non spense mai il suo desiderio di conoscenza.

Era nata a Praga nel 1896 da una famiglia ebrea. La madre, Martha, era una donna di grande cultura, amica di Franz Kafka. Il padre era un chimico ingegnoso che studiò un metodo efficace per raffinare lo zucchero: questa intuizione gli permise di diventare il proprietario di una grande fabbrica di zucchero.

A diciotto anni Gerty superò la prova di ammissione al corso di laurea in Medicina. Studiava con una passione travolgente e, durante gli studi, conobbe Carl, uomo brillante e ironico, che sarebbe diventato suo compagno di vita nonché di studi e di ricerca.

Una volta conseguita la laurea, Gerty e Carl si sposarono e si trasferirono in Austria, a Vienna.

La vita si fece molto difficile quando, subito dopo la Prima guerra mondiale, per la mancanza di viveri Gerty si ammalò di xeroftalmia, malattia che colpisce gli occhi dovuta alla carenza di vitamina A. Inoltre il diffondersi di un sempre più aggressivo sentimento antisemita spinse i coniugi a emigrare negli Stati Uniti, dove avrebbero lavorato come ricercatori.

La vita in America non fu facile poiché molte università rifiutavano di concedere spazi lavorativi a Gerty, mentre accoglievano Carl. Durante un colloquio le venne detto che il suo essere “non- americana” e la stretta collaborazione con il marito avrebbero«compromesso la carriera di Carl». Anche se scoraggiati, Gerty e Carl non si separarono mai e continuarono a cooperare e a confrontare i loro studi.

Le ricerche di Gerty e Carl dimostrarono che, se sottoposti a uno sforzo eccessivo, i muscoli demoliscono glucosio per produrre energia, ma nel farlo, vista la scarsa affluenza di ossigeno al tessuto, producono una sostanza, l’acido lattico, causa dell’irrigidimento doloroso del muscolo stesso. Attraverso il circolo sanguigno, però, l’organismo fa confluire l’acido lattico, prodotto dal muscolo, al fegato che a sua volta è in grado di riconvertirlo in glucosio. Nel 1929 Gerty e Carl proposero la teoria del “Ciclo di Cori” che, quasi venti anni più tardi, avrebbe valso loro il Premio Nobel. Da quel momento in poi ricevettero numerosi riconoscimenti e premi.
Insieme continuarono il lavoro in laboratorio scoprendo l’esistenza di un enzima detto “di Cori”.

Gerty entrò a far parte, con nomina del Presidente Truman, della National Science Foundation.

Nel 2004 le sue ricerche sul metabolismo degli zuccheri sono state riconosciute dall’American Chemical Society come una “pietra miliare nella Storia Nazionale della Chimica”.

Oggi esistono sulla Luna e su Venere due crateri, chiamati “Crateri di Cori” in suo onore. È anche possibile leggere il nome di Carl e Gerty Cori in una delle stelle della St. Louis Walk of Fame. Nell’aprile del 2008 gli Stati Uniti onorarono la scienziata emettendo un francobollo.
La storia e il nome di Gerty riecheggiano tra la Terra, le stelle e la Luna.

 

Costanza Marianna Franzì

Fonti:
http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/medicine/laureates/1947/cori-gt-bio.html
http://www.famousscientists.org/gerty-theresa-cori/
http://www.treccani.it/enciclopedia/cori-carl-ferdinand-e-gerty-theresa-nata-radnitz/