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- Shirin Ebadi: la prima donna di fede musulmana a ricevere il premio Nobel per la Pace. Iraniana, avvocato, moglie e madre di due figlie. Si laurea in legge nel 1969 e diventa il primo giudice donna in Iran. Con Komeini è costretta a dimettersi dal suo incarico, viene più volte minacciata e infine arrestata.
Le sue sono battaglie per l’affermazione dei diritti delle donne e dell’infanzia.
In una recente intervista sostiene che “l’Iran è un paese dove il 65% delle donne sono molto istruite e più brave degli uomini. Inoltre sono tantissime le donne che quotidianamente combattono per l’affermazione dei diritti femminili. Le donne per avere successo in Iran devono essere due o tre volte più brave degli uomini. Non dimentichiamo il detto iraniano <<una donna vale come l’occhio strabico di un uomo>>. Io non ho mai voluto lasciare l’Iran, io vivo in Iran e voglio morire in Iran. Se rinascessi, rifarei di nuovo tutto ciò che ho fatto”.
Shirin Ebadi tutt’oggi è un simbolo per molte donne iraniane.
Nel 2003 le viene assegnato il Nobel per la pace e lei riceve la notizia a Parigi dove si era recata per partecipare ad un seminario su Teheran. Emozionatissima e confusa, il giorno successivo si imbarca su un aereo della Iran Air per far rientro in patria, il capitano la farà sedere in prima classe e annuncia che quello sarà il “volo della pace”.
“Mentre il cielo si scuriva iniziai a riflettere sul vero significato del premio. Non avevo pensato neppure per un secondo che fosse stato conferito a me, come individuo. Un riconoscimento di questo genere poteva essere attribuito solo a ciò che la vita di una persona simboleggiava… Negli ultimi ventitrè anni, dal giorno in cui ero stata privata della possibilità di essere giudice, agli anni in cui avevo lottato nei tribunali rivoluzionari di Teheran, mi ero sempre ripetuta un ritornello: un’interpretazione dell’Islam che sia in armonia con l’uguaglianza e la democrazia è un’autentica espressione di fede. Non è la religione a vincolare le donne, ma i precetti selettivi di chi le vuole costrette all’isolamento…
Quando ascoltai la dichiarazione fatta in occasione dell’assegnazione del premio e sentii che la mia religione veniva menzionata accanto al mio lavoro in difesa dei diritti degli iraniani, seppi immediatamente che cosa in realtà mi veniva riconosciuto: la capacità di credere in un’interpretazione positiva dell’Islam e nel potere di quella capacità di aiutare gli iraniani che desiderano trasformare pacificamente il proprio Paese.
Mentre le luci sfavillanti di Teheran si avvicinavano rapidamente… e l’aereo cominciava la sua discesa, mia figlia mi raggiunse e mi toccò la spalla. Quando ci fermammo lungo la pista d’atterraggio, l’assistente di volo mi chiese di scendere per prima, guidandomi verso l’uscita. Appena il portellone si spalancò, la prima cosa che vidi fu il viso radioso di mia madre. Presi le sue mani morbide e rugose nelle mie e le premetti contro le labbra. Poi mi spostai indietro, e fu allora che notai la folla che si estendeva a perdita d’occhio…
L’ultima volta che si era vista una tale massa umana all’aeroporto di Teheran era il 1979, e la persona che scendeva dall’aereo proveniente da Parigi era l’ayatollah Khomeini. Solo che, questa volta, la folla era composta per lo più da donne: lo si vedeva dai veli che avvolgevano le loro teste. Alcune indossavano il chador nero, ma la maggior parte portava veli di colori brillanti, e i gladioli e le rose bianche che sventolavano nell’aria balenavano nell’oscurità della notte. <<Hanno camminato fin qui>>, mi sussurrò mio fratello in un orecchio. <<Hanno guidato finché le strade si sono completamente intasate, allora hanno lasciato le auto e sono venuti a piedi. Tutti i voli sono stati cancellati perché le vie per l’aeroporto sono bloccate dalla folla>>…
Vicino al monumento eretto allo scià nella zona sud di Teheran, rinominata piazza della Libertà, vidi una donna che teneva un bambino con una mano e con l’altra sollevava un cartello improvvisato con una scritta che per un attimo mi fece trattenere il fiato, perché diceva semplicemente: <<Questo è l’Iran>>.”
Nel libro Il mio Iran che è il suo primo libro destinato al pubblico occidentale, Shirin racconta la sua vita sin dalla nascita, tratteggiando anche il profilo dei nonni e dei genitori. La sua storia è scrupolosamente inserita nelle situazioni politiche ed economiche in cui si trova l’Iran, iniziando dal 1953 quando Usa e Gran Bretagna, furibonde per la nazionalizzazione del petrolio iraniano decisero che era giunto il momento di rovesciare il governo di Mossadeq.
“… Kermit Roosevelt, nipote di Teddy Roosevelt, arrivò a Teheran a rassicurare il volubile scià e a dirigere il colpo di Stato. Con il milione di dollari a sua disposizione, pagò una moltitudine di poveri della zona a sud di Teheran perché marciassero in protesta e corruppe alcuni giornalisti in modo che pubblicassero sulle loro testate notizie false e ingigantite contro Mossadeq. Nel giro di quattro giorni, il sofferente e amato primo ministro si vide costretto a nascondersi in uno scantinato e il giovane e corrotto scià fu nuovamente al potere… Fu un momento di profonda umiliazione per gli iraniani, perché l’intervento statunitense nella loro politica significava arretrare a condizione di colonia, e il capo di governo poteva essere insediato o deposto secondo il capriccio di un presidente americano o dei suoi consiglieri della CIA…”
In seguito nel 1979 l’opposizione avrebbe cacciato lo scià Reza Pahlevi con una rivoluzione.
“…Nel 1971 Reza Pahlevi aveva organizzato una celebrazione spettacolare per festeggiare i duemilacinquecento anni dell’impero persiano… Monarchi e presidenti giunsero da tutto il mondo per lo spettacolo straordinario, progettato per esibire davanti agli occhi della comunità internazionale l’incredibile sviluppo economico e tecnologico raggiunto dal Paese, parallelamente al suo passato glorioso. Gli iraniani dovevano notare quale alta considerazione la loro patria avesse raggiunto in tutto il globo. Invece, la maggior parte prese atto che lo scià aveva speso trecento milioni di dollari per padiglioni provvisori con la copertura di seta e i bagni di marmo, nonché per cibo e vino – fatti arrivare in aereo da Parigi – per venticinquemila persone…
L’ayatollah Khomeini pronunciò una netta condanna, appellandosi ai milioni di poveri che avevano richiesto l’aiuto del clero per potersi costruire il bagno in casa, dal momento che ne erano sprovvisti…
Mentre ero seduta nei freddi uffici del ministero della Giustizia a guardare la TV ebbi una rara premonizione. L’Iran dello scià… era una notte incantata che non poteva durare…
Non attribuivo però consciamente allo scià il governo di un Iran in cui io potessi essere giudice, proprio come nei successivi giorni della rivoluzione non avrei immaginato che l’intervento dell’ayatollah Khomeini avrebbe portato a un Iran in cui non potessi esserlo più…”
La rivoluzione che portò al potere Khomeini fece ricadere l’Iran e le sue donne nel buio più totale.
Scrive Shirin: “Pensavo di avere vinto anch’io quella rivoluzione. Ci volle meno di un mese per comprendere che, in realtà, avevo contribuito spontaneamente e con entusiasmo alla mia stessa fine: ero una donna, e la vittoria di quella rivoluzione esigeva la mia sconfitta”.
“Le cupe leggi contro le quali avrei combattuto per il resto della mia esistenza erano lì davanti ai miei occhi e mi fissavano dalla pagina: il valore della vita di una donna era metà di quella di un uomo (per esempio, se una macchina investiva entrambi per strada, il compenso dovuto alla famiglia dell’uomo era doppio rispetto a quello che spettava ai famigliari della donna); una testimonianza femminile in un’aula di tribunale contava la metà di quella maschile; una donna doveva chiedere il permesso del marito per divorziare… Le nuove norme mettevano indietro l’orologio di millequattrocento anni, tornando agli albori della diffusione dell’Islam, quando lapidare le donne per adulterio e mozzare le mani ai ladri erano considerate condanne adeguate…”
Nel 1980, mentre aspetta la sua primogenita, Shirin Ebadi viene destituita dalla carica di giudice perché donna e sempre nel 1980 Saddam Hussein invade l’Iran. “Ben presto Saddam smise di utilizzare il sarin e
passò a quella che sarebbe diventata la sua arma chimica preferita, il gas vescicante noto con il nome di iprite o gas mostarda. A differenza dei gas nervini, l’iprite ha un odore ben distinto, sa stranamente di aglio, ma non esistono antidoti e uccide con lentezza straziante. Poco dopo averlo respirato, i soldati al fronte avevano la vista annebbiata e cominciavano a tossire in modo irrefrenabile, spesso vomitando contemporaneamente. Con il passare delle ore, la pelle cominciava a coprirsi di vesciche, scurendosi fino a diventare violacea. Poi interi brandelli di pelle cadevano…
Il mondo stava a guardare, muto.
Un’ondata di iraniani aveva lasciato il Paese…
Gli esuli si sparsero soprattutto per l’Europa e il Nordamerica…
Le stime sono approssimative, ma nel giro di un ventennio dai quattro ai cinque milioni di iraniani lasciarono il Paese, e fra loro c’erano le menti più brillanti. A tutt’oggi, l’Iran continua a subire una delle più gravi fughe di cervelli; quelli che sono rimasti hanno visto i giovani disperdersi in tutto il mondo e dare il loro contributo allo sviluppo economico e sociale di altre nazioni…”
Finalmente nel 1988 finisce la guerra fra Iran e Iraq e Shirin Ebadi scrive questa amara e bellissima considerazione: “Chi fu il vero vincitore? Non l’Iran, con l’economia in rovina, due terzi delle province devastate, i soldati vittima delle armi chimiche di Saddam che giacevano in ospedali speciali, con i corpi piagati che continuavano a bruciare. Non l’Iraq, la cui popolazione portava i segni della guerra, con i curdi ugualmente trucidati con il gas nervino. Chi furono, allora, i vincitori? I trafficanti d’armi. Le aziende europee che vendettero a Saddam gli agenti chimici, le ditte americane che cedettero armi a entrambe le parti. Loro sì che ammassarono delle fortune, i conti bancari si gonfiarono e le loro famiglie, a Bonn come in Virginia, rimasero indenni…”
Quando nel 1989 muore Khomeini le donne possono tornare a studiare e lavorare e Shirin Ebadi ricomincia ad esercitare la sua professione di avvocato. “Il privilegio di una laurea non eliminò la discriminazione sessuale, gelosamente custodita nella nostra cultura e nelle nostre istituzioni. Ma instillò nelle donne iraniane qualcosa che, nel tempo, penso trasformerà il nostro Paese: una consapevolezza viscerale della loro condizione di oppresse.
Tutte queste donne colte che uscivano dalle nostre università non erano più disposte a retrocedere ai ruoli tradizionali, ad accantonare i titoli e fingere di non avere certe aspettative. Questa nuova coscienza e la delusione per le speranze frustrate… sfociavano in dolorosi, a volte tragici scontri famigliari…”
Nel suo libro Shirin racconta La storia di Arian: “Una mattina dell’estate 1998, mentre sfogliavo un quotidiano in ufficio, mi imbattei nella storia di una bambina picchiata brutalmente e morta in un ospedale della zona dopo avere subito numerosi colpi alla testa. La foto che illustrava l’articolo mostrava una ragazzina curva, con le membra scarne coperte da bruciature di sigaretta… La ragazzina si chiamava Arian Golshani. Dopo il divorzio dei genitori, il tribunale l’aveva affidata al padre… Secondo i vicini, l’uomo teneva Arian prigioniera, in condizioni disumane. La bambina, che aveva nove anni, pesava meno di quindici chili e aveva subito numerose fratture alle braccia, sistemate con ingessature fatte in casa… La madre di Arian aveva chiesto la custodia della bambina e in tribunale aveva spiegato quali fossero le sue condizioni, raccontando che l’ex marito era colpevole di orribili violenze. Il giudice, imperturbabile, aveva rifiutato di concederle la custodia. Per tutta la mattina, l’immagine di quella piccola innocente rimase impressa nella mia mente… Un paio d’ore più tardi il telefono squillò. Anche la mia amica fotografa aveva letto l’articolo.
<<Sharin, dobbiamo fare qualcosa>>, disse.
<<Lo so, lascia che ci pensi un attimo>>, risposi.
Quel pomeriggio riunimmo alcune amiche di un’associazione che lottava per i diritti dei bambini e ci consultammo… Alla fine escogitammo un piano segreto: avremmo organizzato una cerimonia che apparentemente avrebbe dovuto piangere la sua morte, approfittando dell’occasione per protestare contro il codice civile, che era stato la vera causa di quella tragedia.
Prenotammo uno spazio in una grande moschea… e annunciammo sul giornale la morte di Arian Golshani, indicando la data e il luogo della cerimonia funebre in suo onore…
La rivoluzione islamica aveva consacrato la famiglia musulmana come perno della sua ideologia di nazione. I rivoluzionari immaginavano la madre casalinga confinata tra quattro pareti, che si prendeva cura della numerosa prole, come la chiave per la restaurazione dei valori tradizionali e autentici. Però non sembrava loro contraddittorio stabilire una legge sulla famiglia che strappava i figli alla madre in caso di divorzio e rendeva la poligamia accessibile quanto un’ipoteca…
Il giorno della cerimonia, nell’autunno 1998, disponemmo fiori lungo tutto il corridoio della moschea dove avrebbe avuto luogo il funerale e all’ingresso sistemammo un tavolino con i datteri… Improvvisamente l’atmosfera si caricò di tensione e tutti cominciarono a piangere. Mi avviai a grandi passi al microfono nella sezione delle donne e dissi: <<Oggi siamo qui per difendere i diritti di tutti i piccoli Arian. Dobbiamo riformare la legge che ha causato la sua morte>>. I presenti si misero a scandire slogan, allora chiedemmo loro di spargere i fiori sulle strade che avrebbero percorso tornando a casa. Tutti si mossero verso le uscite urlando: <<Le leggi vanno riformate!>> mentre strappavano e buttavano intorno a sé i petali dei fiori.
Nel giro di mezz’ora le caotiche strade che circondavano la moschea si coprirono di petali bianchi, e i tassisti e i pendolari che procedevano lentamente nel traffico si fermarono a guardare quello spettacolo insolito. I giornali dedicarono ampio spazio alla storia e le università cominciarono a tenere seminari sulla violenza sui bambini. I diritti delle donne furono al centro di una campagna spontanea di presa di coscienza pubblica…
Al processo rappresentai la madre di Arian…
La conclusione del processo attirò l’attenzione di tutto il mondo. La corrispondente della CNN, Christiane Amanpour, intervistò me e la madre di Arian… Guardando quell’intervista, conscia che veniva trasmessa in tutto il mondo, mi resi conto di essere diventata <<famosa>>. La visibilità è qualcosa che matura a poco a poco. Si lavora, si parla, si scrivono articoli e si tengono conferenze… giorno dopo giorni, notte dopo notte. Poi, un mattino, ci si sveglia e si scopre che si è fatto un lungo cammino, che ha costruito una reputazione. È quello che è successo a me.
Sul piano personale, la cosa mi interessa davvero poco, ma mi rendevo conto che per il mio lavoro era un fattore estremamente positivo. Significava che i giornalisti mi avrebbero ascoltata se mi fossi rivolta a loro per un caso che seguivo, e mi avrebbero aiutata a renderlo pubblico sia in Iran sia all’estero. Voleva dire che gli osservatori per i diritti umani di tutto il mondo mi conoscevano e si fidavano di me, di conseguenza avrebbero lanciato solerti appelli per i casi urgenti su cui avrei richiamato la loro attenzione…”
Shirin viene un giorno del 2003 contattata da una delle 14 parlamentari iraniane elette per stilare la bozza di un disegno di legge sulla famiglia: <<Scriva qualcosa che allarghi i diritti delle donne, ma in un modo compatibile con l’Islam, così potremo difenderlo in parlamento>>.
Ma per caso Shirin scopre una cosa sorprendente: “Dopo il tè, ci ritirammo nell’ufficio privato delle donne per parlare… La loro stanza non aveva una porta, ma solo una tenda. Entrammo in un ambiente spoglio con il
pavimento coperto da un tappeto tessuto a macchina… Tutte misero le loro cose per terra e si sedettero a gambe incrociate sul tappeto.
<<Perché non ci sono sedie?>> domandai. <<Perché non c’è nemmeno una fotocopiatrice qui? Questo è il parlamento!>>
<<Be’, l’abbiamo chiesta molte volte>>, mi rispose una deputata, <<ma ci hanno risposto che eravamo troppo poche per giustificare la spesa di attrezzature solo per noi. Naturalmente, possiamo usare tutto ciò che ci serve negli uffici degli uomini, ma preferiamo stare qui, perché fa sempre molto caldo e almeno qui possiamo toglierci il chador e respirare un po’>>.
In quel momento il mio cuore ebbe un sussulto. Eccoci nel parlamento, all’interno delle mura dove quelle signore avrebbero dovuto legiferare e cambiare le condizioni di milioni di donne, e invece non riuscivano nemmeno a ottenere un tavolo per lavorare…”
Oggi, rimettendo a posto questi miei appunti di qualche anno fa, noto come sono attuali le considerazioni che Shirin Ebadi fa nell’epilogo del suo libro: “la parola scritta è lo strumento più potente che possediamo per proteggerci, sia dai tiranni sia dalle nostre tradizioni…”
“L’Occidente, a sua volta, ha la possibilità di usare la diplomazia per fare pressione sul mio Paese perché cambi atteggiamento, sia sui problemi inerenti il rispetto dei diritti umani sia sul programma nucleare. La minaccia di rovesciare il regime con la forza, benché sia considerata un’opzione da alcuni nel mondo occidentale, può solo compromettere gli sforzi che gli iraniani sostenitori della democrazia hanno fatto in questi anni. In tal modo si offrirebbe al sistema un pretesto per diventare ancora più rigido con l’opposizione, e si scardinerebbe del tutto la società civile che sta lentamente prendendo forma…
L’Iran è una vera e propria nazione di donne consapevoli e istruite che stanno lottando per i propri diritti. Deve essere data loro l’opportunità di combattere le proprie battaglie, di cambiare il loro Paese senza ingerenze…”
- Nawal El-Saadawi: nel 1972 pubblica Women and Sex, un atto d'accusa contro la disumana pratica dell'infibulazione e diventa così la prima donna araba a scrivere e denunciare questo tema scabroso. Nasce in una famiglia colta e benestante ma questo non le evita di subire la mutilazione genitale. A 10 anni si sottrae ad un matrimonio combinato e tra mille difficoltà continua gli studi nonostante l'opposizione familiare. Nel 1955 si laurea in medicina, si specializza in psichiatria ed inizia a lavorare in un piccolo villaggio rurale. In un'intervista dichiara: "Ogni giorno combattevo con le difficoltà, i soprusi e le ingiustizie subite dalle donne... Il pericolo è stato parte della mia vita fin da quando ho impugnato una penna..." Viene nominata al Cairo direttrice della Sanità Pubblica e nel 1979 diventa consigliera presso le Nazioni Unite per il programma a favore delle donne in Africa e Medio-Oriente. La sua critica all'Islam e al sistema politico egiziano le costeranno il carcere ed in prigione scrive il suo libro più importante che sarà tradotto in 12 lingue e pubblicato in tutto il mondo "Memorie dal carcere delle donne".