Rigoberta Menchú Tum
Gemma Pacella






Caori Murata

 

Rigoberta Menchù, nel 1992, è stata la prima indigena e la più giovane a ricevere il Premio Nobel per la Pace, con la motivazione : «Per la sua battaglia per la giustizia sociale e la riconciliazione etnoculturale basata sul rispetto per i diritti delle popolazioni indigene». 

Rigoberta è nata il 9 gennaio 1959 nel comune di Laj Chimel, nella provincia di San Miguel de Uspantán, in Guatemala, da genitori già in vista nel villaggio di origine per essere gli eletti, rappresentanti della comunità indigena, fortemente unita e solidale. Cresce sin da piccola apprendendo il rispetto per la Terra, per le tradizioni del suo popolo, maturando già in giovanissima età un senso di consapevolezza anche della prevaricazione e dello sfruttamento lavorativo a cui era costretta la sua gente nelle fincas, le grandi piantagioni dove, con il resto della famiglia, anche lei si reca per alcuni mesi dell’anno. In queste grandi distese le popolazioni indigene lavorano al soldo di caporali e latifondisti terrieri, i ladinos, meticci, figli di spagnoli e indigeni, che, tuttavia, non riconoscono loro dignità alcuna, rifiutandone l’identità e perfino i costumi, la lingua e il modo di vestire. Dalla seconda metà degli anni Settanta inizia per Rigoberta l’esperienza attiva nell’organizzazione per la difesa della propria comunità, sottoposta non solo ai tentativi di espropriazione della terra da parte dei proprietari terrieri, ma anche alla repressione militare delle forze governative. Si diffonde, infatti, pure in Guatemala quel clima di violenza che caratterizza, negli stessi anni, i regimi di altri Paesi dell’America Latina: nei primi anni Settanta sale al potere il generale Eugenio Laugerud García Kjell, seguito dal 1978 da Fernando Romeo Lucas Garcia, altro sanguinario presidente.

Le vicende della famiglia Menchù sono esemplari della violenza con cui il governo reprime le popolazioni indigene: il padre Vicente viene imprigionato e torturato con l’accusa di aver preso parte ad attività di guerriglia. Rilasciato, entra a far parte del Comitato di unità contadina (Cuc), a cui si unirà anche Rigoberta nel 1979, e perde la vita nell’incendio causato dalle truppe militari per reprimere l’occupazione pacifica dell’Ambasciata spagnola a Città del Guatemala, come forma di protesta contro l’espropriazione delle terre. A suo fratello e a sua madre toccherà la medesima sorte: arresto, tortura e uccisione, il primo all’età di soli sedici anni e alla seconda, dopo essere stata violentata, verrà negata anche la sepoltura. Rigoberta prosegue le sue azioni di denuncia contro la dittatura militare e, per questo, viene costretta all’esilio nel 1981, in Messico, dove continua la sua lotta per il riconoscimento internazionale della causa della comunità india del Guatemala. Dal 1982 partecipa alle sessioni annuali della Sottocommissione di prevenzione delle discriminazioni e protezione delle minoranze della commissione per i diritti umani dell'Onu. Nel 1991 diviene Ambasciatrice dell’Onu, prendendo parte alla stesura di una Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni.

Sceglie, poi, di tornare in Guatemala per sostenere una politica di dialogo e riconciliazione, nonostante le minacce di morte ricevute. Nel 1999 lotta per far processare l'ex dittatore militare Efraín Ríos Montt, per crimini commessi contro persone di cittadinanza spagnola e per il genocidio della popolazione Maya del Guatemala. Rios Montt, scomparso nel 2018, è infatti ritenuto responsabile dell’eccidio di almeno 1771 indios dell’etnia Ixil del dipartimento del Quichè tra il 1982 e il 1983. Nel frattempo Rigoberta Menchù si candida alla carica di Presidente della Repubblica sia in occasione delle elezioni del 2007, in cui ha ottenuto, col sostegno della formazione Incontro per il Guatemala, il 3,1% dei voti, sia in quelle del 2011, quando, sostenuta da una coalizione di sinistra, ottiene il 3,2% dei voti. Capire le ragioni dell’assegnazione del Premio Nobel, significa addentrarsi nella sua biografia (Elisabeth Burgos, Mi chiamo Rigoberta Menchù): è stato, infatti, soprattutto a seguito del racconto contenuto nel libro che si è diffusa nella comunità internazionale l’ammirazione per la storia di Rigoberta Menchù, fino a valerle la consegna dell’onorificenza. È a queste pagine che affida il racconto di ingiustizie, violenze e discriminazioni subìte in prima persona e della costruzione di pratiche di lotta che, negli anni, ha attivato per combattere gli episodi di sistematica sopraffazione lavorativa ed etnica, rendendo, così, il suo racconto da particolare a universale. La sua storia è come un climax ascendente: ogni pagina racconta la consapevolezza che lei ha maturato di anno in anno, la curiosità e il senso di giustizia che ha tessuto nel tempo. Il suo spirito di ricerca della pace può cogliersi quando dichiara di «non aver avuto una scuola per la mia formazione politica, ma piuttosto, partendo dalla mia esperienza, ho cercato di collegarla con la situazione complessiva di tutto il popolo».

 

I colori dei suoi abiti, l’eccentricità dei suoi orecchini, i lunghi capelli neri anticipano, nell’aspetto, la forza del suo animo: una donna fiera che da obbediente, per la sua semplicità, come si descrive nella biografia, diventa disobbediente verso i codici della violenza sistematicamente applicati dai potenti della sua terra. Si è lasciata guidare dal filo tessuto dalle sue antenate e dai suoi antenati, rispettando la sacralità dei loro riti, di cerimonie e tradizioni. Il suo punto di forza è stato credere nella comunità, nel senso di preservare l’unione tra le persone: ha sin da subito avuto chiaro che il nemico usurpatore avrebbe potuto sconfiggere il popolo indigeno solo disgregandolo. Rigoberta sperimenta un metodo di rivolta non violento: da cattolica, catechista e praticante, rilegge la Bibbia come una metafora, provando a ritrovare nei racconti sacri la storia della sua gente e, in particolare, sceglie di imparare le lingue. Sa, infatti, che solo apprendendo non solo il castigliano dei ladinos, ma anche i dialetti e le lingue locali, profondamente diverse da villaggio a villaggio, avrebbe avuto una concreta occasione di coinvolgere il suo popolo, formando anche le donne che incontrava sul suo cammino, perché potessero coordinare e dirigere, come lei, l’organizzazione contadina. Apprende il metodo della critica e dell’autocritica, come radice del cambiamento all’interno della lotta popolare e diventa samaritana di strumenti di ribellione, portando tra le aldeas, i villaggi della sua regione, ciò che ha sperimentato per rompere i meccanismi di violenza e sopraffazione, dicendosi «una catechista capace di camminare sulla terra». Con una forte spiritualità, sapientemente intrecciata a un acuto senso di concretezza, Rigoberta combatte per la pace e dice: «ho scelto di restare in città o al villaggio anche se avrei avuto la possibilità di prendere le armi, ma il nostro apporto lo diamo in forme differenti e tutto va in direzione dello stesso obiettivo». Rigoberta si è fatta interprete di una pace duratura, che non comportasse solo la vittoria di una battaglia di un unico popolo contro un unico nemico, ma che attivasse la trasmissione di valori di pace, di unione tra i popoli e la diffusione della cooperazione come metodo per rompere il sistema della violenza.

Risultano molte intitolazioni a suo nome in Spagna (Saragozza, Reus, Getafe, Rubí, Girona, ecc.), alcune in Francia (ad esempio ad Avignone e Montpellier) e in Messico. In Italia è onorata nel giardino dei Diritti umani a Diano San Pietro. Nel 1998 ha ottenuto in Spagna il premio Principe delle Asturie per la cooperazione internazionale; nel 2002 ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Caorle (Venezia) e nel 2006 il premio speciale Grinzane Cavour. Risale al 2008 il Glamour Award for the Peacemaker People.


Traduzione francese

Guenoah Mroue

 Rigoberta Menchù, en 1992, a été la première indigène et la plus jeune à recevoir le Prix Nobel de la Paix, avec la motivation : « Pour sa lutte pour la justice sociale et la réconciliation ethnoculturelle basée sur le respect des droits des peuples indigènes ».

Rigoberta est née le 9 janvier 1959 dans la commune de Laj Chimel, dans la province de San Miguel de Uspantán, au Guatemala, de parents déjà en vue dans le village d’origine pour être les élus, représentants de la communauté indigène, fortement unie et solidaire. Elle grandit dès son plus jeune âge en apprenant le respect pour la Terre, pour les traditions de son peuple, en développant dès son plus jeune âge un sentiment de conscience même de la prévarication et de l’exploitation du travail auxquelles était contrainte son peuple dans les fincas, les grandes plantations où, avec le reste de la famille, elle se rend également pour quelques mois de l’année. Dans ces grandes étendues, les peuples indigènes travaillent à la solde de caporaux et de latifundistes terriens, les Ladinos, métis, fils d’espagnols et d’indigènes, qui, cependant, ne leur reconnaissent aucune dignité, en refusant leur identité et même leurs coutumes, leur langue et leur habillement. Dès la seconde moitié des années Soixante-dix, Rigoberta a acquis une expérience active dans l’organisation pour la défense de sa communauté, soumise non seulement aux tentatives d’expropriation de la terre par les propriétaires fonciers, mais aussi à la répression militaire des forces gouvernementales. En effet, le climat de violence qui caractérise, au cours des mêmes années, les régimes d’autres pays d’Amérique latine se répand également au Guatemala : au début des années 70, le général Eugenio Laugerud Garcia Kjell prend le pouvoir, suivi depuis 1978 par Fernando Romeo Lucas Garcia, autre président sanguinaire.

Les événements de la famille Menchù sont des exemples de la violence avec laquelle le gouvernement réprime les populations indigènes : le père Vicente est emprisonné et torturé sous l’accusation d’avoir participé à des activités de guérilla. Libéré, il rejoint le Comité d’unité paysanne (Cuc), auquel se joindra également Rigoberta en 1979, et perd la vie dans l’incendie causé par les troupes militaires pour réprimer l’occupation pacifique de l’ambassade d’Espagne à Guatemala, pour protester contre l’expropriation. Son frère et sa mère subiront le même sort : arrestation, torture et assassinat, le premier à l’âge de seize ans seulement et le deuxième, après avoir été violée, sera également privé d’enterrement. Rigoberta poursuit ses actions de dénonciation contre la dictature militaire et, pour cela, elle est contrainte à l’exil en 1981, au Mexique, où elle continue sa lutte pour la reconnaissance internationale de la cause de la communauté indienne du Guatemala. Depuis 1982, elle participe aux sessions annuelles de la sous-commission de prévention des discriminations et de protection des minorités de la commission des droits de l’homme de l’ONU. En 1991, elle devient ambassadrice de l’ONU, prenant part à la rédaction d’une Déclaration sur les droits des peuples indigènes.

Elle choisit ensuite de retourner au Guatemala pour soutenir une politique de dialogue et de réconciliation, malgré les menaces de mort reçues. En 1999, elle lutte pour faire juger l’ancien dictateur militaire Efraín Ríos Montt, pour des crimes commis contre des personnes de nationalité espagnole et pour le génocide de la population maya du Guatemala. Rios Montt, décédé en 2018, est en effet tenu responsable du massacre d’au moins 1771 indiens de l’ethnie Ixil du département du Quiché entre 1982 et 1983. Entre-temps, Rigoberta Menchù se porte candidate à la présidence de la République à la fois lors des élections de 2007 où elle a obtenu, avec le soutien de la formation Incontro per il Guatemala, 3,1% des voix, et dans celles de 2011, quand, soutenue par une coalition de gauche, elle obtient 3,2 % des voix. Comprendre les raisons de l’attribution du prix Nobel, c’est entrer dans sa biographie (Elisabeth Burgos, Je m’appelle Rigoberta Menchù)En effet, c’est surtout à la suite du récit contenu dans le livre que s’est répandue dans la communauté internationale l’admiration pour l’histoire de Rigoberta Menchù, jusqu’à la remise de l’honneur. C’est à ces pages qu’elle confie le récit d’injustices, de violences et de discriminations subies personnellement et de la construction de pratiques de lutte qu’elle a activé au fil des ans pour combattre les épisodes d’abus systématique au travail et ethnique, ainsi, son récit est devenu universel. Son histoire est comme un point culminant ascendant : chaque page raconte la conscience qu’elle a mûrie d’année en année, la curiosité et le sens de la justice qu’elle a tissé au fil du temps. Son esprit de recherche de la paix peut se saisir quand elle déclare «n’avoir pas eu d’école pour ma formation politique, mais plutôt, à partir de mon expérience, j’ai cherché à la relier à la situation globale de tout le peuple».

 

Les couleurs de ses vêtements, l’excentricité de ses boucles d’oreilles, les longs cheveux noirs anticipent, dans l’apparence, la force de son âme : une femme fière qui obéit, pour sa simplicité, comme on le décrit dans la biographie, elle désobéit aux codes de la violence systématiquement appliqués par les puissants de son pays. Elle s’est laissée guider par le fil tissé par ses ancêtres, en respectant le caractère sacré de leurs rites, de cérémonies et de traditions. Sa force a été de croire en la communauté, dans le sens de préserver l’union entre les personnes : elle a immédiatement compris que l’ennemi usurpateur ne pouvait vaincre le peuple indigène qu’en le désagrégant. Rigoberta expérimente une méthode de révolte non violente : en tant que catholique, catéchiste et pratiquante, elle relit la Bible comme une métaphore, essayant de retrouver dans les récits sacrés l’histoire de son peuple et, en particulier, elle choisit d’apprendre les langues. Elle sait, en effet, qu’en apprenant non seulement le castillan des Ladinos, mais aussi les dialectes et les langues locales, profondément différents de village en village, elle aurait eu une occasion concrète d’impliquer son peuple, en formant aussi les femmes qu’elle rencontrait sur son chemin, pour qu’elles puissent coordonner et diriger, comme elle, l’organisation paysanne. Elle apprend la méthode de la critique et de l’autocritique, comme racine du changement au sein de la lutte populaire et devient samaritain des instruments de rébellion, portant parmi les aldeas, les villages de sa région, ce qu’elle a expérimenté pour briser les mécanismes de violence et d’abus, se disant «une catéchiste capable de marcher sur la terre». Avec une forte spiritualité, habilement mêlée à un sens aigu du concret, Rigoberta se bat pour la paix et dit : «J’ai choisi de rester en ville ou au village même si j’aurais eu la possibilité de prendre les armes, mais notre apport nous le donnons sous des formes différentes et tout va dans le même but». Rigoberta s’est fait l’interprète d’une paix durable, qui n’impliquait pas seulement la victoire d’une bataille d’un seul peuple contre un seul ennemi, mais qui activait la transmission de valeurs de paix, Le Parlement européen se félicite de l’initiative prise par le Conseil européen d’Essen en faveur de l’union entre les peuples et de la diffusion de la coopération comme moyen de briser le système de la violence.

On trouve de nombreuses appellations en son nom en Espagne (Saragosse, Reus, Getafe, Rubi, Gérone, etc.), certaines en France (par exemple à Avignon et Montpellier) et au Mexique. En Italie, elle est honorée dans le jardin des Droits de l’homme à Diano San Pietro. En 1998, elle a obtenu en Espagne le prix Prince des Asturies pour la coopération internationale; en 2002, elle a reçu la citoyenneté d’honneur de Caorle (Venise) et en 2006 le prix spécial Grinzane Cavour. Le Glamour Award for the Peacemaker People date de 2008.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Rigoberta Menchù, in 1992, was the youngest person, and first indigenous person to receive the Nobel Peace Prize, with this motivation: «For her struggle for social justice and ethnocultural reconciliation based on respect for the rights of indigenous peoples.»

Rigoberta was born on January 9, 1959, in the municipality of Laj Chimel, in the province of San Miguel de Uspantán, Guatemala, to parents who were already prominent in their home village for being the elected, strongly committed and supportive representatives of the indigenous community. She grew up learning respect for the Earth from an early age, and for the traditions of her people. While also very young, she developed an awareness of the intense labor exploitation to which her people were subjected in the fincas, the large plantations where, with the rest of the family, she too went for some months of the year. In these large enterprises, indigenous people worked under the thumb of foremen and landowners - ladinos, mestizos, children of Spaniards and indigenous people, who, however, did not recognize any dignity of the indigenous, rejecting their identity and even their customs, language and manner of dress. Rigoberta’s active experience in organizing for the defense of her own community began in the second half of the 1970s, during which there were not only land expropriation attempts by landowners but also military repression by government forces. The climate of violence that characterized the regimes of other Latin American countries in the same years spread to Guatemala as well. In the early 1970s General Eugenio Laugerud García Kjell came to power, followed in 1978 by Fernando Romeo Lucas Garcia, another bloodthirsty president.

The experiences of the Menchú family were exemplary of the violence with which the government repressed indigenous peoples. Their father, Vicente, was imprisoned and tortured on charges of taking part in guerrilla activities. Released, he joined the Committee of Peasant Unity, which Rigoberta would also join in 1979, and lost his life in a fire caused by military troops to suppress the peaceful occupation of the Spanish Embassy in Guatemala City as a form of protest against land expropriation. Her brother and mother were be met by the same fate - arrest, torture and murder, the former at the age of only sixteen and the latter, after being raped, was killed and denied burial. Rigoberta continued her actions of denunciation against the military dictatorship and, as a result, was forced into exile in Mexico in 1981, where she continued her struggle for international recognition of the plight of Guatemala's Indian community. Since 1982 she has participated in the annual sessions of the Subcommittee on Prevention of Discrimination and Protection of Minorities of the UN Commission on Human Rights. In 1991 she became UN Ambassador, taking part in the drafting of a Declaration on the Rights of Indigenous Peoples.

She then chose to return to Guatemala to support a policy of dialogue and reconciliation, despite the death threats she received. In 1999 she fought to have former military dictator Efraín Ríos Montt tried for crimes committed against the people and for the genocide against Guatemala's Mayan population. Rios Montt, who died in 2018, was in fact held responsible for the massacre of at least 1,771 ethnic Ixil Indians in the department of Quichè between 1982 and 1983. Meanwhile, Rigoberta Menchù ran for the office of President of the Republic both in the 2007 elections, in which she obtained, with the support of the Encounter for Guatemala formation, 3.1 percent of the vote, and in the 2011 elections, when, supported by a leftist coalition, she obtained 3.2 percent of the vote. To understand the reasons for the awarding of the Nobel Prize, it is important to read her autobiography, I, Rigoberta Menchù. It was mainly as a result of the account contained in the book that admiration for Rigoberta Menchù's story spread throughout the international community, to the point of earning her widespread recognition. It was to those pages that she entrusted her account of injustice, violence and discrimination she suffered firsthand and the development of methods of struggle that, over the years, she has used to combat episodes of systematic labor and ethnic oppression, thus bring her story from the particular to the universal. Her story is like an ascending climax: each page recounts the awareness she has gained from year to year, the curiosity and sense of justice she has woven over time. Her peace-seeking spirit can be grasped when she declares that she "did not have a school for my political education, but rather, starting from my own experience, I tried to connect it with the overall situation of the whole people."

 

The colors of her clothes, the eccentricity of her earrings, and her long black hair anticipate, in her appearance, the strength of her soul: a proud woman who went from being obedient because of her simplicity, as described in the biography, to being disobedient toward the codes of violence systematically applied by the powerful in her land. She allowed herself to be guided by the thread woven by her ancestors and forefathers, respecting the sacredness of their rites, ceremonies and traditions. Her strength was believing in community, in the sense of preserving unity among people. She was clear from the beginning that the usurping enemy could only defeat the indigenous people by breaking them up. Rigoberta experimented with a nonviolent method of revolt - as a Catholic, catechist and practitioner, she rereads the Bible as a metaphor, trying to find in the sacred stories the history of her people and, in particular, she has chosen to learn languages. She knew that only by learning not only the Castilian of the Ladinos, but also the local dialects and languages, which differed profoundly from village to village, would she have a concrete opportunity to involve her people, even training the women she met on her path so that they could coordinate and direct, as she did, the peasant organizations. She learned the method of critique and self-criticism as the root of change within the popular struggle and became a Samaritan of instruments of rebellion, bringing among the aldeas, the villages of her region, what she had experienced to break the mechanisms of violence and oppression, calling herself "a catechist capable of walking the earth." With a strong spirituality, skillfully intertwined with a keen sense of concreteness, Rigoberta fights for peace and says, "I chose to stay in the city or the village even though I would have had the opportunity to take up arms, but we make our contribution in different forms and everything goes toward the same goal." Rigoberta has become an advocate for a lasting peace, one that would not only involve the victory of one people's battle against one enemy, but one that would activate the transmission of values of peace, unity among peoples, and the spread of cooperation as a way to break the system of violence.

There are many place name dedications to her in Spain (Zaragoza, Reus, Getafe, Rubí, Girona, etc.), some in France (e.g., in Avignon and Montpellier) and in Mexico. In Italy she is honored in the Human Rights Garden in Diano San Pietro. In 1998 she was awarded the Prince of Asturias Prize for International Cooperation in Spain. In 2002 she received the honorary citizenship of Caorle (Venice) and in 2006 the Grinzane Cavour Special Prize. The Glamour Award for the Peacemaker People dates back to 2008.


Traduzione spagnola

Daniela Leonardi

Rigoberta Menchú, en 1992, fue la primera indígena y la más joven en recibir el Premio Nobel de la Paz, con la motivación: «por su lucha por la justicia social y reconciliación etnocultural basada en el respeto de los derechos de los indígenas».

Rigoberta nació el 9 de enero de 1959 en el municipio de Laj Chimel, en la provincia de San Miguel de Uspantán, Guatemala; sus padres ya eran personas en vista en su pueblo de origen para ser los elegidos, representantes de la comunidad indígena, fuertemente unida y solidaria. Crece desde pequeña aprendiendo el respeto por la Tierra, por las tradiciones de su pueblo, y madurando ya muy joven un sentido de conciencia incluso de la prevaricación y de la explotación laboral a la que estaba obligada su gente en las fincas, las grandes plantaciones adonde, con el resto de la familia, ella también va algunos meses al año. En estas grandes extensiones la población indígena trabaja a sueldo de cabos y terratenientes ladinos, es decir mestizos, hijos de españoles e indígenas, que solo hablan español; no les reconocen ninguna dignidad a los indígenas, rechazando su identidad e incluso sus costumbres, su lengua y su forma de vestir. A partir de la segunda mitad de los años setenta comienza para Rigoberta la experiencia activa en la organización para la defensa de su comunidad, sometida no solo a los intentos de expropiación de la tierra por parte de los terrateniente, sino también a la represión militar de las fuerzas gubernamentales. En efecto, se difunde también en Guatemala el clima de violencia que caracteriza, en los mismos años, a los regímenes de otros países de América Latina: a principios de los años setenta llega al poder el general Eugenio Laugerud García Kjell, tras el cual sube al poder, en 1978, Fernando Romeo Lucas García, otro presidente sanguinario.

Los acontecimientos de la familia Menchú son ejemplos de la violencia con la que el gobierno reprime a los pueblos indígenas: el padre Vicente es encarcelado y torturado con la acusación de haber participado en actividades de guerrilla. Liberado, entra a formar parte del Comité de unidad campesina (CUC), al que se unirá Rigoberta en 1979, y pierde la vida en el incendio causado por las tropas militares para reprimir la ocupación pacífica de la Embajada española en la Ciudad de Guatemala, como protesta contra la expropiación de tierras. A su hermano y a su madre les sucederá lo mismo: arresto, tortura y asesinato, el primero a la edad de solo dieciséis años y a la segunda, después de haber sido violada, también se le negará el entierro. Rigoberta continúa sus acciones de denuncia contra la dictadura militar y, por ello, se ve obligada al exilio en 1981, en México, donde continúa su lucha por el reconocimiento internacional de la causa de la comunidad india de Guatemala. Desde 1982 participa en las sesiones anuales de la Subcomisión de Prevención de la Discriminación y Protección de las Minorías de la Comisión de Derechos Humanos de la ONU. En 1991 se convierte en embajadora de la ONU, participando en la redacción de una Declaración sobre los derechos de los pueblos indígenas.

Luego decide volver a Guatemala para apoyar una política de diálogo y reconciliación, a pesar de las amenazas de muerte recibidas. En 1999 lucha para que el ex dictador militar Efraín Ríos Montt sea juzgado por crímenes cometidos contra personas de nacionalidad española y por el genocidio del pueblo maya de Guatemala. Ríos Montt, fallecido en 2018, de hecho es responsable de la masacre de al menos 1771 indios de la etnia Ixil del Departamento de Quiché entre 1982 y 1983. Mientras tanto, Rigoberta Menchú se presenta para el cargo de Presidente de la República tanto en las elecciones de 2007, en las que obtiene, con el apoyo de la formación “Encuentro para Guatemala”, el 3,1% de los votos, como en las de 2011, cuando, apoyada por una coalición de izquierda, obtiene el 3,2% de los votos. Entender las razones de la concesión del Premio Nobel, significa adentrarse en su biografía (Elisabeth Burgos, Me llamo Rigoberta Menchú y así me nació la conciencia, 1983): de hecho, fue sobre todo a raíz del relato contenido en el libro que se difundió en la comunidad internacional la admiración por la historia de Rigoberta Menchú, hasta que le fue concedida la condecoración. A esas páginas encomienda Rigoberta el relato de injusticias, violencias y discriminaciones sufridas en primera persona y de la construcción de prácticas de lucha que, a lo largo de los años, se fueron emprendiendo para combatir los episodios de abuso sistemático laboral y étnico, haciendo que su relato pase de ser particular a universal. Su historia es como un clímax ascendente: cada página cuenta la conciencia que ha madurado de año en año, la curiosidad y el sentido de justicia que ha tejido en el tiempo. Su espíritu de búsqueda de la paz puede captarse cuando declara que no ha tenido una escuela para su formación política, sino más bien, partiendo de su experiencia, trató de conectarla con la situación global de todo el pueblo.

 

Los colores de sus vestidos, la excentricidad de sus pendientes, los largos cabellos negros anticipan, en apariencia, la fuerza de su alma: una mujer orgullosa que por obediente, por su sencillez, como se describe en la biografía, se vuelve desobediente a los códigos de violencia sistemáticamente aplicados por los poderosos de su tierra. Se dejó guiar por el hilo tejido por sus antepasados, respetando la sacralidad de sus ritos, ceremonias y tradiciones. Su punto fuerte ha sido creer en la comunidad, en el sentido de preservar la unión entre las personas: desde el principio tuvo claro que el enemigo usurpador solo podría derrotar al pueblo indígena disgregándolo. Rigoberta experimenta un método de revuelta no violento: como católica, catequista y practicante, interpreta la Biblia como una metáfora, intentando encontrar en los cuentos sagrados la historia de su gente y, en particular, elige aprender las lenguas. Sabe, en efecto, que solo aprendiendo no solo el castellano de los ladinos, sino también los dialectos y las lenguas locales, profundamente diferentes de pueblo a pueblo,podría tener una ocasión concreta de involucrar a su pueblo, formando también a las mujeres que encontraba en su camino, para que pudieran coordinar y dirigir, como ella, la organización campesina. Aprende el método de la crítica y de la autocrítica, como raíz del cambio dentro de la lucha popular y se convierte en samaritana de instrumentos de rebelión, llevando entre las aldeas, los pueblos de su región, lo que experimentó para romper los mecanismos de violencia y abuso, diciéndose «Soy una catequista que sabe caminar sobre la tierra». Con una fuerte espiritualidad, sabiamente entrelazada con un agudo sentido de concreción, Rigoberta lucha por la paz y explica que eligió quedarse en la ciudad o en el pueblo aunque hubiera tenido la posibilidad de tomar las armas, porque el propio aporte se puede dar de formas diferentes pero todo va en la dirección del mismo objetivo. Rigoberta se hizo intérprete de una paz duradera, que no implicara solo la victoria de una batalla de un solo pueblo contra un único enemigo, sino que activara la transmisión de valores de paz, de unión entre los pueblos y la difusión de la cooperación como método para romper el sistema de la violencia.

Aparecen muchas denominaciones a su nombre en España (Zaragoza, Reus, Getafe, Rubí, Girona, etc.), algunas en Francia (por ejemplo, en Aviñón y Montpellier) y en México. En Italia es honrada en el jardín de los Derechos Humanos en Diano San Pietro. En 1998 España le otorgó el premio Príncipe de Asturias por la cooperación internacional; en 2002 recibió la ciudadanía honoraria de Caorle (Venecia) y en 2006 el premio especial Grinzane Cavour. En 2008 recibió el Glamour Award for the Peacemaker People.


Traduzione ucraina

Alina Petelko

Рігоберта Менчу у 1992 році стала першою жінкою з числа корінних народів і наймолодшою жінкою, яка отримала Нобелівську премію миру, з мотивацією: "За боротьбу за соціальну справедливість та етнокультурне примирення, засноване на повазі до прав корінних народів".

Рігоберта народилася 9 січня 1959 року в муніципалітеті Ладж Чімель, провінція Сан-Мігель-де-Успантан, Гватемала, в сім'ї батьків, які вже були відомими у своєму рідному селі як обрані представники корінної громади, міцно згуртовані та солідарні. З раннього дитинства вона вчилася поваги до землі, до традицій свого народу, дозріваючи в дуже юному віці почуттям усвідомлення зловживань і трудової експлуатації, до яких її народ був змушений на фінках, великих плантаціях, куди разом з іншими членами сім'ї вона теж їхала на кілька місяців на рік. На цих величезних просторах корінне населення працює на капралів і землевласників, ладінос, метисів, дітей іспанців і корінних жителів, які, однак, не визнають їхньої гідності, відкидаючи їхню ідентичність і навіть їхні звичаї, мову і манеру одягатися. З другої половини 1970-х років Рігоберта розпочала активний досвід організації захисту своєї громади, яка зазнавала не лише спроб експропріації землі з боку землевласників, а й військових репресій з боку урядових військ. Атмосфера насильства, характерна для режимів інших латиноамериканських країн у ті ж роки, поширилася і в Гватемалі: на початку 1970-х років до влади прийшов генерал Еухеніо Лаугеруд Гарсія Кьелл, а в 1978 році - Фернандо Ромео Лукас Гарсія, ще один кровожерливий президент.

Події сім'ї Менчу є прикладом насильства, з яким уряд репресує корінні народи: їхній батько Вісенте був ув'язнений і підданий тортурам за звинуваченням в участі у партизанській діяльності. Звільнившись, він вступив до Комітету селянської єдності (Cuc), до якого в 1979 році приєднається і Рігоберта, і загинув у пожежі, влаштованій військовими для придушення мирного захоплення іспанського посольства в місті Гватемала, як форми протесту проти експропріації землі. Його брата і матір спіткала така ж доля: арешт, тортури і вбивство, першого у віці лише шістнадцяти років, а другу, після зґвалтування, не дозволили навіть поховати. Рігоберта продовжувала свої викривальні акції проти військової диктатури і була змушена виїхати в 1981 році в еміграцію до Мексики, де продовжила боротьбу за міжнародне визнання справи гватемальської індіанської громади. З 1982 року бере участь у щорічних сесіях Підкомісії з питань запобігання дискримінації та захисту меншин Комісії ООН з прав людини. У 1991 році стала Послом ООН, брала участь у розробці Декларації про права корінних народів.

Потім вона вирішила повернутися до Гватемали, щоб підтримати політику діалогу та примирення, незважаючи на погрози вбивства, які їй надходили. У 1999 році боровся за притягнення до відповідальності колишнього військового диктатора Ефраїна Ріоса Монтта за злочини, скоєні проти осіб з іспанським громадянством та за геноцид майя в Гватемалі. Ріос Монтт, який помер у 2018 році, фактично несе відповідальність за масове вбивство щонайменше 1771 індіанця етнічної групи іксіл в департаменті Кіче в період з 1982 по 1983 роки. Між тим, Рігоберта Менчу балотувалася на посаду президента республіки як на виборах 2007 року, на яких вона отримала за підтримки формування "Боротьба за Гватемалу" 3,1% голосів, так і на виборах 2011 року, коли за підтримки лівої коаліції набрала 3,2% голосів. Зрозуміти причини, за які вона була удостоєна Нобелівської премії, означає заглибитися в її біографію (Elisabeth Burgos, My name is Rigoberta Menchù). Адже саме завдяки розповіді, викладеній у цій книзі, захоплення історією Рігоберти Менчу поширилося на всю міжнародну спільноту, аж до того, що вона була удостоєна такої честі. Саме цим сторінкам вона довіряє розповідь про несправедливість, насильство та дискримінацію, яких зазнала особисто, а також про побудову бойових практик, які протягом багатьох років вона активізувала для боротьби з епізодами систематичного трудового та етнічного гноблення, таким чином перетворюючи свою розповідь з конкретної на універсальну. Її історія схожа на висхідну кульмінацію: кожна сторінка розповідає про усвідомлення, яке вона розвивала рік за роком, про допитливість і почуття справедливості, які вона виплела з часом. Її прагнення до миру можна зрозуміти, коли вона заявляє, що "у мене не було школи для моєї політичної освіти, а скоріше, виходячи з мого власного досвіду, я намагалася пов'язати його із загальною ситуацією всього народу".

 

Кольори її одягу, ексцентричність сережок та довге чорне волосся передбачають в її зовнішності силу її душі: горда жінка, яка з покірної, завдяки своїй простоті, як описано в її біографії, стала непокірною щодо кодексів насильства, які систематично застосовували сильні світу цього на її землі. Вона дозволила собі вести себе ниткою, яку виткали її предки і пращури, поважаючи святість їхніх обрядів, церемоній і традицій. Її сильною стороною була віра в громаду, в сенсі збереження союзу між людьми: вона з самого початку чітко усвідомлювала, що ворог-узурпатор може перемогти корінний народ, лише розірвавши його. Рігоберта експериментувала з ненасильницьким методом бунту: як католичка, катехит і практик, вона перечитувала Біблію як метафору, намагаючись віднайти історію свого народу в священних оповідях і, зокрема, вирішила вивчати мови. Вона знала, що тільки вивчивши не тільки кастильську мову Ладіно, але й діалекти та місцеві мови, які сильно відрізняються від села до села, вона матиме конкретну можливість залучити свій народ, а також навчити жінок, яких вона зустрічала на своєму шляху, щоб вони могли координувати та керувати селянською організацією, як це зробила вона. Вона засвоїла метод критики і самокритики як корінь змін у народній боротьбі і стала самаритянкою знарядь повстання, несучи в альди, села свого регіону, те, що пережила сама, щоб зламати механізми насильства і гноблення, називаючи себе "катехиткою, здатною ходити по землі". З сильною духовністю, вміло переплетеною з гострим відчуттям конкретики, Рігоберта бореться за мир і каже: "Я вибрала залишитися в місті або в селі, навіть якщо б у мене була можливість взяти в руки зброю, але ми робимо свій внесок в різних формах і все йде до однієї мети". Рігоберта зробила себе інтерпретатором тривалого миру, який передбачає не лише перемогу одного народу в боротьбі проти одного ворога, але й активізує передачу цінностей миру, єдності між народами та поширення співпраці як способу зламати систему насильства.

Її ім'ям названо багато міст в Іспанії (Сарагоса, Реус, Хетафе, Рубі, Жирона та ін.), деякі у Франції (наприклад, в Авіньйоні та Монпельє) та в Мексиці. В Італії її вшановують у Саду прав людини в Діано-Сан-П'єтро. У 1998 році нагороджена премією Принца Астурійського за міжнародне співробітництво в Іспанії, у 2002 році отримала почесне громадянство міста Каорле (Венеція), у 2006 році - спеціальну премію Грінзане Кавур. Премія "Гламур" для людей-миротворців започаткована у 2008 році.

Toni Morrison
Tiziana Concina






Caori Murata

 

Premio Nobel per la letteratura 1993 «Per le sue opere caratterizzate da grande abilità di romanziera, sostenuta da una forza visionaria e da intensità poetica che danno vita a un aspetto essenziale della realtà nordamericana».

In occasione della cerimonia in cui le venne conferito il premio la scrittrice pronunciò un lungo discorso che pone in evidenza l’attenta riflessione sul linguaggio e sul potere che caratterizza la sua opera.

«Il linguaggio oppressivo fa qualcosa di più che rappresentare la violenza; è la violenza; fa qualcosa di più che rappresentare i limiti della conoscenza; limita la conoscenza. Se è il linguaggio che offusca lo stato o il falso linguaggio dei media stupidi; se è l’orgoglioso ma imbalsamato linguaggio dell’accademia o il comodo linguaggio della scienza; se è il linguaggio maligno della legge senza etica, o il linguaggio fatto apposta per discriminare le minoranze, nascondere il suo razzistico saccheggio nella sua sfrontatezza letteraria – esso deve essere rifiutato, modificato e palesato. È il linguaggio che beve sangue, che piega le vulnerabilità, che nasconde i suoi stivali fascisti sotto crinoline di rispettabilità e patriottismo e si muove in fretta e furia verso la linea inferiore e verso le menti inferiori. Linguaggio sessista, linguaggio razzista, linguaggio teistico – tutti sono linguaggi tipici della politica del dominio, e non possono, non permettono nuove conoscenze né incoraggiano il mutuo scambio di idee».

Chloe Anthony Wofford nasce a Lorain, città industriale dell’Ohio il 18 febbraio 1931. Di famiglia operaia, originaria del Sud, fin da bambina si dimostra sensibile alle narrazioni orali e alle tradizioni della cultura afroamericana. Compie gli studi superiori alla Howard University e alla Cornell University di Ithaca, dove si specializza in letteratura inglese con una tesi su William Faulkner e Virginia Woolf. Tra il 1955 e il 1964 insegna alla Texas Southern University e alla Howard University. Nel 1958 sposa l’architetto giamaicano Harold Morrison, da cui ha due figli e dal quale divorzia nel 1964, pur mantenendone il cognome. Dal 1964 al 1983 lavora come redattrice presso l’editore Random House di New York e in questa veste segue la pubblicazione delle opere di numerosi autori afroamericani. Nel 1970 pubblica The Bluest Eye. Nel 1973 dà alle stampe Sula. Insegna all’Università di Yale e alla State University of New York di Albany. Nel 1977 esce Song of Salomon, romanzo che viene scelto dal Book of the Month Club e diventa Libro del Mese e in seguito ottiene il National Book Critics Circle Award. Nel 1987 pubblica Beloved grazie al quale vince il Premio Pulitzer, lavora alll’Università di Berkeley e poi all’Università di Princeton, dove insegna Studi Afroamericani e scrittura creativa. Negli anni novanta pubblica il romanzo Jazz, cura e pubblica antologie di saggi e il nuovo romanzo Paradise. Dal duemila scrive libri per l’infanzia e fiabe con il figlio Slade Morrison e si interessa del ruolo della musica nella narrativa afroamericana. Nel 2012 dà alle stampe Home, il terzo romanzo di una trilogia che include Love e A Mercy, riceve dal presidente Obama la Presidential Medal of Freedom. Il 5 agosto del 2019 muore all’età di 88 anni, presso il Montefiore Medical Center di New York.

Quando pubblica la sua opera prima, The Bluest Eye, Toni Morrison ha quarant’anni e, per sua stessa ammissione, ha scritto «un libro che mi sarebbe piaciuto leggere» nel quale cioè si coagulano alcuni dei grandi temi della questione nera: il difficile rapporto con il sistema imperante di valori dei bianchi, la povertà, la marginalità, l’umiliazione, il peso del pregiudizio razziale. Pecola Breedlove, una bambina di colore nata da genitori miseri e litigiosi, che non sanno prendersi cura di lei, viene affidata a una coppia modesta ma affettuosa che la cresce assieme alle figlie, Frieda e Claudia. Attraverso lo sguardo di Claudia possiamo osservare Pecola, irrisa, ignorata e fatta oggetto di violenza proprio da chi dovrebbe amarla, che prega ogni sera perché i suoi occhi diventino finalmente azzurri come quelli di Shirley Temple. Un mondo in cui non sembra esserci speranza di riscatto, in cui la svalutazione e la subalternità sono accettati anche da chi ne è vittima, viene raccontato con la forza di uno stile originale che insegue la fluidità del parlato.

In Song of Salomon il giovane Malcon Dead, che da sempre si porta dietro un soprannome imbarazzante, Milkman, è oppresso da un padre indifferente e manesco, capace di nascondere le proprie origini dietro il conquistato benessere economico, e da una madre fragile e ossessiva. Milkman si scopre lentamente grazie a Pilate, la sorella del padre, una delle grandi figure di donne tratteggiate da Morrison, madri e streghe, inizia il suo viaggio alla ricerca delle proprie radici e di un tesoro nascosto, al posto dell’oro troverà le tracce dei suoi avi e la storia meravigliosa di un uomo che sapeva volare. Non ci sono bianchi in questo racconto ma solo neri che, finalmente liberi e agiati, guardano indietro per ritrovare la memoria e riconoscersi.

Beloved è il canto corale, intimo e doloroso, che sale dal popolo nero ridotto in schiavitù. È la storia di una vita di incredibile forza e insopportabile dolore, che ha attraversato ogni umiliazione, ogni affronto, ogni ingiustizia e ha saputo testimoniare la forma più terribile d’amore. Sethe fugge dal Kentucky schiavista verso la libertà dell’Ohio con i figli ma, quando il padrone sembra in procinto di raggiungerla per riportarla indietro, si nasconde nella legnaia, decisa a eliminare i suoi stessi figli pur di sottrarli a un destino di schiavitù, e uccide Beloved, la piccola di due anni. Sethe, finalmente libera, vive con Denver, la figlia partorita durante la fuga, ma è perseguitata dalla presenza della bambina uccisa che, un giorno, si materializza in una ragazza di cui nessuno sa nulla. Il romanzo, in un vortice di piani temporali, grazie ad uno stile che echeggia la voce afroamericana, l’alterità della cultura nera, mescolando realtà, magia e folklore, trascina chi legge nell’orizzonte, indicibile, di chi si è visto sottrarre ogni diritto e ogni dignità. Costringe insomma a ricordare l’orrore che si vorrebbe dimenticare: alla fine, come sostiene Morrison, ciò che è veramente incredibile è che ci possa essere stata la schiavitù, non certo un romanzo su di un fantasma.

Jazz si svolge ad Harlem, luogo afroamericano per eccellenza. Negli anni Venti del Novecento un uomo uccide la giovane amante, la moglie cerca di vendicarsi sfregiando la salma, ma poi poggia sul camino la foto della ragazza. Il romanzo racconta una storia di amori, di desideri, di silenzi e di musica, in cui ognuno dei personaggi offre la propria versione del dramma, con la propria voce e il proprio dolore, secondo una tecnica che imita la varietà dei ritmi e l’improvvisazione della musica jazz.


Traduzione francese

Guenoah Mroue

«Pour ses œuvres caractérisées par une grande habileté de romancier, soutenue par une force visionnaire et une intensité poétique qui donnent vie à un aspect essentiel de la réalité nord-américaine».

À l’occasion de la cérémonie au cours de laquelle elle a reçu le prix, l’écrivain a prononcé un long discours qui met en évidence la réflexion attentive sur le langage et le pouvoir qui caractérise son œuvre:

«Le langage oppressif fait quelque chose de plus que représenter la violence ; il est la violence ; il fait quelque chose de plus que représenter les limites de la connaissance; il limite la connaissance. Si c’est le langage qui obscurcit l’état ou le faux langage des médias stupides; si c’est le langage fier mais embaumé de l’académie ou le langage confortable de la science; si c’est le langage malin de la loi sans éthique, ou le langage fait exprès pour discriminer les minorités, cacher son pillage raciste dans son impudence littéraire - il doit être rejeté, modifié et exposé. C’est le langage qui boit du sang, qui plie les vulnérabilités, qui cache ses bottes fascistes sous des crinolines de respectabilité et de patriotisme et se déplace avec hâte et fureur vers la ligne inférieure et vers les esprits inférieurs. Langage sexiste, langage raciste, langage théiste - tous sont des langages typiques de la politique de la domination, et ils ne peuvent et ne permettent pas de nouvelles connaissances ni n’encouragent l’échange mutuel d’idées».

Chloe Anthony Wofford est née à Lorain, dans la ville industrielle de l’Ohio, le 18 février 1931. De famille ouvrière, originaire du Sud, elle se montre dès son enfance sensible aux récits oraux et aux traditions de la culture afro-américaine. Elle fait ses études secondaires à l’Université Howard et à l’Université Cornell d’Ithaca, où elle se spécialise en littérature anglaise avec une thèse sur William Faulkner et Virginia Woolf. Entre 1955 et 1964, elle enseigne à l’Université du Texas Southern et à l’Université Howard. En 1958, elle épouse l’architecte jamaïcain Harold Morrison, avec qui elle a deux enfants et mais elle divorce en 1964, tout en conservant son nom de famille. De 1964 à 1983, elle travaille en tant que rédactrice à l’éditeur Random House de New York et de ce fait suit la publication des œuvres de nombreux auteurs afro-américains. En 1970, elle publie The Bluest Eye. En 1973, elle imprime Sula. Elle enseigne à l’Université de Yale et à l’Université d’État de New York à Albany. En 1977, elle publie Song of Salomon, roman choisi par le Book of the Month Club et devient Livre du mois, puis obtient le National Book Critics Circle Award. En 1987, elle publie Beloved grâce auquel elle remporte le Prix Pulitzer, elle travaille à l’Université de Berkeley puis à l’Université de Princeton, où elle enseigne les études afro-américaines et l’écriture créative. Dans les années 1990, elle publie le roman Jazz, des anthologies d’essais et le nouveau roman Paradise. Depuis 2000, elle écrit des livres pour l’enfance et des contes de fées avec son fils Slade Morrison et s’intéresse au rôle de la musique dans la fiction afro-américaine. En 2012, elle publie Home, le troisième roman d’une trilogie incluant Love et A Mercy, et reçoit du président Obama la Presidential Medal of Freedom. Le 5 août 2019, elle décède à l’âge de 88 ans au Montefiore Medical Center de New York.

Lorsqu’elle publie son premier ouvrage, The Bluest Eye, Toni Morrison a quarante ans et, de son propre aveu, elle a écrit « un livre que j’aurais aimé lire » dans lequel se rassemblent quelques-uns des grands thèmes de la question noire : le rapport difficile avec le système dominant de valeurs des blancs, la pauvreté, la marginalité, l’humiliation, et le poids du préjugé racial. Pecola Breedlove, une petite fille noire née de parents pauvres et querelleurs, qui ne savent pas prendre soin d’elle, est confiée à un couple modeste mais affectueux qui l’élève avec ses filles, Frieda et Claudia. À travers le regard de Claudia, nous pouvons observer Pecola, irritée, ignorée et violentée par ceux qui devraient l’aimer, qui prie chaque soir pour que ses yeux deviennent enfin bleus comme ceux de Shirley Temple. Un monde où il ne semble pas y avoir d’espoir de rédemption, où la dévaluation et la subalternité sont acceptées même par ceux qui en sont victimes, est raconté avec la force d’un style original qui poursuit la fluidité de la parole.

Dans Song of Salomon, le jeune Malcolm Dead, qui porte depuis toujours un surnom embarrassant, Milkman, est opprimé par un père indifférent et maniaque, capable de cacher ses origines derrière le bien-être acquis, et par une mère fragile et obsessionnelle. Milkman se découvre lentement grâce à Pilate, la sœur de son père, l’une des grandes figures de femmes pointillées par Morrison, mères et sorcières, commence son voyage à la recherche de ses propres racines et d’un trésor caché, au lieu de l’or, elle trouvera les traces de ses ancêtres et l’histoire merveilleuse d’un homme qui savait voler. Il n’y a pas de Blancs dans ce récit, mais seulement des Noirs qui, enfin libres et aisés, regardent en arrière pour retrouver la mémoire et se reconnaître.

Beloved est le chant choral, intime et douloureux, qui monte du peuple noir réduit en esclavage. C’est l’histoire d’une vie, d’une force incroyable et d’une douleur insupportable, qui a traversé toute humiliation, tout affront, toute injustice et qui a su témoigner de la forme la plus terrible d’amour. Sethe s’échappe du Kentucky esclavagiste vers la liberté de l’Ohio avec ses enfants mais, quand le maître semble sur le point de la rejoindre pour la ramener, elle se cache dans la bûche, décidée à éliminer ses propres enfants pour les soustraire à un destin d’esclavage, et tue Beloved, la petite de deux ans. Enfin libre, Sethe vit avec Denver, la fille qui a accouché pendant l’évasion, mais elle est hantée par la présence de la fillette assassinée qui, un jour, se matérialise en une jeune fille dont personne ne sait rien. Le roman, dans un tourbillon de plans temporels, grâce à un style qui fait écho à la voix afro-américaine, l’altérité de la culture noire, mêlant réalité, magie et folklore, entraîne ceux qui lisent dans l’horizon, indicible, de ceux qui se sont vus soustraire à tout droit et toute dignité. En somme, elle force à se souvenir de l’horreur qu’on voudrait oublier : à la fin, comme le dit Morrison, ce qui est vraiment incroyable, c’est qu’il y ait eu de l’esclavage, et non pas un roman sur un fantôme.

Jazz a lieu à Harlem, lieu afro-américain par excellence. Dans les années 1920, un homme tue la jeune maîtresse, la femme tente de se venger en enlevant le corps, mais pose la photo de la jeune fille sur la cheminée. Le roman raconte une histoire d’amours, de désirs, de silences et de musique, dans laquelle chacun des personnages offre sa propre version du drame, avec sa propre voix et sa propre douleur, selon une technique qui imite la variété des rythmes et l’improvisation de la musique jazz.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Awarded for «…novels characterized by great skill as a novelist, sustained by a visionary force and poetic import that bring to life an essential aspect of North American reality».

At the award ceremony, Morrison delivered a lengthy speech that highlighted the careful reflection on language and on power that characterizes her work:

«Oppressive language does more than represent violence; it is violence; does more than represent the limits of knowledge; it limits knowledge. Whether it is obscuring state language or the faux-language of mindless media; whether it is the proud but calcified language of the academy or the commodity driven language of science; whether it is the malign language of law-without-ethics, or language designed for the estrangement of minorities, hiding its racist plunder in its literary cheek – it must be rejected, altered and exposed. It is the language that drinks blood, laps vulnerabilities, tucks its fascist boots under crinolines of respectability and patriotism as it moves relentlessly toward the bottom line and the bottomed-out mind. Sexist language, racist language, theistic language – all are typical of the policing languages of mastery, and cannot, do not permit new knowledge or encourage the mutual exchange of ideas».

Chloe Anthony Wofford was born in Lorain, an industrial city in Ohio on February 18, 1931. From a working-class family, originally from the South, she showed sensitivity to oral narratives and traditions of African American culture from an early age. She completed her high school studies and then enrolled at Howard University, and later, obtained a Master’s degree from Cornell University in Ithaca, where she majored in English literature and completed a thesis on William Faulkner and Virginia Woolf. Between 1955 and 1964 she taught at Texas Southern University and Howard University. In 1958 she married Jamaican architect Harold Morrison, by whom she had two children and from whom she divorced in 1964, though she retained his surname. From 1964 to 1983 she worked as an editor at the publisher Random House in New York and in this capacity she followed the publication of the works of numerous African American authors. In 1970 she published The Bluest Eye. In 1973 her second novel, Sula, appeared in print. She then taught at Yale University and the State University of New York at Albany. In 1977 she published Song of Solomon, a novel that was chosen by the Book of the Month Club and later won the National Book Critics Circle Award. In 1987 she published Beloved, thanks to which she won the Pulitzer Prize. She taught at the University of California, Berkeley and then Princeton University, where she taught African American Studies and Creative Writing. In the 1990s she edited and published anthologies of essays, and published two novels, Jazz and Paradise. In the following years, she wrote children's books and fairy tales with her son Slade Morrison, and was interested in the role of music in African American fiction. In 2012 her novel Home appeared, the third novel in a trilogy that includes Love and A Mercy, and received the Presidential Medal of Freedom from President Obama. On August 5, 2019, she died at the age of 88 at Montefiore Medical Center in New York City.

When she published her first work, The Bluest Eye, Toni Morrison was forty years old and, stated that she had written "a book I would have loved to read" in which some of the great issues of the black question coalesce - the difficult relationship with the prevailing white value system, poverty, marginality, humiliation, and the weight of racial prejudice. In The Bluest Eye, Pecola Breedlove, a black child born to miserable, quarrelsome parents who do not know how to care for her, is placed in the care of a modest but loving couple who raise her along with their daughters, Frieda and Claudia. Through Claudia's gaze we can observe Pecola, mocked, ignored and made the object of violence by the very people who should love her, praying every night that her eyes will finally become as blue as Shirley Temple's. A world in which there seems to be no hope of redemption, in which devaluation and subordination are accepted even by those who are its victims, is unfolded with the force of an original style with great fluidity of speech.

In Song of Solomon, young Macon Dead III, known by the awkward nickname of Milkman, is oppressed by an indifferent and hyper-masculine father, capable of hiding his origins behind his conquered economic well-being, and by a fragile and obsessive mother. Milkman slowly discovers himself through Pilate, his father's sister, one of the great figures of women, mothers and witches, sketched by Morrison, and begins his journey in search of his roots and a hidden treasure. Instead of gold he will find the traces of his ancestors and the wonderful story of a man who could fly. There are no whites in this tale but only blacks who, finally free and comfortable, look back to find their memories and recognize themselves.

Beloved is a choral song, intimate and painful, rising from enslaved black people. It is the story of a life of incredible strength and unbearable pain, which has gone through every humiliation, every affront, every injustice and has been able to witness the most terrible form of love. Sethe flees enslaved Kentucky to free Ohio with her children but, when her master seems about to catch up with her to bring her back, she hides in the woodshed, determined to eliminate her own children in order to rescue them from a fate of slavery, and kills Beloved, the little two-year-old. Sethe, finally free, lives with Denver, the daughter she gave birth to during her escape, but is haunted by the presence of the murdered child who, one day, materializes into a girl no one knows anything about. The novel, in a maelstrom of temporal planes, thanks to a style that echoes the African-American voice, the otherness of black culture, mixing reality, magic and folklore, takes the reader into the horizon, unspeakable, of those who have had every right and every dignity taken away from them. In short, it forces one to remember the horror one would like to forget. In the end, as Morrison argues, what is truly unbelievable is that there could have been slavery, not that there is a novel about a ghost.

Jazz takes place in Harlem, an African American setting par excellence. In the 1920s, a man kills his young lover. His wife, enraged, responds by attacking the body with a knife, but then places the girl's picture on the mantelpiece. The novel tells a story of loves, desires, silences and music, in which each of the characters offers his or her own version of the drama, with his or her own voice and pain, according to a technique that reflects the variety of rhythms and improvisation of jazz music.


Traduzione spagnola

Maria Carreras i Goicoechea

 Premio Nobel de literatura en 1993 «Por sus novelas caracterizadas por una fuerza visionaria y un sentido poético que dan vida a un aspecto esencial de la realidad estadounidense».

En la ceremonia de entrega del premio, la escritora pronunció un largo discurso que hacía hincapié en la atenta reflexión sobre el lenguaje y el poder que caracteriza su obra:

«El lenguaje opresivo hace más que representar la violencia; es violencia; hace más que representar los límites del conocimiento, lo limita. Sea el oscuro lenguaje de estado o las tergiversaciones de los insensatos medios; sea el maligno lenguaje de la ley-sin-ética, o aquél designado para el alienamiento de las minorías, escondiendo sus saqueos racistas debajo de un maquillaje literario- todo esto debe ser rechazado, alterado y expuesto. Es el lenguaje que chupa sangre, que se ajusta la bota fascista con crinolinas de respetabilidad y patriotismo al tiempo que se mueve implacablemente hacia el último y más oscuro lugar de la mente. Lenguaje sexista, lenguaje racista, lenguaje teísta- son todas formas típicas de las políticas de lenguaje del dominio, que no pueden y no permiten nuevos conocimientos ni el encuentro de nuevos intercambios de ideas».

Chloe Anthony Wofford nace en Lorain, una ciudad industrial de Ohio el 18 de febrero de 1931. De familia obrera procedente del sur, ya desde niña se muestra sensible a las narraciones orales y a las tradiciones de la cultura afroamericana. Realiza sus estudios superiores en la Howard University y en la Cornell University de Ithaca, donde se especializa en literatura inglesa con una tesis sobre William Faulkner y Virginia Woolf. Entre 1955 y 1964 enseña en la Texas Southern University y en la Howard University. En 1958 se casa con el arquitecto jamaicano Harold Morrison, con el que tiene dos hijos y del que se divorciará en 1964 pero cuyo apellido mantendrá siempre. De 1964 a 1983 trabaja como redactora en la Random House de Nueva York y con ese cargo sigue la publicación de las obras de numerosos/as autores/as afroamericanos. En 1970 publica The Bluest Eye (Ojos azules, Barcelona 1994) y en 1973 Sula (Sula, Barcelona 1998). Enseña en la universidad de Yale y en la State University of New York de Albany. En 1977 se publica Song of Salomon (La canción de Salomón, Barcelona 1978), novela seleccionada por el Book of the Month Club convirtiéndose en el Libro del Mes y todo seguido obtiene el National Book Critics Circle Award. En 1987 publica Beloved (Beloved, Barcelona 1988), novela con la que gana el Premio Pulizer; trabaja en la Universidad de Berkeley y sucesivamente en la de Princeton, donde enseña Estudios afroamericanos y escritura creativa. En los años noventa publica Jazz (Jazz, Barcelona 1993), algunas recolecciones de ensayos y la novela Paradise (Paraíso, Barcelona 1998). Desde el año 2000 escribe libros para la infancia y cuentos con su hijo Slade Morrison y se ocupa del mundo de la música en la narrativa afroamericana. En 2012 saca a la luz Home (Volver, Barcelona 2012), última novela de una trilogía que incluye Love de 2003 (Amor, Barcelona 2004) y A Mercy de 2008 (Una bendición, Barcelona 2009). Recibe la Presidential Medal of Freedom de manos del presidente Obama. El 5 de agosto de 2019 muere, a la edad de 88 años, en el Montefiore Medical Center de Nueva York.

Cuando publicó su ópera prima, The Bluest Eye, Toni Morrison tenía cuarenta años y, como ella misma admitió, había escrito «un libro que me hubiera gustado leer», es decir un libro en el que se coagulasen algunos de los grandes temas de la ‘cuestión negra’: la difícil relación con el imperante sistema de valores de los blancos, la pobreza, la marginalidad, la humillación y el peso del prejuicio racial. Pecola Breedlove, una niña de color hija de una pareja miserable que riñe todo el tiempo, y que no sabe cuidarla, queda bajo la custodia de una pareja modesta pero afectuosa que la cría junto a sus hijas, Frieda y Claudia. A través de la mirada de Claudia podemos observar a Pecola ridiculizada, ignorada y objeto de violencia por parte de quien debería amarla, que reza todas las noches para que sus ojos sean azules como los de Shirley Temple. Se narra, con la fuerza de un estilo original que persigue la fluidez de la oralidad, un mundo en el que no parece que haya esperanza alguna de redención, donde la devaluación y la subalternidad son aceptadas incluso por sus propias víctimas.

En La canción de Salomón el joven Malcon Dead, que desde siempre lleva arrastras el humillante apodo de Milkman, sufre la opresión de un padre indiferente y violento, que es capaz de esconder sus orígenes tras el bienestar económico conquistado, y de una madre frágil y obsesiva. Milkman se descubre a sí mismo poco a poco, gracias a Pilate, la hermana de su padre, una de las mayores figuras femeninas de Morrison, madres y brujas, y empieza un viaje en búsqueda de sus raíces y de un tesoro escondido: en lugar de oro encontrará las huellas de sus antepasados y la maravillosa historia de un hombre que sabía volar. En este cuento no hay blancos, solamente gente de color que, finalmente libre y acomodada, mira hacia atrás para recuperar la memoria y reconocerse.

Beloved es el canto coral, íntimo y doloroso, que asciende desde la gente de color reducida a la esclavitud. Es la historia de una vida increíblemente fuerte e insoportablemente dolorosa, que ha atravesado todas las humillaciones posibles, todas las afrentas, todas la injusticias y ha sabido testimoniar la forma de amor más terrible. Sethe huye del Kentucky esclavista hacia la libertad de Ohio con sus hijos pero, cuando el amo parece estar a punto de alcanzarla para volver a llevársela, se esconde en una leñera decidida a eliminar a sus propios hijos con tal de salvarlos de un futuro de esclavitud, y mata a Beloved, la pequeña de dos años. Finalmente libre, Sethe vive con Denver, la hija a la que dio a luz durante su fuga, sin embargo la persigue la presencia de la hija asesinada; esta, un día, se materializa en una chica de la que nadie sabe nada. La novela, en un torbellino de planos temporales, gracias a un estilo que recuerda la voz afroamericana, la alteridad de la cultura negra, mezclando la realidad con la magia y el folklore, arrastra la audiencia hasta el horizonte de lo indecible, de quien se ha visto arrancar todo derecho y toda dignidad. En resumidas cuentas, nos obliga a recordar el horror que quisiéramos olvidar: al fina y al cabo, como sostiene la propia Morrison, lo realmente increíble es que haya podido existir la esclavitud y no que exista una novela sobre un fantasma.

Jazz está ambientada en Harlem, lugar afroamericano por excelencia. En los años Veinte del siglo XX un hombre asesina a su joven amante, su esposa intenta vengarse acuchillando la cara del cadáver para desfigurala, sin embargo más tarde acabará colocando una foto de la chica en la repisa de la chimenea de su sala de estar. Esta novela narra una historia de amores, deseos, silencios y música, donde cada uno de los personajes ofrece su propia versión del drama, con su propia voz y su propio dolor, según una técnica que imita la variedad de ritmos y la improvisación de la música jazz.


Traduzione ucraina

Alina Petelko

Нобелівська премія з літератури 1993 року «За її твори, які характеризуються великою майстерністю романіста, підкріпленою фантазійною силою та поетичною інтенсивністю, які дають життя істотному аспекту північноамериканської реальності».

З нагоди церемонії вручення премії письменниця виголосила довгу промову, яка підкреслює ретельні роздуми про мову та силу, які характеризують її творчість:

«Репресивна мова не лише символізує насильство; це є насильство; не тільки являє межі знання; обмежує знання. Чи то мова, яка затьмарює державу, чи то фальшива мова дурних ЗМІ; чи це горда, але забальзамована мова академії чи зручна мова науки; чи це зловмисна мова закону без етики, чи мова, створена навмисно для дискримінації меншин, приховуючи своє расистське пограбування у своїй літературній сміливості, – вона має бути відкинута, змінена та викрита. Це мова, яка п’є кров, яка згортає вразливості, яка ховає свої фашистські чоботи під кринолінами респектабельності та патріотизму і швидко рухається до нижчої лінії і до нижчих розумів. Сексистська мова, расистська мова, теїстична мова – усе це типові мови політики домінування, і вони не можуть, не допускають нових знань або заохочують взаємний обмін ідеями».

Хлоя Ентоні Воффорд народилася 18 лютого 1931 року в Лорейні, індустріальному місті в штаті Огайо. Походить з сім’ї робітничого класу, родом з Півдня, з дитинства вона виявляла чутливість до усних оповідей і до всіх традицій афроамериканської культури. Закінчила середню школу в Університеті Говарда та Корнельському університеті в Ітаці, де спеціалізувалась на англійській літературі, захистивши дисертацію про Вільяма Фолкнера та Вірджинію Вулф. З 1955 по 1964 рік вона викладала в Південному Техаському університеті та Університеті Говарда. У 1958 році вийшла заміж за ямайського архітектора Гарольда Моррісона, від якого мала двох дітей і з яким розлучилася в 1964 році, зберігши його прізвище. З 1964 по 1983 рік працює як редактор у Random House у Нью-Йорку та в цій якості стежить за публікацією творів багатьох афроамериканських авторів. У 1970 році опублікувала The Bluest Eye (Найблакитніші очі). У 1973 році вийшла друком Sula (Сула). Вона викладає в Єльському університеті та Університеті штату Нью-Йорк в Олбані. У 1977 році вийшов роман Song of Solomon (Пісня Соломона), який був обраний клубом Book of the Month Club, та став «Книгою місяця», а згодом отримав нагороду National Book Critics Circle Award. У 1987 році вона публікує книгу Beloved (Кохана), за яку отримує Пулітцерівську премію, працює в Університеті Берклі, а потім у Прінстонському університеті, де викладає афроамериканські студії та творче письмо. У 90-х видала роман Jazz (Джаз), упорядкувала й видала антології есеїв і новий роман Paradise (Рай). З 2000 року вона пише дитячі книжки та казки разом зі своїм сином Слейдом Моррісоном і цікавиться роллю музики в афроамериканській фантастиці. У 2012 році публікує Home (Дім), третій роман у трилогії, яка включає Love (Любов) і A Mercy (Милосердя), і отримує президентську медаль Presidential Medal of Freedom від президента Обами. 5 серпня 2019 року вона померла у віці 88 років у медичному центрі Монтефіоре в Нью-Йорку.

Коли Тоні Моррісон публікує свою першу роботу The Bluest Eye (Найблакитніші очі), їй сорок років, і вона, за її власним визнанням, написала «книгу, яку я хотіла б прочитати», в якій згортаються деякі з великих тем темношкірого питання: складні стосунки з панівною системою білих цінностей, бідність, маргіналізація, приниження, тягар расових упереджень. Пекола Брідлав, темношкіра дівчина, народжена від нещасних і сварливих батьків, які не можуть про неї піклуватися, довірена скромній, але ласкавій парі, яка виховує її разом зі своїми доньками Фрідою та Клаудією. Поглядом Клаудії ми можемо спостерігати, як Пекола висміюється, ігнорується та стає об’єктом насильства з боку тих, хто повинен її любити, щовечора молитися, щоб її очі нарешті стали синіми, як у Ширлі Темпл. Світ, у якому, здається, немає надії на порятунок, у якому девальвація та підпорядкування прийнятні навіть тими, хто став їх жертвою, він розповідається з силою оригінального стилю, який імітує плавність мови.

У Song of Solomon (Пісня Соломона) молодий Мелкон Дед, який завжди носив ганебне прізвисько Молочник, пригнічується тендітною та одержимою матір’ю, а також байдужим і образливим батьком, який здатний приховати своє походження за завойованим економічним добробутом. Молочник повільно відкриває себе завдяки Пілату, сестра його батька, яка є однією з найвидатніших жіночих постатей, зображених Моррісоном. Мелкон починає свою подорож у пошуках свого коріння та захованого скарбу, замість золота він знайде сліди своїх предків та чудову історію людини, яка вміла літати. У цій історії немає білих, а лише чорні, які, нарешті вільні та забезпечені, озираються назад, щоб знайти пам’ять і впізнати себе.

Beloved (Кохана) це хорова пісня, інтимна й болюча, що лунає від темношкірих людей, пригнаних до рабства. Це історія життя неймовірної сили та нестерпного болю, яке пройшло через усі приниження, кожну образу, кожну несправедливість і змогло засвідчити найжахливішу форму кохання. Сете втікає від работорговця Кентуккі на свободу Огайо разом зі своїми дітьми, але коли господар, здається, збирається дістатися до неї, щоб повернути, вона ховається в дровняку, і вирішує знищити власних дітей, щоб врятувати їх від долі рабства, і вбиває Beloved, дворічну дівчинку. Сете, нарешті вільна, живе з Денвер, донькою, народженою під час втечі, але її переслідує присутність убитої дитини, яка одного дня матеріалізується в дівчину, про яку ніхто не знає. Роман, завдяки стилю, який перегукується з афроамериканським голосом, відмінність чорної культури, змішуючи реальність, магію та фольклор, залучає читача до невимовного горизонту тих, у кого вкрадено кожне право та гідність. Таким чином, це змушує нас згадати жах, який ми хотіли б забути: зрештою, як стверджує Моррісон, абсурд не в романі про привида, а в тому, що рабство справді існувало.

Історія Jazz (Джаз) розгортається в Гарлемі, афроамериканському місці par excellence. У 1920-х роках чоловік вбиває свою молоду коханку, його дружина намагається помститися, спотворивши тіло загиблої жінки, але потім вона вирішує поставити фото дівчини на камін. Роман розповідає про кохання, бажання, тишу та музику, у якій кожен із персонажів пропонує власну версію драми, своїм власним голосом та власним болем, за технікою, що імітує різноманітність ритмів та імпровізацію джазової музики.

Christiane Nüsslein – Volhard
Julia Vegro






Caori Murata

 

Christiane Nüsslein-Volhard è una biologa tedesca, vincitrice del Premio Nobel per la Medicina nel 1995, insieme a Edward Bok Lewis e Eric Wieschaus, «per le scoperte sul controllo genetico delle fasi precoci dello sviluppo embrionale». Il loro lavoro ha aiutato a risolvere uno dei grandi misteri della scienza: in che modo i geni in un ovulo fecondato arrivano a formare un embrione.

Christiane nasce il 20 ottobre 1942 a Magdeburgo, in Germania. Secondogenita di cinque fratelli, vive un’infanzia felice, nonostante il periodo del dopoguerra, grazie agli stimoli e al sostegno da parte dei genitori Rolf Volhard, architetto, e Brigitte Hass, che incoraggiano figli e figlie a interessarsi a molte attività e ad amare le arti in generale. Fin dall’infanzia emerge la propensione della ragazza verso l’osservazione di piante e animali. Nel 1964, dopo gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di Biologia di Francoforte. Nel 1969 completa gli studi specializzandosi in biochimica, per poi iscriversi al Max Planck Institute for Virus Research gestito da Heinz Schaller. Lavorando per il suo dottorato di ricerca, ha contribuito a migliorare i metodi di Schaller per purificare l’Rna polimerasi, un enzima essenziale che avvia la trascrizione dell’Rna dal Dna.

Ottenuto il dottorato in Biologia molecolare nel 1973, si occupa poi della morfogenesi dello sviluppo, ovvero il processo che porta un organismo ad assumere una determinata forma. Interessata ai geni che controllano lo sviluppo degli embrioni, vuole applicare la genetica a qualcosa di più dei semplici virus. La dottoressa Nüsslein-Volhard chiede a Walter Gehring di poter entrare nel suo laboratorio al Biozentrum di Basilea, dove stava studiando la Drosophila, o moscerino della frutta – organismo già da molto tempo utilizzato come modello negli studi genetici in laboratorio, sia per il breve ciclo vitale che per le dimensioni ridotte. Nel 1978, dopo diversi anni di studi sul gene bicaudale negli embrioni di Drosophila, Nüsslein-Volhard entra a far parte del Laboratorio Europeo di Biologia Molecolare di Heidelberg (Embl), dove continua il suo lavoro fino al 1980. Lì incontra l’uomo che diventerà il suo partner nella ricerca premiata con il Nobel: il biologo statunitense Eric Wieschaus (South Bend, 8 giugno 1947). Dal 1981 insegna presso l’Istituto Max Planck di Tubinga, dove, quattro anni più tardi, dirige il Dipartimento di Genetica, carica che ricoprirà fino al 2014. Nel 1986 ha ricevuto il Premio Leibnitz dall’importante Istituto Deutsche Forschungsgemeinschaft (Dfg), che in Germania rappresenta la più alta onorificenza per la ricerca. Nel 1991 vince il Premio Lasker per la ricerca medica di base. Dal 2001 è membro del Nationaler Ethikrat (Consiglio Etico Nazionale di Germania). Nel 2005 ha conseguito la laurea honoris causa all’Università di Oxford.

Christiane, con il collega Wieschaus, ha introdotto in biologia il concetto di «Grande Scienza» con un ambizioso progetto di mutagenesi, l’insieme dei processi chimico-fisici che portano a una mutazione, condotto su larga scala. In precedenza, la biologia molecolare era basata per lo più su esperimenti su piccola scala che dimostravano principi o che fornivano esempi di significato generale. Le ricerche che portano Nüsslein-Volhard a vincere il Nobel avevano lo scopo di identificare i geni responsabili della formazione degli embrioni della Drosophila melanogaster, il soggetto sperimentale scelto. Con Eric Wieschaus, la scienziata elabora il metodo della mutagenesi di saturazione, tramite il quale si producono mutazioni nei geni degli esemplari adulti per osservare l’impatto sulla prole. Questi geni sono stati trovati producendo mutazioni casuali nei moscerini e sottoponendoli a incroci di ibridazione. Utilizzando questo processo e verificando i difetti di sviluppo, è stato possibile identificare con esattezza quali geni sono interessati dalle mutazioni indotte e rilevare quelli specifici e cruciali per il processo evolutivo della Drosophila. Esaminando sistematicamente la composizione genetica dei campioni con un doppio microscopio, Nüsslein-Volhard e i suoi collaboratori identificano 20.000 geni nei cromosomi dei moscerini della frutta; ad alcuni di questi sono assegnati nomi specifici (come hedgehog). Gli studi successivi dei mutanti e delle loro interazioni condussero alla comprensione dei meccanismi di sviluppo dei segmenti corporei. In particolare, le cosiddette sequenze homeobox (Hox) sembravano svolgere un ruolo essenziale nello sviluppo embrionale dei moscerini della frutta. Successivamente è stato riscontrato che il gene homeobox è presente in tutte le specie animali. Questi risultati hanno portato anche a ipotizzare la presenza di un antenato ancestrale comune per i protostomi e i deuterostomi, e hanno contribuito ad aumentare le conoscenze sui meccanismi di regolazione della trascrizione cellulare.

La fondamentale scoperta, pubblicata nel 1980, ha implicazioni enormemente importanti sia per la determinazione dei processi di sviluppo nella Drosophila, sia perché geni analoghi sono presenti in altri organismi multicellulari, compreso l’essere umano. Dunque la studiosa ha contribuito ad aumentare notevolmente la comprensione dello sviluppo embrionale, aprendo la strada alla conoscenza delle cause di mutazioni e malformazioni in relazione alla riproduzione umana. A Nüsslein-Volhard viene attribuita inoltre la scoperta del gene toll, che ha portato alla successiva identificazione dei recettori toll-like, che svolgono un ruolo importante nel nostro sistema immunitario. Conseguito il Premio Nobel, Christiane ha rivolto le sue specifiche ricerche al pesce zebra. Oltre a essere una scienziata straordinaria, coltiva molti interessi: nel tempo libero porta avanti con passione il suo amore per la musica e per la cucina. Si approccia alla biologia con il dovuto rigore scientifico, ma anche con la sensibilità di un'artista: ritiene infatti che comprendere la natura è un vero e proprio atto creativo e che in un laboratorio la combinazione di diversi metodi e sistemi fornisce una base unica per comprendere più a fondo lo sviluppo della vita di una qualsiasi creatura.

Negli anni, in qualità di docente e ricoprendo il ruolo di mentore, ha formato nel suo laboratorio molti/e scienziati/e che oggigiorno svolgono autonomamente la loro attività di ricerca. Nel 2004 ha creato la Fondazione che porta il suo nome per supportare le donne più promettenti che decidono di dedicarsi alla carriera scientifica, consentendo loro di bilanciare gli obblighi familiari con i doveri lavorativi, per poter coltivare al meglio i propri progetti.


Traduzione francese

Guenoah Mroue

Christiane Nüsslein-Volhard est une biologiste allemande, gagnante du prix Nobel de médecine en 1995, avec Edward Bok Lewis et Eric Wieschaus, «pour les découvertes sur le contrôle génétique des phases précoces du développement embryonnaire». Leur travail a aidé à résoudre l’un des grands mystères de la science : comment les gènes d’un ovule fécondé arrivent à former un embryon.

Christiane est né le 20 octobre 1942 à Magdebourg, en Allemagne. Deuxième fille de cinq frères, elle vit une enfance heureuse, malgré la période d’après-guerre, grâce aux encouragements et au soutien de ses parents Rolf Volhard, architecte, et Brigitte Hass, qui encouragent leurs fils et filles à s’intéresser à de nombreuses activités et à aimer les arts en général. Dès l’enfance, la jeune fille a tendance à observer les plantes et les animaux. En 1964, après ses études secondaires, elle s’inscrit à la faculté de biologie de Francfort. En 1969, elle termine ses études en biochimie puis s’inscrit au Max Planck Institute for Virus Research dirigé par Heinz Schaller. En travaillant pour son doctorat, elle a contribué à améliorer les méthodes de Schaller pour purifier l’Arn polymérase, une enzyme essentielle qui déclenche la transcription de l’Arn à partir de l’Adn.

Après avoir obtenu son doctorat en biologie moléculaire en 1973, elle s’occupe ensuite de la morphogenèse du développement, c’est-à-dire du processus qui conduit un organisme à prendre une forme déterminée. Intéressée par les gènes qui contrôlent le développement des embryons, elle veut appliquer la génétique à quelque chose de plus que de simples virus. Le Dr Nüsslein-Volhard demande à Walter Gehring d’entrer dans son laboratoire au Biozentrum de Bâle, où elle étudiait la drosophile, ou mouche des fruits - organisme depuis longtemps déjà utilisé comme modèle dans les études génétiques en laboratoire, tant pour le cycle de vie court que pour sa petite taille. En 1978, après plusieurs années d’études sur le gène bicaudal dans les embryons de Drosophila, Nüsslein-Volhard rejoint le Laboratoire Européen de Biologie Moléculaire de Heidelberg (Embl), où elle continue son travail jusqu’en 1980. Là, elle rencontre l’homme qui deviendra son partenaire dans la recherche récompensé par le prix Nobel : le biologiste américain Eric Wieschaus (South Bend, 8 juin 1947). Depuis 1981, elle enseigne à l’Institut Max Planck de Tübingen, où, quatre ans plus tard, elle dirige le Département de Génétique, poste qu’elle occupera jusqu’en 2014. En 1986, elle a reçu le Prix Leibnitz de l’important Institut Deutsche Forschungsgemeinschaft (Dfg), qui en Allemagne représente la plus haute distinction pour la recherche. En 1991, elle remporte le Prix Lasker pour la recherche médicale de base. Depuis 2001, elle est membre du Nationaler Ethikrat (Conseil Ethique National d’Allemagne). En 2005, elle obtient un doctorat honoris causa à l’université d’Oxford.

Christiane a introduit en biologie avec son collègue Wieschaus le concept de « Grande Science » avec un ambitieux projet de mutagenèse, l’ensemble des processus physico-chimiques conduisant à une mutation, menée à grande échelle. Auparavant, la biologie moléculaire était principalement basée sur des expériences à petite échelle qui démontraient des principes ou fournissaient des exemples de signification générale. Les recherches qui ont conduit Nüsslein-Volhard à gagner le prix Nobel visaient à identifier les gènes responsables de la formation des embryons de la Drosophila melanogaster, le sujet expérimental choisi. La scientifique élabore avec Eric Wieschaus la méthode de la mutagenèse de saturation, par laquelle des mutations sont produites dans les gènes des spécimens adultes pour observer l’impact sur la progéniture. Ces gènes ont été trouvés en produisant des mutations aléatoires chez les moucherons et en les soumettant à des croisements d’hybridation. En utilisant ce processus et en vérifiant les défauts de développement, il a été possible d’identifier exactement quels gènes sont affectés par les mutations induites et de détecter les gènes spécifiques et cruciaux pour le processus évolutif de la drosophile. En examinant systématiquement la composition génétique des échantillons à l’aide d’un double microscope, Nüsslein-Volhard et ses collaborateurs identifient 20000 gènes dans les chromosomes des moucherons du fruit; certains d’entre eux portent des noms spécifiques (comme hedgehog). Les études ultérieures des mutants et de leurs interactions ont conduit à la compréhension des mécanismes de développement des segments corporels. Les soi-disant séquences homeobox (Hox) en particulier, semblaient jouer un rôle essentiel dans le développement embryonnaire des moucherons des fruits. Par la suite, il a été constaté que le gène homeobox était présent chez toutes les espèces animales. Ces résultats ont également conduit à supposer la présence d’un ancêtre ancestral commun pour les protostomes et les deutéromomes, et ont contribué à accroître les connaissances sur les mécanismes de régulation de la transcription cellulaire.

La découverte fondamentale, publiée en 1980, a des implications extrêmement importantes à la fois pour la détermination des processus de développement chez la drosophile et parce que des gènes similaires sont présents dans d’autres organismes multicellulaires, y compris l’être humain. Ainsi, la chercheuse a contribué à augmenter considérablement la compréhension du développement embryonnaire, ouvrant la voie à la connaissance des causes de mutations et de malformations en relation avec la reproduction humaine. On attribue également à Nüsslein-Volhard la découverte du gène toll, qui a conduit à l’identification ultérieure des récepteurs toll-like, qui jouent un rôle important dans notre système immunitaire. Gagnante du prix Nobel, Christiane a consacré ses recherches spécifiques au poisson zèbre. En plus d’être une scientifique extraordinaire, elle cultive de nombreux intérêts : pendant son temps libre, elle poursuit avec passion son amour de la musique et de la cuisine. Elle aborde la biologie avec la rigueur scientifique qui s’impose, mais aussi avec la sensibilité d’une artiste : elle estime en effet que la compréhension de la nature est un véritable acte créatif et que, dans un laboratoire, la combinaison de différentes méthodes et systèmes fournit une base unique pour mieux comprendre le développement de la vie de n’importe quelle créature.

Au fil des ans, en tant qu’enseignante et en tant que mentor, elle a formé dans son laboratoire de nombreux scientifiques et chercheurs indépendants. En 2004, elle a créé la Fondation qui porte son nom pour soutenir les femmes les plus prometteuses qui décident de se consacrer à la carrière scientifique, en leur permettant d’équilibrer les obligations familiales avec les devoirs professionnels, afin de mieux cultiver leurs propres projets.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Christiane Nüsslein-Volhard is a German biologist who won the 1995 Nobel Prize in Medicine, along with Edward Bok Lewis and Eric Wieschaus, "for discoveries on the genetic control of early stages of embryonic development." Their work helped solve one of the great mysteries of science - how genes in a fertilized egg come to form an embryo.

Christiane was born on Oct. 20, 1942, in Magdeburg, Germany. The second child of five siblings, she enjoyed a happy childhood, despite the postwar period, thanks to stimulation and support from her parents Rolf Volhard, an architect, and Brigitte Hass, who encouraged their sons and daughters to take an interest in many activities and to love the arts in general. From childhood, the girl's inclination toward observing plants and animals emerged. In 1964, after her high school studies, she enrolled in the Faculty of Biology in Frankfurt. In 1969 she completed her studies, majoring in biochemistry, and then enrolled at the Max Planck Institute for Virus Research run by Heinz Schaller. Working toward her PhD, she helped improve Schaller's methods for purifying RNA polymerase, an essential enzyme that initiates RNA transcription from DNA.

Earning her PhD in molecular biology in 1973, she then worked on developmental morphogenesis, the process that leads an organism to assume a certain shape. Interested in the genes that control embryo development, she wanted to apply genetics to more than just viruses. Dr. Nüsslein-Volhard asked Walter Gehring for access to his laboratory at the Biozentrum in Basel, where he was studying Drosophila, or fruit flies - an organism that had long been used as a model in laboratory genetic studies, both because of its short life cycle and small size. In 1978, after several years of studying the bicaudal gene in Drosophila embryos, Nüsslein-Volhard joined the European Molecular Biology Laboratory in Heidelberg (EMBL), where she continued her work until 1980. There she met the man who would become her partner in Nobel Prize-winning research, the U.S. biologist Eric Wieschaus (South Bend, Indiana, June 8, 1947). Since 1981 she has taught at the Max Planck Institute in Tübingen, where, four years later, she became head of the Department of Genetics, a position she held until 2014. In 1986 she received the Leibnitz Prize from the prominent Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG) Institute, which is the highest honor for research in Germany. In 1991 she won the Lasker Prize for basic medical research. Since 2001 she has been a member of the Nationaler Ethikrat (National Ethics Council of Germany). In 2005 she was awarded an honorary degree from Oxford University.

Christiane, with colleague Wieschaus, introduced the concept of "Big Science" to biology with an ambitious project on mutagenesis, the set of chemical and physical processes that lead to mutation, conducted on a large scale. Previously, molecular biology was mostly based on small-scale experiments that demonstrated principles or provided examples of general significance. The research that led to Nüsslein-Volhard winning the Nobel Prize was aimed at identifying the genes responsible for embryo formation in Drosophila melanogaster, the chosen experimental subject. With Eric Wieschaus, the scientist developed the saturation mutagenesis method, by which mutations are produced in genes of adult specimens to observe the impact on the offspring. These genes were found by producing random mutations in the flies and subjecting them to hybridization crosses. By using this process and checking for developmental defects, it was possible to identify exactly which genes are affected by the induced mutations and detect those that are specific and crucial to the evolutionary process of Drosophila. By systematically examining the genetic composition of samples with a binocular microscope, Nüsslein-Volhard and her collaborators identified 20,000 genes in the chromosomes of fruit flies; some of these are assigned specific names (such as hedgehog). Subsequent studies of mutants and their interactions led to an understanding of the mechanisms of body segment development. In particular, the so-called homeobox (HOX) sequences appeared to play an essential role in the embryonic development of fruit flies. Subsequently, the homeobox gene was found to be present in all animal species. These findings also led to speculation about the presence of a common ancestral basis for protostomes and deuterostomes, and contributed to increased knowledge about the mechanisms of cellular transcriptional regulation.

The fundamental discovery, published in 1980, has enormously important implications both for determining developmental processes in Drosophila, and also because similar genes are present in other multicellular organisms, including humans. So, the scholar has contributed greatly to increasing the understanding of embryonic development, paving the way for knowledge of the causes of mutations and malformations in relation to human reproduction. Nüsslein-Volhard is also credited with the discovery of the toll gene, which led to the subsequent identification of toll-like receptors, which play an important role in our immune system. Having earned the Nobel Prize, Christiane turned her specific research to zebrafish. In addition to being an outstanding scientist, she cultivates many interests. In her free time, she passionately pursues her love of music and cooking. She approaches biology with scientific rigor, but also with the sensitivity of an artist. She believes that understanding nature is a truly creative act and that in a laboratory the combination of different methods and systems provides a unique basis for a deeper understanding of the development of the life of any creature.

Over the years, as a lecturer and by serving as a mentor, she has trained many scientists (female and male) in her laboratory, who nowadays carry out their research activities independently. In 2004, she created the foundation that bears her name, to support the most promising women who decide to pursue a scientific career, enabling them to balance family obligations with their work so that they can best develop their projects.


Traduzione spagnola

Francesco Rapisarda

Christiane Nüsslein-Volhard es una bióloga alemana, ganadora del Premio Nobel de Medicina en 1995, junto con Edward Bok Lewis y Eric Wieschaus, “ por sus descubrimientos sobre el control genético de las primeras etapas del desarrollo embrionario ”. Su trabajo ayudó a resolver uno de los grandes misterios de la ciencia: cómo los genes de un óvulo fertilizado llegan a formar un embrión.

Christiane nació el 20 de octubre de 1942 en Magdeburgo, Alemania. Segunda hija de cinco hermanos, vivió una infancia feliz, a pesar del período de posguerra, gracias a los estímulos y el apoyo de su padre Rolf Volhard, arquitecto, y su madre Brigitte Hass, que animaron a sus hijos e hijas a interesarse por muchas actividades y a amar las artes en general. Desde la infancia surgió la propensión de la niña hacia la observación de plantas y animales. En 1964, tras sus estudios en el instituto, se matriculó en la Facultad de Biología de Frankfurt. En 1969 completó sus estudios especializándose en bioquímica, y luego se matriculó en el Max Planck Institute for Virus Research, dirigido por Heinz Schaller. Trabajando para su doctorado, ayudó a mejorar los métodos de Schaller para purificar la ARN polimerasa, una enzima esencial que inicia la transcripción del ARN a partir del ADN.

Una vez doctorada en Biología Molecular en 1973, se ocupó de la morfogénesis del desarrollo, es decir, el proceso que lleva a un organismo a adoptar una determinada forma. Interesada en los genes que controlan el desarrollo de los embriones, quiso aplicar la genética a algo más que simples virus. La doctora Nüsslein-Volhard le pidió a Walter Gehring que le permitiera acceder a su laboratorio en el Biozentrum de Basilea, donde estaba estudiando Drosophila, o mosca de la fruta – organismo ya desde hacía mucho tiempo utilizado como modelo en los estudios genéticos en aboratorio, tanto por l ciclo de vida corto como por su reducido tamaño. En 1978, tras varios años de estudios sobre el gen bicaudal en embriones de Drosophila, Nüsslein-Volhard se incorporó al Laboratorio Europeo de Biología Molecular de Heidelberg (Embl), donde continuó su trabajo hasta 1980. Allí conoció al hombre que se convertiría en su socio en la investigación galardonada con el Premio Nobel: el biólogo estadounidense Eric Wieschaus (South Bend, 8 de junio de 1947). Desde 1981 enseñó en el Instituto Max Planck de Tubinga, donde, cuatro años más tarde, dirigió el Departamento de Genética, cargo que ocupará hasta 2014. En 1986 recibió el Premio Leibnitz del importante Instituto Deutsche Forschungsgemeinschaft (Dfg), que en Alemania representa la más alta distinción para la investigación. En 1991 ganó el Premio Lasker de Investigación Médica Básica. Desde 2001 es componente del Nationaler Ethikrat (Consejo Nacional de Ética de Alemania). En 2005 obtuvo su título honoris causa en la Universidad de Oxford.

Christiane, con su colega Wieschaus, introdujo el concepto de “Megaciencia” en la biología, con un ambicioso proyecto de mutagénesis, el conjunto de procesos químico-físicos que conducen a una mutación, llevado a cabo a gran escala. Anteriormente, la biología molecular se basaba en su mayoría en experimentos a pequeña escala que demostraban principios o que proporcionaban ejemplos de significado general. Las investigaciones que llevaron a Nüsslein-Volhard a ganar el Premio Nobel tenían como objetivo identificar los genes responsables de la formación de los embriones de la Drosophila melanogaster, el sujeto experimental elegido. Con Eric Wieschaus, la científica elaboró el método de la mutagénesis de saturación, mediante el cual se producen mutaciones en los genes de los especímenes adultos para observar el impacto en la descendencia. Estos genes se encontraron produciendo mutaciones aleatorias en los mosquitos y sometiéndolos a cruces de hibridación. Utilizando este proceso y verificando los defectos de desarrollo, fue posible identificar con exactitud qué genes se ven afectados por las mutaciones inducidas y detectar los genes specíficos y cruciales para el proceso evolutivo de la Drosophila. Al examinar sistemáticamente la composición genética de las muestras con un doble microscopio, Nüsslein-Volhard y sus colaboradores identificaron 20.000 genes en los cromosomas de las moscas de la fruta; a algunos de ellos se les asignan nombres específicos (como hedgehog). Los estudios posteriores de los mutantes y sus interacciones condujeron a la comprensión de los mecanismos de desarrollo de los segmentos corporales. En particular, las llamadas secuencias homeobox (Hox) parecían desempeñar un papel esencial en el desarrollo embrionario de los mosquitos de la fruta. Posteriormente se encontró que el gen homeobox está presente en todas las especies animales. Estos hallazgos también llevaron a la hipótesis de la presencia de un antepasado ancestral común para los protóstomos y deuteróstomos, y contribuyeron a aumentar el conocimiento sobre los mecanismos de regulación de la transcripción celular.

El descubrimiento fundamental, publicado en 1980, tiene implicaciones enormemente importantes tanto para la determinación de los procesos de desarrollo en la Drosophila, como porque genes análogos están presentes en otros organismos multicelulares, incluido el ser humano. Así que la estudiosa ha contribuido a aumentar considerablemente la comprensión del desarrollo embrionario, allanando el camino para el conocimiento de las causas de las mutaciones y malformaciones en relación con la reproducción humana. A Nüsslein-Volhard también se le atribuye el descubrimiento del gen toll, que condujo a la posterior identificación de los receptores toll-like, que desempeñan un papel importante en nuestro sistema inmunitario. Al obtener el Premio Nobel, Christiane dirigió sus investigaciones específicas al pez cebra. Además de ser una científica extraordinaria, cultiva muchos intereses: en su tiempo libre lleva adelante con pasión su amor por la música y la cocina. Se acerca a la biología con el debido rigor científico, pero también con la sensibilidad de un artista: de hecho considera que comprender la naturaleza es un verdadero acto creativo y que en un laboratorio la combinación de diferentes métodos y sistemas proporciona una base única para comprender más a fondo el desarrollo de la vida de cualquier criatura.

A lo largo de los años, como profesora y como mentora, ha formado en su laboratorio a muchos científicos que hoy en día realizan su actividad de investigación de forma autónoma. En 2004 creó la Fundación que lleva su nombre para apoyar a las mujeres más prometedoras que deciden dedicarse a la carrera científica, permitiéndoles equilibrar las obligaciones familiares con los deberes laborales, para poder cultivar mejor sus proyectos.


Traduzione ucraina

Alina Petelko

Крістіан Нюссляйн-Вольхард - німецький біолог, лауреат Нобелівської премії з медицини 1995 року разом з Едвардом Боком Льюїсом та Еріком Вішаусом "за відкриття в галузі генетичного контролю ранніх стадій ембріонального розвитку". Їх робота допомогла розгадати одну з найбільших загадок науки: як гени в заплідненій яйцеклітині формують ембріон.

Крістіан народилася 20 жовтня 1942 року в Магдебурзі, Німеччина. Друга дитина з п'яти братів і сестер, вона прожила щасливе дитинство, незважаючи на післявоєнний період, завдяки заохоченню та підтримці своїх батьків Рольфа Вольхарда, архітектора, та Бріджит Хасс, які заохочували сина та доньку цікавитися багатьма видами діяльності та любити мистецтво в цілому. З раннього дитинства у дівчинки проявився нахил до спостереження за рослинами і тваринами. У 1964 році, після закінчення середньої школи, вступила на біологічний факультет у Франкфурті-на-Майні. У 1969 році вона закінчила навчання за спеціальністю "біохімія", а потім вступила до Інституту Макса Планка з дослідження вірусів під керівництвом Хайнца Шаллера. Працюючи над докторською дисертацією, він допоміг удосконалити методи Шаллера для очищення РНК-полімерази, важливого ферменту, який ініціює транскрипцію РНК з ДНК.

Вона отримала ступінь доктора молекулярної біології в 1973 році і потім працювала над морфогенезом розвитку, процесом, який призводить до того, що організм набуває певної форми. Цікавлячись генами, які контролюють розвиток ембріона, вона хоче застосувати генетику не лише до вірусів. Доктор Нюссляйн-Вольхард попросив Вальтера Герінга надати доступ до його лабораторії в Біоцентрі в Базелі, де він вивчає дрозофілу, або плодову мушку - організм, який здавна використовувався як модель в лабораторних генетичних дослідженнях, як через короткий життєвий цикл, так і через малі розміри. У 1978 році, після декількох років вивчення бікаудального гена в ембріонах дрозофіли, Нюссляйн-Вольхард приєднався до Європейської лабораторії молекулярної біології в Гейдельберзі (Embl), де продовжував свою роботу до 1980 року. Там він познайомився з людиною, яка стане його партнером у дослідженнях, відзначених Нобелівською премією, - американським біологом Еріком Вішаусом (Саут-Бенд, 8 червня 1947 р.). З 1981 року викладав в Інституті Макса Планка в Тюбінгені, де через чотири роки очолив кафедру генетики, яку обіймав до 2014 року. У 1986 році отримав Лейбніцську премію Німецького товариства дослідників (Dfg), найвищу наукову нагороду Німеччини. У 1991 році отримав премію Ласкера за фундаментальні медичні дослідження. З 2001 року є членом Національної ради з етики Німеччини (Nationaler Ethikrat). У 2005 році отримав почесний ступінь Оксфордського університету.

Крістіан разом зі своїм колегою Вішаусом ввели поняття "великої науки" в біологію, реалізувавши амбітний проект з мутагенезу - сукупності хімічних і фізичних процесів, які призводять до мутації, що проводяться у великих масштабах. Раніше молекулярна біологія здебільшого базувалася на дрібномасштабних експериментах, які демонстрували принципи або наводили приклади загального значення. Дослідження, які привели Нюссляйн-Вольхард до Нобелівської премії, були спрямовані на виявлення генів, відповідальних за формування ембріона у дрозофіли меланогастер, обраної в якості експериментального об'єкта. Разом з Еріком Вішаусом вчений розробив метод мутагенезу насичення, за допомогою якого в гени дорослих особин вносяться мутації, щоб спостерігати за впливом на потомство. Ці гени були знайдені шляхом створення випадкових мутацій у мошок і піддавання їх гібридизаційному схрещуванню. Використовуючи цей процес та перевіряючи дефекти розвитку, вдалося точно визначити, які саме гени уражаються індукованими мутаціями, та виявити ті з них, які є специфічними та вирішальними для еволюційного процесу дрозофіли. Систематично досліджуючи генетичний склад зразків за допомогою подвійного мікроскопа, Нюссляйн-Вольхард і його співробітники ідентифікували 20 000 генів в хромосомах плодових мушок; деякі з них отримали специфічні назви (наприклад, їжачок). Подальші дослідження мутантів та їх взаємодій привели до розуміння механізмів розвитку сегментів тіла. Зокрема, виявилося, що так звані гомеобоксні послідовності (Hox) відіграють важливу роль в ембріональному розвитку плодових мух. Згодом було встановлено, що ген гомеобокс присутній у всіх видів тварин. Ці знахідки також привели до гіпотези про наявність спільного предка для протостом і дейтеростом, і сприяли розширенню знань про механізми, що регулюють клітинну транскрипцію.

Фундаментальне відкриття, опубліковане в 1980 році, має надзвичайно важливе значення як для визначення процесів розвитку дрозофіли, так і тому, що подібні гени присутні в інших багатоклітинних організмах, включаючи людину. Таким чином, вона сприяла значному розширенню розуміння ембріонального розвитку, проклавши шлях до пізнання причин мутацій і вад розвитку стосовно репродукції людини. Нюссляйн-Вольхарду також належить відкриття гена toll, що призвело до подальшої ідентифікації toll-подібних рецепторів, які відіграють важливу роль в нашій імунній системі. Після отримання Нобелівської премії Крістіан присвятила свої дослідження саме зебрам. Окрім того, що вона є видатним науковцем, вона має багато інтересів: у вільний час пристрасно займається музикою та кулінарією. Вона підходить до біології з необхідною науковою строгістю, але також і з чутливістю художника: вона вважає, що розуміння природи є воістину творчим актом і що в лабораторії поєднання різних методів і систем забезпечує унікальну основу для більш глибокого розуміння розвитку життя будь-якої істоти.

За роки роботи в якості викладача та наставника вона підготувала у своїй лабораторії багато науковців, які зараз проводять свої дослідження самостійно. У 2004 році вона створила фонд, який носить її ім'я, для підтримки перспективних жінок, які вирішили присвятити себе науковій кар'єрі, надаючи їм можливість поєднувати сімейні зобов'язання з робочими обов'язками, щоб мати можливість розвивати свої проекти.

Wisława Szymborska
Gabriella Milia





Caori Murata

 

Premio Nobel per la letteratura 1996. «Una poesia che con ironica precisione permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti di realtà umana».

Wisława Szymborska nasce a Bnin, oggi parte di Kórnik, nei pressi di Poznan il 2 luglio 1923. Nel 1929 si trasferisce con la famiglia a Cracovia dove frequenta il ginnasio e più tardi, tra il 1941 e il 1943, lavora come impiegata alle ferrovie per evitare la deportazione. Pubblica la sua prima poesia nel 1945 sul quotidiano Dziennik Polski e in quell’anno si iscrive alla facoltà di lettere e sociologia, ma interrompe gli studi perché, come lei stessa più tardi spiegò: «Nel 1947 la sociologia diventò mortalmente noiosa; si doveva spiegare tutto con il marxismo. Ho lasciato l’università perché già allora dovevo guadagnarmi da vivere».

Nel 1952 esce il suo primo volumetto di poesie Per questo viviamo e in quello stesso anno entra a far parte del Partito Operaio Unificato Polacco. Nel 1954 esce Domande poste a me stessa. Di queste due prime raccolte Szymborska non ha mai più autorizzato la ristampa. Nel 1957 pubblica Appello allo Yeti, nel quale già mostra di essersi allontanata dall’ideologia comunista anche se la rottura formale arriverà nel 1966, quando per solidarietà con il filosofo Kolakowski, espulso dal Partito, Szymborska ed altri scrittori restituiranno la tessera. Tre anni dopo tiene anonimamente la rubrica Posta Letteraria della rivista Vita Letteraria, in cui esamina manoscritti di aspiranti scrittori e sceglie quali poesie pubblicare. Negli anni Settanta abbandona questo incarico e continua la sua intensa attività di traduttrice dal francese. Nel frattempo insegna, pubblica alcuni libri tradotti dal ceco e dallo slovacco, abbandona l’ostello di via Krupnicza e si trasferisce per la prima volta in un piccolo appartamento tutto suo, “il cassetto”. Quando nel 1983 viene sciolta l’Unione dei letterati polacchi, gli scrittori e le scrittrici continuano a incontrarsi in clandestinità in circoli organizzati da Szymborska e dal filosofo Filipowicz, suo compagno. Nel 1991 le viene assegnato il premio Goethe. Nel 1995 riceverà la laurea honoris causa dell’Università di Poznan e il premio Herder dall’Università di Vienna. I riconoscimenti nel corso degli anni si moltiplicano fino al Nobel nel 1996. Nel 2002 esce Attimo, primo volume di poesie dopo il Premio Nobel e, nel 2003, Filastrocche per bambini grandi, un’insolita raccolta di poesie scherzose illustrate da suoi collage. Seguono nel 2005 Due punti e nel 2009 il volumetto Qui. Il 1º febbraio 2012 Wisława Szymborska muore nel sonno nella sua casa di Cracovia. All’epoca del Nobel, Szymborska in Italia è quasi sconosciuta, anche perché tutta la letteratura polacca non era popolare e la critica italiana accoglie la notizia con una certa diffidenza e perplessità. In pochi anni però, la sua posizione nel panorama culturale italiano cambia completamente e le sue opere vengono tradotte, stampate e ristampate in tutta Europa.

 Wisława Szymborska non ha mai amato parlare di sé e delle sue opere: è schiva, timida, riservata. In occasione del Nobel è costretta a farlo ma lo fa a suo modo, con l’ironia che la contraddistingue. Inizia così il discorso pronunciato il 7 dicembre 1996 all’Accademia Reale di Svezia:

«In un discorso, pare, la prima frase è sempre la più difficile. E dunque l’ho già alle mie spalle... Ma sento che anche le frasi successive saranno difficili, la terza, la sesta, la decima, fino all’ultima, perché devo parlare della poesia. Su questo argomento mi sono pronunciata di rado, quasi mai. E sempre accompagnata dalla convinzione di non farlo nel migliore dei modi…».

Al centro del discorso, Szymborska pone i tre punti fondamentali del suo essere poeta: l’ispirazione, i “non so” e lo stupore. Riguardo all’ispirazione afferma che essa non è una prerogativa dei poeti ma è di tutti gli individui che svolgono un lavoro con passione e con curiosità che non viene mai meno perché ogni volta che risolvono un problema, immediatamente in loro nascono nuovi interrogativi. Così «… il poeta, se è vero poeta, deve ripetere di continuo a se stesso “non so”. Con ogni sua opera cerca di dare una risposta, ma non appena ha finito di scrivere già lo invade il dubbio e comincia a rendersi conto che si tratta d’una risposta provvisoria e del tutto insufficiente…» E proprio dai “non so”, due paroline “brevi ma alate” come lei stessa le definisce, nasce l’ispirazione, dall’incessante ripeterle a se stessi in modo da non adagiarsi sul già noto e non dare nulla per scontato. E infine lo stupore: il mondo, secondo Szymborska, è uno “smisurato teatro” stupefacente «Ma nella definizione “stupefacente” si cela una sorta di tranello logico. Dopotutto ci stupisce ciò che si discosta da una qualche norma nota e generalmente accettata, da una qualche ovvietà a cui siamo abituati. Ebbene, un simile mondo ovvio non esiste affatto. Il nostro stupore esiste per se stesso e non deriva da nessun paragone con alcunché […] nel linguaggio della poesia, in cui ogni parola ha un peso, non c’è più nulla di ordinario e normale.» E la capacità di meravigliarsi, di stupirsi, l’accompagnerà per tutta la vita; anche da anziana, Szymborska avrà sempre lo stupore dei bambini che riescono così a vedere il mondo nella sua interezza. Lo stupore sarà una componente fondamentale della sua poesia. La poesia è allora lo strumento per parlare dello straordinario nell’ordinario.

«Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.»

[Ogni caso, 1972]

Nelle poesie di Wisława Szymborska anche l’ironia ha un ruolo fondamentale e, affiancata a immagini concrete, alleggerisce il testo proprio quando il centro dei suoi versi sembrano essere le grandi domande e il senso dell’esistenza, trasformando la drammaticità in un sorriso. E c’è anche la malinconia che deriva da un lato dalle vicende storiche – ha vissuto il nazismo, il totalitarismo comunista – e dall’altro dalle sofferenze e dalle perdite affrontate nella vita, anche se non traspare disperazione o angoscia. Nelle sue opere, inoltre, non mancano l’attualità e una componente di denuncia per ciò che il mondo si trova a vivere che lei esprime sempre senza retorica, con uno stile semplice e lineare, in versi liberi. In Vietnam (dalla raccolta Uno spasso, 1967), Szymborska va oltre il momento storico per giungere alla condizione della guerra di ogni tempo e luogo. E i dubbi, i “non so”, acquisiscono un valore universale così come l’unica certezza: l’amore della madre per i figli.

«Donna, come ti chiami? – Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so.
Perché ti sei scavata una tana sotterranea? – Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? – Non lo so.
Perché mi hai morso la mano? – Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? – Non lo so.
Da che parte stai? – Non lo so.
Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? – Sì.»

Monumento in memoria di Wisława Szymborska, Kórnik.

 


Traduzione francese

Guenoah Mroue

Prix Nobel de littérature 1996 «Un poème qui, avec une ironie précise, permet au contexte historique et biologique de venir à la lumière en fragments de réalité humaine».

Wisława Szymborska est né à Bnin, aujourd’hui partie de Kórnik, près de Poznan, le 2 juillet 1923. En 1929, elle s’installe avec sa famille à Cracovie où elle fréquente le gymnase et plus tard, entre 1941 et 1943, elle travaille comme employée aux chemins de fer pour éviter la déportation. Elle publie son premier poème en 1945 dans le quotidien Dziennik Polski et cette année-là, elle s’inscrit à la faculté de lettres et de sociologie, mais interrompt ses études car, comme elle l’explique plus tard : «En 1947, la sociologie devint mortellement ennuyeuse; on devait tout expliquer avec le marxisme. J’ai quitté l’université parce que je devais déjà gagner ma vie».

En 1952, elle publie son premier volume de poèmes Pour cela nous vivons et cette même année elle entre dans le Parti ouvrier unifié polonais. En 1954 sort Questions posées à moi-même. De ces deux premières collections, Szymborska n’a plus jamais autorisé la réimpression. En 1957, elle publie Appel au Yéti, dans lequel elle montre déjà qu’elle s’est éloigné de l’idéologie communiste même si la rupture formelle arrivera en 1966, quand par solidarité avec le philosophe Kolakowski, expulsé du Parti, Szymborska et d’autres écrivains rendront la carte. Trois ans plus tard, elle tient anonymement la rubrique Posta Letteraria de la revue Vita Letteraria, dans laquelle elle examine les manuscrits de futurs écrivains et choisit les poèmes à publier. Dans les années 1970, elle abandonne ce poste et poursuit son activité de traductrice française. Entre-temps, elle enseigne, publie des livres traduits du tchèque et du slovaque, elle quitte l’auberge de la rue Krupnicza et s’installe pour la première fois dans son propre petit appartement , "le tiroir". Lorsque l’Union des lettrés polonais est dissoute en 1983, les écrivains continuent à se rencontrer clandestinement dans des cercles organisés par Szymborska et son compagnon, le philosophe Filipowicz. En 1991, elle reçoit le prix Goethe. En 1995, elle reçoit le doctorat honoris causa de l’université de Poznan et le prix Herder de l’université de Vienne. Les prix au fil des ans se multiplient jusqu’au prix Nobel en 1996. En 2002 sort Attimo, premier volume de poèmes après le Prix Nobel et, en 2003, Comptines pour jeunes enfants, un recueil inhabituel de poèmes farcis illustrés par ses collages. Deux points suivent en 2005 et le volume Qui en 2009. Le 1er février 2012, Wisława Szymborska meurt dans son sommeil dans sa maison de Cracovie. À l’époque du Prix Nobel, Szymborska en Italie est presque inconnue, notamment parce que toute la littérature polonaise n’était pas populaire et que la critique italienne accueille la nouvelle avec une certaine méfiance et perplexité. En quelques années, cependant, sa position dans le paysage culturel italien change complètement et ses œuvres sont traduites, imprimées et réimprimées dans toute l’Europe.

Wisława Szymborska n’a jamais aimé parler d’elle-même et de ses œuvres: elle est pudique, timide, et réservé. Elle est obligée de le faire à l’occasion du Prix Nobel, mais elle le fait à sa manière, avec l’ironie qui la caractérise. Ainsi commence le discours prononcé le 7 décembre 1996 à l’Académie royale de Suède:

«Dans un discours, il semble, la première phrase est toujours la plus difficile. Et donc je l’ai déjà derrière moi... Mais je sens que même les phrases suivantes seront difficiles, la troisième, la sixième, la dixième, jusqu’à la dernière, parce que je dois parler du poème. Sur ce sujet, je me suis rarement prononcée, presque jamais. Et toujours accompagnée de la conviction de ne pas le faire de la meilleure façon...».

Au centre du discours, Szymborska pose les trois points fondamentaux de son être poète : l’inspiration, les "je ne sais pas" et l’étonnement. Quant à l’inspiration, elle affirme qu’elle n’est pas une prérogative des poètes mais qu’elle est de tous les individus qui accomplissent un travail avec passion et avec curiosité qui ne faiblit jamais car chaque fois qu’ils résolvent un problème, immédiatement de nouvelles interrogations naissent en eux. Ainsi, «... le poète, s’il est vrai poète, doit se répéter "je ne sais pas". Avec chacune de ses œuvres, elle cherche à donner une réponse, mais dès qu’elle a fini d’écrire, elle envahit déjà le doute et commence à se rendre compte qu’il s’agit d’une réponse provisoire et tout à fait insuffisante...» Et justement des "je ne sais pas", deux mots "courts mais ailés" comme elle les définit elle-même, naît l’inspiration, de la répétition incessante à soi-même afin de ne pas se reposer sur le déjà connu et de ne rien prendre pour acquis. Et enfin l’étonnement : le monde, selon Szymborska, est un "théâtre démesuré" étonnant «Mais dans la définition "étonnant" se cache une sorte de piège logique. Après tout, ce qui nous étonne, c’est ce qui s’écarte d’une norme connue et généralement acceptée, d’une certaine évidence à laquelle nous sommes habitués. Or, un tel monde évident n’existe pas du tout. Notre étonnement existe pour elle-même et ne découle d’aucune comparaison avec quoi que ce soit [...] dans le langage de la poésie, où chaque mot a un poids, il n’y a plus rien d’ordinaire et de normal.» Et la capacité de s’émerveiller, l’accompagnera toute sa vie; même en étant âgée, Szymborska aura toujours l’étonnement des enfants qui réussissent ainsi à voir le monde dans sa totalité. L’étonnement sera une composante fondamentale de sa poésie. La poésie est alors l’instrument pour parler de l’extraordinaire dans l’ordinaire.

«Il n’y a pas de fin à mon étonnement, à mon silence.
Écoute
Comme ton cœur bat fort»

[Chaque cas, 1972]

Dans les poèmes de Wisława Szymborska, l’ironie joue également un rôle fondamental et, aux côtés d’images concrètes, elle allège le texte précisément lorsque le centre de ses vers semble être les grandes questions et le sens de l’existence, transformant le drame en un sourire. Et il y a aussi la mélancolie qui dérive d’une part des événements historiques - elle a vécu le nazisme, le totalitarisme communiste - et d’autre part des souffrances et des pertes affrontées dans la vie, même si elle ne transparaît pas de désespoir ou d’angoisse. De plus, dans ses œuvres, l’actualité ne manque pas et une composante de dénonciation pour ce que le monde doit vivre qu’elle exprime toujours sans rhétorique, avec un style simple et linéaire, en vers libres. Au Vietnam (de la collection Un Fun, 1967), Szymborska va au-delà du moment historique pour arriver à la condition de la guerre de tous les temps et de tous les lieux. Et les doutes, les "je ne sais pas", acquièrent une valeur universelle ainsi que la seule certitude: l’amour de la mère pour les enfants.

«Femme, quel est ton nom ? - Je ne sais pas.
Quand es-tu née, d’où viens-tu ? - Je ne sais pas.
Pourquoi as-tu creusé un terrier ? - Je ne sais pas.
Depuis quand tu te caches ici ? - Je ne sais pas.
Pourquoi tu m’as mordu la main ? - Je ne sais pas.
Tu sais qu’on ne te fera pas de mal ? - Je ne sais pas.
De quel côté es-tu ? - Je ne sais pas.
Maintenant, il y a la guerre, vous devez choisir. - Je ne sais pas.
Ton village existe toujours ? - Je ne sais pas.
Ce sont tes enfants ? - Oui.»

Monument à la mémoire de Wisława Szymborska, Kórnik.

 


Traduzione inglese

Syd Stapleton

1996 Nobel Prize in Literature Awarded «for poetry that with ironic precision allows historical and biological context to come to light in fragments of human reality».

Wisława Szymborska was born in Prowent (Poland), now part of Kórnik, near Poznan on July 2, 1923. In 1929 she moved with her family to Kraków, where she attended high school and later, between 1941 and 1943, working as a railway clerk, was able to avoid deportation. She published her first poem in 1945 in the newspaper Dziennik Polski and in that year enrolled in the faculty of literature and sociology, but interrupted her studies because, as she later explained, «In 1947 sociology became deadly boring; one had to explain everything with Marxism. I left the university because even then I had to earn a living».

In 1952 her first small volume of poems That’s Why We Are All Alive was published, and in that same year she joined the Polish Unified Workers' Party. In 1954 Questioning Yourself came out. Szymborska refused to ever authorized reprinting of these first two collections. In 1957 she published Calling Out to Yeti, in which she showed that she had already moved away from Communist ideology, although the formal break would come in 1966, when out of solidarity with the philosopher Kolakowski, expelled from the Party, Szymborska and other writers returned their membership cards. Three years later she anonymously wrote a book review column for the journal Życie Literackie [Literary Life], in which she examined manuscripts from aspiring writers and chose which poems to publish. In the 1970s she abandoned that post and continued her intense activity as a translator from French. In addition, she taught, published a few books translated from Czech and Slovak, left the hostel on Krupnicza Street and moved for the first time into a small apartment of her own, which she called "the drawer." When the Union of Polish Literati was dissolved in 1983, writers continued to meet in hiding in circles organized by Szymborska and her close friend, the philosopher and writer Filipowicz. In 1991 she was awarded the Goethe Prize. In 1995 she received an honorary degree from the University of Poznan and the Herder Prize from the University of Vienna. The awards over the years multiplied until the Nobel Prize in 1996. In 2002 Moment, the first volume of poems after the Nobel Prize, was published and, in 2003, Rhymes for Big Kids, an unusual collection of playful poems illustrated by her collages. This was followed in 2005 by Colon and in 2009 by the small volume Here. On February 1, 2012, Wisława Szymborska died in her sleep at her home in Krakow. At the time of the Nobel Prize, Szymborska was almost unknown in Italy, partly because Polish literature in general was not popular, and Italian critics greeted the news with a certain indifference and perplexity. Within a few years, however, her position in the Italian cultural scene changed completely and her works were translated, printed and reprinted throughout Europe.

Wisława Szymborska had never liked to talk about herself and her works - she was shy, timid, and reserved. On the occasion of the Nobel she was required to give a talk, but she did it in her own way, with her trademark irony. Thus, the speech she delivered on December 7, 1996, at the Royal Swedish Academy begins this way:

«They say the first sentence in any speech is always the hardest. Well, that one’s behind me, anyway. But I have a feeling that the sentences to come – the third, the sixth, the tenth, and so on, up to the final line – will be just as hard, since I’m supposed to talk about poetry. I’ve said very little on the subject, next to nothing, in fact. And whenever I have said anything, I’ve always had the sneaking suspicion that I’m not very good at it».

At the center of the discourse, Szymborska placed the three fundamental points of her being a poet: inspiration, "I don't know," and wonder. Regarding inspiration, she states that it is not the prerogative of poets but is the prerogative of all individuals who carry out work with a passion and curiosity that never fails because every time they solve a problem, new questions immediately arise in them. Thus, "Poets, if they’re genuine, must also keep repeating ‘I don’t know.’ Each poem marks an effort to answer this statement, but as soon as the final period hits the page, the poet begins to hesitate, starts to realize that this particular answer was pure makeshift that’s absolutely inadequate to boot…” And it is from the "I don't know" - words she described as "short but winged" - that inspiration is born, from the incessant repeating of them to oneself so as not to rest on the already known and not to take anything for granted. And finally, astonishment. The world, according to Szymborska, is a "boundless theater" and then adds, «But ‘astonishing’ is an epithet concealing a logical trap. We’re astonished, after all, by things that deviate from some well-known and universally acknowledged norm, from an obviousness we’ve grown accustomed to. Now the point is, there is no such obvious world. Our astonishment exists per se and isn’t based on comparison with something else. […] But in the language of poetry, where every word is weighed, nothing is usual or normal». And the ability to wonder, to be amazed, accompanied her throughout her life. Even as an elderly woman, Szymborska continued with the amazement of children who are thus able to see the world in its entirety. Awe is a fundamental component of her poetry. Poetry is then the tool to speak of the extraordinary in the ordinary.

«I can’t stop wondering at it, can’t be silent enough.
Listen,
How quickly your heart is beating in me».

From “Any Case” (1972)

Irony also plays a key role in Wisława Szymborska's poems and, placed side by side with concrete images, it lightens the text, turning drama into a smile, just when the center of her verses seems to be the big questions and the meaning of existence. And there is also the melancholy that stems on the one hand from historical events - she lived through Nazism and Communist totalitarianism - and on the other hand from the suffering and losses she faced in life, although no personal despair or anguish emerges in her work. Her works also do not lack topicality and an element of denunciation of what the world is experiencing, which she always expresses without rhetoric, in a simple, straightforward style, in free verse. In Vietnam (from the collection No End of Fun, 1967), Szymborska goes beyond the historical moment to the condition of warfare in every time and place. And the doubt, the "I don't know," acquires universal value as well as the one certainty - a mother's love for her children.

«Why did you dig that burrow? I don't know.
How long have you been hiding? I don't know.
Why did you bite my finger? I don't know.
Don't you know that we won't hurt you?
I don't know. Whose side are you on? I don't know.
This is war, you've got to choose. I don't know.
Does your village still exist? I don't know.
Are those your children? Yes.»

Monument in memory of Wisława Szymborska, Kórnik.

 


Traduzione spagnola

Martina Randazzo

Premio Nobel de Literatura 1996 «Una poesía que con precisión irónica deja que el contexto histórico y biológico aparezca en fragmentos de humana realidad».

Wisława Szymborska nació el 2 de julio de 1923 en Bnin, ahora parte de Kórnik, cerca de Poznan. En 1929 ella y su familia se mudaron a Cracovia donde ella fue al colegio y más tarde, entre los años 1941 y 1943, trabajó de ferroviaria para evitar la deportación. En 1945 publicó su primera poesía en el periódico Dziennik Polski y se matriculó en la Facultad de Literatura y Sociología, pero tuvo que abandonar sus estudios porque, como ella misma luego explicó: «en 1947 la sociología se había convertido en algo mortalmente aburrido; todo tenía que explicarse por medio del marxismo. Abandoné la universidad porque ya entonces tenía que ganarme la vida».

IEn 1952 salió su primer pequeño volumen de poesías, Dlatego żyjemy (Por eso vivimos), y ese mismo año se unió al Partido Obrero Unificado Polaco. En 1954 vio la luz Pytania zadawane sobie (Preguntas a mí misma). Szymborska nunca más autorizó la reimpresión de estas dos primeras recolecciones. En 1957 publicó Wołanie do Yeti (Llamando al Yeti), donde ya demostraba su distanciamiento de la ideología comunista, aunque el abandono formal se realizó en 1966, cuando por solidaridad con el filósofo Kolakowski, quien había sido expulsado del Partido, Szymborska y otros escritores devolvieron su carné del partido. Tres años después publicó de forma anónima la columna Correo Literario en la revista «Życie Literackie» (Vida Literaria), donde examinaba unos manuscritos de aspirantes a escritores y eligía los que se iban a publicar. En los años setenta abandonó ese trabajo y continuó su intensa actividad de traductora del francés. Mientras tanto dio clases, publicó unos libros traducidos del checo y del eslovaco, abandonó el albergue en la calle Krupnicza y se mudó por primera vez a un pequeño piso de su propriedad, “el cajón”. Cuando en 1983 se deshizo la Unión de Escritores Polacos, los escritores y las escritoras continuaron reuniéndose clandestinamente en círculos coordinados por Szymborska y por el filósofo Filipowicz, su pareja. En 1991 srecibió el premio Goethe. En 1995 fue nombrada honoris causa por la Universidad de Poznan y recibió el premio Herder de la Universidad de Viena. Con los años los reconocimientos se multiplicaron hasta el premio Nobel en 1996. En 2002 se publicó Chwila (Instante, trad. Gerardo Beltrán, Abel A. Murcia; Igitur, Tarragona, 2004), primer volumen de poesías después del premio Nobel y en 2003 Rymowanki dla dużych dzieci (literalmente Rimas para chicos grandes, sin traducción al español), una recolección original de poesías jocosas ilustradas por unos collages suyos. En 2005 salió Dwukropek (Dos puntos, trad. Gerardo Beltrán, Abel A. Murcia; Igitur, Tarragona, 2007) y en 2009 el pequeño volumen Tutaj (Aquí, trad. Gerardo Beltrán y Abel A. Murcia; edición bilingüe, Bartleby, Madrid, 2009). El 1 de febrero 2012 Wisława Szymborska murió mientras dormía en su casa, en Cracovia. Cuando recibió el Nobel, Szymborska era prácticamente desconocida en Italia (y en España donde la primera traducción de su obra tuvo lugar en 1997), porque la literatura polaca no era popular y la crítica italiana recibió la noticia con cierta desconfianza y perplejidad. Con pocos años, sin embargo, su lugar en el panorama cultural italiano cambió totalmente y sus obras fueron traducidas, imprimidas y reimprimidas por toda Europa.

A Wisława Szymborska nunca le gustó hablar de sí misma y de sus obras: ella era recatada, tímida y reservada. Con ocasión del premio Nobel tuvo que hablar en público, pero a su manera, con la auto ironía por la que ella destacaba. Así empieza el discurso pronunciado el 7 de diciembre de 1996 ante la Real Academia de Suecia:

«Se dice que en un discurso lo más difícil es siempre la primera frase… Pues ya la dije… Pero presiento que las que siguen van a ser igualm de difíciles, la tercera, la sexta, la décima, hasta la última, ya que debo hablar sobre poesía. Muy raras veces me he expresado acerca de este tema, casi nunca, y siempre con la convicción de que no lo hago muy bien...».

En el centro del discurso están los tres puntos esenciales del ser poeta para ella: la inspiración, los “no sé” y el asombro. Con respecto de la inspiración, ella sostiene que no es una prerrogativa de los poetas, sino de todos los individuos que trabajan con pasión y con la curiosidad que nunca falta, porque cada vez que ellos solucionan un problema otros interrogativos se originan de inmediato en ellos mismos. Así: «el poeta, si es un verdadero poeta, tiene que repetirse perpetuamente «no sé». Con cada verso intenta responder, pero en el momento en que pone el punto final, le asaltan las dudas y empieza a advertir que su respuesta es temporal y en ningún caso satisfactoria…». Y a partir de “no sé”, dos palabritas “dotadas de alas para su vuelo” como ella misma dice, se origina la inspiración, a partir de la interminable repetición de estas palabras por cada uno a sí mismo para no apoyarse en lo ya conocido y no dar nada por sentado. Y por fin el asombro: para Szymborska el mundo es un “teatro inmenso asombroso” «pero en la expresión asombroso se esconde una trampa lógica. Nos causa asombro lo que sobresale de la norma conocida y comúnmente aceptada, de una obviedad a la cual estamos acostumbrados. Pues bien, un mundo así, obvio, no existe. Nuestro asombro es autónomo y no procede de ninguna comparación de ningún tipo [...] en la lengua de la poesía, donde se pesa cada palabra, ya nada es común.» La capacidad de maravillarse, de asombrarse la acompañaron durante toda su vida; ya anciana, Szymborska admiró siempre a los niños porque pueden ver el mundo en su totalidad. El asombro fue parte fundamental de su poesía. Pues la poesía es el instrumento que sirve para hablar de lo extraordinario en lo ordinario.

«Nie umiem się nadziwić, namilczeć się temu.
Posłuchaj,
jak mi prędko bije twoje serce.»

(Wszelki wypadek, Czytelnik, 1972)

«Mi asombro no tiene límite,
mi silencio tampoco.
Escucha Como late fuerte tu corazón.»

En las poesías de Wisława Szymborska la auto ironía desempeña un papel fundamental y, junto a imágenes concretas, modera el texto precisamente cuando parece que el foco de sus versos son el sentido de existencia y las preguntas importantes, así que el drama se convierte en sonrisa. Se percibe también la melancolía que por un lado se origina de los acontecimientos históricos –vivió el nazismo y el totalitarismo comunista– y por otro lado de las penas y de las pérdidas a las cuales hizo frente en su vida, aunque no transparenten desesperación o aflicción. En sus obras, además, no faltan temas de actualidad y una componente de denuncia contra lo que está pasando en el mundo, algo que ella siempre expresa sin retórica, con un estilo simple y lineal, en verso libre. En Vietnam (en la recolección Sto pociech [ Un encanto]), Szymborska deja atrás el momento histórico para llegar a la condición de la guerra en todos tiempos y en cada lugar. Y las dudas, los “no sé”, adquieren valor universal tal como lo que sólo es cierto: el amor de una madre hacia sus hijos.

«Kobieto, jak się nazywasz? - Nie wiem.
Kiedy się urodziłaś, skąd pochodzisz? - Nie wiem.
Dlaczego wykopałaś sobie norę w ziemi? - Nie wiem.
Odkąd się tu ukrywasz? - Nie wiem.
Czemu ugryzłaś mnie w serdeczny palec? - Nie wiem.
Czy wiesz, że nie zrobimy ci nic złego? - Nie wiem.
Po czyjej jestes stronie? - Nie wiem.
Teraz jest wojna musisz wybrać. - Nie wiem.
Czy twoja wieś jeszcze istnieje? - Nie wiem.
Czy to są twoje dzieci? - Tak.»


«Mujer, ¿cómo te llamas? —No sé.
¿Cuándo naciste, de dónde eres? —No sé.
¿Por qué cavaste esta madriguera? —No sé.
¿Desde cuándo te escondes? —No sé.
¿Por qué me mordiste el dedo cordial? —No sé.
¿Sabes que no te vamos a hacer nada? —No sé.
¿A favor de quién estás? —No sé.
Estamos en guerra, tienes que elegir. —No sé.
¿Existe todavía tu aldea? —No sé.
¿Estos son tus hijos? —Sí.»

Monumento en memoria de Wisława Szymborska, Kórnik.

 


Traduzione ucraina

Alina Petelko

Нобелівська премія з літератури 1996 року. «Поезія, яка з іронічною точністю дозволяє історичному та біологічному контексту висвітлитися у фрагментах людської реальності».

Віслава Шимборська народилася 2 липня 1923 року в Бніні, тепер район Ку́рника, поблизу Познані. У 1929 році вона переїхала з родиною до Кракова, де відвідувала гімназію, а пізніше, між 1941 і 1943 роками, працювала на залізниці, щоб уникнути депортації. Свою першу поезію вона опублікувала в 1945 році в газеті Dziennik Polski і того року вступила на факультет літератури та соціології, але не закінчила навчання, тому що, як вона сама пізніше пояснила: «У 1947 році соціологія стала смертельно нудною; все треба було пояснювати марксизмом. Я покинула університет, бо вже тоді треба було заробляти на життя».

У 1952 році вийшла її перша збірка Ось чому ми живемо (Dlatego żyjemy) і того ж року вона вступила до Польської об’єднаної робітничої партії. У 1954 році вона опублікувала Питання для себе. З цих перших двох збірок Шимборська ніколи не дозволяла перевидання. У 1957 році вона опублікувала Волання до Єті, де вже видно, що вона відійшла від комуністичної ідеології, навіть якщо формальний розрив стався в 1966 році, коли Шимборська та інші письменники повернули партквиток на знак солідарності з філософом Колаковським, виключеним з партії. Через три роки вона анонімно веде рубрику Додаткові лекції (Lektury nadobowiązkowe) в журналі Życie Literacki, у якій вивчає рукописи письменників-початківців і обирає, які вірші опублікувати. У сімдесятих роках залишила цю посаду і продовжила інтенсивну діяльність як перекладач з французької. Тим часом вона викладає, видає кілька книжок, перекладених чеською та словацькою мовами, залишає гуртожиток на вулиці Крупнича та вперше переїжджає у маленьку власну квартиру, «шухляду». Коли Спілку польських письменників було розпущено в 1983 році, письменники продовжували збиратися, переховуючись, у гуртках, організованих Шимборською та її компаньйоном, філософом Філіповичем. У 1991 році вона була нагороджена премією Гете. У 1995 році вона отримає почесний ступінь Познанського університету та Гердерівську премію Віденського університету. Нагороди множилися з роками, до отримання Нобелівської премії в 1996 році. У 2002 році вийшов перший збірник поезій після Нобелівської премії Мить, а в 2003 році — Римованки для дорослих дітей — незвичайна збірка жартівливих віршів, проілюстрованих її колажами. У 2005 році вийшов Двокрапка, а в 2009 році буклет Тут. 1 лютого 2012 року Віслава Шимборська померла уві сні у своєму будинку в Кракові. На час отримання Нобелівської премії Шимборська була майже невідома в Італії ще й тому, що вся польська література не була популярною, а італійська критика сприйняла цю новину з деякою невпевненістю та здивуванням. Однак за кілька років її позиція на італійській культурній сцені повністю змінилася, її твори перекладалися, друкувались і перевидавалися по всій Європі.

Віслава Шимборська ніколи не любила розповідати про себе та свої твори: вона сором'язлива і замкнута. З нагоди вручення Нобелівської премії вона змушена розповідати про себе, але робить це по-своєму, з іронією, яка її вирізняє. Так починається промова, виголошена 7 грудня 1996 року в Королівській академії Швеції:

«У промові, здається, завжди найважче перше речення. І так у мене це вже позаду... Але я відчуваю, що навіть наступні речення будуть важкими, третє, шосте, десяте, аж до останнього, тому що я маю говорити про поезію. На цю тему я рідко, майже ніколи не висловлювався. І мене завжди супроводжує переконання, що я роблю це не найкращим чином...».

У центрі промови Шимборська ставить три фундаментальні моменти: натхнення, її «не знаю» та здивування. Стосовно натхнення вона стверджує, що це прерогатива не поетів, а всіх людей, які виконують роботу з пристрастю та цікавістю, яка завжди присутня, тому що щоразу, коли вони вирішують проблему, у них негайно виникають нові питання. Таким чином «…поет, якщо він справжній поет, повинен постійно повторювати собі «не знаю». Кожним своїм твором він намагається дати відповідь, але як тільки він закінчує писати, його вже охоплює сумнів, і він починає розуміти, що це тимчасова і зовсім недостатня відповідь...» І з «не знаю» два «короткі, але крилаті» слова, як вона сама їх визначає, народжується натхнення, з безперервного повторення їх собі, щоб не зупинятися на вже відомому і не сприймайте нічого як належне. І нарешті здивування: світ, за Шимборською, є дивовижним «величезним театром» «Але у визначенні «дивовижний» криється якась логічна пастка. Адже ми дивуємося тому, що відхиляється від якоїсь відомої і загальноприйнятої норми, від якоїсь очевидності, до якої ми звикли. Ну, такого очевидного світу взагалі не існує. Наше здивування існує саме по собі і не походить від жодного порівняння ні з чим [...] у мові поезії, в якій кожне слово має вагу, немає нічого звичайного і нормального». І вміння дивуватися супроводжуватиме її все життя; навіть будучи літньою жінкою, Шимборська завжди буде дивуватися дітям, які таким чином можуть бачити світ у його повноті. Здивування буде основною складовою її поезії. Тоді поезія є інструментом для розмови про надзвичайне у звичайному.

«Нема кінця моєму подиву, моєму мовчанню.
Слухай
як моє серце швидко б'ється«дивовижний».

Wszelki wypadek, 1972

У віршах Віслави Шимборської іронія також відіграє фундаментальну роль і, поєднана з конкретними образами, полегшує текст саме тоді, коли центром її поезій є великі питання та сенс існування, перетворюючи драму на посмішку. І є також меланхолія, яка походить, з одного боку, від історичних подій – вона пережила нацизм, комуністичний тоталітаризм – а з іншого – від страждань і втрат, з якими довелося зіткнутися в житті, однак в її творах не відчуваєш відчаю чи страждання. Крім того, в її творах не бракує злободенності та складової викриття того, що переживає світ, що вона завжди висловлює без риторики, простим і лінійним стилем, у вільному вірші. У В’єтнам (зі збірки Сто потіх, 1967) Шимборська виходить за межі історичного моменту, щоб досягти стану війни в будь-який час і в будь-якому місці. Сумніви, i багато «не знаю» набувають загальнолюдської цінності, а також єдиної певності: любов матері до дітей.

«Жінка, як тебе звати? — Не знаю.
Коли ти народилася, звідки ти? — Не знаю.
Навіщо ти вирила підземне лігво? — Не знаю.
Відколи ти тут ховаєшся? — Не знаю.
Чому ти вкусила мене за руку? — Не знаю.
Ти знаєш, що ми тобі нічого поганого не зробимо? — Не знаю.
На чиєму ти боці? — Не знаю.
Тепер війна, мусиш вибирати. — Не знаю.
А де твоє село? Не спалене? — Не знаю.
Чи то твої діти. — Так.»

Пам'ятник пам'яті Віслави Шимборської, Корник.

 

Jody Williams
Eleonora de Longis





Caori Murata

 

Jody Williams ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace 1997 ex-aequo con l’International Campaign to Ban Landmines (Icbl)

«per la sua azione a favore della messa al bando e dell’eliminazione delle mine antiuomo. Al momento attuale si valuta che almeno cento milioni di mine antiuomo sono sparse in larghe aree di più di un continente. Si tratta di ordigni tali da menomare e uccidere indiscriminatamente e rappresentano non solo una gravissima minaccia per le popolazioni civili, ma anche un ostacolo allo sviluppo economico e sociale di molti dei Paesi coinvolti. L’Icbl e Jody Williams hanno dato inizio a un processo che nello spazio di pochi anni ha fatto diventare la messa al bando delle mine da utopia, quale era, una prospettiva reale. La Convenzione che sarà firmata a Ottawa nel dicembre di quest'anno [1997 n.d.r.] è in gran parte il risultato del loro importante lavoro. Sono oltre mille le organizzazioni piccole e grandi affiliate nell’Icbl, che formano una rete attraverso la quale è stato possibile esprimere e veicolare una vasta e forte ondata di impegno popolare. Quando i governi di molti Paesi piccoli e medi hanno fatto proprie e portato avanti queste istanze, esse si sono trasformate in un concreto ed efficace progetto di pace. Il Comitato norvegese per il Nobel auspica che il processo che prenderà il via a Ottawa acquisisca un sostegno sempre più ampio. In quanto modello per analoghe esperienze future, si rivelerà decisivo per favorire gli impegni internazionali verso il disarmo e la pace».

Oslo, October 10, 1997

Una sintesi efficace della vita e dell’esperienza di Jody Williams la possiamo leggere nella premessa al suo libro autobiografico – My name is Jody Williams: A Vermont Girl's Winding Path to the Nobel Peace Prize – scritta con Eve Ensler, la ben nota autrice dei Monologhi della vagina:

«Jody Williams è molte cose: una ragazza del Vermont, la sorella di un ragazzo disabile, una moglie amorevole, una donna forte piena di impeto e di cattiveria, una grande stratega, una grande organizzatrice, una coraggiosa e instancabile avvocata, una vincitrice del Premio Nobel per la Pace. Per me è, innanzitutto e principalmente, una militante. Che cos’è una militante? Dice il dizionario: “sostenitrice particolarmente attiva ed energica di una causa, specialmente politica”. Nella mia personale accezione della parola – e credo che questo risalti chiaramente in questa ricca autobiografia – è militante chi non può fare a meno di battersi per una causa. Una persona che solitamente non è attratta dal potere o dal denaro o dalla notorietà, ma che quasi perde il lume della ragione di fronte a un’ingiustizia, a una violenza, a un abuso a tal punto da sentirsi costretta a reagire da una sorta di meccanismo morale interiore. Mi sono spesso chiesta in quale momento una persona diventa militante. Siamo nati con il gene della militanza e poi un evento o un episodio casuale lo attiva?».

Come mai di fronte alle iniquità compiute contro le persone amate, alcuni individui reagiscono e altri, invece, subiscono l’ingiustizia? Lo racconta senza retorica, con un linguaggio asciutto e lineare, la stessa Williams nella sua autobiografia.

Nasce a Poultney nel Vermont (Usa) il 9 ottobre 1950, seconda di cinque figli di una famiglia cattolica di sentimenti democratici: la sua infanzia è fortemente segnata dall’educazione religiosa ricevuta e dalle paure – del comunismo, dell’Unione Sovietica – indotte dal clima della guerra fredda. Una precoce sensibilità contro le ingiustizie viene suscitata in lei dalle condizioni del fratello maggiore sordo dalla nascita a causa della rosolia contratta dalla madre in gravidanza. La menomazione del ragazzo, progressivamente aggravatasi perché la situazione di disagio economico e culturale in cui versava la famiglia aveva impedito che fosse trattata adeguatamente, lo aveva reso vittima di abusi e prevaricazioni da parte di insegnanti e coetanei. Terminata la scuola superiore, Jody frequenta a Brattelboro – dove nel frattempo si era trasferita con la famiglia – la School for International Training, dedicandosi poi all’insegnamento dell’inglese e dello spagnolo, che la porterà nella primavera del 1976 in Messico, dove lavorerà per due anni. Sarà per Jody l’inizio di un forte interesse per le relazioni internazionali e, in particolare, per la politica degli Stati Uniti verso i Paesi dell’America centrale. Ritorna dal Messico intenzionata a proiettarsi in una dimensione di respiro “internazionale”, pensando che Washington D.C. avrebbe potuto soddisfare le sue aspirazioni. Decide infatti di stabilirvisi e trova un impiego prima come segretaria di un’agenzia di collocamento, poi come insegnante di inglese in una scuola agraria. Si rende ben presto conto che per realizzare le sue ambizioni ha bisogno di studi più qualificati e programma di iscriversi alla prestigiosa Johns Hopkins School of Advanced International Studies. Nel frattempo, entra casualmente in contatto con il Commettee in Solidarity with El Salvador (Cispes), nel periodo in cui nel Paese centroamericano, teatro di aspre lotte civili, viene ucciso l’arcivescovo Romero, che aveva preso aperta posizione contro la crescente ingerenza degli Stati Uniti. Mentre studia al Sais, Jody, contemporaneamente, si impegna nel Cispes che concentra le proprie attività nell’opposizione al coinvolgimento degli Stati Uniti a El Salvador e negli altri Paesi del Centroamerica, in un’escalation che assomiglia sempre più a quella compiuta nel Vietnam.

All’indomani della laurea alla Johns Hopkins School, Williams risponde a un annuncio per la partecipazione al Nicaragua-Honduras Education Project, al quale lavorerà dal 1984 al 1986. Alla chiusura del progetto, assorbito nell’alveo di un altro piano internazionale, Jody passa oltre cinque anni a El Salvador, occupata nel Medical Aid. Se le notizie della guerra del Vietnam erano state all’epoca la finestra sul mondo per la ragazza del Vermont, il soggiorno a El Salvador cambia il corso della vita di Jody e la immette sulla strada dell’impegno umanitario. Il lavoro in quei luoghi consisteva nell’individuare bambine e bambini che avevano subito una mutilazione per fatti bellici e organizzare il trasferimento loro e di un familiare – per lo più la madre – in ospedali statunitensi dove sarebbero stati curati, raccogliendo anche finanziamenti e donazioni per sovvenzionare il viaggio e la permanenza. All’inizio degli anni Novanta Jody, il cui impegno nella cura dell'infanzia salvadoregna aveva riscosso un ampio apprezzamento nell’ambito delle associazioni umanitarie, viene contattata per allestire con l’organizzazione tedesca Medico International, già sostenitrice di molti dei progetti di Medical Aid, e con la Vietnam Veterans of America Foundation, una campagna di sensibilizzazione dell'opinione pubblica mondiale finalizzata a impedire l'uso delle mine antiuomo. A partire dal 1992 si uniscono all’iniziativa numerose associazioni di personale sanitario, giuriste/i e altre figure professionali e Jody, coordinatrice della campagna, lavorerà indefessamente per diffondere la consapevolezza della peculiarità di un’arma che agisce e produce effetti devastanti ben oltre la fine dei combattimenti e, a differenza delle altre, non “torna a casa” a guerra finita insieme con gli eserciti, ma continua a colpire, uccidere, mutilare i civili, uomini, donne e bambine/i mentre svolgono le loro attività quotidiane. Jody prenderà parte a numerose conferenze e incontri in ogni parte del mondo e presso le organizzazioni internazionali, il Parlamento Europeo, le Nazioni Unite, le organizzazioni per l’unità africana. Scriverà inoltre molti contributi che approfondiscono gli aspetti sociali e le conseguenze economiche della presenza di mine antiuomo in vari Paesi.

Dalla metà degli anni 2000 Jody Williams si è dedicata in particolare alla Women’s Nobel Initiative, fondata da sei vincitrici di Nobel per la Pace: oltre a lei stessa, Shirin Ebadi, Wangari Maathai, Rigoberta Menchú, Mairead Maguire e Betty Williams. È pure a capo della fondazione della Città della Pace in Basilicata, nata dalla volontà di Betty Williams, scomparsa nel 2020; in occasione del suo soggiorno a Potenza si è espressa sulla situazione politica attuale e sulla guerra in Ucraina. In una intervista a Repubblica (24 maggio 2022) ha affermato: «La Fondazione Città della Pace ha accolto dal 2012 a oggi oltre 900 rifugiati che provengono da 30 Paesi. Di questi, più di 350 sono bambini con le loro famiglie e minori stranieri non accompagnati. Secondo il modello dell'accoglienza diffusa, sono ospitati in piccoli centri della Basilicata, garantendo loro un percorso di integrazione che coinvolge le comunità locali in un processo collettivo di crescita. «Cominciamo a cambiare il futuro dalle nostre comunità, insieme ai rifugiati" è lo slogan della Fondazione». Ha anche ricordato il percorso che la portò al Nobel: «Cominciammo con una persona: me. Siamo arrivati a coinvolgere 19 Paesi e organizzazioni, inclusa l'Italia, che attivò una mobilitazione incredibile. Insieme, la società civile, il comitato internazionale Croce rossa e altre organizzazioni abbiamo raggiunto questo obiettivo. Non significa che abbiamo cambiato il mondo, ma abbiamo fatto vedere come questo sia possibile». Ma ― avverte ― dobbiamo prepararci perché il cambiamento climatico e le crisi politiche in corso porteranno certamente una crisi alimentare globale e un flusso migratorio enorme; il suo impegno perciò resta più attivo che mai.


Traduzione francese

Guenoah Mroue

Jody Williams a reçu le Prix Nobel de la Paix 1997 ex aequo avec l’International Campaign to Ban Landmines (ICBL)

«pour son action en faveur de l’interdiction et de l’élimination des mines antipersonnel. Actuellement, on estime qu’au moins cent millions de mines antipersonnel sont disséminées dans de larges zones de plus d’un continent. Ces engins sont de nature à mutiler et à tuer sans discernement et représentent non seulement une menace très grave pour les populations civiles, mais aussi un obstacle au développement économique et social de nombreux pays concernés. L’ICBL et Jody Williams ont initié un processus qui, en l’espace de quelques années, a fait de l’interdiction des mines une utopie telle qu’elle était, une perspective réelle. La Convention qui sera signée à Ottawa en décembre de cette année [1997 n.d.r.] est en grande partie le résultat de leur important travail. Plus d’un millier de petites et grandes organisations affiliées à l’ICBL forment un réseau à travers lequel il a été possible d’exprimer et de véhiculer une vaste et forte vague d’engagement populaire. Quand les gouvernements de nombreux pays petits et moyens ont fait siennes et portées en avant ces instances, elles se sont transformées en un projet concret et efficace de paix. Le Comité Nobel norvégien espère que le processus d’Ottawa sera de plus en plus soutenu. En tant que modèle pour des expériences analogues futures, il se révélera décisif pour favoriser les engagements internationaux vers le désarmement et la paix».

Oslo, October 10, 1997

Un résumé efficace de la vie et de l’expérience de Jody Williams peut être lu dans le préambule de son livre autobiographique - My name is Jody Williams : A Vermont Girl’s Winding Path to the Nobel Peace Prize - écrit avec Eve Ensler, la célèbre auteur des Monologues du vagin:

«Jody Williams est: une fille du Vermont, la sœur d’un garçon handicapé, une épouse aimante, une femme forte pleine de fougue et de méchanceté, une grande stratège, une grande organisatrice, une avocate courageuse et infatigable, une lauréate du prix Nobel de la paix. Pour moi, elle est avant tout une militante. Qu’est-ce qu’une militante ? Le dictionnaire dit : "partisane particulièrement active et énergique d’une cause, spécialement politique". Dans mon sens personnel de la parole - et je crois que cela ressort clairement dans cette riche autobiographie - est militant celui qui ne peut s’empêcher de se battre pour une cause. Une personne qui n’est généralement pas attirée par le pouvoir ou l’argent ou la notoriété, mais qui perd presque la lumière de la raison face à une injustice, à une violence, à un abus au point de se sentir obligée de réagir par une sorte de mécanisme moral intérieur. Je me suis souvent demandé à quel moment une personne devient militante. Nous sommes nés avec le gène du militantisme et puis un événement ou un épisode aléatoire l’active?».

Comment se fait-il que face aux iniquités commises contre les personnes aimées, certains individus réagissent et d’autres, au contraire, subissent l’injustice? ElleIl le raconte sans rhétorique, avec un langage sec et linéaire, Williams elle-même dans son autobiographie.

Elle naît à Poultney dans le Vermont (USA) le 9 octobre 1950, deuxième d’une famille catholique de sentiments démocratiques : son enfance est fortement marquée par l’éducation religieuse reçue et par les peurs - du communisme, de l’Union soviétique - induites par le climat de la guerre froide. Une sensibilité précoce contre les injustices est suscitée en elle par l’état du frère aîné sourd de naissance à cause de la rubéole contractée par la mère enceinte. Le handicap du garçon, qui s’est progressivement aggravé parce que la situation de malaise économique et culturel dans laquelle se trouvait la famille l’avait empêché d’être traitée de manière adéquate, l’avait rendu victime d’abus et de prévarications de la part d’enseignants et de pairs. Après avoir terminé ses études secondaires, Jody fréquente à Brattelboro - où elle a déménagé avec sa famille - la School for International Training, se consacrant ensuite à l’enseignement de l’anglais et de l’espagnol, qui l’amènera au printemps 1976 au Mexique, où elle travaillera deux ans. Ce sera pour Jody le début d’un vif intérêt pour les relations internationales et, en particulier, pour la politique des États-Unis envers les pays d’Amérique centrale. Elle revient du Mexique avec l’intention de se projeter dans une dimension de souffle "international", en pensant que Washington D.C. aurait pu satisfaire ses aspirations. Elle décide de s’y installer et trouve un emploi d’abord comme secrétaire d’une agence de placement, puis comme professeur d’anglais dans une école agricole. Elle se rend vite compte que pour réaliser ses ambitions, elle a besoin d’études plus qualifiées et d’un programme d’inscription à la prestigieuse Johns Hopkins School of Advanced International Studies. Entre-temps, elle entre accidentellement en contact avec le Commettee in Solidarity with El Salvador (Cispes), au moment où, dans le pays d’Amérique centrale, théâtre de violentes luttes civiles, l’archevêque Romero est tué, qui avait pris ouvertement position contre l’ingérence croissante des États-Unis. Tout en étudiant à Sais, Jody, en même temps, s’engage dans le Cispes qui concentre ses activités dans l’opposition à l’implication des États-Unis au Salvador et dans d’autres pays d’Amérique centrale, dans une escalade qui ressemble de plus en plus à celle du Vietnam.

Au lendemain de son diplôme de la Johns Hopkins School, Williams répond à une annonce de participation au Nicaragua-Honduras Education Project, auquel elle travaillera de 1984 à 1986. À la clôture du projet, absorbé dans le cadre d’un autre plan international, Jody passe plus de cinq ans à El Salvador, occupée dans le Medical Aid. Si les nouvelles de la guerre du Vietnam avaient été à l’époque la fenêtre sur le monde pour la fille du Vermont, le séjour au Salvador change le cours de la vie de Jody et l’engage dans la voie de l’engagement humanitaire. Le travail dans ces lieux consistait à identifier les filles et les garçons qui avaient subi une mutilation pour des faits de guerre et à organiser leur transfert ainsi qu’un membre de la famille - principalement la mère - dans des hôpitaux américains où ils seraient soignés, en collectant également des fonds et des dons pour financer le voyage et le séjour. Au début des années Quatre-vingt-dix, Jody, dont l’engagement dans la garde de l’enfance salvadorienne avait été largement apprécié au sein des associations humanitaires, est contactée pour mettre en place avec l’organisation allemande Medico International, e a déjà soutenu de nombreux projets de Medical Aid, et avec la Vietnam Veterans of America Foundation, une campagne de sensibilisation de l’opinion publique mondiale visant à empêcher l’utilisation des mines antipersonnel. A partir de 1992, de nombreuses associations de personnel de santé, juristes et autres professionnels de la santé et Jody, coordinatrice de la campagne, se joignent à l’initiative, travaillera sans relâche pour sensibiliser à la particularité d’une arme qui agit et produit des effets dévastateurs bien au-delà de la fin des combats et, contrairement aux autres, elle ne "rentre pas chez elle à la guerre finie avec les armées, mais continue à frapper, tuer, mutiler les civils, hommes, femmes et fillettes tout en accomplissant leurs activités quotidiennes. Jody prendra part à de nombreuses conférences et rencontres dans le monde entier et auprès des organisations internationales, le Parlement européen, les Nations Unies, les organisations pour l’unité africaine. Elle écrira également de nombreuses contributions qui approfondissent les aspects sociaux et les conséquences économiques de la présence de mines antipersonnel dans différents pays.

Depuis le milieu des années 2000, Jody Williams se consacre en particulier à la Women’s Nobel Initiative, fondée par six lauréates du prix Nobel de la Paix : Shirin Ebadi, Wangari Maathai, Rigoberta Menchú, Mairead Maguire et Betty Williams. Elle est également à la tête de la fondation de la Cité de la Paix en Basilicate, née de la volonté de Betty Williams, disparue en 2020; à l’occasion de son séjour à Potenza, elle s’est exprimée sur la situation politique actuelle et sur la guerre en Ukraine. Dans une interview à Repubblica (24 mai 2022), elle a déclaré : «La Fondazione Città della Pace a accueilli depuis 2012 plus de 900 réfugiés provenant de 30 pays. Parmi eux, plus de 350 sont des enfants avec leurs familles et des mineurs étrangers non accompagnés. Selon le modèle de l’accueil diffus, ils sont hébergés dans de petits centres de la Basilicate, leur garantissant un parcours d’intégration qui implique les communautés locales dans un processus collectif de croissance. «Nous commençons à changer l’avenir de nos communautés, avec les réfugiés" est le slogan de la Fondation». Elle a également rappelé le chemin qui l’a amenée au Prix Nobel : «Nous avons commencé avec une personne : moi. Nous sommes arrivés à impliquer 19 pays et organisations, dont l’Italie, qui a déclenché une mobilisation incroyable. Ensemble, la société civile, le Comité international de la Croix-Rouge et d’autres organisations ont atteint cet objectif. Cela ne signifie pas que nous avons changé le monde, mais nous avons fait voir comment cela est possible». Mais nous devons nous préparer à ce que le changement climatique et les crises politiques actuelles entraînent certainement une crise alimentaire mondiale et un flux migratoire énorme; son engagement reste donc plus actif que jamais.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Jody Williams was awarded the 1997 Nobel Peace Prize on an equal footing with the International Campaign to Ban Landmines (ICBL)

«for their work to ban and eliminate landmines. At the present time it is estimated that at least one hundred million landmines are scattered over large areas of more than one continent. These devices are such that they maim and kill indiscriminately and pose not only a very serious threat to civilian populations, but also an obstacle to the economic and social development of many of the countries involved. The ICBL and Jody Williams began a process that in the space of a few years has changed banning landmines from a utopia, which it was, to a real prospect. The Convention to be signed in Ottawa in December of this year [1997 ed.] is largely the result of their important work. There are over a thousand small and large organizations affiliated in the ICBL, forming a network through which it has been possible to express and convey a vast and strong wave of popular commitment. When the governments of many small and medium-sized countries have taken up and carried forward these demands, they have been transformed into a concrete and effective peace project. The Norwegian Nobel Committee hopes that the process that will kick off in Ottawa will gain increasingly broad support. As a model for similar future experiences, it will prove decisive in furthering international commitments to disarmament and peace».

Oslo, October 10, 1997

An effective summary of Jody Williams' life and experience can be read in the foreword to her autobiographical book - My Name is Jody Williams: A Vermont Girl's Winding Path to the Nobel Peace Prize. The foreword, written by Eve Ensler, the well-known author of The Vagina Monologues, reads:

«Jody Williams is many things: a Vermont girl, the sister of a disabled boy, a loving wife, a strong woman full of impetus and nastiness, a great strategist, a great organizer, a courageous and tireless advocate, a Nobel Peace Prize winner. To me she is, first and foremost, a militant. What is a militant? The dictionary says: ‘a particularly active and energetic advocate of a cause, especially a political one.’ In my personal understanding of the word - and I think this stands out clearly in this rich autobiography - a militant is someone who cannot help but fight for a cause. A person who is usually not attracted to power or money or notoriety, but who almost loses his or her wits when faced with injustice, violence, or abuse to such an extent that he or she feels compelled to react by some sort of inner moral mechanism. I have often wondered at what point a person becomes militant. Are we born with the militancy gene and then a random event or episode activates it?»

Why is it that when faced with injustices done against loved ones, some individuals react and others, instead, submit to the injustice? Williams herself asks this without rhetoric, in dry, straightforward language, in her autobiography.

She was born in Poultney, Vermont, USA, on October 9, 1950, the second of five children in a Catholic family of democratic sentiments. Her childhood was strongly marked by the religious upbringing she received and the fears - of communism, of the Soviet Union - induced by the climate of the Cold War. An early sensitivity against injustice was aroused in her by the condition of her older brother who had been deaf since birth due to rubella contracted by his mother during pregnancy. The boy's impairment, which had progressively worsened because the family's economic and cultural hardships had prevented it from being properly treated, had made him a victim of abuse and bullying by teachers and peers. After finishing high school, Jody attended the School for International Training in Brattleboro, Vermont, where she had meanwhile moved with her family. She then devoted herself to teaching English and Spanish, which would take her in the spring of 1976 to Mexico, where she worked for two years. It became the beginning of a strong interest for Jody in international relations and, in particular, in U.S. policy toward Central American countries. She returned from Mexico intending to project herself into a dimension of "international" scope, thinking that Washington, D.C. could fulfill her aspirations. She decided to settle there and found employment first as a secretary in an employment agency, then as an English teacher in an agricultural school. She soon understood that to realize her ambitions she needed more qualified studies and planned to enroll in the prestigious Johns Hopkins School of Advanced International Studies (SAIS). In the meantime, she accidentally came into contact with the Committee in Solidarity with the People of El Salvador (CISPES) at a time when Archbishop Romero, who had taken an open stand against growing U.S. interference, was killed in the Central American country, the scene of bitter civil strife. While studying at the SAIS, Jody simultaneously became involved in CISPES, which focused its activities on opposing U.S. involvement in El Salvador and other Central American countries in an escalation that increasingly resembled that carried out in Vietnam.

In the aftermath of her graduation from the Johns Hopkins School, Williams responded to an advertisement for participation in the Nicaragua-Honduras Education Project, on which she worked from 1984 to 1986. When the project closed, absorbed into the fold of another international plan, Jody spent more than five years in El Salvador, employed in Medical Aid. If news of the Vietnam War had been the window on the world for the Vermont girl at the time, the stay in El Salvador changed the course of Jody's life and set her on the road to humanitarian engagement. The work there consisted of identifying girls and children who had been mutilated by war-related events and arranging for them and a family member – most often their mother - to be transferred to U.S. hospitals where they would be treated, while also raising funding and donations to subsidize the trip and stay. In the early 1990s, Jody, whose commitment to Salvadoran child care had been widely appreciated in the humanitarian arena, was approached to set up with the German organization Medico International, already a supporter of many of Medical Aid's projects, and the Vietnam Veterans of America Foundation, a worldwide public awareness campaign aimed at preventing the use of landmines. Starting in 1992, numerous associations of medical personnel, lawyers and other professionals joined the initiative, and Jody, coordinator of the campaign, worked tirelessly to spread awareness of the particular nature of a weapon that acts and produces devastating effects well after the end of combat and, unlike the others, does not "come home" at the end of the war along with the armies, but continues to strike, kill, and maim civilians, men, women and children as they go about their daily activities. Jody took part in many conferences and meetings in all parts of the world and at international organizations, the European Parliament, the United Nations, and the Organizations for African Unity. She also wrote many contributions that delve into the social aspects and economic consequences of the presence of landmines in various countries.

Since the mid-2000s Jody Williams has been particularly dedicated to the Women's Nobel Initiative, founded by six Nobel Peace Prize winners: in addition to herself, Shirin Ebadi, Wangari Maathai, Rigoberta Menchú, Mairead Maguire, and Betty Williams. She is also the head of the City of Peace Foundation in Basilicata, established by the will of Betty Williams, who passed away in 2020. During her stay in Potenza she spoke on the current political situation and the war in Ukraine. In an interview with Repubblica (May 24, 2022), she said, "The City of Peace Foundation has welcomed more than 900 refugees from 30 countries since 2012. Of these, more than 350 are children with their families and unaccompanied foreign minors. According to the model of widespread reception, they are hosted in small towns in Basilicata, guaranteeing them a path of integration that involves local communities in a collective process of growth. «Let's start changing the future from our communities, together with refugees' is the slogan of the Foundation.» She also recalled the path that led her to the Nobel - «We started with one person: me. We came to involve 19 countries and organizations, including Italy, which activated an incredible mobilization. Together with civil society, the International Committee Red Cross and other organizations we achieved this goal. It doesn't mean we have changed the world, but we have shown how it is possible.” But, she warns, "we must prepare ourselves because climate change and ongoing political crises will certainly bring a global food crisis and a huge flow of migration». Her commitment therefore remains more active than ever.


Traduzione spagnola

Erika Incatasciato

Jody Williams recibió el Premio Nobel de la Paz en 1997 ex-aequo con la Campaña Internacional para la Prohibición de las Minas Terrestres (International Campaign to Ban Landmines - ICBL):

«[…] por su acción en favor de la prohibición y la eliminación de las minas antipersonas. En la actualidad, se calcula que al menos cien millones de minas antipersonas están diseminadas por amplias zonas de más de un continente. Se trata de artefactos capaces de mutilar y matar indiscriminadamente y representan no solo una amenaza terrible para la población civil, sino también un obstáculo para el desarrollo económico y social de muchos de los países implicados. La ICBL y Jody Williams iniciaron el proceso que en unos pocos años ha hecho que la prohibición de las minas pase de ser una utopía, como era, a una perspectiva real. La convención que se firmóra en Ottawa en diciembre de este año [1997 NDR], en gran medida, es el resultado de su importante labor. Hay más de mil organizaciones pequeñas y grandes afiliadas a la ICBL, que forman una red a través de la cual se ha expresado y trasmitido una vasta y fuerte oleada de compromiso popular. En cuanto los gobiernos de muchos países pequeños y medianos asumieron y llevaron adelante estas solicitudes, se transformaron en un proyecto de paz concreto y eficaz. El Comité Noruego del Nobel espera que el proceso que se iniciara en Ottawa obtenga un apoyo cada vez más amplio. Como modelo para experiencias futuras similares, dicho proyecto, resultará decisivo para impulsar los compromisos internacionales del desarme y la paz. Oslo, 10 de Octubre de 1997».

Un eficaz resumen de la vida y la experiencia de Jody Williams puede leerse en el prólogo de su libro autobiográfico: My Name is Jody Williams: A Vermont Girl’s Winding Path to the Nobel Peace Prize (cuya traducción en español sería Mi nombre es Jody Williams: El Sinuoso camino de una Chica del Vermont hacia el Premio Nobel de la Paz) – escrito con Eve Ensler, la conocida autora de los Monólogos de la vagina:

«Jody Williams es muchas cosas: una chica del Vermont, la hermana de un chico discapacitado, una esposa cariñosa, una mujer fuerte llena de ímpetu y malicia, una gran estratega, una gran organizadora, una valiente e incansable defensora, una ganadora del Premio Nobel de la Paz. Para mí, ante todo, es una militante. ¿Qué es una militante? El diccionario dice: “partidaria particularmente activa y enérgica de una causa, especialmente política”. En mi interpretación personal de la palabra –y creo que esto se destaca claramente en esta rica autobiografía–, una militante es alguien que no puede evitar luchar por una causa. Una persona que no suele sentirse atraída por el poder, el dinero o la notoriedad, sino que casi pierde la cabeza cuando se enfrenta a una injusticia, a una violencia o un abuso hasta que se siente obligada a reaccionar por una especie de mecanismo moral interior. A menudo me he preguntado en qué momento una persona se convierte en militante. ¿Nacemos con el gen de la militancia y luego un suceso o episodio aleatorio lo activa?».

¿Por qué ante las iniquidades cometidas contra los seres queridos, unos reaccionan y otros sufren las injusticias? La propria Williams lo cuenta sin retórica, con un lenguaje seco y directo, en su autobiografía.

Nace en Poultney en el Vermont (EEUU) el 9 de octubre del 1950, la segunda de cinco hermanos en una familia católica de sentimientos demócratas: su infancia está fuertemente marcada por la educación religiosa que recibió y los temores –al comunismo; a la Unión Soviética– inducidos por el clima de la Guerra Fría. Una temprana sensibilidad contra las injusticias se despertó en ella por la condición de su hermano mayor, sordo de nacimiento debido a la rubéola contraída por su madre durante el embarazo. La discapacidad del niño que se había agravado progresivamente porque la situación de penuria económica y cultural de la familia había impedido tratarlo adecuadamente, le había convertido en víctima de abusos y prevaricaciones por parte de profesores y compañeros. Al terminar el bachillerado, Jody atiende en Brattelboro –donde entretanto se había traslado con su familia– la Escuela de Formación Internacional, dedicándose más tarde a la enseñanza de la lengua inglesa y española, que la llevó en México en la primavera de 1976, donde trabajará durante dos años. Para Jody, será el comienzo de un gran interés por las relaciones internacionales y, especialmente, por la política estadounidense hacia los países centroamericanos. Regresa de México con la intención de proyectarse en una dimensión de gusto “internacional”, pensando que Washington DC podría colmar sus aspiraciones. Decide instalarse allí y encuentra trabajo primero como secretaria en una agencia de empleo, luego como profesora de inglés en una escuela agrícola. Pronto se da cuenta de que para realizar sus ambiciones necesita estudios más cualificados y piensa en inscribirse en la prestigiosa School of Advanced International Studies (SAIS, en español Escuela de Estudios Internacionales Avanzados) de la Universidad John Hopkins. Mientras tanto, se pone accidentalmente en contacto con el Comité de solidaridad con El Salvador (ICBL), en un momento en que el arzobispo Romero, que había adoptado una postura abierta contra la creciente injerencia de los Estados Unidos, era asesinado en el país centroamericano, escenario de amargos enfrentamientos civiles. Mientras ella estudiaba en la SAIS, Jody se involucró en el Cispes que centraba sus actividades frente a las implicaciones de los Estados Unidos en El Salvador y en otros países centroamericanos, en una escalada que cada vez más se parecía a la del Vietnam.

Tras graduarse en la John Hopkins, Williams responde a un anuncio para participar en el Proyecto Educación de Nicaragua-Honduras, en el que trabajará de 1984 a 1986. Cuando terminó el Proyecto, absorbida por otro plan internacional, Jody pasó más de cinco años en El Salvador, empleada en la “Ayuda Médica para El Salvador”. Si las noticias de la guerra de Vietnam habían sido una ventana sobre el mundo para la chica del Vermont, su estancia en El Salvador cambió el curso de la vida de Jody y la encaminó hacia el compromiso humanitario. El trabajo allí consistía en identificar a niños y niñas que habían sufrido mutilaciones relacionadas con la guerra y organizar su traslado y el de un familiar –principalmente la madre– a hospitales estadounidenses donde recibirían tratamientos, incluso recaudando fondos y donaciones para subvencionar los viajes y las estancias. Al principio de los años Noventa, la organización alemana “Medico Internacional”, que ya apoyaba muchos de los proyectos de la “Ayuda Médica”, y la fundación de los Veteranos de Vietnam contactaron a Jody, cuyo compromiso con la atención de los niños salvadoreños había sido ampliamente aclamado en la comunidad humanitaria, para poner en marcha una campaña de sensibilización de la opinión pública mundial destinada a prevenir el uso de minas antipersonas. Desde 1992, numerosas asociaciones de personal médico, juristas y otro tipo de profesionales se unieron a la iniciativa, y Jody, coordinadora de la campaña, trabajará incansablemente para dar a conocer la peculiaridad de un arma que actúa y produce efectos devastadores mucho después del final de los combates y que, a diferencia de las demás, no “vuelve a casa” al final de la guerra junto con los ejércitos, sino que sigue golpeando, matando, mutilando a civiles, hombres, mujeres, niñas/niños durante sus actividades diarias. Jody participará en numerosas conferencias y reuniones en todo el mundo y en organizaciones internacionales, el Parlamento Europeo, las Naciones Unidas y organizaciones para la unidad africana. También escribirá muchas contribuciones que profundizan los aspectos sociales y las repercusiones económicas de la presencia de minas antipersonas en diversos países.

Desde mediados de los años 2000, Jody Williams se ha dedicado especialmente a la iniciativa de las Mujeres Nobel, fundada por seis ganadoras del Premio Nobel de la Paz, además de ella misma, Shirin Ebadi, Wangari Maathai, Rigoberta Menchú, Mairead Maguire y Betty Williams. También dirige la fundación de la Ciudad de la Paz en Basilicata, establecida por Betty Williams, fallecida en 2020; durante su estancia en Potenza, comentó la situación política actual y la guerra en Ucrania. En una entrevista con el periódico italiano «Republica» (24 de mayo 2022) afirmó que: «Desde 2012, la Fundación de la Ciudad de la Paz ha acogido a más de 900 refugiados llegados de 30 países. De ellos, más de 350 son niños con familias y menores extranjeros no acompañados. Según el programa de acogida extendido, están alojados en pequeños centros de la Basilicata, garantizándoles un camino de integración que implica a las comunidades locales en un proceso colectivo de crecimiento. «Empecemos a cambiar el futuro de nuestras comunidades junto con los refugiados” es el lema de la Fundación». También recordó el camino que la llevó al Premio Nobel «Empezamos con una persona: yo. Llegamos a implicar 19 países y organizaciones, incluída Italia, lo que desencadenó una movilización increíble. Juntos, la sociedad civil, el Comité Internacional de la Cruz Roja y otras organizaciones, conseguimos este objetivo. No significa que hayamos cambiado el mundo, pero hemos demostrado que es posible». Sin embargo –advierte– tenemos que prepararnos ya que el cambio climático y las crisis políticas en curso traerán sin duda una crisis alimentaria mundial y un enorme flujo migratorio; por lo tanto, su compromiso sigue tan activo como siempre. En 2017 firmó el manifiesto Let Catalan Vote a favor del derecho del pueblo catalán a votar sobre su futuro político.


Traduzione ucraina

Alina Petelko

Джоді Вільямс був удостоєний Нобелівської премії миру 1997 року ex-aequo разом з Міжнародною кампанією по забороні протипіхотних мін (Icbl):

«за його діяльність на користь заборони та ліквідації протипіхотних мін". Наразі оцінюється, що щонайменше сто мільйонів протипіхотних мін розкидані на великих територіях більш ніж одного континенту. Ці пристрої калічать і вбивають без розбору і становлять не лише дуже серйозну загрозу цивільному населенню, але й перешкоду для економічного і соціального розвитку багатьох країн, до яких вони застосовуються. Icbl та Джоді Вільямс ініціювали процес, який за кілька років перетворив заборону мін з утопії на реальну перспективу. Конвенція, яка буде підписана в Оттаві в грудні цього року [1997 р.], значною мірою є результатом їхньої важливої роботи. Понад тисяча малих і великих організацій, пов'язаних з ICBL, утворюють мережу, через яку виражається і передається широка і сильна хвиля народної прихильності. Коли уряди багатьох малих і середніх країн підхопили і продовжили ці вимоги, вони трансформувалися в конкретний і ефективний мирний проект. Норвезький Нобелівський комітет сподівається, що процес, який розпочнеться в Оттаві, отримає дедалі ширшу підтримку. Як модель для подібного досвіду в майбутньому, він матиме вирішальне значення для просування міжнародних зобов'язань щодо роззброєння і миру. »

Oslo, October 10, 1997

Ефективний підсумок життя та досвіду Джоді Вільямс можна прочитати у передмові до її автобіографічної книги "Мене звуть Джоді Вільямс: звивистий шлях дівчини з Вермонта до Нобелівської премії миру", написаної у співавторстві з Євою Енслер, відомою авторкою "Монологів вагіни":

«Джоді Вільямс - це багато чого: дівчинка з Вермонта, сестра хлопчика-інваліда, любляча дружина, сильна жінка, сповнена пориву і пустощів, великий стратег, чудовий організатор, мужній і невтомний захисник, лауреат Нобелівської премії миру. Для мене вона, в першу чергу, бойовик. Що таке бойовик? У словнику сказано: "особливо активний і енергійний прихильник якої-небудь справи, особливо політичної". У моєму особистому розумінні цього слова - і я думаю, що це чітко простежується в цій багатій автобіографії - бойовик - це той, хто не може не боротися за ідею. Людина, яку зазвичай не приваблюють ні влада, ні гроші, ні слава, але яка майже втрачає розум, коли стикається з несправедливістю, насильством, зловживанням до такої міри, що відчуває себе змушеною реагувати якимось внутрішнім моральним механізмом. Я часто задавався питанням, в який момент людина стає войовничою. Чи ми народжуємося з геном войовничості, а потім випадкова подія чи епізод його активує?».

Чому, стикаючись з беззаконнями, вчиненими проти близьких, одні реагують, а інші терплять несправедливість? Про це без риторики, сухою і прямою мовою розповідає сама Вільямс у своїй автобіографії.

Народилася 9 жовтня 1950 року в м. Поултні, штат Вермонт (США), другою з п'яти дітей у католицькій родині з демократичними настроями: її дитинство було сильно позначене релігійним вихованням та страхами - перед комунізмом, Радянським Союзом - викликаними атмосферою холодної війни. Рання чутливість до несправедливості була викликана станом її старшого брата, який був глухим від народження через краснуху, перенесену його матір'ю під час вагітності. Порушення здоров'я хлопчика, яке прогресивно погіршувалося через економічні та культурні труднощі сім'ї, що перешкоджали його адекватному лікуванню, зробило його жертвою жорстокого поводження та знущань з боку вчителів та однолітків. Після закінчення середньої школи Джоді навчалася в Школі міжнародної підготовки в Браттельборо, куди вона переїхала з родиною, а потім присвятила себе викладанню англійської та іспанської мов, що навесні 1976 року привело її до Мексики, де вона працювала протягом двох років. Для Джоді це стало початком стійкого інтересу до міжнародних відносин і, зокрема, політики США щодо країн Центральної Америки. Вона повертається з Мексики з наміром проектувати себе в "міжнародному" вимірі, вважаючи, що Вашингтон може задовольнити її прагнення. Вона вирішила оселитися там і влаштувалася спочатку секретарем в агентстві з працевлаштування, потім викладачем англійської мови в сільськогосподарському училищі. Незабаром вона розуміє, що для реалізації своїх амбіцій їй необхідне більш кваліфіковане навчання і планує вступити до престижної Школи передових міжнародних досліджень ім. Джона Хопкінса. У той же час він випадково контактував з Комітетом солідарності з Сальвадором (Cispes) в той час, коли в цій центральноамериканській країні, яка є ареною запеклого громадянського протистояння, було вбито архієпископа Ромеро, який займав відкриту позицію проти посилення втручання США. Навчаючись в Саїсі, Джоді, в той же час, долучилася до організації Cispes, яка зосередила свою діяльність на протидії втручанню США в Сальвадор та інші країни Центральної Америки, ескалації, яка все більше нагадувала в'єтнамську.

Після закінчення Школи Джона Хопкінса Вільямс відгукнулася на оголошення про участь в освітньому проекті Нікарагуа-Гондурас, над яким вона працювала з 1984 по 1986 рік. Коли проект закрився, поглинутий іншим міжнародним планом, Джоді провела більше п'яти років в Сальвадорі, працюючи в організації "Медична допомога". Якщо новини про війну у В'єтнамі були вікном у світ для дівчини з Вермонта в той час, то перебування в Сальвадорі змінило хід життя Джоді і поставило її на шлях гуманітарної роботи. Робота там полягала у виявленні дівчат і дітей, які зазнали каліцтв, пов'язаних з війною, та організації переправлення їх і членів їхніх родин, переважно матері, до лікарень США, де вони проходили лікування, а також у зборі коштів і пожертвувань для субсидування їхньої подорожі та перебування в лікарні. На початку 1990-х років Джоді, чия відданість справі опіки над сальвадорськими дітьми отримала широке визнання в середовищі гуманітарних асоціацій, було запропоновано започаткувати разом з німецькою організацією "Медіко Інтернешнл", яка вже підтримувала багато проектів "Медичної допомоги", та Американською фундацією ветеранів В'єтнаму всесвітню кампанію з інформування громадськості щодо запобігання використанню протипіхотних мін. З 1992 року до ініціативи приєдналися численні асоціації медичних працівників, юристів та інших фахівців, а координатор кампанії Джоді невтомно працюватиме над поширенням інформації про особливу природу зброї, яка діє і спричиняє руйнівні наслідки ще довго після закінчення бойових дій і, на відміну від інших, не "повертається додому" разом з арміями після закінчення війни, а продовжує вражати, вбивати, калічити цивільне населення, чоловіків, жінок і дітей, коли вони займаються своїми повсякденними справами. Джоді візьме участь у багатьох конференціях та зустрічах по всьому світу, а також у міжнародних організаціях, Європейському Парламенті, Організації Об'єднаних Націй, Організації Африканської Єдності. Вона також напише багато статей, які досліджують соціальні аспекти та економічні наслідки присутності наземних мін у різних країнах.

З середини 2000-х років Джоді Вільямс присвятила себе, зокрема, Жіночій Нобелівській ініціативі, заснованій шістьма лауреатами Нобелівської премії миру: окрім неї, Ширін Ебаді, Вангарі Маатаї, Рігоберта Менчу, Майред Магуайр та Бетті Вільямс. Вона також є головою фундації "Місто миру" в Базилікаті, народженої за заповітом Бетті Вільямс, яка відійшла у вічність у 2020 р. Під час перебування в Потенці вона прокоментувала поточну політичну ситуацію та війну в Україні. В інтерв'ю Repubblica (24 травня 2022 року) вона сказала: "Фонд "Місто миру" з 2012 року прийняв понад 900 біженців з 30 країн світу. З них понад 350 - діти з сім'ями та неповнолітні іноземці без супроводу дорослих. Відповідно до моделі широкого прийому, їх приймають у невеликих містечках Базилікати, гарантуючи їм шлях інтеграції, який залучає місцеві громади до колективного процесу зростання. «Почнемо змінювати майбутнє з наших громад, разом з біженцями" - гасло Фонду». Вона також згадала шлях, який привів її до Нобелівської премії: «Ми починали з однієї людини - з мене. Нам вдалося залучити 19 країн та організацій, в тому числі Італію, яка провела неймовірну мобілізацію. Спільними зусиллями громадянського суспільства, Міжнародного Комітету Червоного Хреста та інших організацій ми досягли цієї мети. Це не означає, що ми змінили світ, але ми показали, як це можливо». Але, - попереджає він, - ми повинні підготуватися, оскільки зміна клімату і триваючі політичні кризи неодмінно призведуть до глобальної продовольчої кризи і величезного міграційного потоку; тому його прихильність залишається такою ж активною, як і раніше.

 

Shirin Ebadi
Elisabetta Uboldi





Laura Zernik

 

Shirin Ebadi è una giudice e avvocata iraniana vincitrice del Premio Nobel per la Pace nell’anno 2003, per i suoi sforzi a favore della democrazia e del rispetto dei diritti umani. È stata la prima donna musulmana a ricevere tale riconoscimento. Gravemente minacciata dal governo iraniano, ora vive in esilio in Europa. Il ritorno nel suo Paese d’origine costituirebbe per lei una condanna al carcere o, peggio, a morte.

Nasce ad Hamadan il 21 giugno 1947, cresce a Teheran dove frequenta la facoltà di Giurisprudenza e partecipa agli esami per diventare magistrata. Nel 1971 ottiene anche il dottorato in Diritto privato e dal 1975 al 1979 ricopre la carica di presidente di una sezione del Tribunale nella capitale. Con la rivoluzione islamica del 1979 e la caduta dello scià, si vede disconoscere, in quanto donna, il ruolo di giudice e le viene permesso di lavorare in tribunale solo come impiegata. Qualche anno più tardi le verrà concesso di esercitare l’avvocatura.

Sposata e madre di due figlie, ha sempre rifiutato di lasciare l’Iran ed è stata più volte minacciata di morte. Come racconta in uno dei suoi libri, i biglietti lasciati dai suoi oppositori erano sempre dello stesso tenore: «se continui così saremo costretti a porre fine alla tua vita». Nonostante le minacce neanche troppo velate, Shirin Ebadi continua a lottare per i diritti di donne, prigioniere/i politici e minori. L’Iran è uno dei pochi Paesi che ancora commina condanne a morte a minorenni: nel 2004 una sedicenne venne condannata per aver avuto rapporti sessuali prematrimoniali ed essersi macchiata di un “reato contro la castità”. Il giudice la accompagnò alla forca, bendandola e azionando la gru che l’avrebbe sollevata da terra, uccidendola. Nel 2000, Shirin viene arrestata con l’accusa di aver divulgato le prove della complicità dello Stato iraniano in un’aggressione ad alcuni/e studenti. Passa ben 25 giorni nel carcere di Evin rendendosi conto delle terribili condizioni delle persone detenute al suo interno. Quando vince il Nobel per la Pace nel 2003, il governo fa di tutto per oscurare la notizia, ma nonostante questo la popolazione ne viene comunque a conoscenza e da quel momento l’avvocata diventa l’àncora di salvezza di coloro a cui vengono negati i diritti fondamentali. Con i proventi avuti per il Nobel acquista un appartamento che diviene in poco tempo il quartier generale del Centro per la difesa dei diritti umani, in cui lavorano avvocate e avvocati per la tutela di prigioniere e prigionieri politici. Grazie a questi soldi, riesce a garantire una vasta assistenza legale gratuita a dissidenti e oppositori/trici del regime islamico. Dà pure vita all’Associazione di cooperazione per lo sminamento, prima Ong dell’Iran, con l’obiettivo di rimuovere le mine antiuomo disperse nel terreno, dopo la fine della guerra con l’Iraq. A causa di un tale pericolo, molte persone sono infatti cadute vittime delle mine, restando gravemente mutilate o perdendo la vita. Grazie al lavoro della sua Ong, Shirin viene invitata a partecipare al Convegno per la campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo da Jody Williams, Premio Nobel nel 1997 per l'impegno a favore dello sminamento di vaste aree. Proprio in quella occasione, conosce Wangari Maathai, vincitrice del Nobel per la sua lotta nella difesa dell’ambiente. Grazie a questo incontro, le tre attiviste decidono di fondare la Nobel Women’s Initiative, una comunità di donne impegnate a favore della pace e al miglioramento della condizione femminile nel mondo.

Nel dicembre del 2008 alcuni agenti dell’intelligence iraniana irrompono negli uffici della sua associazione per i diritti umani nel cuore di Teheran, arrestando la segretaria e mettendo i sigilli all'attività, credendo erroneamente di aver posto fine al suo lavoro. In realtà Shirin continua a difendere chiunque abbia bisogno di lei dal suo ufficio legale personale, subendo anche il sequestro di alcuni documenti privati della sua clientela da parte del governo e diverse minacce di morte per il suo lavoro. Nel 2009 avviene l’irreparabile: Shirin parte per Maiorca, per tenere un discorso sulla libertà d’espressione, proprio nello stesso momento in cui viene riconfermato presidente il conservatore Ahmadinejad. La rielezione crea sgomento nella popolazione iraniana che scende in piazza contestando i brogli elettorali, ma le proteste, seppure pacifiche, vengono soffocate con la violenza e il sangue. La polizia spara sui/lle manifestanti e diverse persone perdono la vita. Shirin capisce che fare ritorno in Iran significherebbe essere arrestata in aeroporto e perdere la possibilità di continuare la sua attività. Decide quindi di stabilirsi a Londra con la figlia. Gli agenti dei servizi segreti non si accaniscono solo su di lei, ma anche sui suoi famigliari, sequestrando il passaporto della figlia, che poi le verrà restituito, e arrestando il marito e la sorella, in seguito rilasciati. Suo marito viene costretto sotto minaccia a dichiarare in un video, trasmesso dalla televisione nazionale, che la moglie è una spia dell’Occidente e non lavora per il popolo iraniano, bensì per gli interessi degli imperialisti stranieri che tentano di indebolire l’Iran. Tuttavia Shirin anche dall’estero riesce a difendere i diritti del suo popolo.

Nel 2009 il governo iraniano oscura i canali Bbc Persian e Voa Persian che forniscono notizie veritiere su quanto sta avvenendo all’interno del Paese, mentre le tv e le radio di Stato danno informazioni distorte e di parte, evitando di rendere note le repressioni sanguinarie nei confronti di chi manifesta contro il regime. L’azienda europea che gestisce i canali li dirotta su un satellite secondario, proprio per evitare uno scontro con il governo iraniano, ma la tenacia di Shirin che si appella a diverse associazioni, a personalità di spicco e alle Nazioni Unite riesce ad accendere l’interesse dell’opinione pubblica internazionale su quanto sta avvenendo e sul diritto della popolazione iraniana di avere libero accesso all’informazione. In poco tempo la stessa società europea che aveva scollegato l’Iran dal resto del mondo, si vede costretta a tornare sui suoi passi. Il governo arriva persino a sequestrarle la medaglia del Nobel e a dichiarare che non ha pagato le tasse relative alla vincita in denaro del premio. Nel giro di pochi giorni si trova espropriata di ogni suo bene, pur sapendo che il denaro di un premio non è tassabile e quindi non si è resa colpevole di alcuna evasione. L'avvocata e amica Nasrin Sotoudeh, che si occupa della sua difesa, viene arrestata e a oggi è ancora detenuta nel carcere di Teheran, nonostante gli appelli della comunità internazionale e di associazioni come Amnesty International.

Ormai esule dal Paese d’origine, Shirin sceglie Londra come base per la sua nuova associazione, fondata nel 2013, con il nome Centre for Supporters of Human Rights (Cshr). La maggior parte delle persone che lavoravano nella sua associazione a Teheran sono ormai in carcere e gli/le avvocati/e ancora in libertà si trovano in uno stato di massima vulnerabilità. La sua nuova associazione londinese ha l’obiettivo di aiutare sia chi si batte per i diritti, sia chi viene accusato/a di reati di opinione e incarcerato/a ingiustamente. Il suo sogno resta sempre quello di tornare nel suo Paese e spera dall’esilio di riuscire a lavorare per costruire un nuovo Iran, affinché il suo popolo abbia la libertà e la giustizia che merita.


Traduzione francese

Guenoah Mroue

Shirin Ebadi est juge et avocate iranienne gagnante du prix Nobel de la paix en 2003, pour ses efforts en faveur de la démocratie et du respect des droits de l'homme. Elle a été la première femme musulmane à recevoir une telle reconnaissance. Gravement menacée par le gouvernement iranien, elle vit maintenant en exil en Europe. Retourner dans son pays d'origine constituerait une peine de prison ou, pire, une condamnation à mort pour elle.

Elle est né à Hamadan le 21 juin 1947, elle a grandi à Téhéran où elle a fréquenté la faculté de droit et a participé à des examens pour devenir magistrat. En 1971, elle a également obtenu son doctorat en droit privé et, de 1975 à 1979, elle a occupé le poste de président d'une section du Tribunal dans la capitale. Avec la révolution islamique de 1979 et la chute du Shah, elle est perçue comme désavoue, en tant que femme, le rôle de juge et n'est autorisée à travailler au tribunal qu'en tant qu'employée. Quelques années plus tard, elle est autorisé à exercer l’avocat.

Mariée et mère de deux filles, elle a toujours refusé de quitter l'Iran et elle a été menacée de mort à plusieurs reprises. Comme elle le raconte dans l'un de ses livres, les cartes laissées par ses adversaires ont toujours été du même ténor: «si vous continuez ainsi, nous serons forcés de mettre fin à votre vie». Malgré des menaces encore trop voilées, Shirin Ebadi continue de se battre pour les droits des femmes, des prisonnières, politiciens et des mineurs. L'Iran est l'un des rares pays à commettre encore des condamnations à mort contre des mineurs : en 2004, une jeune femme de seize ans a été reconnue coupable d'avoir eu des relations sexuelles avant le mariage et de s'être commise avec un « crime contre la chasteté ». Le juge l'accompagnait jusqu'à la potence, la baguant et actionnant la grue qui la soulèverait du sol, la tuant. En 2000, Shirin a été arrêté pour avoir divulgué des preuves de la complicité de l'État iranien dans une agression contre certains étudiants. Elle passe 25 jours à la prison d'Evin pour se rendre compte de la terrible condition des personnes détenues à l'intérieur. Lorsqu'elle a remporté le prix Nobel de la paix en 2003, le gouvernement s'est donné beaucoup de mal pour obscurcir la nouvelle, mais malgré cela, la population en prend toujours conscience et à partir de ce moment, l'avocat devient l'ancre du salut de ceux qui sont privés de droits fondamentaux. Avec la prime qu'elle a obtenu pour le prix Nobel, elle a acheté un appartement qui est rapidement devenu le siège du Centre pour la défense des droits de l'Homme, où des avocats et des avocates travaillent pour la protection des prisonniers en général et politiques. Grâce à cet argent, elle parvient à garantir une large assistance juridique gratuite aux dissidents et aux opposants au régime islamique. Elle a également fondée la Demining Cooperation Association, la première ONG iranienne, dans le but de supprimer les mines antipersonnel dispersées dans le sol, après la fin de la guerre avec l'Irak. En raison d'un tel danger, de nombreuses personnes ont été victimes de mines terrestres, ont été sévèrement mutilées ou ont perdu la vie. Grâce au travail de son ONG, Shirin est invitée à assister à la Conférence pour la Campagne internationale pour l'interdiction des mines terrestres par Jody Williams, gagnante du prix Nobel 1997 pour son engagement à déminer de vastes zones. C'est précisément à cette occasion qu'elle a rencontré Wangari Maathai, gagnante du prix Nobel pour sa lutte pour la défense de l'environnement. Grâce à cette réunion, les trois militantes décident de fonder la Nobel Women's Initiative, une communauté de femmes engagées en faveur de la paix et de l'amélioration de la condition des femmes dans le monde.

En décembre 2008, des agents de renseignement iraniens ont fait irruption dans les bureaux de son association de défense des droits humains au cœur de Téhéran, arrêtant le secrétaire et scellant l'activité, croyant à tort qu'elle avait mis fin à son travail. En fait, Shirin continue de défendre toute personne qui a besoin de son service juridique personnel, subissant également la saisie de certains documents privés de sa clientèle par le gouvernement et plusieurs menaces de mort pour son travail. En 2009, l'irréparable a lieu : Shirin part pour Majorque, pour prononcer un discours sur la liberté d'expression, en même temps que le conservateur Ahmadinejad est reconfirmé président. La réélection crée la consternation de la population iranienne qui descend dans la rue pour lutter contre la fraude électorale, mais les manifestations, bien que pacifiques, sont étouffées par la violence et le sang. La police tire sur les manifestants et plusieurs personnes perdent la vie. Shirin comprend que retourner en Iran signifierait être arrêtée à l'aéroport et perdre la chance de poursuivre ses activités. Elle décide alors de s'installer à Londres avec sa fille. Les agents des services secrets font rage non seulement contre elle, mais aussi contre les membres de sa famille, saisissant le passeport de sa fille, qui lui sera ensuite rendu, et arrêtant son mari et sa sœur, libérés plus tard. Son mari est menacé de déclarer dans une vidéo, diffusée à la télévision nationale, que sa femme est une espionne de l'Occident et ne travaille pas pour le peuple iranien, mais pour les intérêts des impérialistes étrangers qui tentent d'affaiblir l'Iran. Cependant, Shirin parvient également à défendre les droits de son peuple depuis l'étranger.

En 2009, le gouvernement iranien obscurcit les chaînes persanes et persanes Voa de la BBC qui fournissent des informations véridiques sur ce qui se passe à l'intérieur du pays, tandis que la télévision et la radio d'État donnent des informations déformées et biaisées, évitant de faire connaître les répressions sanglantes contre ceux qui manifestent contre le régime. La société européenne qui gère les chaînes les détourne vers un satellite secondaire, précisément pour éviter un conflit avec le gouvernement iranien, mais la ténacité de Shirin qui fait appel à diverses associations, à des personnalités éminentes et aux Nations Unies parvient à susciter l'intérêt de l'opinion publique internationale pour ce qui se passe et sur le droit de la population iranienne à avoir libre accès à l'information. En peu de temps, la même société européenne qui avait déconnecté l'Iran du reste du monde est forcée de revenir sur ses pas. Le gouvernement va même jusqu'à saisir sa médaille Nobel et déclare qu'elle n'a pas payé d'impôts liés à la victoire du paiement du prix. En quelques jours, elle se retrouve expropriée de tous ses biens, bien qu'elle sache que le paiement d'un prix n'est pas imposable et n'a donc été coupable d'aucune évasion. L'avocate et son amie Nasrin Sotoudeh, qui s'occupe de sa défense, est arrêtée et toujours détenue à la prison de Téhéran à ce jour, malgré les appels de la communauté internationale et d'associations telles qu'Amnesty International.

Maintenant hors de son pays d'origine, Shirin choisit Londres comme base de sa nouvelle association, fondée en 2013, sous le nom de Centre for Supporters of Human Rights (CSHR). La plupart des personnes qui ont travaillé dans son association à Téhéran sont maintenant en prison et les avocats toujours en liberté sont dans un état de vulnérabilité maximale. Sa nouvelle association londonienne vise à aider à la fois ceux qui se battent pour les droits et ceux qui sont accusés de crimes d'opinion et emprisonnés à tort. Son rêve reste toujours de retourner dans son pays et elle espère de l'exil pouvoir travailler à la construction d'un nouvel Iran, afin que son peuple ait la liberté et la justice qu'il mérite.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

Shirin Ebadi was an Iranian judge and lawyer when she won the Nobel Peace Prize in the year 2003 for her efforts in favor of democracy and respect for human rights. She was the first Muslim woman to receive such an award. Severely threatened by the Iranian government, she now lives in exile in Europe. Returning to her home country would result in her imprisonment or, worse, a death sentence.

Born in Hamadan, Iran on June 21, 1947, she grew up in Tehran where she attended law school and took the exams to become a magistrate. In 1971 she also obtained a doctorate in private law and from 1975 to 1979 served as president of a court chamber in the capital. With the Islamic revolution of 1979 and the fall of the shah, she was prohibited, as a woman, from the role of judge and was allowed to work in the court only as a clerk. A few years later she would be allowed to practice law.

Married and the mother of two daughters, she had always refused to leave Iran and had been threatened with death several times. As she recounts in one of her books, the notes left by her opponents were always of the same tenor: "If you continue like this we will be forced to end your life." Despite the not-so-subtle threats, Shirin Ebadi continued to fight for the rights of women, political prisoners and children. Iran is one of the few countries that still imposes death sentences on minors. In 2004 a 16-year-old girl was convicted of having premarital sex and being guilty of an "offense against chastity." The judge accompanied her to the gallows, blindfolding her and operating the crane that would lift her off the ground, killing her. In 2000, Shirin was arrested on charges of divulging evidence of the Iranian state's complicity in an attack on students. She spent a full 25 days in Evin Prison exposed to the terrible conditions of the people held inside. When she won the Nobel Peace Prize in 2003, the government did everything in its power to obscure the news, but in spite of this, the population learned about it anyway, and from that moment on, the advocate became the anchor of salvation for those who were denied basic rights. With the proceeds she was awarded for the Nobel Prize, she bought an apartment which quickly became the headquarters of the Center for the Defense of Human Rights, where lawyers worked to protect female prisoners and political prisoners. With that money, she was able to provide extensive free legal assistance to dissidents and opponents of the Islamic regime. She also started the Association of Cooperation for Mine Clearance, Iran's first NGO, with the goal of removing landmines scattered in the ground after the end of the war with Iraq. Because of the danger of unexploded land mines, many people have fallen victim, being severely maimed or losing their lives. Through the work of her NGO, Shirin was invited to attend the International Campaign to Ban Landmines Conference by Jody Williams, a Nobel Laureate in 1997 for her efforts to demine large areas. On that occasion, she met Wangari Maathai, a Nobel laureate for her struggle in environmental advocacy. Through this meeting, the three activists decided to found the Nobel Women's Initiative, a community of women committed to peace and to improving the status of women around the world.

In December 2008, Iranian intelligence agents raided the offices of her human rights association in the heart of Tehran, arresting the secretary and sealing off the headquarters, mistakenly believing they had ended her work. In reality, Shirin continued to advocate for anyone who needed her from her personal legal office, even though suffering the government's seizure of some of her clientele's private documents and several death threats for her work. In 2009, the irreparable happened. Shirin left for Majorca, to give a speech on freedom of expression, at the same time that the conservative Ahmadinejad was re-elected president. The re-election created consternation in the Iranian population, which took to the streets protesting election fraud, but the protests, though peaceful, were suppressed with violence and bloodshed. Police fired on the protesters and several people lost their lives. Shirin realized that returning to Iran would mean being arrested at the airport and losing the ability to continue her work. She therefore decided to settle in London with her daughter. Secret Service agents turned not only on her but also on her family members, seizing her daughter's passport, which was later returned to her, and arresting her husband and sister, who were later released. Her husband was forced under duress to declare in a video, broadcast on national television, that his wife was a spy for the West and did not work for the Iranian people, but for the interests of foreign imperialists trying to weaken Iran. However, Shirin even from abroad managed to defend the rights of her people.

In 2009, the Iranian government blacked out the BBC Persian and VOA Persian channels that provided truthful news about what was happening inside the country, while state TV and radio stations gave biased and distorted information, avoiding disclosing the bloody crackdowns on those demonstrating against the regime. The European company that ran the channels diverted them to a secondary satellite, precisely to avoid a clash with the Iranian government, but Shirin's tenacity in appealing to various associations, prominent personalities and the United Nations succeeded in igniting the interest of international public opinion in what was happening and to the right of the Iranian people to have free access to information. Before long, the same European society that had disconnected Iran from the rest of the world was forced to retrace its steps. The government even went so far as to seize her Nobel medal and claim that she had not paid the taxes related to the prize money. Within days, she found herself bankrupted of all her assets, even though she knew that the prize money was not taxable and therefore she had not been guilty of any evasion. Her lawyer and friend Nasrin Sotoudeh, who handled her defense, was arrested and to this day is still held in Tehran prison, despite appeals from the international community and organizations such as Amnesty International.

An exile from her home country, Shirin chose London as the base for her new association, founded in 2013 under the name Center for Supporters of Human Rights (CSHR). Most of the people who worked in her association in Tehran are now in jail, and the lawyers still at large are in a very vulnerable state. Her new London association aims to help both those who fight for rights and those who are accused of crimes of opinion and unjustly imprisoned. Her dream has remained to return to her country and she hopes, from exile, to be able to work to build a new Iran so that her people will have the freedom and justice they deserve.


Traduzione spagnola

Martina Randazzo

Shirin Ebadi es jueza y abogada iraní, ganadora del Premio Nobel de la Paz en 2003 por sus esfuerzos a favor de la democracia y del respeto de los derechos humanos. Fue la primera mujer musulmana en obtener este reconocimiento. Gravemente amenazada por el gobierno iraní, ella vive ahora en el exilio en Europa. Regresar a su país natal le costarían una sentencia de cárcel o, peor aún, de muerte.

Nació en Hamadan el 21 de junio de 1947, creció en Teheran donde estudió derecho y se examinó como magistrada. En 1971 obtuvo su doctorado en Derecho privado y de 1975 a 1979 fue presidenta de una sección del Tribunal en la capital. Con la revolución islámica de 1979 y la caída del Sah, le fue negado su papel de jueza por ser mujer y le permitieron trabajar en el tribunal solo como empleada. Unos años después pudo volver a ejercer la abogacía.

Casada y madre de dos hijas, siempre rehusó abandonar Irán y varias veces fue amenazada de muerte. Como cuenta en uno de sus libros, las notas que sus opositores le dejaban tenían siempre el mismo tenor: «sigue así y vas a obligarnos a quitarte la vida». A pesar de las amenazas poco disimuladas, Shirin Ebadi sigue luchando por los derechos de las mujeres, las presas y los presos políticas/os y los menores. Irán es uno de los pocos países que impone condenas a muerte a los menores: en 2004 una chica de 16 años fue condenada a muerte por haber mantenido relaciones sexuales antes de casarse y cometer portanto un “delito contra la castidad”. El juez la acompañó al patíbulo y la bendó y accionó la grúa que la iba a levantar y a matar. En 2000 Shirin fue arrestada con el cargo de divulgación de las evidencias de la complicidad del Estado de Irán en la agresión a unos estudiantes. Pasó 25 días en la cárcel de Evin donde se dio cuenta de las terribles condiciones de los presos. Cuando fue galardonada con el Nobel de la Paz en 2003, el gobierno hizo todo lo posible para ocultar la noticia, la población se enteró y la abogada se convirtió en el ancla de salvación para las personas a las que se le negaban los derechos fundamentales. Con el dinero del premio compró un apartamento que pronto se convirtió en la sede central del Centro para la defensa de los derechos humanos, donde abogadas y abogados trabajaban para la protección de las presas y los presos políticas/os. Gracias al dinero, pudo asegurar asistencia jurídica gratuita a disidentes y opositores/as del régimen islámico. Dio vida a la Asociación de cooperación para el desminado, primera Ong de Irán, con el fin de retirar las minas antipersona dispersas por el país después de la guerra con Iraq. Debido a este peligro, muchas personas han sido víctimas de las minas y han resultado gravemente mutiladas o perdieron la vida. Gracias a su Ong, Shirin recibió una invitación de Jody Williams – Premio Nobel por la paz en 1997 por su trabajo a favor del desminado de grandes áreas– al Congreso de la campaña internacional para la prohibición de las minas antipersona. En aquella ocasión conoció a Wangari Maathai, ganadora del Nobel por su lucha para la defensa del medioambiente. Gracias a este encuentro, las tres activistas decidieron fundar la Noble Women’s Initiative (Iniciativa de las mujeres Nobel), comunidad de mujeres que trabajaban a favor de la paz y de una mejor condición de la mujer en el mundo.

En diciembre de 2008 unos agentes de los Servicios secretos iranís asaltaron los despachos de la Asociación para los derechos humanos en el centro de Teherán, arrestaron la a secretaria y precintaron la actividad, pensando que iban a detener también su trabajo. En realidad Shirin siguió defendiendo en su propio despacho legal a todos los que necesitaban su ayuda de modo que el gobierno también le secuestó algunos documentos privados de su clientela y ella recibió amenazas de muerte varias veces debido a su trabajo. En 2009 ocurrió lo irreparable: Shirin salió para Mallorca, para pronunciar un discurso sobre la libertad de expresión, en el mismo momento en que el presidente conservador Ahmadineyad era reelegido. Su reelección consternó a la población iraní, que salió a la calle para protestar contra el fraude electoral, pero las protestas, aunque pacíficas, fueron reprimidas con violencia y derramamiento de sangre. La policía disparó contra los manifestantes y varias personas perdieron la vida. Shirin se dio cuenta de que volver a Irán hubiera significado ser detenida en el aeropuerto y perder la posibilidad de continuar su actividad. Por esta razón, decidió instalarse en Londres con su hija. Los agentes de los servicios secretos no solo se ensañaron con a ella, sino también con su familia, confiscando el pasaporte de su hija, que más tarde le devolverían, y deteniendo a su marido y a su hermana, después liberados. Su marido fue obligado bajo coacción a declarar en un vídeo, emitido por la televisión nacional, que su mujer era una espía de Occidente y que no trabajaba para el pueblo iraní, sino para los intereses de los imperialistas extranjeros que intentaban debilitar a Irán. Sin embargo, Shirin consiguió defender los derechos de su pueblo incluso desde el extranjero.

En 2009, el gobierno iraní cerró los canales BBC Persian y Voa Persian que divulgaban noticias veraces sobre lo que ocurría en el país, mientras que la televisión y la radio estatales daban información sesgada y distorsionada, evitando informar sobre la represión sangrienta de los que manifestaban contra el régimen. La empresa europea que gestionaba los canales los desvió a un satélite secundario, precisamente para evitar un enfrentamiento con el gobierno iraní, pero la tenacidad de Shirin, quien apeló a diversas asociaciones, a personalidades destacadas y a las Naciones Unidas, logró despertar el interés de la opinión pública internacional hacia lo que estaba ocurriendo y hacia el derecho del pueblo iraní de tener libre acceso a la información. En poco tiempo la sociedad europea que había desconectado Irán del resto del mundo se vio obligada a volver sobre sus pasos. El gobierno llegó incluso a confiscarle a Shirin su medalla del Nobel declarando que no había pagado los impuestos relativos al dinero del premio. En pocos días se vio desposeída de todos sus bienes, a pesar de que el dinero del premio no estaba sujeto a impuestos y, por lo tanto, ella no era culpable de ninguna evasión. La abogada y amiga Nasrin Sotoudeh, encargada de su defensa, fue detenida y todavía está presa en la cárcel de Teherán, a pesar de las apelaciones de la comunidad internacional y de asociaciones como Amnistía Internacional.

Exiliada de su país natal, Shirin elige Londres como base de su nueva asociación, fundada en 2013 con el nombre de Centre for Supporters of Human Rights (CSHR). La mayoría de las personas que trabajaban en su asociación en Teherán están ahora en prisión y los abogados que siguen en libertad resultan gravemente vulnerables. El objetivo de su nueva asociación en Londres es ayudar tanto a los que luchan por los derechos, como a los que están acusados de delitos de opinión y encarcelados injustamente. Su sueño sigue siendo volver a su país y desde el exilio espera trabajar para construir un nuevo Irán para que su pueblo tenga la libertad y la justicia que merece.


Traduzione ucraina

Alina Petelko

Ширін Ебаді - іранська суддя та юрист, лауреат Нобелівської премії миру 2003 року за свої зусилля на користь демократії та поваги до прав людини. Вона стала першою жінкою-мусульманкою, яка отримала таку нагороду. Піддаючись серйозним погрозам з боку іранського уряду, вона зараз живе у вигнанні в Європі. Повернення на батьківщину означало б для неї тюремне ув'язнення або, що ще гірше, смертний вирок.

Народилася в Хамадані 21 червня 1947 року, виросла в Тегерані, де навчалася на юридичному факультеті та склала іспити на звання судді. У 1971 році вона також отримала ступінь доктора приватного права, а з 1975 по 1979 рік обіймала посаду голови судової секції в столиці. Після ісламської революції 1979 року і падіння шаха їй було відмовлено в ролі судді як жінці, і їй було дозволено працювати в суді лише в якості секретаря. Через кілька років їй дозволили займатися адвокатською діяльністю.

Заміжня і мати двох доньок, вона завжди відмовлялася покинути Іран, і їй неодноразово погрожували смертю. Як вона згадує в одній зі своїх книг, записки, які залишали її опоненти, завжди були в одному тоні: "Якщо ви будете продовжувати в тому ж дусі, ми будемо змушені покінчити з вашим життям". Незважаючи на не надто витончені погрози, Ширін Ебаді продовжує боротися за права жінок, політв'язнів та дітей. Іран є однією з небагатьох країн, де досі виносяться смертні вироки неповнолітнім: у 2004 році 16-річна дівчина була засуджена за дошлюбні статеві стосунки і визнана винною у "злочині проти цнотливості". Суддя супроводжував її до шибениці, зав'язавши їй очі та керуючи краном, який мав підняти її над землею, вбиваючи її. У 2000 році Ширін була заарештована за звинуваченням у розголошенні доказів причетності іранської держави до нападу на студентів. Вона проводить 25 днів у в'язниці Евін, розуміючи, в яких жахливих умовах утримуються там люди. Коли вона отримала Нобелівську премію миру в 2003 році, уряд зробив все можливе, щоб приховати цю новину, але, незважаючи на це, населення все одно дізналося про це, і з цього моменту правозахисниця стала якорем порятунку для тих, кому відмовляють у їхніх фундаментальних правах. На кошти від Нобелівської премії вона купує квартиру, яка швидко стає штаб-квартирою Центру захисту прав людини, де юристи працюють над захистом жінок-ув'язнених і політв'язнів. На ці гроші йому вдається надавати широку безкоштовну юридичну допомогу дисидентам і противникам ісламського режиму. Він також заснував Асоціацію зі співробітництва в галузі розмінування, першу в Ірані неурядову організацію, яка має на меті вилучення наземних мін, розкиданих по землі після закінчення війни з Іраком. Внаслідок цієї небезпеки багато людей стали жертвами мін, отримавши важкі каліцтва або загинувши. Завдяки роботі своєї громадської організації Ширін була запрошена на конференцію "Міжнародна кампанія за заборону наземних мін", яку проводила Джоді Вільямс, Нобелівський лауреат 1997 року за свою відданість справі розмінування великих територій. З цієї ж нагоди вона зустрілася з Вангарі Маатаї, лауреатом Нобелівської премії за боротьбу за захист навколишнього середовища. Завдяки цій зустрічі три активістки вирішили заснувати Нобелівську жіночу ініціативу - спільноту жінок, які прагнуть миру та покращення становища жінок у світі.

У грудні 2008 року агенти іранської розвідки увірвалися до офісу її правозахисної асоціації в самому центрі Тегерану, заарештували її секретаря та опечатали бізнес, помилково вважаючи, що вони поклали край її роботі. Насправді Ширін продовжує захищати всіх, хто її потребує, зі свого особистого юридичного відділу, навіть потерпаючи від вилучення урядом деяких приватних документів її клієнтів та кількох погроз вбивством за свою роботу. У 2009 році стається непоправне: Ширін їде на Майорку, щоб виступити з промовою про свободу слова, в той самий момент, коли консерватора Ахмадінежада переобирають президентом. Перевибори викликають переляк серед іранського населення, яке виходить на вулиці з протестами проти фальсифікації виборів, але протести, хоча і мирні, але придушуються з насильством і кровопролиттям. Міліція відкрила вогонь по протестувальниках, кілька людей загинули. Ширін розуміє, що повернення до Ірану означатиме арешт в аеропорту і втрату можливості продовжувати свій бізнес. Тому вона вирішує оселитися в Лондоні разом з дочкою. Співробітники спецслужб переслідують не лише її, але й її родину, вилучаючи паспорт доньки, який згодом повертають, а також заарештовують її чоловіка та сестру, яких згодом відпускають. Її чоловік змушений під тиском заявити у відеоролику, показаному по національному телебаченню, що його дружина є шпигуном Заходу і працює не на іранський народ, а на інтереси іноземних імперіалістів, які намагаються послабити Іран. Втім, Ширін вдається відстоювати права свого народу і з-за кордону.

У 2009 році іранський уряд відключив перські канали BBC та Voa Persian, які подають правдиві новини про те, що відбувається всередині країни, а державні теле- та радіостанції подають упереджену та викривлену інформацію, уникаючи висвітлення кривавих репресій проти учасників виступів проти режиму. Європейська компанія, що управляє каналами, перенаправляє їх на другорядний супутник, саме для того, щоб уникнути зіткнення з іранським урядом, але наполегливості Ширін, яка звертається до різних асоціацій, відомих особистостей і ООН, вдається розпалити інтерес міжнародної громадської думки до того, що відбувається, і до права іранського населення на вільний доступ до інформації. Незабаром те ж саме європейське суспільство, яке відгородило Іран від решти світу, змушене буде зробити крок назад. Уряд навіть пішов на те, щоб конфіскувати її Нобелівську медаль і заявити, що вона не сплатила податки з премії. За кілька днів вона виявилася позбавленою всіх своїх активів, хоча знала, що виграш не підлягає оподаткуванню, а отже, вона не була винна в ухиленні від сплати податків. Її адвокат та подруга Насрін Сотоуде, яка займалася її захистом, була заарештована і до цього часу утримується у в'язниці Тегерана, незважаючи на заклики міжнародної спільноти та асоціацій, таких як "Міжнародна амністія".

Вигнана з рідної країни, Ширін обрала Лондон як базу для своєї нової асоціації, заснованої у 2013 році під назвою "Центр прихильників прав людини" (ЦПЧ). Більшість людей, які працювали в її асоціації в Тегерані, зараз перебувають у в'язниці, а адвокати, які ще залишаються на волі, перебувають у дуже вразливому стані. Його нова лондонська асоціація має на меті допомагати як тим, хто бореться за права, так і тим, кого звинувачують у злочинах на ґрунті переконань і несправедливо ув'язнюють. Його мрією залишається повернення до своєї країни, і він сподівається, що у вигнанні зможе працювати над побудовою нового Ірану, щоб його народ міг мати свободу і справедливість, на які він заслуговує.

 

Sottocategorie

 

 

 Wikimedia Italia - Toponomastica femminile

    Logo Tf wkpd

 

CONVENZIONE TRA

Toponomastica femminile, e WIKIMEDIA Italia