June Carter
Valeria Pilone


Marika Banci

 

Di recente, ho avuto occasione di guardare una miniserie che mi è piaciuta moltissimo, Daisy Jones & The Six. Si tratta della storia di una rock band degli anni Settanta, dall’ascesa sulla scena musicale di Los Angeles fino alla fama e alla caduta, avvenuta con la loro separazione proprio al culmine del successo. Ma è anche la storia di un amore che porta al tormento e poi alla liberazione. Nello scorrere gli episodi che vedono protagonisti Daisy Jones, Billy Dunne e Camila Alvarez, non ho potuto fare a meno di andare con la mente a un collegamento (anche se solo in parte) alla storia reale di June Carter e Johnny Cash. June nasce a Maces Springs, in Virginia, nel 1923 e sin da subito manifesta le sue doti artistiche di cantante e musicista. Nel 1943 forma un gruppo con la madre Maybelle Carter e le sorelle Helen e Anita, chiamato Mother Maybelle & the Carter Sisters. June ha doti canore e recitative, soprattutto una spiccata verve comica, per cui riescono a dare vita al famoso Grand Ole Opry, programma radiofonico settimanale di musica country e concerti, trasmesso dal vivo sulla radio Wsm di Nashville ogni venerdì e sabato sera, attraverso il quale conosce molti artisti noti, tra cui Elvis Presley.

Ma il programma è il galeotto dell’incontro che le cambierà per sempre la vita. A Nashville passa per caso, per una gita scolastica, un ragazzo, che sente cantare June e ne rimane rapito. È Johnny Cash, che si ripresenterà qualche anno dopo al Grand Ole Opry per cominciare un sodalizio artistico con June senza precedenti, partendo dal brano Ring of fire. Questo pezzo ha una storia particolare: June lo scrive insieme al marito, il cantautore Merle Kilgore, e lo fa interpretare a sua sorella, Anita Carter. Johnny lo ascolta e ne realizza un arrangiamento diverso e particolare come la tematica del brano, ovvero un uomo sposato che canta una canzone scritta per lui da una donna anch’essa sposata ma ormai innamorata del cantante. È il preludio in musica della loro passione, che all’inizio è contenuta. Tra i due ci sono un’alchimia e sinergia pazzesche, non solo artistiche. Johnny, però, è un uomo molto complicato: oltre a essere sposato – come June, appunto – è da tempo in preda ad alcol e stupefacenti, in una discesa sempre più repentina agli inferi, come molte rockstar di quell’epoca (nella miniserie Daisy Jones & The Six, è Daisy la geniale e tormentata artista rock, che rischia – come Cash – di dissolversi per sempre). June è attratta, ma allo stesso tempo respinge l’idea di stare con lui, perché ha paura, teme che questa storia possa distruggerla e perché le sue forti convinzioni religiose le impediscono di lasciarsi andare liberamente a una storia adultera. Ma Johnny non molla, non intende perdere June e le chiede di sposarla per ben trenta volte, dopo aver rischiato di morire per una overdose ed essersi impegnato a ripulirsi. L’attrazione e la chimica tra i due è fortissima e la loro relazione era già cominciata da tempo. June non può più opporsi, in fondo non lo vuole, e così acconsente al matrimonio. Si sposano nel 1968 e da allora resteranno insieme fino alla fine, quando nel maggio del 2003 June muore in seguito alle complicazioni di un intervento al cuore e Johnny la raggiunge nel settembre dello stesso anno.

 

La carriera di June è stata folgorante: un talento naturale per la musica, ma anche per la scrittura, per il cinema e la televisione (si ricorderà il suo personaggio di Sister Ruth nella serie televisiva La signora del West). Alla storia d’amore con Johnny Cash è dedicato il biopic del 2005 Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line, prodotto dal figlio John Carter Cash ed interpretato da Reese Witherspoon, che vinse l’Oscar come migliore attrice protagonista, e da uno straordinario Joaquin Phoenix (Golden Globe come miglior attore in un film commedia o musicale), oltre a decine di altri premi di cui questo film ha fatto incetta. Nonostante la solida relazione e l’amore che legava i due artisti, June ha dovuto farsi carico più volte delle fragilità dell’uomo che amava. I demoni della sua mente, dovuti anche a una vita segnata dal dolore (un suo fratello era rimasto ucciso in un incidente sul lavoro e il rapporto con il padre era sempre stato conflittuale), erano ritornati a completare l’opera di distruzione del corpo e dell’anima di Johnny. June gli resta accanto, senza rinunciare alla sua carriera, con un’incrollabile fiducia nella possibilità che il suo uomo possa sempre farcela e tornare a rialzarsi dalle ceneri, come un’araba fenice. Vincerà l’ultimo premio nel 1999, il Grammy per l’album Press on. Le canzoni sia da solista che quelle cantate con il marito, sono pregne della loro passione per la musica e per l’amore che li lega:

«You’ve got a way to keep me on your side,/You give me cause for love that I can’t hide./For you I know I’d even try to turn the tide,/Because you’re mine, I walk the line» (Tu hai un modo di tenermi vicino a te,/mi dai un motivo per amare che io non posso celare./Per te io so che proverei persino a superare la corrente./Perché tu sei mia, io rigo dritto).

La storia di questa artista della musica country meriterebbe di essere raccontata anche senza Johnny. È, infatti, singolare che, cercando notizie in rete, le foto e i siti riportino il nome di June sempre e solo abbinato alla storia d’amore e di musica che l’ha unita a Cash. Eppure, lei aveva iniziato ben prima la sua carriera, andando in tournée finanche con Presley. Ci ha pensato certamente il figlio John Carter Cash, che ha prodotto l’album Anchored in Love: A Tribute to June Carter Cash, pubblicato nel 2007 con vari artisti e artiste di musica country, tra cui Sheryl Crow, Willie Nelson, Loretta Lynn, Rosanne Cash, Emmylou Harris e Kris Kristofferson, che eseguono le più belle canzoni di June.

Lo stesso John ammirava in June la tenacia e ne avvertiva la superiorità e l’equilibrio, come testimoniano le sue stesse parole dedicate alla compagna in un celeberrimo biglietto di auguri, in occasione del di lei sessantacinquesimo compleanno:

«Buon compleanno principessa, ormai siamo vecchi e ci siamo abituati l’uno all’altra. La pensiamo nello stesso modo. Leggiamo la mente dell’altro. Sappiamo quello che l’altro vuole anche senza dirlo. A volte ci irritiamo anche un po’. Forse a volte ci diamo anche per scontati. Ma ogni tanto, come oggi, medito su questo e mi rendo conto di quanto sono fortunato a condividere la vita con la più grande donna che abbia mai incontrato. Continui ad affascinarmi e a ispirarmi. La tua influenza mi rende migliore. Sei l’oggetto del mio desiderio, la prima ragione della mia esistenza. Ti amo tantissimo. Buon compleanno principessa».

Di lei ci resta il ricordo di una donna tenace, appassionata, una virtuosa della musica country, libera di divorziare e risposarsi per tre volte, fino a legarsi all’uomo che – nonostante le sue irreparabili debolezze – non riesce a non amare per sempre, in un cerchio di fuoco divorante:

«The taste of love is sweet/When hearts like ours meet/I fell for you like a child/Oh, but the fire went wild/I fell into a burning ring of fire» (Il sapore dell’amore è dolce/quando cuori come i nostri si incontrano/mi sono innamorato di te come un bimbo/oh, ma poi il fuoco è diventato incontrollato/sono caduto dentro un ardente cerchio di fuoco).


Traduzione francese

Rachele Stanchina

 

J’ai récemment eu l’occasion de regarder une série que j’ai beaucoup aimée, Daisy Jones &The six. Il s’agit de l’histoire d’un groupe de rock des années soixante-dix, de leurs premiers pas sur la scène musicale de Los Angeles jusqu’à leur célébrité mondiale et leur chute après leur séparation survenue au sommet de leur succès. Mais c’est aussi l’histoire d’un amour qui mène à la souffrance puis à la libération. En suivant les épisodes, dont les protagonistes sont Daisy Jones, Billy Dunne et Camila Alvarez, je n’ai pu m’empêcher de penser à la véritable histoire de June Carter et Johnny Cash. June naît à Maces Springs dans l’état de Virginie en 1923. Ses qualités artistiques de chanteuse et musicienne sont tout de suite remarquées. En 1943, elle fonde un groupe, le Mother Maybelle & the Carter Sisters, avec sa mère Maybelle Carter et ses sœurs Helen et Anita. June est douée non seulement comme chanteuse mais aussi comme comédienne grâce à une verve comique spontanée, ce que lui permet de créer le célèbre Grand Ole Opry, une émission de radio hebdomadaire de musique country et concerts, diffusée tous les vendredis et les samedis soirs en direct sur la radio Wsm de Nashville. Cette émission lui permet de connaître beaucoup d’artistes célèbres parmi lesquels Elvis Presley, et elle sera pour June le lieu de la rencontre qui changera à jamais sa vie.

Un jour, un jeune homme nommé Johnny Cash passe par hasard à Nashville en voyage scolaire: il entend June chanter et sa voix le ravit. Peu d’années après, Johnny participera au Grand Ole Opry pour donner naissance avec Ring of fire à une collaboration artistique avec June sans précédent. L’ histoire de cette chanson est particulière. En effet, June la compose avec son mari, le chanteur-compositeur Merle Kilgore et la fait interpréter par sa sœur Anita Carter. Johnny l’entend et en réalise un arrangement différent. Le sujet aussi est original car il s’agit de l’histoire d’un homme marié qui chante une chanson écrite pour lui par une femme, mariée elle aussi, mais désormais amoureuse du chanteur. C’est le prélude en musique de leur passion qui au début demeure cachée. Entre les deux artistes, il y a une alchimie et une synergie très forte et pas seulement artistique. Cependant, Johnny est un homme complexe: il est non seulement marié, comme June, mais depuis quelques temps il est sous l’emprise de l’alcool et de drogues, ce qui le conduit rapidement aux enfers comme beaucoup d’autres artistes de l’époque. Or, dans la mini série Daisy Jones & The Six, c’est Daisy, géniale artiste rock tourmentée, qui risque de se perdre à jamais. June est attirée par Johnny mais, en même temps, elle rejette l’idée de se lier à lui car elle a peur et craint que cette liaison ne puisse la détruire. De plus, ses fortes convictions religieuses l’empêchent de se laisser emporter dans une relation extraconjugale. Mais Johnny ne se rend pas, il ne veut pas la perdre. Il la demande en mariage au moins trente fois après avoir risqué de mourir d’une overdose et avoir promis d’abandonner les drogues. L’attraction et l’alchimie entre les deux est si forte et leur liaison ayant démarrée depuis quelques temps, finit par convaincre June d’accepter ce mariage, n’ayant plus la volonté de s’y opposer. Les noces sont célébrées en 1968 et les deux époux resteront liés jusqu’à leurs derniers jours. June meurt en 2003 suite à des complications dues à une intervention au cœur et Johnny la suivra au mois de septembre de la même année.

 

La carrière de June a été foudroyante car elle avait un talent naturel pour la musique ainsi que pour l’écriture, le cinéma et la télé (on se rappellera de son personnage Sister Ruth dans la série télévisée La dame de l’ouest). En 2005, sort sur les écrans le film biographique Walk the line produit par leur fils John Carter Cash et interprété par Reese Witherspoon qui gagne l’Oscar de la meilleure actrice pour le rôle de June et Joaquin Phoenix qui obtient le Golden Globe comme meilleur acteur de film comique ou musical pour son interprétation de Johnny. Le film raconte l’histoire d’amour de June et Johnny et reçoit des dizaines de prix. Malgré la relation solide et l’amour inconditionnel qui liait les deux artistes, June a dû s’occuper à maintes reprises de la fragilité de son époux, obsédé par les démons de l’esprit qui le conduisaient à sa propre destruction. La vie de Johnny avait été marquée par la douleur de perdre l’un de ses frères décédé à la suite d’un accident de travail et les rapports qu’il entretenait avec son père avaient toujours été conflictuels. Mais June croît en lui, à son rétablissement tel le Phénix qui renaît de ses cendres, et reste à ses côtés sans renoncer cependant à sa carrière.Elle obtient son dernier prix en 1999, le Grammy pour l’album Press on. Les chansons qu’elle y interprète comme soliste et celles où elle se produit avec son époux sont empreintes de leur passion pour la musique et de leur amour:

” You’ve got away to keep me on your side,/You give me cause for love that I can’t hide./For you I know I’d even try to turn the tide,/Because you’re mine, I walk the line” (Tu t’ es enfui pour me garder près de toi/tu me donnes raison pour l’amour que je ne peux pas cacher./Pour toi je sais que j’essaierais de lutter contre la marée/Parce que tu m’appartiens, je marche droit”).

L’histoire de cette artiste de la musique country mériterait d’ être racontée sans faire mention de son époux. Il est bizarre que toutes les nouvelles, les photos et les infos que l’on repère sur le net présentent le nom de June toujours lié à l’histoire d’amour et de musique qu’elle a vécu avec Cash. Or, sa carrière avait commencé bien avant sa rencontre avec Johnny, elle était déjà célèbre suite à sa tournée avec Presley. Heureusement leur fils John Carter Cash a reconnu le talent de sa mère en produisant en 2007 l’album Anchored in love: A tribute to June Carter Cash, qui réunit les plus belles chansons de June interprétées par plusieurs artistes de musique country tels que Sheryl Crow, Willie Nelson, Loretta Lynn, Rosanne Cash, Emmylou Harris et Kris Kristofferson.

Son époux John admirait aussi sa ténacité et en reconnaissait la supériorité et l’équilibre, comme témoignent les mots qu’il écrivit à sa compagne sur une carte de voeux lors de son soixante-cinquième anniversaire

“Joyeux anniversaire princesse, nous sommes désormais vieux et nous nous sommes habitués l’un à l’autre. Nous avons les mêmes idées, nous lisons chacun dans les pensées de l’autre. Nous connaissons les désirs de l’autre même sans parler. Quelquefois nous nous énervons, peut être aussi que nous tenons tout pour acquis. Mais parfois, comme aujourd’hui, je réfléchis et je me rends compte de la chance que j’ai de partager ma vie avec la plus grande femme que j’ai jamais rencontrée. Tu me fascines et tu m’inspires depuis toujours, ton influence m’améliore. Tu es l’objet de mon désir, la première raison de mon existence. Je t’aime à la folie. Joyeux anniversaire princesse”.

Il nous reste de June le souvenir d’une femme tenace et passionnée ainsi que celui d’une virtuose de la musique country. Une femme capable de divorcer et de se marier à nouveau trois fois, jusqu’à se lier avec un homme qu’elle aimera pour toujours d’un amour éternel, malgré les faiblesses irréparables qu’il manifeste.

“The taste of love is sweet/When hearts like ours meet/ I fell for you like a child/ Oh, but the fire went wild/ I fell into a burning ring of fire” (La saveur de l’amour est sucrée/lorsque des cœurs comme les nôtres se rencontrent/avec toi je me sens comme une enfant /oh, mais le feu est devenu immense/ je suis tombée dans un cercle de flammes ardentes”.


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

Recently, I had a chance to watch a miniseries that I really enjoyed, Daisy Jones & The Six. It is the story of a 1970s rock band, from their rise on the Los Angeles music scene to their rise to fame, and then their fall, which came with their split - right at the height of their success. But it is also the story of a love that leads to torment and then liberation. In scrolling through the episodes featuring Daisy Jones, Billy Dunne and Camila Alvarez, I couldn't help but go with my mind to a connection (even if only in part) to the real-life story of June Carter and Johnny Cash. June was born in Maces Springs, Virginia, in 1923. From early on she manifested her artistic gifts as a singer and musician. In 1943 she formed a group with her mother Maybelle Carter and sisters Helen and Anita called Mother Maybelle & the Carter Sisters. June had singing and acting talents, especially a strong comic spirit, so they managed to start the famous Grand Ole Opry, a weekly country music and concert radio program broadcast live on Nashville's WSM radio station every Friday and Saturday night, through which she met many well-known artists, including Elvis Presley.

But the program became the source of an encounter that would change her life forever. A boy happened to pass through Nashville on a school field trip, and when he heard June singing he was captivated. He was Johnny Cash, who would turn up a few years later at the Grand Ole Opry to begin an unprecedented artistic partnership with June, starting with the song Ring of Fire. This piece has a particular history - June wrote it with her husband, the songwriter Merle Kilgore, and had her sister, Anita Carter, perform it. Johnny listened to it and did an arrangement of it that is as different and particular as the theme of the song, which was a married man singing a song written for him by a woman who is also married but now in love with the singer. It was a prelude in music to their passion, which was initially contained. There was a crazy chemistry and synergy between the two, not only artistic. Johnny, however, was a very complicated man. In addition to being married – as was June - he had long been in the throes of alcohol and drugs, in an increasingly abrupt descent into the underworld, like many rock stars of that era (in the miniseries Daisy Jones & The Six, it is Daisy, the brilliant and troubled rock artist, who is in danger - like Cash - of dissolving forever). June was attracted to him, but at the same time she rejected the idea of being with him, because she was afraid - afraid that an affair with him would destroy her, and because her strong religious convictions prevented her from allowing herself to freely indulge in an adulterous affair. But Johnny did not give up - he didn’t intend to lose June, and he asked her, thirty times, to marry him, after having been near death from an overdose and having committed himself to getting clean. The attraction and chemistry between the two was very strong, and their relationship had long since begun. June could no longer object, after all, she didn’t want to end it, and so she agreed to the marriage. They were married in 1968 and from then on remained together until the end, when in May 2003 June died as a result of complications from heart surgery and Johnny joined her in September of the same year.

 

June's career was dazzling. She was a natural at music, but also for writing and acting for film and television (one will remember her character of Sister Ruth in the television series Dr. Quinn, Medicine Woman). The 2005 biopic When Love Burns the Soul - Walk the Line, was dedicated to her love affair with Johnny Cash. It was produced by her son John Carter Cash and stars Reese Witherspoon, who won an Oscar for Best Actress in a Leading Role, and the extraordinary Joaquin Phoenix (Golden Globe for Best Actor in a Comedy or Musical Film). The film racked up dozens of other awards. Despite the solid relationship and the love that bound the two artists, June had to take on the frailties of the man she loved many times. The demons in his mind, due in part to a life marked by grief (one of his brothers had been killed in an accident at work and his relationship with his father had always been contentious), had returned to complete the work of destroying Johnny's body and soul. June stood by him, without giving up her career, with an unshakable faith in the possibility that her man could always make it and rise again from the ashes, like a phoenix. She would win her last award in 1999, the Grammy for the album Press On. The songs, both solo and those sung with her husband, are steeped in their passion for music and their love for each other:

"You've got a way to keep me on your side,/You give me cause for love that I can't hide. /For you I know I'd even try to turn the tide,/Because you're mine, I walk the line".

The story of this country music artist would deserve to be told even without Johnny. It is, in fact, peculiar that, searching for news on the web, photos and sites bring up June's name always and only coupled with the story of love and music that united her with Cash. Yet, she had begun her career much earlier, even touring with Elvis Presley. It was honored by her son John Carter Cash, who produced the album Anchored in Love: A Tribute to June Carter Cash, released in 2007 with various country music artists and performers, including Sheryl Crow, Willie Nelson, Loretta Lynn, Rosanne Cash, Emmylou Harris, and Kris Kristofferson, performing June's finest songs.

Johnny Cash himself admired June's tenacity and sensed her superiority and poise, as evidenced by his own words dedicated to his companion in a celebrated birthday card on the occasion of her sixty-fifth birthday:

"Happy birthday princess, we're old now and used to each other. We think the same way. We read each other's minds. We know what the other wants even without saying it. Sometimes we even irritate each other a little. Maybe sometimes we even take each other for granted. But every now and then, like today, I meditate on this and realize how lucky I am to share life with the greatest woman I have ever met. You continue to fascinate and inspire me. Your influence makes me better. You are the object of my desire, the first reason for my existence. I love you so much. Happy birthday princess."

Of her, we are left with the memory of a tenacious, passionate woman, a country music virtuoso, free to divorce and remarry three times, until she bound herself to the man whom - despite his irreparable weaknesses - she cannot help but love forever, in a circle of consuming fire:

«The taste of love is sweet/When hearts like ours meet/I fell for you like a child/Oh, but the fire went wild/I fell into a burning ring of fire»


Traduzione spagnola

Erika Incatasciato

 

Hace poco tuve la oportunidad de ver una miniserie que me gustó mucho, Daisy Jones & The Six. Es la historia de un grupo rock de los años setenta, desde su ascenso en la escena musical de Los Ángeles hasta su fama y caída, que se produjo con su disolución durante su apogeo. Pero también es la historia de un amor que conduce al tormento y luego a la liberación. Al recorrer los episodios protagonizados por Daisy Jones, Billy Dunne y Camila Álvarez, no pude que pensar en una conexión -aunque sólo fuera en parte- con la historia real de June Carter y Johnny Cash. June nació en Maces Springs (Virginia) en 1923 y enseguida manifestó sus dotes artísticas como cantante y música. En 1943 formó un grupo con su madre Maybelle Carter y sus hermanas Helen y Anita, llamado Mother Maybelle & the Carter Sisters. June tiene dotes para el canto y la interpretación, y sobre todo una gran vis cómica, gracias a la cual dio vida al famoso Grand Ole Opry, un programa de radio semanal de música country y conciertos, emitido en directo por la emisora Wsm de Nashville todos los viernes y sábados por la noche, a través del cual conoce a muchos artistas conocidos, entre ellos a Elvis Presley.

Sin embargo, el programa es la antesala del encuentro que cambiará su vida para siempre. En Nashville, un chico pasa por casualidad durante una excursión escolar, oye cantar a June y queda cautivado por ella. Es Johnny Cash, que se presentará unos años más tarde en el Grand Ole Opry para iniciar una colaboración artística sin precedentes con June, a partir de la canción Ring of Fire. Esta pieza tiene una historia especial: June la escribe junto a su marido, el cantautor Merle Kilgore, y la hace interpretar por su hermana, Anita Carter. Johnny la escucha y hace un arreglo tan diferente y particular como el tema de la canción: un hombre casado que canta una canción escrita para él por una mujer que también está casada pero que ahora está enamorada del cantante. Es el preludio musical de su pasión, al principio contenida. Entre los dos hay una química y una sinergia locas, no sólo artísticas. Johnny, sin embargo, es un hombre muy complicado: además de estar casado - de hecho como June,-, lleva mucho tiempo en las garras del alcohol y las drogas, en un descenso cada vez más abrupto a los infiernos, como muchas estrellas del rock de la época (en la miniserie Daisy Jones & The Six, es Daisy la brillante y atormentada artista rock, que corre el peligro -como Cash- de disolverse para siempre). June se siente atraída, pero al mismo tiempo rechaza la idea de estar con él, porque tiene miedo, teme que esta aventura la destruya y porque sus fuertes convicciones religiosas le impiden permitirse libremente una aventura adúltera. Pero Johnny no se da por vencido, no piensa perder a June y le pide treinta veces que se case con él, después de haber corrido el riesgo de morir de una sobredosis y de haberse comprometido a desintoxicarse. La atracción y la química entre ambos es muy fuerte y su relación ya había comenzado hacía tiempo. June ya no puede oponerse, al fin y al cabo no lo quiere, y por eso acepta el matrimonio. Se casan en 1968 y desde entonces permanecen juntos hasta el final, cuando en mayo de 2003 June fallece tras complicaciones derivadas de una operación de corazón y Johnny se une a ella en septiembre del mismo año.

 

La carrera de June fue deslumbrante: talento natural para la música, pero también para la escritura, el cine y la televisión (se recordará su personaje de la Hermana Ruth en la serie de televisión La Dama del Oeste). A su historia de amor con Johnny Cash está dedicada la película biográfica de 2005 When Love Burns the Soul - Walk the Line, producida por su hijo John Carter Cash y protagonizada por Reese Witherspoon, ganadora del Oscar a la mejor actriz protagonista, y un extraordinario Joaquin Phoenix (Globo de Oro al mejor actor en una película de comedia o musical), además de otras decenas de premios que esta película ha acumulado. A pesar de la sólida relación y del amor que los unía, June tuvo que enfrentarse varias veces a las debilidades del hombre al que amaba. Los demonios de su mente, debidos también a una vida marcada por el dolor (uno de sus hermanos había muerto en un accidente laboral y la relación con su padre siempre había sido conflictiva), habían regresado para completar el trabajo de destruir el cuerpo y el alma de Johnny. June permanece a su lado, sin renunciar a su carrera, con una fe inquebrantable en la posibilidad de que su hombre siempre pueda salir adelante y resurgir de sus cenizas, como el ave fénix. En 1999 ganó su último premio, el Grammy por el álbum Press on. Las canciones, tanto las que canta en solitario como las que canta con su marido, están llenas de su pasión por la música y del amor que les une:

«You’ve got a way to keep me on your side,/You give me cause for love that I can’t hide./For you I know I’d even try to turn the tide,/Because you’re mine, I walk the line» (Tienes una manera de mantenerme de tu lado,/Me das motivos para el amor que no puedo ocultar./Por ti sé que incluso intentaría cambiar las tornas,/Porque eres mía, camino la línea).

La historia de esta artista de música country merece ser contada incluso sin Johnny. De hecho, es singular que, al buscar noticias en la red, las fotos y los sitios saquen a relucir el nombre de June siempre y sólo en relación con la historia de amor y música que la unió a Cash. Sin embargo, ella había comenzado su carrera mucho antes, incluso haciendo giras con Presley. De ella se ocupó sin duda su hijo John Carter Cash, que produjo el álbum Anchored in Love: A Tribute to June Carter Cash, publicado en 2007 con varios artistas de música country, entre ellos Sheryl Crow, Willie Nelson, Loretta Lynn, Rosanne Cash, Emmylou Harris y Kris Kristofferson, interpretando las canciones más bellas de June.

El propio John admiraba la tenacidad de June y percibía su superioridad y aplomo, como atestiguan sus propias palabras dedicadas a su compañera en una famosísima tarjeta de cumpleaños con motivo de su 65 cumpleaños:

«Feliz cumpleaños princesa, ya somos viejos y estamos acostumbrados el uno al otro. Pensamos igual. Nos leemos la mente. Sabemos lo que el otro quiere incluso sin decirlo. A veces incluso nos irritamos un poco. A veces incluso nos damos por sentados. Pero de vez en cuando, como hoy, medito sobre ello y me doy cuenta de la suerte que tengo de compartir la vida con la mujer más grande que he conocido. Sigues fascinándome e inspirándome. Tu influencia me hace mejor. Eres el objeto de mi deseo, la razón principal de mi existencia. Te quiero muchísimo. Feliz cumpleaños princesa».

De ella nos queda el recuerdo de una mujer tenaz y apasionada, virtuosa de la música country, libre de divorciarse y volverse a casar tres veces, hasta que se unió al hombre al que -a pesar de sus irreparables debilidades- no pudo evitar amar para siempre, en un círculo de fuego consumidor:

«The taste of love is sweet/When hearts like ours meet/I fell for you like a child/Oh, but the fire went wild/I fell into a burning ring of fire» (El sabor del amor es dulce/Cuando corazones como los nuestros se encuentran/Caí por ti como un niño/Oh, pero el fuego se volvió salvaje/Caí en un ardiente anillo de fuego).

Nico
Simona Guerrini


Marika Banci

 

Nata a Colonia il 16 ottobre del 1938 da genitori di origini spagnole e iugoslave, Christa Päffgen trascorre l’infanzia nella Germania nazista, dove suo padre muore in manicomio in seguito a danni cerebrali riportati dopo aver preso servizio nella Wehrmacht, l’esercito tedesco. Per sfuggire ai bombardamenti, la madre Margarete Schulze si rifugia assieme alla piccola di due anni nella foresta di Sprea, a nord di Berlino. In seguito, terminata la guerra, madre e figlia si trasferiscono nella parte di Berlino di amministrazione statunitense, di cui Christa assorbe la cultura. La ragazza, durante la scuola, lavora anche come sarta e come commessa di lingerie. In quegli anni viene notata dall'industria della moda: Christa è alta, slanciata, elegante, e intraprende la carriera di modella. Quando ha tredici anni viene violentata da un sergente statunitense. L’uomo è arrestato e processato dalla corte marziale, ma la ferita di Christa rimarrà indelebile (della vicenda è infatti eredità il brano Secret Side, contenuto nel suo quarto album solista, The End, del 1974). La ragazza continua a lavorare come modella. Durante un soggiorno a Ibiza un amico fotografo la ribattezza “Nico”, in onore del regista greco Nikos Papatakis con cui il fotografo stava al tempo intrattenendo una relazione. Alla ragazza il nome piace e decide di adottarlo come nome d'arte (in un primo momento “Krista Nico”). 

Nico viene richiesta a Parigi dalla celebre rivista di moda Vogue e da altri magazine di rilevo. All’età di diciassette anni viene ingaggiata da Coco Chanel, per cui lavora brevemente prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove prosegue con successo nella professione di modella. Lavora anche come attrice, prende parte a diversi spot pubblicitari per poi apparire in piccoli ruoli di film di successo. Viene notata da Federico Fellini che le offrirà una parte marginale nel suo celebre film La dolce vita (1969). La musica inizia a presentarsi in misura rilevante nella vita di Nico: nel 1962 la modella presta il suo volto alla copertina dell’album Moon Beams, del grande jazzista Bill Evans. Arriviamo così nella New York d’inizio anni Sessanta. Nico s’imbatte proprio in Niko Papatakis, con cui avrà una relazione per circa due anni, nonostante la differenza d’età. Viaggiando apprende diverse lingue: l'inglese, il francese, lo spagnolo e l’italiano. Riesce a stringere molte amicizie che l’aiuteranno a farsi strada. Tra le varie conoscenze influenti, anche Alain Delon. I due hanno una relazione da cui nasce un figlio, detto Ari, mai riconosciuto dal celebre attore. La modella non riesce ad occuparsene a tempo pieno e lo affida alla nonna paterna; il ragazzo cresce quindi in una situazione paradossale: viene allevato dalla famiglia del padre, senza tuttavia mai incontrarlo.

Marcello Mastroianni e Nico sul set de “La dolce vita” (Federico Fellini, 1960). Photo credits: radiocittaperta.it

La musica nel frattempo prende sempre più spazio nella vita di Nico. Il primo live avviene nel 1963, al Blue Angel di New York, dove interpreta una versione del brano My Funny Valentine, un classico di Rodgers e Hart. Nel 1965 incontra Brian Jones, chitarrista-polistrumentista dei Rolling Stones, e registra il suo primo singolo I’m Not Saying. Il lato B del singolo è prodotta da Jimmy Page, chitarrista dei Led Zeppelin. Incontra inoltre il già celebre Jimi Hendrix al festival di Monterey. Nel 1966 arriva la svolta: Andy Warhol la inserisce nella sua celebre Factory, un collettivo di artisti di cui lui rappresentava il centro nevralgico. L’artista comprende le potenzialità della figura di Nico, soprattutto a livello estetico. Sarà in questo contesto che è incoraggiata dallo stesso Warhol a unirsi ai Velvet Underground, di cui lui è produttore. The Velvet Underground and Nico, del marzo 1967, è il primo disco della cantante, in cui la presenza è tuttavia marginale a livello compositivo: testi e melodie vengono infatti scritti prevalentemente dal frontman Lou Reed e lei si ritrova a fare un ottimo lavoro di carattere prevalentemente interpretativo. Il disco inizialmente fa fatica ad affermarsi ma verrà poi nel tempo considerato dalla rivista Rolling Stone come uno dei migliori cinquecento album di sempre, nella posizione numero 13. La rivista Uncut lo considererà invece il migliore album di debutto di tutti i tempi. Nico stringe un buon rapporto con John Cale, chitarrista della band, al contrario di quello intessuto con Lou Reed: una relazione, anche sentimentale, in cui tra i due sembrerebbe esserci soprattutto reciproca invidia. Di lì a poco la cantante decide infatti di separare il suo percorso da quello dei Velvet Underground, poiché per lei limitante.

Nico e Andy Warhol ritratti come Batman e Robin nel 1967 – © Frank Bez
Nico e i Velvet Underground

Chelsea Girl è il suo primo lavoro solista, qualche mese dopo l’uscita dai Velvet Underground. Si esibisce spesso al Doom di New York, accompagnata da grandi musicisti. Nella track list dell’album troviamo anche un’interpretazione di I'll Keep It with Mine di Bob Dylan, conosciuto due anni prima a Parigi. Nico stessa tuttavia, così come il pubblico, considererà negli anni questo disco come non sufficientemente riuscito. Nel luglio 1967 avviene l’incontro con Jim Morrison, il “re lucertola”. I due hanno una relazione intensa, tra viaggi e uso di droghe psichedeliche; in questo contesto Morrison si prende cura della cantante, spronando Nico a scrivere lei stessa la propria musica e i propri testi, a cui lei dedica un’attenta cura. Jim tornerà poi dalla compagna Pamela Courson. Nonostante la rottura, dell’eredità del rapporto vi è traccia nella pubblicazione di The Marble Index, di cui la cantante scrive interamente testi e musica. L’album, all’epoca d'avanguardia, vende inzialmente poco ma in seguito diviene un classico. Sempre frequentando la Factory, Nico fa poi la conoscenza di Iggy Pop e degli Stooges.

Gli anni Settanta sono problematici, drammatici, caratterizzati dalla presenza dell’eroina, di cui farà uso per circa quindici anni. Dopo essersi trasferita in Italia col regista sperimentale Philippe Garrel, la cantante scrive, nella costiera amalfitana, quello che è forse considerato il suo capolavoro, Desertshore. I due si trasferiscono poi a Parigi, in un malmesso appartamento di proprietà del padre di Garrel, e in quegli anni i due girano una serie di film sperimentali di scarso successo. È in questo periodo che Nico perde la custodia del figlio Ari, che in seguito diverrà a sua volta tossicodipendente. Nonostante i problemi con l’eroina, Nico continua a registrare dischi sperimentali. È nel 1974 che, in onore di Jim Morrison, incide The End, con Brian Eno al sintetizzatore. Camera Obscura è invece del 1987. Questi dischi getteranno le basi del post-punk, della new wave e del movimento dark. Nella metà degli anni Ottanta Nico si accinge ai suoi ultimi tour, molto dedita alla droga, senza fissa dimora e aggressiva: si dice abbia minacciato di accoltellare il suo stesso manager, facendo andare il furgone fuori strada.

Estate 1988, 18 luglio: durante un soggiorno a Ibiza assieme al figlio Ari, Nico esce in bicicletta in quella che è forse la giornata più calda dell’anno. Durante il percorso ha un mancamento, cade, sbatte la testa. Viene portata urgentemente in diversi ospedali dell’isola ma è sempre respinta perché la sua assicurazione sanitaria non è in regola. Soltanto la Croce Rossa l’accetta ma, a causa di una diagnosi sbagliata (“insolazione”) la cantante muore di lì a poche ore. Il mito di Nico resta tuttavia vivo ed attuale. La sua figura è un punto di riferimento di classe, ricercatezza ed eleganza. La sua voce e la sua musica sono indimenticabili.


Traduzione francese

Rachele Stanchina

 

Christa Paffgen dite Nico est née à Cologne le 16 octobre 1938 de parents d’origine espagnole et yougoslave. Elle passe son enfance dans l’Allemagne nazie où son père meurt dans un asile à la suite de lésions cérébrales dues à son service dans la Wehrmacht pendant la Deuxième Guerre Mondiale. Sa mère Margarete Schulze, pour fuir les bombardements, se réfugie avec la petite Christa alors âgée de deux ans dans la forêt de Sprea, au nord de Berlin. Une fois la guerre terminée, mère et fille s’installent dans la zone de Berlin qui est contrôlée par les Etats-Unis, et Christa se nourrit de l’ambiance et de la culture américaine. Durant sa scolarité, la jeune fille travaille comme couturière et vendeuse de lingerie. C’est à cette période qu’elle est remarquée dans le monde de la mode: elle est grande, élancée et élégante. Elle entame alors une carrière de mannequin. A l’âge de treize ans, elle est violée par un sergent américain. L’homme est arrêté et jugé par la cour martiale mais la blessure de Christa restera indélébile et elle en parlera dans la chanson Secret Side qui fait partie de son quatrième album comme soliste, The End, de 1974.Cette blessure n ’empêchera pas la jeune fille de continuer à travailler comme mannequin. Pendant un séjour à Ibiza, un ami photographe lui donne le surnom “Nico”, en l’honneur du metteur en scène Nikos Papatakis avec lequel il avait une liaison à cette époque. La jeune fille aime ce surnom et elle décide de l’adopter comme nom d’artiste (au début Khrista Nico).

Elle est appelée à Paris par la célèbre revue de mode Vogue ainsi que par d’autres magazines importants. Elle a dix-sept ans lorsqu’ elle est engagée par Coco Chanel, pour laquelle elle travaille avant de partir pour les Etats-Unis et continuer avec succès sa carrière de mannequin. Elle est aussi actrice: elle tourne plusieurs publicités puis elle obtient des petits rôles dans des films à succès. Federico Fellini la remarque et lui offrira un rôle marginal dans son célèbre film La dolce vita (1969). La musique commence à devenir importante dans sa vie. En 1962, le visage de Nico apparaît sur la couverture de l’album Moon Beams du grand musicien Jazz Bill Evans. On arrive ainsi dans le New York du début des années soixante. Nico rencontre Niko Papatakis et elle entretient avec lui une liaison qui durera presque deux ans malgré la différence d’âge. En voyageant, elle apprend plusieurs langues comme l’anglais, le français, l’espagnol et l’italien et elle nouera des liens d’amitié qui l’aideront à se faire une place dans la vie. Parmi ces connaissances importantes, celle d’ Alain Delon. Elle aura une liaison avec l’acteur et ils auront un fils prénommé Ari que le célèbre acteur ne reconnaîtra jamais. Le mannequin, n’arrivant pas à s’en occuper complètement, le confie à sa grande-mère paternelle. C’est ainsi que le garçon vit dans une situation paradoxale étant élevé par la famille de son père qu’il ne rencontrera jamais.

Marcello Mastroianni et Nico sur le tournage de « La dolce vita » (Federico Fellini, 1960). Photo credits: radiocittaperta.it

Entre-temps la musique prend de plus en plus de place dans la vie de Nico. En 1963, elle se produit dans son premier live au Blue Angel de New York où elle y interprète une version de My Funny Valentine, un classique des Rodgers and Hart. En 1965, elle rencontre Brian Jones, guitariste et multi-instrumentiste des Rolling Stones, et enregistre son premier single I’m not saying. La face B du single est produite par Jimmy Page, guitariste des Led Zeppelin. Au festival de Monterey, elle fait aussi la rencontre du déjà célèbre Jimi Hendrix. L’année 1966 est l’année du grand changement: Andy Warhol la fait participer à sa fameuse Factory, un atelier d’artistes dont il est le centre névralgique. Warhol détecte tout de suite le potentiel artistique de Nico, surtout au niveau esthétique, et il l’encourage à se lier aux Velvet Underground dont il est le producteur. Le premier disque de la chanteuse est The Velvet Underground et Nico (1967) mais au niveau de la composition son apport est marginal car elle ne fait que chanter et interpréter magnifiquement les mélodies et les textes écrits par le leader du groupe Lou Reed. Le disque a des débuts difficiles mais au fil des années la revue Rolling Stones le considérera comme l’un des cinq-cents plus grands albums de tous les temps, occupant ainsi la 13e position, tandis que pour la revue Uncut il est le meilleur album de tous les temps. Nico a un bon rapport amical avec John Cale, guitariste du groupe, bien différent de celui qu’elle entretient avec Lou Reed avec qui elle a une liaison aussi bien professionnelle que sentimentale caractérisée par une envie mutuelle. Bientôt la chanteuse, qui se sent limitée artistiquement, décide de se séparer des Velvet Underground.

Nico et Andy Warhol interprétés comme Batman et Robin en 1967 – © Frank Bez
Nico et le Velvet Underground

Quelque mois plus tard sort Chelsea Girl, son premier album en tant que soliste. Elle se produit souvent, accompagnée de grands musiciens, au Doom de New York. Parmi la track list de l’album on peut y écouter une interprétation de I’ll Keep It with Mine de Bob Dylan qu’elle a rencontré à Paris deux ans auparavant. Toutefois elle-même et son public considèrent cet album comme peu abouti. Au mois de juillet 1967, elle rencontre Jim Morrison, le “roi lézard” avec qui elle aura une liaison intense, ponctuée de voyages et d’usage de drogues psychédéliques. Durant cette période, Morrison prend soin de la chanteuse et la pousse à composer sa musique et à écrire ses textes, ce qu’elle fait avec beaucoup d’application. Toutefois Jim la quittera pour retourner avec son ex compagne Pamela Courson. Malgré leur rupture, l’album The Marble Index montre que le lien entre les deux artistes a eu des conséquences importantes pour Nico puisqu’elle est désormais autrice des musiques et des textes de ses chansons. Cet album d’avant-garde devient un classique même si au début il ne se vend que quelques copies. C’est toujours dans la Factory que Nico fait la rencontre de Iggy Pop et des Stooges.

Les années soixante-dix sont dramatiques et difficiles pour Nico, marquées par l’usage d’héroïne qui l’accompagnera pendant une quinzaine d’années. Nico s’installe en Italie avec le metteur en scène Philippe Garrel et, sur la Côte amalfitaine, elle écrit Desertshore qui est considéré comme son chef d’œuvre. Plus tard, le couple vivra à Paris dans un studio en mauvais état qui appartient au père de Garrel. C’est à cette période qu’ils tournent une série de films expérimentaux ayant peu de succès, et au même moment Nico perd la garde de son fils Ari qui deviendra à son tour toxicomane. Malgré tous les problèmes dus à la dépendance des drogues, Nico continue à enregistrer des disques: en 1974 sort The End en hommage à Jim Morrison avec Brian Eno au synthétiseur et en 1987 sort Camera Obscur. Ces deux disques vont poser les bases du post-punk, de la New-Wave et du mouvement dark. A la moitié des années quatre-vingt, Nico effectue ses dernières tournées. Elle est toxicomane, agressive et sans domicile fixe. On raconte qu’un jour, elle aurait menacé d’un couteau son manager lui faisant perdre ainsi le contrôle de son véhicule.

Le 18 juillet 1988, lors d’un séjour à Ibiza en compagnie de son fils Ari, elle sort faire un tour à vélo sous la canicule. Sur le parcours, elle a une malaise, tombe et se cogne la tête. On la transporte d’urgence dans plusieurs hôpitaux de l’île mais à chaque fois on refuse son admission car son assurance médicale n’est pas en règle. Finalement, la Croix Rouge la prend en charge mais à cause d’un diagnostique erroné (coup de soleil) Nico meurt quelques heures après probablement d’une hémorragie cérébrale. Le mythe de Nico est encore vivant de nos jours: son image reste synonyme de classe, d’élégance et de raffinement et sa voix et sa musique restent inoubliables.


Traduzione francese

Erika Incatasciato

 

 Nacida en Colonia (Alemania) el 16 de octubre de 1938 de padres de origen español y yugoslavo, Christa Päffgen pasó su infancia en la Alemania nazi, donde su padre murió en un manicomio a causa de lesiones cerebrales sufridas sirviendo en el ejército alemán Wehrmacht. Para escapar de los bombardeos, su madre Margarete Schulze se refugió con su hija de dos años en el bosque de Spree, al norte de Berlín. Después de la guerra, madre e hija se mudaron al sector de Berlín de ocupación estadounidense, donde Christa absorbió su cultura. Mientras estudiaba en la escuela, la joven, trabajaba como costurera y como vendedora de lencería. En aquellos años, la industria de la moda la consideró: Christa era alta, esbelta, elegante y empezó su carrera de modelo. Cuando tenía trece años la violó un sargento estadounidense. El hombre fue apresado y juzgado por la corte marcial, pero la herida será imborrable (en efecto, la canción Secret Side, incluída en su cuarto álbum The End de 1974, es hereda esa historia). La joven siguió trabajando como modelo. Durante una estancia en Ibiza, un amigo fotógrafo la llamó «Nico», en honor al director griego Nico Papatakis, con quien el fotógrafo tenía una relación en aquella época. A la joven le gustó el nombre y decidió adoptarlo como nombre artístico (primero fue «Krista Nico»).

Nico fue requerida en París por la famosa revista «Vogue» y por otras revistas importantes. Cuando tenía diecisiete años la contrató Coco Chanel, para quien trabajó por poco tiempo antes de mudarse a los Estados Unidos, donde siguió con éxito su carrera de modelo. Trabajó también como actriz: participó en varios anuncios y luego apareció en pequeños papeles de películas exitosas. Federico Fellini la notó y le ofreció un papel secundario en la película La Dolce Vita (1969). La música comenzó a presentarse de manera importante en la vida de Nico: en 1962, de modelo, presta su cara a la portada del álbum Moon Beams del gran músico de jazz Bill Evans. A principios de los años sesenta en Nueva York, Nico encontró justo a Nico Papatakis, con quien tuvo una relación durante unos dos años, a pesar de la diferencia de edad. Viajando aprendió varios idiomas: el inglés, el francés, el español y el italiano. Logró entablar amistad con muchas personas que la ayudarán a abrirse camino. Entre los contactos influyentes, también estaba Alain Delon. Ambos tuvieron una relación de la que nació un hijo llamado Ari, jamás reconocido por el famoso actor. La modelo no lograba ocuparse completamente de él y lo confió a la abuela paterna; el joven creció en una situación paradójica: fue criado por la familia de su padre al que nunca conoció.

Marcello Mastroianni y Nico en la gira de «La dolce vita» (Federico Fellini, 1960). Photo credits: radiocittaperta.it

La música, mientras tanto, tomaba cada vez más espacio en la vida de Nico. El primer concierto en vivo fue en 1963 en el Blue Angel (Nueva York), donde interpretó su versión de la canción My Funny Valentine, un clásico de Rodgers y Hart. En 1965 conoció a Brian Jones, guitarrista y multi-instrumentista de los Rolling Stones, y grabó su primer sencillo I’m not Saying. El lado B del sencillo fue producido por Jimmy Page, guitarrista de los Led Zeppelin. Además, conoció al ya famoso Jimi Handrix en el festival de Monterey. En 1966 su vida hizo un viraje: Andy Warhol la incorporó en su famosa «Factory», un colectivo de artistas cuyo centro era él mismo. El artista comprendió el potencial de la figura de Nico sobre todo a nivel estético. En ese contexto, fue alentada a unirse a los Velvet Underground por el mismo Warhol, que era su productor. The Velvet Underground and Nico, de marzo 1967, fue el primer álbum de la cantante, cuya presencia fue marginal a nivel compositivo: letras y melodías fueron escrita principalmente por el líder Lou Reed y ella tuvo que hacer un excelente trabajo sobre todo de carácter interpretativo. Al principio, el álbum no tuvo mucho éxito, pero luego fue considerado por la revista «Rolling Stones» como uno de los mejores quinientos álbumes de todos los tiempos, en el número 13. La revista «Uncut» se dio cuenta de que era el mejor álbum debut de todos los tiempos. Nico tuvo una buena relación con John Cale, guitarrista de la banda, a diferencia de la que tuvo con Lou Reed: una relación, incluso sentimental, en la que parecía que ambos tuvieran envidia mutua. Poco después, la cantante decidió separar su camino de los Velvet Underground, porque pensaba que la limitaban.

Nico y Andy Warhol interpretados como Batman y Robin en 1967 – © Frank Bez
Nico e i Velvet Underground

Chelsea Girl fue su primer trabajo en solitario, unos meses después de dejar a los Velvet Underground. Actuó con frecuencia en el Doom de Nueva York, acompañada por grandes músicos. En la lista de canciones del álbum está también su interpretación de I’ll Keep It with Mine de Bob Dylan, que había conoció dos años antes en París. Sin embargo, en esos años, la misma Nico consideró dicho álbum como no suficientemente exitoso. En julio 1967, conoció a Jim Morrison, el «Rey Lagarto». Los dos tuvieron una relación intensa entre viajes y uso de drogas psicodélicas; en semejante contexto, Morrison se cuidó de la cantante, animando a Nico a escribir su propia música y letras, a las que ella dedicó una cuidadosa atención. Luego, Jim volvió a su compañera Pamela Courson. A pesar de la ruptura, el legado de la relación se reflejó en la publicación de The Marble Index, del que la cantante escribió todas las letras y músicas. El álbum, en su época vanguardista, vendió poco al principio, pero más tarde se convirtió en un clásico. Otra vez gracias a la Factory, Nico conoció a Iggy Pop y a Los Stooges.

Los años setenta fueron problemáticos, dramáticos y caracterizados por la presencia de la heroína, que consumió durante quince años. Al mudarse a Italia con el director experimental Philippe Garrel, la cantante escribió en la costa Amalfitana lo que quizás se hubiera considerado su obra maestra: Desertshore. Luego, los dos se mudaron a París en un apartamento abandonado de propiedad del padre de Garrel y en aquellos años filmaron una serie de películas experimentales de escaso éxito. Fue en esa época que Nico perdió la custodia de su hijo Ari, quien más tarde se convirtió en un adicto. A pesar de sus problemas con la heroína, Nico siguió grabando álbumes experimentales. En 1974, en honor de Jim Morrison, grabó The End con Brian Eno en el sintetizador. Camera Obscura es de 1987. Estos álbumes sentaron las bases de Post Punk, New Wave y del movimiento dark. A mediados de los años ochenta, Nico se preparaba para sus últimas giras, totalmente adicta a las drogas, sin hogar y muy agresiva: se dice que una vez amenazó con apuñalar a su propio mánager, haciendo que la furgoneta saliera de la carretera.

Verano 1988, 18 de julio: durante una estancia en Ibiza con su hijo Ari, Nico salió en bicicleta en el día quizás más caluroso del año. Mientras estaba de paseo tuvo un desmayo, cayó y se golpeó la cabeza. La llevaron de urgencia a varios hospitales de la isla, pero siempre la rechazaban ya que su seguro de salud no estaba en regla. Solo la Cruz Roja la aceptó, pero debido a un diagnóstico erróneo (insolación) la cantante falleció en unas horas. El mito de Nico sigue vivo y actual. Su figura es un punto de referencia de clase, refinamiento y elegancia. Su voz y su música son inolvidables.

 

Dusty Springfield
Laura Candiani


Marika Banci

 

Era il 1965 e al Festival di Sanremo si esibivano, a fianco di interpreti italiani/e, cantanti di fama internazionale, soprattutto di provenienza inglese e americana; quell'edizione fu vinta da Bobby Solo con Se piangi, se ridi, in parte risarcito dell'esclusione dell'anno precedente, quando non fu fatto cantare in playback a causa dell'abbassamento di voce. Su quel palco, insieme fra gli altri a Gene Pitney, Petula Clark, Connie Francis, comparve anche la giovane e graziosa inglese Dusty Springfield, semisconosciuta al pubblico italiano. Cantò due brani che non lasciarono un segno particolare: Tu che ne sai e Di fronte all'amore. Ma proprio lì aveva ascoltato una canzone che l'aveva colpita particolarmente e che continua a essere bellissima: Io che non vivo, musica e voce di Pino Donaggio, testo di Vito Pallavicini. Pensate che se ne vendettero più di 80 milioni di dischi in tutto il mondo e fu cantata dalle massime celebrità: da Cher a Elvis Presley, da Tom Jones a Brenda Lee. E Dusty, appunto, se la portò a Londra dove la fece tradurre dall'amica Vicky Wickham: nacque così You Don't Have to Say You Love Me che le fruttò ottime vendite e grande popolarità.

Paul e Ringo con Tom Jones e Dusty Springfield ai Melody Maker Pop Awards alla Post Office Tower, Londra, 13 settembre 1966

Prendendo qualche notizia da Ondarock (specie riguardo al memorabile Lp Dusty in Memphis) e dal bel libro di Lucio Mazzi Just like a woman dedicato alle straordinarie donne interpreti del pop, del rock e della canzone d'autore, si viene a sapere che Dusty si chiamava Mary Isabel Catherine Bernadette O'Brien, ma fu soprannominata Dusty, che si potrebbe tradurre con "impolverata" perché era una bambina molto vivace e giocava spesso a pallone all'aria aperta. Era nata a Londra il 16 aprile 1939 da una coppia arrivata dall'Irlanda e amava fin da piccola la musica, grazie anche alla passione del nonno che le faceva ascoltare dischi di qualità; lei però voleva cantare e aveva come idolo la celebre Peggy Lee. Prima dei venti anni lasciò gli studi ed entrò in un gruppo musicale femminile: le Lana Sisters; l'esperienza le fu utile per darle delle basi di armonia, di tecnica di canto e di registrazione dei suoni. Cominciò con qualche esibizione in pubblico e alla tv, incise fra l'altro la versione tradotta del brano di Mina Tintarella di luna. Nel 1960 formò un gruppo folk con il fratello Tom e Reshad Feild, denominato The Springfields; ebbero un certo successo, trovarono un contratto, perfino poterono cantare a Nashville, il tempio americano della musica folk, e registrare un album. Ma il trio durò poco perché lei decise di fare carriera da solista, scegliendo come cognome proprio Springfield, e perché altri generi di musica si stavano affermando.

Subito realizza un 45 giri che entra nelle classifiche e le dà notorietà: I Only Want To Be with You; seguono altri dischi interessanti (fra cui A Girl Called Dusty) e collaborazioni con musicisti destinati a grande fama, come Burt Bacharach e Carole King. Viene anche in Italia e fa conoscere Stupido stupido, versione tradotta di Wishin' and Hopin'. In quello stesso 1964 a Città del Capo, in Sudafrica, avviene un fatto senza precedenti: si esibisce in un concerto in cui il pubblico, per sua richiesta, è misto e ciò le frutta l'immediata espulsione dal Paese. Sarà definita una scocciatrice dalla stampa britannica; in realtà è una persona coerente, dal carattere spiccato, che non tollera il razzismo e le discriminazioni. Un sondaggio della rivista New Musical Express comunque la mette al primo posto fra le voci femminili, eppure era l'epoca di cantanti forse più celebri di lei come Sandie Shaw (la ricordate? amava esibirsi a piedi nudi) e Cilla Black.

Tornando al Festival di Sanremo e alla registrazione del futuro grande successo, anzi un evergreen come si dice in gergo, fra le prime cento canzoni di ogni tempo secondo un sondaggio della Bbc, si racconta che Dusty fosse molto pignola, attenta ai suoni, una vera perfezionista e pretendeva un effetto di eco che in studio non si riusciva a ottenere. Alla fine fu soddisfatta quando poté cantare nel fondo di una scala, dalla cantina della sede discografica dove era stato montato un microfono. In breve ebbe anche un'altra notevole gratificazione professionale perché le fu offerto un programma televisivo tutto per sé dove lanciò il secondo Lp e presentò al pubblico inglese nuovi talenti, personaggi del blues emergenti, da Steve Wonder ragazzino alle Supremes, da Marvin Gaye ai Temptations. Riconfermata in patria cantante dell'anno, la sua carriera trova sbocchi straordinari negli Usa dove la talentuosa Carole King scrive apposta per lei Some of Your Lovin' e Goin' Back e Bacharach le regala The Look of Love, brano indimenticabile che farà parte della colonna sonora del film Agente 007 Casino Royale.

Dusty era assai miope, ma non portava gli occhiali per mostrare i suoi begli occhi sempre truccati alla perfezione; indossava abiti luccicanti che mettevano in evidenza la sua figurina snella e minuta, portava i capelli biondi, secondo la moda di allora, gonfi e cotonati, ma era una ragazza cattolica di provenienza umile, dal carattere mutevole, insicura, con molti dolori dentro di sé che mascherava sotto l'apparente felicità ed eleganza. Un suo problema poco risolto, vista l'epoca, era l'orientamento sessuale che le creava notevoli disagi e inquietudine. Quello però che metteva pace fra le due anime, quella di Mary e quella di Dusty, era la notevole voce di mezzosoprano estremamente duttile, tanto che l'avevano soprannominata "gazza ladra", perché alla lettera rubava modi, tonalità, stile, acuti, passando da un genere all'altro con una disinvoltura senza pari: tradizione, folk, pop, rock, blues, soul, tutto era in grado di sperimentare.

Fra 1967 e 1970 la sua carriera è all'apice: incide nuovi album in cui inserisce raffinate interpretazioni di pezzi nuovi, scritti per lei da Bacharach e altri prestigiosi musicisti, a fianco di versioni inglesi di successi internazionali, fra cui Ne me quitte pas di Jacques Brel. Ritorna alla Bbc con trasmissioni tutte sue, ma di nuovo negli Usa, la sua seconda patria artistica, raccoglie i successi più clamorosi e realizza quello che probabilmente è il suo album migliore, Dusty in Memphis, in cui sfoggia le grandi doti vocali. Dal 1971 inizia tuttavia un decennio in cui Dusty vede appannarsi la sua popolarità, inoltre è il momento in cui la stampa pettegola comincia a interrogarsi sulla sua vita sentimentale; che sia una conseguenza di questo o un caso, certo è che la cantante si trasferisce a vivere a Hollywood e lascia la vita pubblica e il suo lavoro, forse anche per una serie di cure. Nel 1978 ritorna sulle scene con un nuovo look: capelli corti, spettinati, sempre bella ed elegante; ha da promuovere l'album In Begins Again e l'anno dopo ha un altro disco da presentare al pubblico, mentre si esibisce per l'ultima volta a Londra, in un importante evento benefico, davanti alle massime autorità.

Poi è il silenzio, finché Dusty viene coinvolta in un concerto dei Pet Shop Boys, suoi grandissimi ammiratori; è il 1987 e con loro canta What Have I Done to Deserve This? che diventa subito molto popolare. L'anno seguente un album celebra i 25 anni di carriera, intanto decide di ritornare a vivere in Gran Bretagna. Nel 1989 i Pet Shop Boys le dedicano nuovi brani e producono Reputation che la riporta al successo. Nel 1995, mentre sta registrando canzoni inedite, Dusty avverte un nodulo al seno che verrà curato e combattuto, ma dopo tre anni la battaglia è persa. Non fa in tempo a ricevere l'onorificenza di Officer of the Order of the British Empire e muore il 2 marzo 1999 a Henley-on-Thames, non ancora sessantenne. Persino Elisabetta II, notoriamente assai riservata, spenderà per lei sincere parole di rimpianto. D'altra parte proprio una regina se n'era andata, anche se del pop.


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

 

C'était en 1965 et au Festival de Sanremo que se produisaient, aux côtés des interprètes italiens, des chanteurs de renommée internationale, principalement d'origine anglaise et américaine ; cette édition a été remportée par Bobby Solo avec Se piangi, se ridi, partiellement compensé par l'exclusion de l'année précédente, lorsqu'il n’avait pas pu chanter en playback à cause de sa voix qui avait baissé. Sur cette scène, aux côtés d'autres comme Gene Pitney, Petula Clark, Connie Francis, est apparue aussi la jeune et jolie anglaise Dusty Springfield, presque inconnue du public italien. Elle a chanté deux pièces qui n’ont pas laissé de trace particulière : Tu che ne sai et Di fronte all'amore. Mais c'est là qu'elle a entendu une chanson qui l'impactera particulièrement et qui continue à être magnifique : Io che non vivo, musique et voix de Pino Donaggio, texte de Vito Pallavicini. Pensez que plus de 80 millions de disques ont été vendus dans le monde entier et elle a été chantée par les plus grandes célébrités : de Cher à Elvis Presley, de Tom Jones à Brenda Lee. Et Dusty, justement, l'a emporté à Londres où elle l’a traduit par son amie Vicky Wickham : c’est ainsi qu’est né You Don't Have to Say You Love Me, qui lui rapportera d'excellentes ventes et une grande popularité.

Paul et Ringo avec Tom Jones et Dusty Springfield aux Melody Maker Pop Awards à la Post Office Tower, Londres le 13 septembre 1966

En prenant quelques informations d'Ondarock (surtout concernant le mémorable LP Dusty in Memphis) et du beau livre de Lucio Mazzi Just Like a Woman dédié aux extraordinaires femmes interprètes de pop, de rock et de chanson d'auteur, on apprend que Dusty s'appelait Mary Isabel Catherine Bernadette O'Brien, mais on la surnomme Dusty, qui pourrait se traduire par "poussiéreuse" car elle était une enfant très vive et jouait souvent au ballon en plein air. Elle est née à Londres le 16 avril 1939 d'un couple venu d'Irlande et elle aime la musique depuis son enfance, grâce aussi à la passion de son grand-père qui lui faisait écouter des disques de qualité ; elle, cependant, voulait chanter et avait pour idole la célèbre Peggy Lee. Avant d'avoir vingt ans, elle quitte les études et rejoint un groupe musical féminin : les Lana Sisters ; cette expérience lui est utile pour lui donner des bases d'harmonie, de technique vocale et d'enregistrement des sons. Elle commence par quelques performances publiques et à la télévision, elle enregistre entre autres la version traduite du pièce de Mina Tintarella di luna. En 1960, elle forme un groupe folk avec son frère Tom et Reshad Feild, nommé The Springfields ; ils ont un certain succès, trouvent un contrat et purent même chanter à Nashville, le temple américain de la musique folk, et enregistrer un album. Mais le trio dure peu car elle décide de faire carrière en solo, choisissant comme nom de scène justement Springfield, et parce que d'autres genres de musique s'affirment.

Elle réalise immédiatement un 45 tours qui entre dans les classements et lui donnera notoriété : I Only Want to Be with You ; d'autres disques intéressants suivent (dont A Girl Called Dusty) et des collaborations avec des musiciens destinés à une grande renommée, comme Burt Bacharach et Carole King. Elle a vécu aussi en Italie et a fait connaître Stupido stupido, version traduite de Wishin' and Hopin'. Cette même année, en 1964, à Cape Town, en Afrique du Sud, un fait sans précédent se produit : elle se produit lors d'un concert où le public, à sa demande, était mixte, ce qui lui vaut une expulsion immédiate du pays. Elle a été qualifiée de casse-pieds par la presse britannique ; en réalité, c'était une personne cohérente, au caractère bien trempé, qui ne tolérait pas le racisme et les discriminations. Un sondage de la revue New Musical Express la place néanmoins au premier rang parmi les voix féminines, et pourtant c'était l'époque de chanteuses peut-être plus célèbres qu'elle comme Sandie Shaw (vous vous en souvenez ? elle aimait se produire pieds nus) et Cilla Black.

En revenant au Festival de Sanremo et à l'enregistrement de son futur grand succès, en fait un evergreen comme on dit dans le jargon, parmi les cent premières chansons de tous les temps selon un sondage de la BBC, on raconte que Dusty était très exigeante, attentive aux sons, une véritable perfectionniste qui exigeait un effet d'écho que l'on ne pouvait pas obtenir en studio. À la fin, elle était satisfaite lorsqu'elle pouvait chanter au fond d'un escalier, depuis la cave de la maison de disque où un microphone avait été installé. En peu de temps, elle a eu aussi une autre gratification professionnelle notable car on lui propose une émission télévisée entièrement dédiée où elle lance son deuxième LP et présente au public anglais de nouveaux talents, des personnages du blues émergents, de Steve Wonder jeune aux Supremes, de Marvin Gaye aux Temptations. Reconduite chez elle comme chanteuse de l'année, sa carrière trouve des débouchés extraordinaires aux États-Unis où la talentueuse Carole King lui écrit Some of Your Lovin' et Goin' Back et Bacharach lui offre The Look of Love, pièce inoubliable qui fera partie de la bande originale du film Agente 007 Casino Royale.

Dusty était très myope, mais elle ne portait pas de lunettes pour montrer ses beaux yeux toujours parfaitement maquillés ; elle portait des vêtements scintillants qui mettaient en valeur sa silhouette mince et petite, elle avait des cheveux blonds, selon la mode de l'époque, volumineux et bouclés, mais c'était une fille catholique d'origine modeste, au caractère changeant, insécure, avec beaucoup de douleurs en elle qu'elle masquait sous l'apparente joie et élégance. Un de ses problèmes non résolus, vu l'époque, était son orientation sexuelle qui lui créait des désagréments et de l'inquiétude. Ce qui mettait cependant la paix entre les deux âmes, celle de Mary et celle de Dusty, était sa voix de mezzo-soprano extrêmement versatile, tant et si bien qu'on l'avait surnommée "pie voleuse", car littéralement elle volait des façons, des tonalités, des styles, des aigus, passant d'un genre à l'autre avec une aisance inégalée : tradition, folk, pop, rock, blues, soul, elle pouvait tout expérimenter.

Entre 1967 et 1970, sa carrière était à son apogée : elle enregistrait de nouveaux albums dans lesquels elle incluait des interprétations raffinées de pièces nouveaux, écrits pour elle par Bacharach et d'autres musiciens prestigieux, à côté de versions anglaises de succès internationaux, dont Ne me quitte pas de Jacques Brel. Elle revenait à la BBC avec des émissions toutes à elle, mais de nouveau aux États-Unis, sa deuxième patrie artistique, elle récoltait les succès les plus éclatants et réalisait ce qui est probablement son meilleur album, Dusty in Memphis, dans lequel elle mettait en avant ses grandes qualités vocales. À partir de 1971, elle entame cependant une décennie où Dusty voit sa popularité s'estomper, de plus, c'était le moment où la presse People commençait à s'interroger sur sa vie sentimentale ; que ce soit une conséquence de cela ou une coïncidence, il est certain que la chanteuse a déménagé à Hollywood et a abandonné la vie publique et son travail, peut-être aussi à cause d'une série de soins. En 1978, elle retourne sur scène avec un nouveau look:cheveux courts, décoiffés, toujours belle et élégante; elle avait à promouvoir l'album In Begins Again et l'année suivante, elle avait un autre disque à présenter au public, tout en se produisant pour la dernière fois à Londres, lors d'un important événement caritatif, devant les plus hautes autorités.

Puis vint le silence, jusqu'à ce que Dusty soit impliquée dans un concert des Pet Shop Boys, ses grands admirateurs ; c'était en 1987 et avec eux elle chante What Have I Done to Deserve This?, qui devient immédiatement très populaire. L'année suivante, un album célébre les 25 ans de carrière, entre-temps elle décide de retourner vivre en Grande-Bretagne. En 1989, les Pet Shop Boys lui dédient de nouvelles pièces et produisent Reputation qui la ramène au succès. En 1995, tandis qu'elle enregistrait des chansons inédites, Dusty sentait une grosseur au sein qui sera traitée et combattue, mais après trois ans, la bataille sera perdue. Elle ne reçoit pas à temps l'honneur de Officer of the Order of the British Empire et meurt le 2 mars 1999 à Henley-on-Thames, pas encore sexagénaire. Même Élisabeth II, notoirement très réservée, dépense pour elle des paroles sincères de regret. D'autre part, une reine était vraiment partie, même si c'était du pop.


Traduzione spagnola

Erika Incatasciato

 

Era 1965 y en el Festival de San Remo, junto a artistas italianas e italianos, actuaban cantantes de renombre internacional, sobre todo de origen británico y estadounidense. En aquella edición ganó Bobby Solo con la canción Se Piangi, se ridi, lo que lo ompensó parcialmente de la exclusión del año anterior, cuando no le permitieron cantar en Playback debido a una pérdida de voz. En ese escenario, junto a otras cantantes como Gene Pitney, Petula Clark y Connie Francis, también apareció la joven y agraciada británica Dusty Springfield, poco conocida entre el público italiano. Cantó dos canciones que no dejaron una huella singular: Tu che ne sai y Di fronte all’amore. Pero justo allí escuchó una canción que la impresionó particularmente y que sigue siendo muy hermosa: Io che non vivo, música y voz de Pino Donaggio, letra de Vito Pallavicini. Pensad que se vendieron más de 80 millones de discos en todo el mundo y que fue interpretada por las mayores celebridades: de Cher a Elvis Presley, de Tom Jones a Brenda Lee. Y Dusty, precisamente, la llevó a Londres y se la hizo traducir por su amiga Vicky Wickham dando a luz You Don’t Have to Say You Love Me, que le dio buenas ventas y gran popularidad.

Paul y Ringo con Tom Jones y Dusty Springfield en los premios Melody Maker Pop Awards en la Post Office Tower, Londres, 13 de septiembre de 1966

Teniendo en cuenta la información de Ondarock (especialmente sobre el memorable disco «Dusty in Memphis») y en el buen libro de Lucio Mazzi Just like a Woman dedicado a las extraordinarias mujeres intérpretes del pop, del rock y de la canción de autor, sabemos que Dusty se llamaba Mary Isabel Catherine Bernadette O’Brien, pero fue apodada Dusty, que podemos traducir con «polvorienta», porque era una niña muy activa y a menudo jugaba al aire libre. Nació en Londres el 16 de abril de 1939 de padres inmigrantes irlandeses y desde niña amaba la música, también gracias a la pasión de su abuelo que le hacía escuchar discos de calidad; pero ella quería cantar e idolatraba a Peggy Lee. Antes de los veinte años dejó los estudios y se unió a un grupo musical femenino: las Lana Sisters. La experiencia le fue útil ya que le dio las bases de armonía, de técnica de canto y de grabación de sonidos. Comenzó con algunas actuaciones en público y en la televisión, grabó, entre otras cosas, la versión traducida de la canción de Mina Tintarella di Luna. En 1960, creó un grupo de folk con sus hermanos Tom y Reshad Feild que llamaron The Springfields. Los tres tuvieron bastante éxito, consiguieron un contrato e incluso cantaron en Nashville –el templo estadounidense de la mùsica folk– y grabaron un álbum. Pero el trío no duró mucho porque ella decidió hacer carrera en solitario –con el mismo apellido Springfield– y otros géneros musicales se estaban imponiendo.

Enseguida grabó el 45 rpm I Only Want to be with You que llegó a ser un hit y le dio fama; siguen otros discos interesantes, como A Girl Called Dusty, y colaboraciones con músicos destinados a la fama, como Burt Bacharach y Carole King. Fue también a Italia y dio a conocer la versión traducida de Wishin’ and Hopin’: Stupido Stupido. En ese mismo 1964, en la Ciudad del Cabo, en Sudáfrica, ocurrió un hecho sin precedentes: actuó en un concierto donde solicitó que el público fuera mixto y eso le causó enseguida la expulsión del país. La prensa británica la consideraba molesta; en efecto, fue una persona consecuente con un carácter fuerte que no toleraba el racismo y las discriminaciones. Una encuesta de la revista New Musical Express la puso en primer lugar entre todas las voces femeninas, sin embargo, era una época en que había cantantes quizás más famosas que ella, como Sandie Shaw (¿La recordáis? Le gustaba actuar descalza) y Cilla Black.

Volviendo al Festival de San Remo y a la grabación de su gran éxito, que también puede decirse de popularidad perenne, entre las cien mejores canciones según una encuesta de la BBC, se dice que Dusty era muy meticulosa, atentas a los sonidos, una verdadera perfeccionista y que exigía un efecto de eco que no se podía conseguir en el estudio. Por fin, se sintió satisfecha cuando pudo cantar en el rincón más humilde de una escalera, desde la bodega de la sede discográfica donde habían colocado un micrófono. Pronto tuvo otra gran gratificación profesional cuando le propusieron un programa de televisión propio donde presentó su segundo álbum e introdujo al público nuevos talentos, a nuevas promesas del blues: desde el joven Steve Wonder hasta las Supremes, de Marvin Gaye a los Temptations. Reafirmada como mejor cantante del año en su país, su carrera alcanzó nuevas alturas en los Estados Unidos, donde la talentosa Carole King escribió solo para ella Some of Your Lovin’ y Goin’ Back y Bacharach le regaló The Look of Love, una canción inolvidable que fue incluida en la banda sonora de la película 007 Casino Royal.

Dusty era muy miope, pero no usaba gafas para mostrar sus hermosos ojos siempre perfectamente maquillados; vestía ropas brillantes que resaltaban su figura esbelta y menuda, llevaba el cabello rubio y esponjoso, según la moda de la época, pero detrás de esa imagen de felicidad y elegancia, se escondía una chica católica de origen humilde, voluble, insegura y con muchos dolores interiores. En la época en que vivía, su orientación sexual era un tema pendiente que le causaba un gran malestar e inquietud. Lo que logró apaciguar las dos almas, la de Mary y la de Dusty, fue la voz extraordinaria de mezzosoprano altamente versátil, hasta el punto que la apodaron «urraca», porque literalmente robaba modos, tonalidades, estilos, agudos, mientras pasaba de un género a otro con una facilitad sin igual: tradiciones, folk, pop, rock, blues, soul; todo estaba a su alcance.

Entre 1967 y 1970 su carrera estaba en su apogeo: grabó nuevos discos en los que incluyó refinadas versiones de nuevas canciones escritas para ella por Bacharach y otros prestigiosos músicos, junto a versiones inglesas de éxitos internacionales, como Ne me quitte pas de Jacques Brel. Volvió a la BBC con programas proprios, pero nuevamente se fue a los Estados Unidos, su segunda patria artística, donde logró sus mejores éxitos y realizó quizás su mejor álbum en el que exhibió su voz dotada: Dusty in Memphis. Sin embargo, desde 1971 comenzó una década en la que Dusty vio su popularidad decaer y paralelamente el periodismo sensacionalista empezó a interesarse por su vida amorosa. Coincidencia o no, lo que fue cierto es que la cantante se mudó a vivir a Hollywood y dejó su vida pública y su carrera, quizás también para recibir algún tipo de tratamiento. En 1978, regresó con un nuevo aspecto: cabello corto y despeinado, siempre hermosa y elegante. Tenía que promover el álbum In Begins Again y el año siguiente lanzó otro disco , mientras actuaba por última vez en Londres, en un gran evento benéfico, ante a las máximas autoridades.

Y luego hubo silencio hasta el 1987, cuando Dusty fue invitada a un concierto de los Pet Shop Boys, sus grandes admiradores, y junto a ellos cantó ¿What Have I done to Deserve This? que rápidamente se hizo muy popular. El año siguiente un álbum conmemoró sus 25 años de carrera, mientras tanto decidió regresar a vivir en el Reino Unido. En 1989 los Pet Shop Boys le dedicaron nuevas canciones y produjeron Reputation que la devolvió al éxito. En 1995, mientras grababa unas canciones inéditas, Dusty sintió un bulto en el pecho que fue tratado y contra el cual luchó, pero después de tres años perdió su batalla. No alcanzó a recibir la Orden del Imperio Británico. Murió el 2 de marzo de 1999 en Henley-on-Thames, sin llegar a los sesenta años. Incluso la reina Isabel II, conocida por ser muy reservada, dedicó sinceras palabras de pésame para ella. De hecho había fallecido una reina, aunque fuera del pop.

 

Aretha Franklin
Mauro Zennaro


Marika Banci

 

Qui, nella periferia dell’Impero, è sempre stato difficile farsi un’idea di quello che succedeva fuori e che ci arrivava come pallida eco piuttosto confusa. Così le poche persone che nel 1963 ascoltavano Rita Pavone cantare Datemi un martello non immaginavano che quella canzoncina buffa e ballabile, dal testo piuttosto stupido ma consono ai tempi, era la versione italiana di un memorabile brano politico di Pete Seeger, e chi ascoltò anche la versione di Aretha Franklin pensò che la cantante statunitense era in effetti piuttosto brava, quasi come la Pavone nazionale. Ma allora non la sentì quasi nessuno perché Franklin, all’epoca, era piuttosto sconosciuta anche negli Stati Uniti. La storia di Aretha è emblematica e assomiglia a quella di tante altre cantanti afroamericane. Come da copione, era figlia di un pastore battista e di una pianista e cantante gospel, Barbara Vernice Siggers, una delle migliori del Paese, ammirata anche dalla grande Mahalia Jackson. Il pastore in questione, Clarence LaVaughn Franklin, nonostante l’educazione rigida che tentò di dare alle tre figlie e al primo figlio di Barbara, non era esattamente uno stinco di santo e la moglie lo lasciò nel 1948 per poi morire d’infarto nel 1952 a trentaquattro anni. Quando la mamma se ne andò, Aretha, nata a Memphis il 25 marzo 1942, aveva sei anni.

Aretha Franklin (a sinistra) con il padre C.L. Franklin e la sorella Carolyn nel 1965

La famiglia si trasferì a Detroit, dove il pastore Franklin divenne ministro di una grande comunità religiosa e le sorelle furono impegnate a cantare durante le funzioni. Aretha suonava anche il pianoforte. La sua voce era già calda e potente, e il repertorio che cantava era ovviamente quello religioso: il gospel. A partire dai dodici anni cominciò a seguire il padre, predicatore di grande fascino e successo (era chiamato “La voce da un milione di dollari”), nei suoi viaggi di predicazione e anche a essere notata da agenti e impresari. A quattordici anni aveva anche già subito due stupri e affrontato due gravidanze ma questo, diversamente dalla sua voce, non era considerato poi così eccezionale. Casa Franklin, comunque, era frequentata da molti personaggi del mondo musicale, da cui la giovane Aretha prendeva ispirazione. A sedici anni seguì l’amico di famiglia Martin Luther King e cantò nelle manifestazioni in cui lui parlava in favore dei diritti civili.

Ma proprio la voce e le sue figure di riferimento, le grandi cantanti gospel, furono paradossalmente ciò che le impedì di raggiungere prima il successo: era bravissima, ma non abbastanza originale. Nel 1960, a diciotto anni, convinse il padre a tentare la sorte a New York con l’amico Sam Cooke, già stella di prima grandezza, e il reverendo Franklin acconsentì e finanziò alcune incisioni demo. Così le fu proposto un contratto con la casa discografica Columbia, ma questa le impose un repertorio che non la valorizzava. Tra il 1960 e il 1966 incise ben cinque album e alcuni 45 giri, tra cui il brano già citato di Pete Seeger, un pezzo bellissimo rovinato da un arrangiamento mediocre. Nonostante un discreto successo, il repertorio pop che la Columbia le imponeva non era nelle sue corde e, nonostante i circa centomila dollari annui di guadagno, Aretha aveva bisogno di una casa discografica che rendesse giustizia alla sua vena musicale afroamericana che, nata dal gospel, si stava evolvendo nel rythm and blues, la faccia moderna del vecchio blues nero. Inoltre si trovò perfino a dover restituire del denaro alla Columbia perché, a dispetto degli anticipi ricevuti e dei complimenti, le vendite restavano piuttosto fiacche. E il suo rapporto con l’uomo che aveva sposato nel 1961, il musicista e manager Ted White, si andava deteriorando: cosa ovvia, dato che lui si era dimostrato un violento. Alla scadenza del contratto, Aretha si trasferì all’Atlantic Records. Descrisse così il suo ingresso all’Atlantic: «Mi fecero sedere al pianoforte e i successi cominciarono ad arrivare».

Aretha Franklin con Wexler, produttore dell’Atlantic Records, nel 1966

Il suo nuovo produttore, Jerry Wexler, aveva finalmente capito la personalità di Aretha: era semplicemente un’artista impossibile da imbrigliare. Dava il meglio di sé improvvisando, facendo di testa sua in piena libertà interpretativa. Dal 1967 al 1970 Aretha incise i pezzi più celebri della sua carriera, tra cui Respect, di Otis Redding, che trasformò in un inno femminista, e (You Make Me Feel) A Natural Woman, di Carole King, il brano che nel 2015 cantò a Washington davanti al presidente Barack Obama, alla first lady Michelle LaVaughn Robinson e all’autrice Carole King visibilmente commossa. Il successo, finalmente. Ma non la serenità. La fatica degli anni precedenti, le molestie subite, la violenza di cui una giovane donna nera era circondata e vittima non le permisero di godersi la libertà artistica e la celebrità. D’altro canto depressione e ricorso ad alcol e sostanze varie erano tipici dell’ambiente, una scorsa alle biografie delle grandi artiste afroamericane lo può confermare. Come altre prima, anche Aretha fu insignita da pubblico e critica di un titolo nobiliare: Lady Soul, la regina della musica soul. Fu la prima artista nera a conquistare la copertina della rivista Time e la prima donna accolta, il 3 gennaio 1987, nella leggendaria Rock ’n’ Roll Hall of Fame di Cleveland (il che la dice lunga sulla considerazione che tale istituzione ha delle musiciste).

Aretha restò all’Atlantic per un decennio riportando un successo altalenante. I gusti e le mode musicali cambiavano velocemente e il trionfo della disco music non le giovò. Le solide radici religiose e civili della sua musica non potevano convivere con le atmosfere da discoteca che cominciavano a imperversare e che il mercato imponeva. La sua produzione appareva confusa ma non mancarono le perle, come Young Gifted and Black, di Nina Simone, divenuta un inno dell’orgoglio nero, e il periodico ritorno al gospel, come l’album Amazing Grace che la riportò alla musica delle origini. Il trionfo definitivo arrivò nel 1980 con il film The Blues Brothers di John Landis, in cui Aretha interpreta una piccola parte di grande impatto cantando Think!, del 1968. Il film, in cui appaiono altri grandi musicisti, sia nella band dei fratelli Blues che come comprimari, divenne leggendario. Aretha, la cui canzone è un inno alla libertà, in realtà non fa una parte particolarmente brillante: interpreta la moglie del chitarrista Matt “Guitar” Murphy che vuole impedire al marito di unirsi alla band e farlo rimanere a gestire la loro rosticceria: un’immagine pedante e conservatrice, anche se l’interpretazione è meravigliosa.

Ormai celebre in tutto il mondo, Aretha Franklin proseguì a incidere dischi, concentrandosi sulla musica più adatta alla sua personalità e in duetti spesso sorprendenti, come quelli con Whitney Houston ed Elton John, né mancarono esibizioni per alcuni versi sconcertanti, come l’interpretazione di Nessun dorma, da Turandot di Giacomo Puccini, alla cerimonia di consegna dei Grammy Awards del 1998, in sostituzione di Luciano Pavarotti malato: un brano non adatto a lei, che però lo esegue, come sempre, affondando la voce nel blues.Il nuovo secolo rivelò una Aretha Franklin diva irrequieta, le apparizioni sul palco si rarefecero – anche a causa del suo rifiuto di viaggiare in aereo, che la terrorizzava – e anche i dischi apparvero più raramente. Nel 2014 David Ritz, scrittore statunitense specializzato in biografie, pubblicò Respect, versione riveduta e corretta di From These Roots, biografia “ufficiale” di Aretha scritta con lei nel 1999; la nuova versione, a quanto pare, era più c completa e veritiera circa argomenti di carattere personale a suo tempo “censurati” dalla cantante.

Nel 2015 il grande trionfo a Washington sopra ricordato, e poi la malattia. Aretha Franklin morì a Detroit il 16 agosto 2018. Nel 2021 la rivista Rolling Stone dichiarò la sua versione di Respect, fra cinquecento selezionate, la “più grande canzone di tutti i tempi”. La motivazione recitava:

«Aretha non avrebbe mai interpretato la parte della donna disprezzata: il suo secondo nome era “Rispetto”». E proseguiva: «le richieste orgogliose della canzone hanno avuto una forte risonanza con il movimento per i diritti civili e l’emergente rivoluzione femminista, adattandosi a un’artista che ha sostenuto il Black Panther Party e ha cantato al funerale di Martin Luther King Jr. Nel suo libro di memorie del 1999, Franklin scrisse che la canzone rifletteva “il bisogno dell’uomo e della donna media della strada, dell’uomo d'affari, della madre, del pompiere, dell'insegnante: tutti volevano rispetto”. Lo facciamo ancora».


Traduzione francese

Ibtisam Zaazoua

 

Ici, dans la périphérie de l'Empire, il a toujours été difficile de se faire une idée de ce qui se passait ailleurs et qui nous arrivait comme un écho pâle et assez confus. Ainsi, les quelques personnes qui, en 1963, écoutaient Rita Pavone chanter Datemi un martello, n'imaginaient pas que cette petite chanson drôle et dansante, au texte plutôt stupide mais adapté à l'époque, était la version italienne d'un mémorable morceau politique de Pete Seeger, et ceux qui ont aussi entendu la version d'Aretha Franklin pensaient que la chanteuse américaine était en fait assez douée, presque comme la Pavone nationale. Mais à l'époque, presque personne ne l'a entendue, car Franklin, à ce moment-là, était plutôt inconnue même aux États-Unis. L'histoire d'Aretha est emblématique et ressemble à celle de nombreuses autres chanteuses afro-américaines. Comme dans un scénario prévisible, elle était la fille d'un pasteur baptiste et d'une pianiste et chanteuse de gospel, Barbara Vernice Siggers, l'une des meilleures du pays, admirée même par la grande Mahalia Jackson. Le pasteur en question, Clarence LaVaughn Franklin, malgré l'éducation stricte qu'il essayait de donner à ses trois filles et au premier fils de Barbara, n'était pas exactement un modèle de vertu, et sa femme le quitte en 1948 pour mourir d'une crise cardiaque en 1952, à l'âge de trente-quatre ans. Quand sa mère est partie, Aretha, née à Memphis le 25 mars 1942, avait six ans.

Aretha Franklin (la sinistre) avec le père C.L. Franklin et Sorella Carolyn en 1965

La famille a déménagé à Detroit, où le pasteur Franklin est devenu ministre d'une grande communauté religieuse, et les sœurs ont été impliquées dans les chants pendant les services. Aretha jouait aussi du piano. Sa voix était déjà chaude et puissante, et le répertoire qu'elle chantait était bien sûr celui religieux : le gospel. À partir de l'âge de douze ans, elle a commencé à suivre son père, un prédicateur très charismatique et à succès (on l'appelait "La voix d'un million de dollars") lors de ses voyages de prédication, et elle a aussi commencé à être remarquée par des agents et des managers. À quatorze ans, elle avait déjà subi deux viols et vécu deux grossesses, mais cela, contrairement à sa voix, n'était pas considéré comme si exceptionnel. La maison Franklin, de toute façon, était fréquentée par de nombreuses personnalités du monde musical, dont la jeune Aretha s'inspirait. À seize ans, elle a suivi l'ami de la famille, Martin Luther King, et a chanté lors des manifestations où il parlait en faveur des droits civiques.

Mais c'est justement sa voix et ses modèles, les grandes chanteuses de gospel, qui l'ont paradoxalement empêchée d'atteindre le succès plus tôt : elle était brillante, mais pas assez originale. En 1960, à dix-huit ans, elle a convaincu son père de tenter sa chance à New York avec l'ami Sam Cooke, déjà une grande star, et le révérend Franklin a accepté et financé quelques enregistrements démo. Ainsi, elle a reçu une offre de contrat avec la maison de disques Columbia, mais celle-ci lui a imposé un répertoire qui ne la mettait pas en valeur. Entre 1960 et 1966, elle a enregistré pas moins de cinq albums et plusieurs singles, dont la chanson déjà mentionnée de Pete Seeger, une belle chanson gâchée par un arrangement médiocre. Malgré un succès modéré, le répertoire pop imposé par Columbia n'était pas dans ses cordes et, malgré un revenu annuel d'environ cent mille dollars, Aretha avait besoin d'une maison de disques qui rende justice à sa veine musicale afro-américaine qui, née du gospel, évoluait vers le rhythm and blues, la version moderne de l'ancien blues noir. En outre, elle a même dû rembourser de l'argent à Columbia, car, malgré les avances reçues et les compliments, les ventes restaient plutôt faibles. Et sa relation avec l'homme qu'elle avait épousé en 1961, le musicien et manager Ted White, se détériorait : une conséquence logique, étant donné que lui s'était montré violent. À la fin du contrat, Aretha a déménagé chez Atlantic Records. Elle a décrit ainsi son entrée chez Atlantic : « Ils m'ont fait asseoir au piano, et les succès ont commencé à arriver.»

Aretha Franklin avec le producteur d'Atlantic Records Wexler en 1966

Son nouveau producteur, Jerry Wexler, avait enfin compris la personnalité d'Aretha : elle était simplement une artiste impossible à contenir. Elle donnait le meilleur d'elle-même en improvisant, en faisant tout à sa manière avec une liberté d'interprétation totale. Entre 1967 et 1970, Aretha Franklin enregistre les pièces les plus célèbres de sa carrière, y compris Respect d’Otis Redding, qu'elle transforme en hymne féministe, et (You Make Me Feel) A Natural Woman de Carole King, une chanson qu'elle chante en 2015 à Washington devant le président Barack Obama, la première dame Michelle LaVaughn Robinson, et l'auteure Carole King, visiblement émue. Le succès, enfin. Mais pas la sérénité. La fatigue des années précédentes, les abus subis, la violence qui entourait et affectait une jeune femme noire ne lui permettent pas de profiter pleinement de sa liberté artistique et de sa célébrité. D’ailleurs, la dépression et le recours à l'alcool et aux drogues étaient fréquents dans cet environnement, comme le montrent les biographies de nombreuses grandes artistes afro-américaines. Comme d'autres avant elle, Aretha reçoit des critiques et du public un titre de noblesse : Lady Soul, la reine de la musique soul. Elle est la première artiste noire à figurer sur la couverture du magazine Time et la première femme à être admise, le 3 janvier 1987, dans le légendaire Rock 'n' Roll Hall of Fame de Cleveland (ce qui en dit long sur la place des musiciennes dans cette institution).

Aretha reste chez Atlantic pendant une décennie, connaissant un succès inégal. Les goûts et les modes musicaux changent rapidement, et le triomphe de la disco ne lui est pas favorable. Ses solides racines religieuses et civiles ne s'accordent pas avec les ambiances de discothèque qui commencent à dominer et que le marché impose. Sa production paraît confuse, mais elle inclut quelques perles, comme Young Gifted and Black de Nina Simone, devenu un hymne de la fierté noire, et des retours périodiques au gospel, comme l'album Amazing Grace qui la ramène à sa musique d'origine. Le triomphe définitif arrive en 1980 avec le film The Blues Brothers de John Landis, où Aretha joue un petit rôle marquant en chantant Think! de 1968. Le film, dans lequel apparaissent d'autres grands musiciens, tant dans le groupe des frères Blues que parmi les seconds rôles, devient légendaire. Aretha, dont la chanson est un hymne à la liberté, ne joue pas un rôle particulièrement brillant : elle incarne l'épouse du guitariste Matt "Guitar" Murphy, cherchant à l'empêcher de rejoindre le groupe et voulant qu'il reste pour gérer leur rôtisserie : une image pédante et conservatrice, même si son interprétation est merveilleuse.

Désormais célèbre dans le monde entier, Aretha Franklin continue d'enregistrer des disques, en se concentrant sur la musique qui correspond le mieux à sa personnalité et en réalisant des duos souvent surprenants, comme ceux avec Whitney Houston et Elton John. Il y a aussi des performances pour le moins surprenantes, comme son interprétation de Nessun dorma de Turandot de Giacomo Puccini aux Grammy Awards de 1998, en remplacement de Luciano Pavarotti malade : une pièce qui ne lui est pas adaptée, mais qu'elle chante néanmoins en y insufflant son style blues. Le nouveau siècle révèle une Aretha Franklin diva agitée, ses apparitions sur scène deviennent plus rares – en partie à cause de sa peur de voyager en avion – et ses disques paraissent aussi moins fréquemment. En 2014, David Ritz, écrivain américain spécialisé en biographies, publie Respect, une version révisée et corrigée de From These Roots, la biographie officielle d'Aretha écrite avec elle en 1999 ; la nouvelle version est, semble-t-il, plus complète et honnête quant à des aspects personnels autrefois censurés par la chanteuse.

En 2015, le grand triomphe à Washington précédemment mentionné, puis la maladie. Aretha Franklin meurt à Détroit le 16 août 2018. En 2021, le magazine Rolling Stone déclare que sa version de Respect, parmi cinq cents chansons sélectionnées, est la "plus grande chanson de tous les temps". La motivation disait:

«Aretha n’aurait jamais joué le rôle de la femme méprisée : son deuxième prénom était “Respect”». Elle poursuivait: «Les revendications fières de la chanson ont résonné fortement avec le mouvement des droits civiques et la révolution féministe naissante, s’adaptant à une artiste qui soutenait le Black Panther Party et chantait aux funérailles de Martin Luther King Jr. Dans son livre de mémoires de 1999, Franklin a écrit que la chanson reflétait "le besoin de l'homme et de la femme moyens, de l'homme d'affaires, de la mère, du pompier, de l'enseignant : tous voulaient du respect". Nous en avons toujours besoin.».


Traduzione inglese

Syd Stapleton

 

Here on the outskirts of the Empire, it was always difficult to get an idea of what was going on inside, other than what came to us as pale, rather fuzzy echoes. So, the few people who heard Rita Pavone sing If I Had a Hammer in 1963 had no idea that that funny, danceable little song, with rather silly lyrics but appropriate to the times, was the Italian version of a memorable political song by Pete Seeger. And those who also heard Aretha Franklin's version thought that the American singer was actually quite good, almost as good as the national Pavone. But hardly anyone heard that version then, because Franklin, at the time, was rather unknown even in the United States. Aretha's story is emblematic and resembles that of so many other African American singers. As per the common script, she was the daughter of a Baptist pastor and Barbara Vernice Siggers, a pianist and gospel singer, one of the best in the country and admired by the great Mahalia Jackson. The pastor in question, Clarence LaVaughn Franklin, despite the strict upbringing he tried to give to his three daughters and Barbara's first son, was not exactly universally popular, and his wife left him in 1948 only to die of a heart attack in 1952 at the age of thirty-four. When her mother died, Aretha, born in Memphis on March 25, 1942, was only six years old.

Aretha Franklin (a sinistra) with the father C.L. Franklin and the sorella Carolyn nel 1965

The family moved to Detroit, where Pastor Franklin became minister of a large religious organization and the sisters were busy singing during services. Aretha also played the piano. Her voice was already warm and powerful, and the repertoire she sang was obviously religious - gospel. From the age of twelve she began to follow her father, a very charming and successful preacher (he was called "The Million Dollar Voice"), on his preaching trips, and she was also noticed by agents and impresarios. By the time she was fourteen, she had also suffered two rapes and faced two pregnancies but this, unlike her voice, was not considered all that exceptional. The Franklin house, however, was frequented by many musical figures, from whom young Aretha took inspiration. At sixteen she followed family friend Martin Luther King and sang at events where he spoke in favor of civil rights.

But her voice and her role models, the great gospel singers, were paradoxically what prevented her from achieving success sooner - she was great, but not original enough. In 1960, at the age of eighteen, she convinced her father to try her luck in New York with her friend Sam Cooke, already a top star, and Reverend Franklin agreed and financed some demo recordings. She was thus offered a contract with the Columbia record company, but it imposed a repertoire on her that didn’t help at all. Between 1960 and 1966 she recorded no less than five albums and a few 45s, including the aforementioned Pete Seeger song, a beautiful piece marred by a mediocre arrangement. Despite a fair amount of success, the pop repertoire that Columbia imposed on her was not in her wheelhouse, and despite making about a hundred thousand dollars a year, Aretha needed a record company that would do justice to her African-American musical heritage, which, born of gospel, was evolving into rhythm and blues, the modern face of the old black blues. She even found herself having to return money to Columbia because sales remained rather sluggish, in spite of her successes and the compliments she received. And her relationship with the man she had married in 1961, musician and manager Ted White, was deteriorating - he had proven to be abusive. When her contract expired, Aretha moved to Atlantic Records. She described her joining Atlantic this way, "They sat me down at the piano and the hits started coming."

Aretha Franklin with Atlantic Records producer Wexler in 1966

Her new producer, Jerry Wexler, had finally figured out Aretha's personality - she was simply an artist impossible to harness. She was at her best improvising, doing her own thing with complete interpretive freedom. From 1967 to 1970 Aretha recorded the most celebrated songs of her career, including Respect, by Otis Redding, which she turned into a feminist anthem, and (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, by Carole King, the song she sang in Washington in 2015 in front of President Barack Obama, first lady Michelle Obama and the visibly moved songwriter Carole King. Success, at last. But not serenity. The fatigue of her earlier years, the harassment she suffered, and the violence with which a young black woman was surrounded and victimized didn’t allow her to enjoy artistic freedom and stardom. On the other hand, depression and a resort to alcohol and various substances were typical of the environment - a glance at the biographies of great African American female artists can confirm this. Like others before, Aretha was given a noble title - Lady Soul, the Queen of Soul Music - by the public and critics. She was the first black artist to grace the cover of Time magazine and the first woman inducted, on January 3, 1987, into the legendary Rock 'n' Roll Hall of Fame in Cleveland (which speaks volumes about that institution's regard for female musicians).

Aretha remained with Atlantic for a decade, with fluctuating success. Musical tastes and fashions were changing rapidly, and the triumph of disco music didn’t benefit her. The solid religious and civic roots of her music could not coexist with the disco atmosphere that was beginning to rage and that the market dictated. Her output appeared muddled but there was no shortage of gems, such as Nina Simone's Young Gifted and Black, which became an anthem of black pride, and the periodic return to the gospel, such as the album Amazing Grace, which brought her back to the music of her origins. An enormous triumph came in 1980 with John Landis's 1968 film The Blues Brothers, in which Aretha plays a small, impactful part singing Think! The film, in which other great musicians appear, both in the Blues Brothers band and as supporting players, became legendary. Aretha, whose song is an ode to freedom, did not actually play in a particularly wonderful role. She played the wife of guitarist Matt "Guitar" Murphy, who wanted to prevent her husband from joining the band and have him stay on to run their deli - a pedantic and conservative image - although the performance is wonderful.

Having become world-famous, Aretha Franklin went on to make records, concentrating on music best suited to her personality and in often surprising duets, such as those with Whitney Houston and Elton John, nor were there any lack of performances that were in some ways disconcerting, such as her performance of Nessun Dorma, from Giacomo Puccini's Turandot, at the 1998 Grammy Awards ceremony, replacing the ailing Luciano Pavarotti. It wasn’t a song well suited to her, but she performed it, as always, lowering her voice into the blues. The new century revealed a restless Aretha Franklin as a diva. Stage appearances became rare - partly because of her refusal to travel by air, which terrified her - and even records appeared less frequently. In 2014 David Ritz, a U.S. writer specializing in biographies, published Respect, a revised and corrected version of From These Roots, Aretha's "official" biography written with her in 1999. The new version was apparently more complete and truthful about the personal topics that had been "censored" by the singer in the earlier version.

In 2015 there was the great triumph in Washington, D.C. mentioned above, and then came illness. Aretha Franklin died in Detroit on August 16, 2018. In 2021 Rolling Stone magazine declared her version of Respect, among five hundred selected, the "greatest song of all time." The rationale read,

«Aretha would never play the scorned woman… Her middle name was Respect." It continued, "the song’s unapologetic demands resonated powerfully with the civil rights movement and emergent feminist revolution, fitting for an artist who donated to the Black Panther Party and sang at the funeral of Martin Luther King Jr. In her 1999 memoir, Franklin wrote that the song reflected ‘the need of the average man and woman in the street, the businessman, the mother, the fireman, the teacher - everyone wanted respect. We still do».


Traduzione spagnola

Silvia Cercarelli

 

Aquí, en las afueras del Imperio, siempre ha sido difícil hacerse una idea de lo que ocurría afuera y que nos llegaba como un eco pálido y bastante confuso. Así que las pocas personas que en 1963 escuchaban a Rita Pavone cantar Datemi un martello no se imaginaban que esa canción divertida y bailable, con una letra bastante estúpida pero apropiada a los tiempos, era la versión italiana de una memorable canción política de Pete Seeger, y quienes también escucharon la versión de Aretha Franklin pensaron que la cantante estadounidense era en realidad bastante buena, casi como nuestra Pavone. Sin embargo, casi nadie la escuchaba porque Franklin, en auqle entonces, era bastante desconocida incluso en los Estados Unidos. La historia de Aretha es emblemática y se asemeja a la de muchas otras cantantes afroamericanas. Como de costumbre, era hija de un pastor bautista y de una de las mejores pianistas y cantantes de góspel del país, Barbara Vernice Siggers, admirada también por la gran Mahalia Jackson. El pastor en cuestión, Clarence LaVaughn Franklin, a pesar de la estricta educación que trató de dar a sus tres hijas y al primer hijo de Barbara, no era exactamente un santo y su esposa lo abandonó en 1948. Luego ella murió de un ataque de corazón en 1952, a la edad de treinta y cuatro años. Cuando su madre se fue, Aretha, nacida en Memphis el 25 de marzo de 1942, tenía seis años.

Aretha Franklin (una sinistra) con el padre C.L. Franklin y la sorella Carolyn nel 1965

La familia se mudó a Detroit, donde el pastor Franklin se convirtió en ministro de una gran comunidad religiosa y las hermanas solían cantar durante las funciones. Aretha también tocaba el piano. Su voz ya era cálida y poderosa, y el repertorio que cantaba era obviamente el religioso: el góspel. A partir de los doce años comenzó a seguir a su padre, un predicador de gran encanto y éxito (le llamaban "La Voz de un millón de dólares"), en sus viajes de predicación y también a hacerse notar por agentes y empresarios. A los catorce años también había sufrido ya dos violaciones y se había enfrentado a dos embarazos, pero esto, a diferencia de su voz, no se consideraba tan excepcional. La casa de Franklin, sin embargo, era frecuentada por muchas personalidades del mundo musical, en las que se inspiró la joven Aretha. A los dieciséis años siguió a Martin Luther King, amigo de la familia, y cantó en las protestas a favor de los derechos civiles.

Pero fueron precisamente su voz y sus figuras de referencia, las grandes cantantes de góspel, las que, paradójicamente, le impidieron alcanzar el éxito al principio: era muy buena, pero no lo suficientemente original. En 1960, a la edad de dieciocho años, convenció a su padre para probar suerte en Nueva York con su amigo Sam Cooke, ya una estrella de primera magnitud, y el reverendo Franklin aprobó y financió algunas grabaciones de maquetas. Así que le ofrecieron un contrato con la discográfica Columbia, pero la compañía le impuso un repertorio que no la valoraba. Entre 1960 y 1966 grabó cinco álbumes y unos sencillos, entre ellos la ya mencionada canción de Pete Seeger, una hermosa pieza arruinada por un arreglo mediocre. A pesar de un éxito moderado, el repertorio pop que le impuso la Columbia no era su estilo y, a pesar de los aproximadamente cien mil dólares anuales de ganancias, Aretha necesitaba una compañía discográfica que hiciera justicia a su vena musical afroamericana que, nacida del góspel, estaba evolucionando hacia el rhythm and blues, la cara moderna del viejo blues negro. También tuvo que devolver dinero a la Columbia porque, a pesar de los adelantos y los cumplidos que recibió, las ventas siguieron siendo bastante lentas. Y su relación con el hombre con el que se había casado en 1961, el músico y mánager Ted White, se estaba deteriorando: obviamente, ya que él había demostrado que era un violento. Cuando su contrato expiró, Aretha se mudó a la Atlantic Records. Describió su entrada en la Atlantic de la siguiente manera: "Me hicieron sentar al piano y empezaron a llegar los éxitos".

Aretha Franklin con el productor de Atlantic Records Wexler en 1966

Su nuevo productor, Jerry Wexler, había entendido por fin la personalidad de Aretha: era simplemente una artista imposible de limitar. Daba lo mejor de sí misma improvisando, haciendo lo suyo con total libertad de interpretación. De 1967 a 1970 Aretha grabó las canciones más famosas de su carrera, entre ellas Respect, de Otis Redding, que convirtió en un himno feminista, y (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, de Carole King, la canción que en 2015 cantó en Washington frente al presidente Barack Obama, a la primera dama Michelle LaVaughn Robinson y a la escritora Carole King, visiblemente emocionada. Éxito, por fin. Pero no la serenidad. El cansancio de los años anteriores, los abusos sufridos, la violencia por la que una joven mujer negra fue rodeada y victimizada no le permitieron disfrutar de la libertad artística y la celebridad. Por otro lado, la depresión y el consumo de alcohol y diversas sustancias eran propios del ambiente, un vistazo a las biografías de los grandes artistas afroamericanos puede confirmarlo. Al igual que otras anterior a ella, Aretha también fue premiada por el público y la crítica con un título nobiliario: Lady Soul, la reina de la música soul. Fue la primera artista negra en conquistar la portada de la revista Time y la primera mujer recibida, el 3 de enero de 1987, en el legendario Salón de la Fama del Rock 'n' Roll de Cleveland (lo que dice mucho de la estima de la institución por las mujeres músicas).

Aretha permaneció en el Atlántico durante una década y logró un éxito mixto. Los gustos musicales y las modas cambiaron rápidamente y el triunfo de la música disco no la ayudó. Las sólidas raíces religiosas y civiles de su música no podían convivir con los ambientes disco que empezaban a hacer estragos y que el mercado imponía. Su producción parecía confusa pero no faltaron las perlas, como Young Gifted and Black, de Nina Simone, que se convirtió en un himno de orgullo negro, y el regreso periódico al gospel, como el álbum Amazing Grace que la devolvió a la música de sus orígenes. El triunfo definitivo llegó en 1980 con la película The Blues Brothers de John Landis, en la que Aretha interpreta un pequeño papel de gran impacto cantando Think!, de 1968. La película, en la que aparecen otros grandes músicos, tanto en la banda de los hermanos Blues como como actores secundarios, se convirtió en legendaria. Aretha, cuya canción es un himno a la libertad, en realidad no juega un papel particularmente brillante: interpreta a la esposa del guitarrista Matt "Guitar" Murphy que quiere evitar que su esposo se una a la banda y para que se quede para administrar su asador: una imagen pedante y conservadora, aunque la interpretación es maravillosa.

Ya famosa en todo el mundo, Aretha Franklin siguió grabando discos, concentrándose en la música que mejor se adaptaba a su personalidad y en dúos a menudo sorprendentes, como aquellos con Whitney Houston y Elton John, y no faltaron interpretaciones en cierto modo desconcertantes, como la interpretación de Nessun dorma, de Turandot de Giacomo Puccini, en la ceremonia de los premios Grammy de 1998, reemplazando a Luciano Pavarotti que estaba enfermo: una canción no apta para ella, pero la interpretó, como siempre, hundiendo su voz en el blues. El nuevo siglo reveló a una inquieta diva Aretha Franklin, las apariciones en el escenario fueron escasas -también debido a su rechazo a viajar en avión, que la aterrorizaba- e incluso los discos aparecieron más raramente. En 2014 David Ritz, escritor estadounidense especializado en biografías, publicó Respect, una versión revisada y corregida de From These Roots, una biografía "oficial" de Aretha escrita con ella en 1999; la nueva versión, al parecer, era más completa y veraz sobre temas de carácter personal en su momento "censurados" por la cantante.

En 2015 se produjo el gran triunfo en Washington mencionado anteriormente, y luego la enfermedad. Aretha Franklin murió en Detroit el 16 de agosto de 2018. En 2021, la revista Rolling Stone declaró su versión de Respect, entre quinientas seleccionadas, como la "mejor canción de todos los tiempos". La motivación decía:

«Aretha nunca habría interpretado el papel de la mujer despreciada: su segundo nombre era 'Respeto'». Y seguía: «Las orgullosas demandas de la canción resonaron fuertemente con el movimiento por los derechos civiles y la revolución feminista emergente, encajando con una artista que apoyó al Partido Black Panther y cantó en el funeral de Martin Luther King Jr. En sus memorias de 1999, Franklin escribió que la canción reflejaba "la necesidad de los hombres y mujeres de la calle, de los hombres de negocios, de las madres, de los bomberos, de los maestros: todos querían respeto". Todavía lo queremos».

 

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