Marija Jurić Zagorka

Daniela Fusari


Valentina Bartolotta

La statua che la ritrae, a Zagabria, ricorda, forse per il lezioso ombrellino e gli abiti da Belle époque, una Mary Poppins un po’ appesantita dagli anni, che procede con atteggiamento determinato e portamento fiero nel cammino della vita. E la rappresentazione è assolutamente fedele a ciò che questa signora è stata. Come dice Ana Pavli: Marija Jurić Zagorka «è stata la prima giornalista politica professionista in Croazia e nell'Europa sudorientale, una sostenitrice dei diritti delle donne, una delle scrittrici croate più lette di sempre, una co-fondatrice della Croatian Journalists Association, una scrittrice, una drammaturga, una sceneggiatrice, una pioniera della fantascienza, fondatrice della prima organizzazione sindacale femminile in Croazia, e l'elenco potrebbe continuare. Questo è ciò che rende Marija Jurić Zagorka una vera icona femminista.» Insomma, un personaggio di primo piano di cui solo negli anni più recenti sono stati riconosciuti i grandi meriti. Era nata nel 1873, presumibilmente il 2 marzo, nel villaggio di Negovec vicino a Vrbovec, nella regione di Zagabria. A quell’epoca la Croazia faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico all’interno del quale si agitavano da tempo spinte indipendentiste delle diverse nazionalità. In particolare i croati mal tolleravano la politica di magiarizzazione messa in atto dal Governo di Budapest. Il padre di Marija, Ivan Jurić, era l’amministratore della tenuta Golubovec del barone Geza Rauch, dunque la famiglia si poteva dire benestante. Ciononostante l’infanzia di Marija non deve essere stata facile, con una madre autoritaria e bigotta, ostile a questa figlia così precocemente insofferente delle regole. La giovane Marija, intelligente e studiosa, riceve l’istruzione elementare al castello, da precettori privati, insieme ai figli del barone. È brava a scuola, così brava che il barone sarebbe stato disposto a pagarle gli studi in un istituto superiore in Svizzera. Ma sua madre, che vedeva in quell’allontanamento un pericolo per la sua educazione morale, si oppone in modo irremovibile; così la ragazza viene iscritta a un liceo femminile presso il convento delle suore della Misericordia a Zagabria. Già da bambina, Marija aveva dato del filo da torcere, allontanandosi dall’ideale femminile in base al quale sua madre avrebbe voluto plasmarla. A dieci anni si era comportata in modo disdicevole mettendo in imbarazzo la famiglia per aver preso posizione in difesa dell’identità croata, in aperto contrasto con le posizioni politiche filoungheresi del barone; a dodici, aveva realizzato a mano il suo primo giornale. Diciottenne, aveva replicato l’impresa pubblicando con uno pseudonimo maschile un editoriale sulla figura di Matija Gubec, un contadino croato del XVI sec. che aveva guidato una rivolta popolare contro la nobiltà feudale. Ama la giustizia sociale, Marija, ama la possibilità di esprimere liberamente con le parole i suoi pensieri, le sue convinzioni, i suoi ideali; ama anche recitare… Avrebbe voluto fare l’attrice Marija, liceale inquieta, ma a una ragazza di buona famiglia non era certo consentito dare scandalo calcando le scene…

Quanto basta perché sua madre decida di mettere fine a questa deriva ribelle costringendola a un matrimonio combinato con Andrija Matraja, un funzionario delle ferrovie ungheresi che ha quasi il doppio dei suoi anni. Così Marija a diciotto anni si sposa e segue il marito in Ungheria. Lui la vorrebbe sposa sottomessa, “angelo del focolare”, convertita al “suo” ideale nazionalista, ma lei non si piega; impara la lingua “del suo colonizzatore”, impara a usare il telegrafo, competenze queste che le saranno molto utili nella carriera giornalistica che la aspetta. Il matrimonio dura solo tre anni, anni di violenza fisica e psicologica da cui Marija si libera fuggendo e tornando in patria. Riesce a divorziare da Matraja che però scarica su di lei la responsabilità del fallimento del matrimonio, accusandola di instabilità psichica (l’aveva anche fatta rinchiudere in un ospedale psichiatrico). Ancora una volta, è il padre che prende le sue difese, mentre la madre testimonia contro di lei. Perde così il diritto al pagamento degli alimenti e alla restituzione dei suoi beni personali lasciati sotto il tetto coniugale. Ritrovata la libertà, si stabilisce a Zagabria dove comincia a scrivere e così inizia la sua vera carriera giornalistica. I primi tempi sono davvero duri. Lavora come correttrice di bozze nella redazione di “Obzor”, il più importante periodico di Zagabria e qui, in modo quasi clandestino, comincia a scrivere; è costretta a farlo chiusa in uno stanzino, nascosta agli occhi degli altri giornalisti, che la deridono e la criticano pesantemente, convinti che la scrittura, e in particolare quella politica, sia una prerogativa maschile. Ma scrivere è la sua ragione di vita e Marija non molla. Zagorka è lo pseudonimo con il quale firma i suoi scritti. È determinata e così capace che per cinque mesi riesce, da sola, durante la rivolta popolare al regime autoritario di Khuen, a far uscire il giornale. Lei stessa, come i suoi colleghi, finisce in carcere e ne approfitta per stendere un testo teatrale in cui rilegge, in chiave femminista, un episodio della storia croata, dando credito alla tradizione orale che vedeva una donna a capo della rivolta contadina del 1553. A partire dal 1895, nei dieci anni durante i quali lavora a “Obzor”, si occupa di politica estera ed economia relativamente all’area balcanica, in particolare per quanto riguarda i rapporti tra Croazia e Ungheria; è la prima analista politica corrispondente da Budapest e Vienna e inaugura con la sua scrittura uno stile innovativo nel giornalismo del suo Paese. Intanto collabora anche con altre riviste, scrive testi di narrativa, combatte per l’uguaglianza di genere con le parole e con le azioni: fonda il primo sindacato di donne lavoratrici, nel 1903 organizza la prima manifestazione delle donne a Zagabria. La sua passione per l’emancipazione femminile trova voce in “Ženski list”, il primo periodico rivolto alle donne, e poi in “Hrvatica”, un giornale femminista interamente finanziato a proprie spese.

Dal 1910 si afferma anche come narratrice. Le sue storie compaiono a puntate come romanzi d’appendice, poi pubblicate in volume. Il titolo più famoso, La strega di Gri (Gri ka vještica), è in realtà un ciclo di sette romanzi storici che attingono sia alla tradizione popolare, sia alle fonti documentarie. Il suo sguardo di genere crea e illumina personaggi femminili portatori di caratteri positivi: le sue eroine sono donne intelligenti, intraprendenti, coraggiose e determinate che lottano per la giustizia. Una di queste protagoniste è la Contessa Nera, difenditrice delle donne accusate di stregoneria. Un’altra, Jadranka, protagonista del romanzo omonimo, sostiene il diritto delle donne al lavoro in quanto fonte di autonomia economica e di libertà. Come dice Simona Amadori, «… l’intento storico e narrativo si fonde con la necessità di Zagorka di scuotere le coscienze, rappresentando la ricerca dell’uguaglianza e della giustizia attraverso donne fuori dagli schemi». «Rinunciare alla mia penna significa rinunciare alla mia vita» dice Zagorka nel suo scritto autobiografico La pietra sulla strada (Kamen na cesti), e in effetti scrive durante tutta la sua lunga vita: romanzi (una ventina) alcuni dei quali inaugurano generi mai prima praticati da autori croati come il poliziesco e la fantascienza, testi teatrali, sceneggiature cinematografiche, senza contare il formidabile contributo di pensiero contenuto nei suoi articoli giornalistici e nei suoi testi polemici a sostegno della parità di genere e dei diritti delle donne (suffragio femminile, diritto all’istruzione, al lavoro e alla proprietà). La critica non è stata benevola nei confronti della sua produzione narrativa, ma Zagorka aveva capito che la letteratura popolare poteva essere un formidabile veicolo per far arrivare il suo messaggio di giustizia e parità di genere a una platea molto vasta. Anche l’ultima parte della sua vita non è stata facile. Durante la Seconda guerra mondiale ha subito persecuzioni dal regime degli Ustaša che le hanno confiscato proprietà e vietato qualsiasi attività pubblica. Avrebbe voluto entrare nelle file dei partigiani, ma aveva ormai una certa età… e, conclusa la guerra, per il nuovo regime socialista le sue posizioni femministe non erano accettabili: per i propugnatori del realismo socialista in letteratura, la questione femminile non doveva essere disgiunta dalla lotta di classe, alla quale era subordinata. Muore il 30 novembre 1957. La sua abitazione in via Dolac a Zagabria, dopo alcune vicissitudini ereditarie, diventa una casa museo, sede di uno dei centri più importanti di Women’s Studies. Le sono intitolate diverse vie nelle città e cittadine della Croazia, 13, secondo la ricerca di Ana Kuzmani e Ivana Peri pubblicata in italiano sul portale on line dell’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, e presso il centro culturale di via Dolac si tengono ogni anno iniziative che ricordano il suo valore. Esiste anche una guida di Zagabria alla scoperta dei luoghi di Zagorka. Persino Google le ha dedicato un doodle nel 143esimo anniversario della nascita. In Italia, però, nessuno dei suoi romanzi è stato tradotto e su di lei, nella nostra lingua, pochissimo è stato scritto.

Chi avrà letto sin qui, potrà dire di saperne almeno un po’ di più…

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

La statue qui la représente, à Zagreb, rappelle, peut-être à cause du joli parapluie et des robes Belle Epoque, une Mary Poppins un peu alourdie par les années, qui procède avec une attitude déterminée et fière dans le chemin de sa vie. Et la représentation est absolument fidèle à ce qu'était cette dame. Comme le dit Ana Pavli: Marija Jurić Zagorka "a été la première journaliste politique professionnelle en Croatie et en Europe du Sud-Est, unepartisane des droits des femmes, l’une des écrivains croates les plus lus de tous les temps, cofondatrice de l’Association des journalistes croates, écrivaine, dramaturge, scénariste, pionnière de la science-fiction, fondatrice de la première organisation syndicale de femmes en Croatie, et la liste est longue. C'est ce qui fait de Marija Jurić Zagorka, une véritable icône féministe." En somme, une figure de proue dont les grands mérites n'ont été reconnus que ces dernières années. Elle est née en 1873, vraisemblablement le 2 mars, dans le village de Negovec près de Vrbovec dans la région de Zagreb. À cette époque, la Croatie faisait partie de l'Empire austro-hongrois au sein duquel les pressions indépendantistes de diverses nationalités avaient agité depuis quelque temps. En particulier, les Croates ne toléraient pas la politique de marginalisation mise en œuvre par le gouvernement de Budapest. Le père de Marija, Ivan Jurić, était l'administrateur du domaine Golubovec du baron Geza Rauch, on peut donc dire que la famille était riche. Néanmoins, l'enfance de Marija n'a pas dû être facile, avec une mère autoritaire et bigote, hostile à cette fille si précocement intolérante aux règles. La jeune Marija, intelligente et studieuse, reçoit une éducation élémentaire au château, par des précepteurs privés, comme les enfants du baron. Elle est douée, si forte que le baron était prêt à payer ses études dans un lycée en Suisse. Mais sa mère, qui voyait dans cet éloignement un danger pour son éducation morale, s'y oppose catégoriquement; donc la fille est inscrite dans un lycée pour filles au couvent des Sœurs de la Miséricorde à Zagreb Enfant déjà, Marija avait donné du fil à retordre, en s'éloignant de l'idéal féminin sur la base duquel sa mère aurait voulu la modeler. À l'âge de dix ans, elle se comporte d'une manière inconvenante, embarrassant sa famille pour avoir pris position pour la défense de l'identité croate, en contraste ouvert avec les positions politiques pro-hongroises du baron; à douze ans, elle fait son premier journal toute seule. Dix-huit ans elle reproduit l'exploit en publiant un éditorial sous un pseudonyme masculin sur la figure de Matija Gubec, un paysan croate du XVIe siècle. qui avait mené une révolte populaire contre la noblesse féodale. Elle aime la justice sociale, Marija, elle aime la possibilité d'exprimer librement ses pensées, ses convictions, ses idéaux en mots; elle adore aussi faire du théâtre ... Marija aurait aimé être actrice, lycéenne agitée, mais une fille issue d'une bonne famille n'a certainement pas le droit de faire scandale en foulant les scènes ...

Assez pour que sa mère décide de mettre fin à cette dérive rebelle en la contraignant à un mariage arrangé avec Andrija Matraja, une fonctionnaire des chemins de fer hongrois qui a presque deux fois son âge. Marija se marie donc à dix-huit ans et suit son mari en Hongrie. Il voudrait qu'elle soit une épouse soumise, un «ange du foyer», convertie à «son» idéal nationaliste, mais elle n'abandonne pas; elle apprend la langue "de son colonisateur", elle apprend à utiliser le télégraphe, compétences qui lui seront très utiles dans la carrière journalistique qui l'attend. Le mariage ne dure que trois ans, années de violences physiques et psychologiques dont Marija se libère en fuyant et en retournant dans son pays natal. Elle parvient à divorcer de Matraja qui, cependant, décharge sur elle la responsabilité de l'échec du mariage, l'accusant d'instabilité mentale (il l'avait également fait enfermer dans un hôpital psychiatrique). Encore une fois, c'est son père qui la défend, tandis que sa mère témoigne contre elle. Ainsi, elle perd son droit au paiement de la pension alimentaire et à la restitution de ses biens personnels laissés sous le toit matrimonial. Retrouvant sa liberté, elle s'installe à Zagreb où elle commence à écrire et commence ainsi sa véritable carrière journalistique. Les débuts sont vraiment difficiles. Elle travaille comme relectrice à la rédaction de "Obzor", le périodique le plus important de Zagreb et ici, de manière presque clandestine, elle commence à écrire; elle est obligée de le faire fermée dans un débarras, cachée aux yeux des autres journalistes, qui la raillent et la critiquent fortement, convaincus que l'écriture, et en particulier l'écriture politique, est une prérogative masculine. Mais l'écriture est sa raison de vivre et Marija n'abandonne pas. Zagorka est le pseudonyme avec lequel elle signe ses textes. Elle est déterminée et si capable que pendant cinq mois elle parvient, seule, lors de la révolte populaire contre le régime autoritaire de Khuen, à faire sortir le journal. Elle-même, comme ses collègues, finit en prison et en profite pour écrire un texte théâtral dans lequel elle réinterprète, dans une clé féministe, un épisode de l'histoire croate, donnant du crédit à la tradition orale qui voyait une femme à la tête de la révolte paysanne de 1553. A partir de 1895, au cours des dix années pendant lesquelles elle travaille à "Obzor", elle s'occupe de politique étrangère et d'économie concernant la région des Balkans, en particulier en ce qui concerne les relations entre la Croatie et la Hongrie; elle est la première analyste politique correspondante de Budapest et de Vienne et inaugure avec ses écrits un style novateur dans le journalisme de son pays. Parallèlement, elle collabore également avec d'autres magazines, écrit des textes de fiction, lutte pour l'égalité des sexes avec des mots et des actions: elle fonde le premier syndicat des travailleuses, en 1903 elle organise la première manifestation de femmes à Zagreb. Sa passion pour l'émancipation des femmes trouve une voix dans «Ženski list», le premier périodique destiné aux femmes, puis dans «Hrvatica», un journal féministe entièrement financé à ses frais.

Depuis 1910, elle s'est également imposée comme narratrice. Ses histoires apparaissent par tranches sous forme de romans d’appendice, puis publiées en volume. Le titre le plus célèbre, La sorcière de Gri (Gri ka vještica), est en fait un cycle de sept romans historiques qui s'inspirent à la fois de la tradition populaire et de sources documentaires. Son regard de genre crée et illumine des personnages féminins aux caractères positifs: ses héroïnes sont des femmes intelligentes, entreprenantes, courageuses et déterminées qui se battent pour la justice. L'une de ces protagonistes est la comtesse noire, qui défend les femmes accusées de sorcellerie. Une autre, Jadranka, protagoniste du roman du même nom, soutient le droit des femmes au travail comme source d'autonomie économique et de liberté. Comme le dit Simona Amadori, "... l'intention historique et narrative se confond avec le besoin de Zagorka de secouer les consciences, représentant la recherche de l'égalité et de la justice à travers des femmes en dehors des sentiers battus". «Abandonner ma plume, c'est abandonner ma vie» dit Zagorka dans son écriture autobiographique La pierre sur la route (Kamen na cesti), et en fait elle écrit tout au long de sa longue vie: des romans (une vingtaine) dont certains inaugurent des genres jamais pratiqué auparavant par des auteurs croates tels que le policier et la science-fiction, des textes théâtraux, des scénarios de films, sans oublier le formidable apport de réflexion contenu dans ses articles journalistiques et dans ses textes polémiques en faveur de l'égalité des sexes et des droits des femmes (suffrage des femmes, droit à l'éducation, au travail et à la propriété). Les critiques n'ont pas été bienveillantes sur la production de ses récits, mais Zagorka a compris que la littérature populaire pouvait être un formidable véhicule pour transmettre son message de justice et d'égalité des sexes à un très large public. Même la dernière partie de sa vie n'a pas été facile. Pendant la Seconde Guerre mondiale, elle a été persécutée par le régime Ustaša qui a confisqué ses biens et lui a interdit toute activité publique. Elle aurait aimé rejoindre les rangs des partisans, mais désormais elle avait un certain âge ... et, une fois la guerre terminée, ses positions féministes n'étaient pas acceptables pour le nouveau régime socialiste: pour les défenseurs du réalisme socialiste en littérature, la question féminine ne doit pas être séparée de la lutte des classes, à laquelle elle est subordonnée. Elle meurt le 30 novembre 1957. Sa maison de via Dolac à Zagreb, après quelques péripéties sur l’hérédité, devient une maison-musée, abritant l'un des plus importants centres d'études féminines. Plusieurs rues des villes et villages de Croatie portent son nom, 13 selon les recherches d'Ana Kuzmani et Ivana Peri publiées en italien sur le portail en ligne de l'Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, et au centre culturel de via Dolac, sont organisées chaque année des initiatives qui rappellent sa valeur. Il existe également un guide de Zagreb pour découvrir les lieux de Zagorka. Même Google lui a dédié un doodle à l'occasion du 143e anniversaire de sa naissance. En Italie, cependant, aucun de ses romans n'a été traduit et très peu de textes ont été écrits à son sujet dans notre langue.

Quiconque a lu jusqu’ici pourra dire qu'il en sait au moins un peu plus ...

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

In Zagreb, a statue of Marija Jurić Zagorka portrays her as a sort of aging Mary Poppins, holding a stylish umbrella and dressed in Belle Epoque clothing. But the evocation of Mary Poppins, with her determination and proud bearing, is absolutely appropriate. As Ana Pavli says, Zagorka "was the first professional political journalist in Croatia and South Eastern Europe, an advocate for women's rights, one of the most widely read Croatian writers ever, a co-founder of the Croatian Journalists Association, a writer, playwright, screenwriter, pioneer of science fiction, founder of the first women's labor organization in Croatia, and the list goes on. This is what makes Marija Jurić Zagorka a true feminist icon." In short, she was a leading figure, whose great merits have only been recognized in recent years. She was born on March 2, 1873 in the village of Negovec near Vrbovec, in the Zagreb region. At that time, Croatia was part of the Austro-Hungarian Empire, within which various nationalities had been developing aspirations for independence for some time. In particular, the Croats did not welcome the “Magyarization” policy implemented by the regime in Budapest. Marija's father, Ivan Jurić, was the administrator of Baron Geza Rauch's Golubovec estate, so the family was relatively wealthy. Nevertheless, Marija's childhood must not have been easy, with an authoritarian and bigoted mother, hostile to this daughter who was precociously intolerant of rules. Young Marija, intelligent and studious, received elementary education at the estate, from private tutors, together with the baron's children. She was an excellent student, so good that the baron expressed willingness to pay for her studies at a high school in Switzerland. But her mother saw that separation as a danger to her moral education, and refused to allow her to go. As a result, Marija was enrolled in a girls' high school at the convent of the Sisters of Mercy in Zagreb. Already as a child, Marija had given her mother difficulty, resisting efforts to shape her according a feminine “ideal”. Then, at the age of ten, she embarrassed her family by taking a position in defense of Croatian identity, in open conflict with the Baron's pro-Hungarian political positions. At twelve, she created and printed her first newspaper by hand. At eighteen, she added to the feat by publishing an editorial under a male pseudonym, on Matija Gubec, a Croatian peasant of the sixteenth century who had led a popular revolt against the feudal nobility. Marija loved social justice, and she loved the possibility of freely expressing her thoughts, her convictions, and her ideals in words. She also came to love acting. Marija, an unsettled high school student, would have liked to become an actress, but a girl “of a good family” was certainly not allowed to pursue such a scandalous career.

Her mother decided to put an end to this rebellious drift by forcing her into an arranged marriage with Andrija Matraja, a Hungarian railway official almost twice her age. Married at eighteen, Marija followed her husband to Hungary. He wanted her to be a submissive wife, an "angel of the hearth", converted to his nationalist politics. But she didn’t give up, or give in. She learned the language "of her colonizer", and she learned to use the telegraph, two skills that would turn out to be very useful in her future career as a journalist. The marriage lasted only three years, years of physical and psychological abuse from which Marija freed herself by fleeing and returning to her homeland. She managed to divorce Matraja who, however, put the responsibility for the failure of the marriage on her, accusing her of mental instability (he had also had her locked up in a psychiatric hospital). Again, it was her father who stood up for her while her mother testified against her. As a result of the process, she lost the right to alimony payments, and the return of her personal property left under the marital roof. Finally, having achieved her freedom, she settled in Zagreb where she began to write and thus began her true journalistic career. Those early days were really tough. She worked as a proofreader in the editorial office of "Obzor", the most important periodical in Zagreb and there, in an almost clandestine way, she began to write. She was forced to do it shut in a closet-like room, hidden from the eyes of other journalists, who derided and criticized her heavily, convinced that writing, and in particular political writing, was a male prerogative. But writing was her reason for living and Marija didn't give up. Zagorka is the pseudonym with which she signed her writings. She was determined, and so capable that for five months she managed, alone, during the popular revolt against the authoritarian regime of Khuen, to edit and publish the newspaper. She herself, like her colleagues, ended up in prison. She took that as an opportunity to write a theatrical work in which she reinterprets, in a feminist key, an episode of Croatian history, giving credit to the oral tradition that saw a woman at the head of the peasant revolt of 1553. Starting from 1895, during the ten years in which she worked in "Obzor", she dealt with foreign policy and economics relating to the Balkan area, in particular with regard to relations between Croatia and Hungary. She was the first correspondent political analyst from Budapest and Vienna, and with her writing inaugurated an innovative style in the journalism of her country. Meanwhile, she also collaborated with other magazines, wrote fiction, and fought with words and actions for gender equality. She founded the first labor union for working women, and in 1903 she organized the first women's demonstration in Zagreb. Her passion for women's emancipation found a voice in the "Ženski list", the first periodical aimed at women, and then in "Hrvatica", an entirely self-financed feminist newspaper.

Beginning in 1910, she established herself as an author of fiction. Her stories appeared in installments as serialized novels, and then were published as books. Her most famous title, Gri ka vještica (The Witch of Gri), is actually a cycle of seven historical novels that draw on both popular tradition and documentary sources. Her gender consciousness created and illuminated female characters with positive characteristics. Her heroines are intelligent, enterprising, courageous and determined women who fight for justice. One of these protagonists is the Black Countess, defender of women accused of witchcraft. Another, Jadranka, protagonist of the novel of the same name, supports the right of women to work, as a means to their economic autonomy and freedom. As Simona Amadori says, "... the historical and narrative intent merges with Zagorka's need to shake consciences, representing the search for equality and justice through women outside the box". "Giving up my pen means giving up my life" says Zagorka in her autobiography, The Stone on the Road (Kamen na cesti), and in fact she wrote throughout her long life. She wrote some twenty novels, some of which introduced genres never before used by Croatian authors, such as detective and science fiction. She also wrote plays and film scripts, beyond the formidable contributions of thought contained in her journalistic articles and in her polemical texts in support of gender equality and women's rights (women's suffrage, the right to education, work and property). Critics have not been kind to her fictional work, but Zagorka understood that popular literature could be a formidable vehicle for getting her message of justice and gender equality to a very wide audience. Even the last part of her life was not easy. During the Second World War she suffered persecution from the fascist Ustaša regime, which confiscated her property and prohibited any public activity by her. She would have liked to join the ranks of the partisans, but by then she was of a certain age. After the war, her feminist positions were not acceptable to the new socialist regime. For the proponents of “socialist realism” in literature, the women’s question should not be separated from the class struggle, to which it was subordinate. She died on November 30, 1957. Her home in via Dolac in Zagreb, after some legal squabbles, became home to a museum - one of the most important centers of Women's Studies. At that museum, the cultural center in via Dolac, there are undertakings every year that recall Marija’s enormous importance. There is also a Zagreb guide to discovering the places tied to Zagorka’s activities. Several streets in cities and towns of Croatia are named after her – a total of 13 of them, according to research by Ana Kuzmani and Ivana Peri (published in Italian on the online portal of the Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa). Even Google dedicated a doodle to her on the 143rd anniversary of her birth. In Italy, however, none of her novels have been translated, and very little has been written about her in our language.

Anyone who has read this far will now be able to say that they know at least a little more...

 

Traduzione croata

Statua koja je prikazuje, u Zagrebu, podsjeća – možda zbog malog gracioznog kišobrana i odjeće tipične za Belle époque – na Mary Poppins pomalo opterećenu bremenom godina, koja s odlučnim stavom i ponosnim držanjem korača svojim životnim putem. Ta predstava je potpuno vjerna onome što je ova gospođa bila. Prema riječima Ane Pavlić, Marija Jurić Zagorka je bila “prva profesionalna politička novinarka u Hrvatskoj i jugoistočnoj Europi, zagovornica ženskih prava, jedna od najčitanijih hrvatskih književnica svih vremena, suosnivačica Hrvatskog novinarskog društva, književnica, dramatičarka, scenaristica, pionirka znanstvene fantastike, osnivačica prve ženske sindikalne organizacije u Hrvatskoj, i mogli bismo nastaviti dalje nabrajati. To je ono što Mariju Jurić Zagorku čini pravom ikonom feminizma“. Dakle, jedna istaknuta ličnost čije su velike zasluge prepoznate tek posljednjih godina. Rođena je 1873. godine, vjerojatno 2. ožujka, u selu Negovec kraj Vrbovca, u Zagrebačkoj županiji. U to doba Hrvatska je bila sastavni dio Austro-Ugarske monarhije, unutar koje su se već dugo vremena rasplamsavale težnje brojnih naroda za osamostaljenjem. Hrvati su gledali s naročitim podozrenjem na politiku mađarizacije koju su provodile vlasti u Budimpešti. Marijin otac, Ivan Jurić, bio je upravitelj imanja Golubovec u vlasništvu baruna Geze Raucha, dakle obitelj je bila dobrostojeća. Međutim, Marija nije imala lako djetinjstvo, uz autoritarnu i bigotnu majku, netrpeljivu prema kćeri koja je rano počela pokazivati odbojnost prema pravilima. Mlada Marija, inteligentna i marljiva u učenju, prvu poduku dobiva u dvorcu od privatnih učitelja, zajedno s barunovom djecom. Bila je dobra učenica, toliko dobra da se barun ponudio da joj plati studije na jednom institutu u Švicarskoj. Ali Marijina majka, koja je u tom udaljavanju od kuće vidjela opasnost po Marijin moralni odgoj, kategorički se usprotivila. Tako se Marija upisala u jednu žensku gimnaziju pri zagrebačkom Samostanu sestara milosrdnica. Još kao djevojčica Marija je stvarala nevolje, udaljavajući se od ženskog ideala prema kojem ju je njezina majka željela oblikovati. U svojoj desetoj godini ponijela se neprimjereno i dovela svoju obitelj u nelagodnu poziciju, stavši u obranu hrvatskog identiteta, što je bilo u otvorenom kontrastu s barunovim promađarskim političkim stavovima; u dvanaestoj godini je ručno izradila svoje prve novine. Kao osamnaestogodišnjakinja ponovila je taj poduhvat, objavljujući, pod muškim pseudonimom, uvodnik o Matiji Gupcu, hrvatskom seljaku iz 16. stoljeća koji je predvodio narodnu bunu protiv feudalaca. Marija je bila privržena socijalnoj pravdi; voljela je slobodno izražavati riječima vlastite misli, uvjerenja i ideale; voljela je i glumiti... Željela je biti glumica, ta nemirna gimnazijalka, ali jednoj djevojci iz dobre obitelji nije bilo dopušteno izabrati glumu i tako napraviti skandal...

To je bilo dovoljno da Marijina majka odluči stati na kraj tom buntovničkom ponašanju, primoravajući je da stupi u dogovoren brak sa Andrijom Matrajem, činovnikom mađarskih željeznica, koji je bio skoro duplo stariji od nje. Tako se Marija udala u osamnaestoj godini i otišla s mužem u Mađarsku. On je želio da Marija bude pokorna supruga, “anđeo kućnog ognjišta“, i da prigrli “njegov“ nacionalistički ideal, ali ona nije popustila. Naučila je jezik “svog kolonizatora“, naučila je i koristiti telegraf, i te sposobnosti će joj biti od velike koristi tijekom novinarske karijere koja je bila pred njom. Brak je trajao svega tri godine, obilježene fizičkim i psihičkim nasiljem, kojeg se Marija oslobodila pobjegavši i vrativši se u domovinu. Uspjela se razvesti od Matraja, koji je međutim prebacio na Mariju odgovornost za neuspjeh njihovog braka, optuživši je za psihičku nestabilnost (čak ju je dao zatvoriti u psihijatrijsku bolnicu). Marijin otac je, još jednom, stao u njenu obranu, dok je majka svjedočila protiv nje. Tako je Marija izgubila pravo na alimentaciju i na povrat svoje osobne imovine koju je ostavila u supružnikovom domu. Nakon ponovnog osvajanja slobode, Marija se nastanila u Zagrebu gdje je počela pisati i od tog trenutka je krenula njezina prava novinarska karijera. U početku je bilo zaista teško, radila je kao korektorica u redakciji Obzora, tada najznačajnijeg zagrebačkog lista, i tu je, gotovo krišom, počela pisati. Bila je primorana pisati zatvorena u jednoj sobici, daleko od očiju ostalih novinara koji su je ismijavali i oštro kritizirali, uvjereni da je pisanje, posebice ono političko, muška domena. Ali pisanje je za Mariju predstavljalo smisao života i nije odustala. Zagorka je pseudonim kojim je potpisivala svoje tekstove. Bila je odlučna i toliko sposobna da je punih pet mjeseci, u vrijeme narodne bune protiv autoritarnog režima Khuena Hédervárya, sama uređivala Obzor. I Marija, kao i njene kolege, završila je u zatvoru i iskoristila to vrijeme za pisanje drame u kojoj je reinterpretirala, u feminističkom ključu, jedan događaj iz hrvatske povijesti, pozivajući se na usmenu tradiciju po kojoj je jedna žena predvodila seljačku bunu 1573. Počev od 1895., tijekom više od deset godina koliko je provela u redakciji Obzora, Marija se bavila vanjskopolitičkim i ekonomskim pitanjima vezanim za balkansku regiju, posebno odnosima između Hrvatske i Mađarske; bila je prva politička analitičarka dopisnica iz Budimpešte i Beča i svojim tekstovima postavila je temelje jednog inovativnog stila u hrvatskom novinarstvu. U međuvremenu je surađivala i sa drugim časopisima, pisala prozu, borila se za jednakost spolova riječima i djelima: osnovala je prvi ženski sindikat i 1903. organizirala je prvi prosvjed žena u Zagrebu. Njena strastvena borba za žensku emancipaciju pronašla je izraz u Ženskom listu, prvom časopisu u Hrvatskoj namijenjenom ženama, a potom u Hrvatici, feminističkom listu koji je Marija u potpunosti financirala o vlastitom trošku.

Marija se 1910. godine afirmirala i kao spisateljica. Njezine priče počele su izlaziti u nastavcima, kao feljtonski romani, da bi tek kasnije bile objavljene u celini. Marijino najpoznatije djelo, “Grička vještica“, zapravo je ciklus od sedam povijesnih romana koji se oslanjaju kako na narodnu tradiciju tako i na dokumentarne izvore. Njezin rodni pogled stvara i osvetljava ženske likove koji imaju pozitivne osobine: Marijine junakinje su inteligentne, poduzimljive, hrabre i odlučne žene koje se bore za pravdu. Jedna od njih je kontesa Nera koja brani žene optužene za vještičarenje. Tu je potom Jadranka, junakinja istoimenog romana, koja se zalaže za pravo žena na rad kao izvor ekonomske neovisnosti i slobode. Prema riječima Simone Amadori, “povijesni i pripovjedački cilj stapa se s Marijinom potrebom da prodrma svijesti, predstavljajući traganje za jednakošću i pravdom kroz žene izvan okvira“. “Ako bih se odrekla svoje olovke odrekla bih se svog života“, kaže Zagorka u svom autobiografskom romanu “Kamen na cesti“. I zaista, pisala je tijekom cijelog svog dugačkog života: romane (dvadesetak), od kojih su neki pionirska ostvarenja u žanrovima u kojima se hrvatski autori ranije nikada nisu oprobavali, poput kriminalističkog romana i znanstvene fantastike; dramske tekstove, scenarije za filmove, da ne pominjemo Marijin izvanredan misaoni doprinos sadržan u njezinim novinskim člancima i polemičkim tekstovima u kojima se zalaže za ravnopravnost spolova i za ženska prava (pravo glasa, pravo na obrazovanje, na rad i na imovinu). Kritika nije bila blagonaklona prema njezinom književnom stvaralaštvu, ali Zagorka je shvatila da bi popularna književnost mogla predstavljati izvanredno sredstvo za prenošenje poruke pravde i jednakosti spolova mnogo široj publici. Ni posljednji period Marijinog života nije bio lak. Tijekom Drugog svjetskog rata pretrpjela je progon od ustaškog režima koji joj je oduzeo imovinu i zabranio da se bavi bilo kakvom javnom djelatnošću. Htjela se priključiti partizanima, ali nije više bila toliko mlada... Po pokončanju rata, njezini feministički stavovi nisu bili prihvatljivi novom socijalističkom režimu. Prema zagovornicima socijalističkog realizma u književnosti, žensko pitanje nije se moglo odvajati od klasne borbe kojoj je bilo podređeno. Marija Jurić Zagorka preminula je 29. studenog 1957. Nakon izvjesnih peripetija oko ostavinskih prava, njezin stan na Dolcu 8, u Zagrebu, postao je memorijalni muzej i sjedište jednog od najznačajnijih centara za ženske studije. Prema jednom istraživanju Ane Kuzmanić i Ivane Perić, objavljenom na portalu Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, po Mariji Jurić Zagorki je nazvano nekoliko ulica, ukupno trinaest, u gradovima i manjim mjestima u Hrvatskoj, a u kulturnom centru na Dolcu se svake godine održavaju brojne inicijative koje podsjećaju na Zagorkin značaj. Čak joj je i Google posvetio doodle na 143. godišnjicu rođenja. U Italiji, međutim, nijedan Zagorkin roman nije preveden i o njoj je na talijanskom jeziku napisano vrlo malo.

Tko je stigao dovde sa čitanjem moći će reći da o njoj zna barem malo više.

Ovaj tekst je nastao u suradnji sa OBCTranseuropa.

Emilija Benjamina

Ester Rizzo


Valentina Bartolotta

“Regina della stampa lettone”: così è passata alla storia Emilija Benjamina, una delle donne più ricche e influenti d’Europa che, con intelligenza, tenacia e spirito imprenditoriale, riuscì a creare dal nulla un impero finanziario. Era nata a Riga il 10 settembre del 1881 in un’umile famiglia. Il padre, Andris, era un piccolo burocrate statale che, con il misero stipendio, faticava a sostenere le spese necessarie per il sostentamento della moglie e delle tre figlie. Sua madre si chiamava Ede Usins e le sorelle Mina ed Annija. Quest’ultime, crescendo, riuscirono a concretizzare le loro aspirazioni artistiche: Mina, il cui nome d’arte era Tusnelda, diventò una cantante lirica ed Annija un’attrice. Ad Emilija, invece, non interessavano i palcoscenici e le luci della ribalta, lei era attratta dal mondo della stampa e degli affari e già a diciassette anni iniziò a lavorare come agente pubblicitaria e come critica teatrale, collaborando con il giornale ”Rigaer Tagesblatt” che pubblicava in lingua tedesca e il cui proprietario era uno dei membri più importanti della comunità ebraica russa. Oltre che nel lavoro fu precoce anche nel matrimonio, si sposò presto e diventò la signora Elks. Questa unione fu però disastrosa, i suoi sogni romantici si infransero quando il marito diventò un alcolista e iniziò a maltrattarla. Emilija, intorno al 1905, incontrò Anton Benjamins, un reporter più grande di lei di ben 21 anni, già coniugato e con tre figli. Tra i due nacque una profonda intesa e, oltre ad un sodalizio d’amore, strinsero un sodalizio d’affari: Anton diventò l’editore del giornale mentre lei ne gestiva brillantemente l’aspetto economico. Nel 1911 Emilija fondò un nuovo giornale: “Jaunakas Zinas” (“Ultime Notizie”), che è stato il primo in lingua lettone e con una distribuzione di massa. Lei era l’editrice e Benjamins il capo redattore. Su quelle pagine scrissero coloro che sarebbero diventati “i fari” della letteratura e della cultura lettone, come lo scrittore Karlis Skalbe e il linguista Janis Endezelinis. Allo scoppio della Prima guerra mondiale il giornale continuò a pubblicare gratuitamente gli annunci dei rifugiati che cercavano i familiari dispersi ma, durante l’occupazione bolscevica di Riga, la stampa si interruppe ed Emilija e Anton si rifugiarono per sei mesi a Berlino. Finita la guerra ricominciarono a pubblicarlo grazie ad un colpo di fortuna che permise loro di avere gratuitamente sia i macchinari di stampa che la carta. Infatti le stampatrici erano state consegnate poco prima dello scoppio del conflitto e la ditta fornitrice era in seguito fallita, mentre le tonnellate di carta, allora un bene prezioso e costoso, furono abbandonate dai bolscevichi che durante la guerra avevano utilizzato la tipografia del giornale per stampare i loro volantini di propaganda.

Nel 1922 Emilija e Benjamins, ottenuti i divorzi dai precedenti coniugi, poterono finalmente sposarsi. L’ingegno di Emilija la portò a fondare una nuova rivista: “Atputa” che divenne il fulcro della cultura lettone fiorita dopo il governo zarista e la dominazione tedesca. Cominciò inoltre a fare investimenti immobiliari acquistando prestigiosi palazzi, tra cui “Fabu Palace”, la più grande casa di Riga, ed anche una favolosa residenza sul mare nella città di Jurmala ancora oggi ricordata come la casa di Benjamina. Seguirono poi investimenti nel campo dell’industria chimica e fotografica. Non avendo avuto figli, decise di adottare suo nipote, il figlio maggiore di sua sorella Annija, Juris Benjamins che, essendo un chimico, la coadiuvò nell’amministrazione degli investimenti industriali. In breve, Emilija divenne la donna più influente della Lettonia tanto che il Primo ministro Karlis Ulmanis, fondatore del Partito lettone dei contadini, non essendo coniugato, la voleva accanto come consigliera in ogni evento importante. Fu così che diventò la First Lady della sua nazione. Si narra che, in uno di questi sontuosi ricevimenti ufficiali, un veggente, conosciuto in tutto il mondo, Eugene Finks, da lei personalmente invitato, le predisse la morte per fame e la sua fine su nude tavole di legno. Né lei, né i presenti diedero peso a quelle parole, e alcuni lo considerarono uno scherzo di cattivo gusto. Il 14 giugno del 1939 Anton Benjamins morì ed Emilija, da sola, continuò ad amministrare il ricchissimo patrimonio che superava i 60.000 franchi svizzeri e contava ben 12 proprietà. Ma la buona sorte si avviava al declino.

Nel 1940, quando l’Armata Rossa occupò la Lettonia annettendo il Paese all’Unione Sovietica, i suoi beni furono nazionalizzati diventando proprietà del popolo sovietico e lei fu trasferita in un piccolo appartamento. Anche il giornale cessò la stampa, il 9 agosto 1940, perché aveva una linea editoriale contraria ai totalitarismi sia comunisti che nazionalsocialisti. L’ambasciatore svedese in Lettonia propose ad Emilija di sposarlo per evitarne la persecuzione. Con il matrimonio infatti lei sarebbe diventata cittadina svedese e avrebbe goduto dell’immunità diplomatica. Lei disse che avrebbe accettato se il beneficio fosse stato esteso anche al figlio adottivo. Purtroppo non era possibile ed Emilija rifiutò, aspettando ciò che la sorte le aveva riservato. Il cognato tentò di salvarla mediando con il governo tedesco ma a causa della precedente linea politica del suo giornale fu lasciata sola e definita una nemica del Reich. Anche il suo amico Vilis Lacis, nominato nuovo Ministro degli Interni della Repubblica socialista sovietica della Lettonia, le voltò le spalle. Emilija pagava così il prezzo dello spirito critico ed indipendente della sua linea editoriale. Il 17 giugno del 1941 la polizia sovietica bussò alla sua porta e la prelevò caricandola su un treno per deportarla in Siberia. Dal 14 giugno del 1941 alla fine dello stesso mese furono deportate dalla Lettonia 28.501 persone, fra cui tanti bambini e bambine. Tra l’altro su quei vagoni ferroviari ne nacquero e morirono subito tanti/e altri/e. Erano viaggi infernali che duravano parecchie settimane, infatti la destinazione finale era lontana ben 6.000 chilometri dalla propria patria. I deportati erano stipati dentro i vagoni e molti si ammalarono di tifo durante il tragitto. Un sopravvissuto che aveva viaggiato con lei, riferì che alla fine di quel terribile viaggio Emilija, scendendo dal treno, faticava a trasportare il suo bagaglio. Un uomo le si avvicinò per aiutarla ma lei rifiutò dicendo: «Da ora in poi trasporterò io stessa il mio destino». Dai sontuosi palazzi fu catapultata in quella terra gelida, inospitale ed ostile, prigioniera di fame, solitudine e miseria. Il 23 settembre del 1941, poco dopo il suo sessantesimo compleanno, la sua vita si spense: non ce l’aveva fatta a sopravvivere agli stenti. Emilija morì per fame, a Solikamsk, in Russia, giacendo semplicemente su un letto di nude tavole di legno.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

“Reine de la presse lettone”: c'est ainsi qu'Emilija Benjamina entre dans l'histoire, l'une des femmes les plus riches et les plus influentes d'Europe qui, avec intelligence, ténacité et esprit d'entreprise, réussit à créer un empire financier à partir de rien. Elle est née à Riga le 10 septembre 1881 d’une famille modeste. Son père, Andris, est un petit bureaucrate d'État qui, avec un maigre salaire, lutte pour subvenir aux besoins de sa femme et de ses trois filles. Sa mère s'appelle Ede Usins et ses sœurs Mina et Annija. Ces dernières, en grandissant, réussissent à réaliser leurs aspirations artistiques: Mina, dont le nom de scène est Tusnelda, devient chanteuse d'opéra et Annija actrice. Emilija, en revanche, n'est pas intéressée par les scènes et les feux de la rampe, elle est attirée par le monde de la presse et des affaires et à l'âge de dix-sept ans, elle commence à travailler comme agent de publicité et comme critique de théâtre, collaborant avec le journal. "Rigaer Tagesblatt" qui publie en allemand et dont le propriétaire est l'un des membres les plus importants de la communauté juive russe. En plus de son travail, elle est également précoce dans son mariage, elle se marie tôt et devient Mme Elks. Quoiqu’il en soit, cette union est désastreuse, ses rêves romantiques sont brisés lorsque son mari devient alcoolique et commence à la maltraiter. Emilija, vers 1905, rencontre Anton Benjamins, un journaliste plus âgé de 21 ans, déjà marié et père de trois enfants. Une profonde compréhension est née entre les deux et, en plus d’une alliance d'amour, ils forment un partenariat d'affaires: Anton devient le rédacteur en chef du journal alors qu'elle en gère avec brio l'aspect économique. En 1911, Emilija fonde un nouveau journal: «Jaunakas Zinas» («Dernières nouvelles»), qui est le premier en langue lettone et avec une distribution de masse. Elle est l’éditeur et Benjamins le rédacteur en chef. Sur ces pages écrivent ceux qui deviendront les «phares» de la littérature et de la culture lettones, comme l'écrivain Karlis Skalbe et le linguiste Janis Endezelinis. Au déclenchement de la Première Guerre mondiale, le journal continue à publier des annonces gratuites de réfugiés à la recherche de membres de leur famille disparus mais, pendant l'occupation bolchevique de Riga, la presse s’interrompt et Emily et Anton se réfugient à Berlin pendant six mois. Après la guerre, ils recommencent à le publier grâce à un coup de chance qui leur a permis de disposer à la fois de la presse mécanique et de papier gratuitement. En fait, les machines à imprimer avaient été livrées peu de temps avant le déclenchement du conflit et la société fournisseur avait par la suite fait faillite, tandis que les tonnes de papier, alors une marchandise précieuse et chère, avaient été abandonnées par les bolcheviks qui avaient utilisé l'imprimerie du journal pour imprimer leurs tracts de propagande pendant la guerre.

En 1922, Emilija et Benjamins, ayant obtenu le divorce de leurs anciens conjoints, peuvent enfin se marier. L'ingéniosité d'Emilija l'amène à fonder un nouveau magazine: "Atputa" qui devient le centre de la culture lettone qui prospère après le gouvernement tsariste et la domination allemande. Elle commence également à faire des investissements immobiliers en achetant des bâtiments prestigieux, dont le «Fabu Palace», la plus grande maison de Riga, et aussi qu’une fabuleuse résidence balnéaire dans la ville de Jurmala encore aujourd'hui indiquée comme la maison de Benjamina. Suivent des investissements dans l'industrie chimique et photographique. N'ayant pas d'enfants, elle décide d'adopter son neveu, le fils aîné de sa sœur Annija, Juris Benjamins qui, étant chimiste, l'assiste dans l'administration des investissements industriels. En bref, Emilija devient la femme la plus influente de Lettonie, à tel point que le Premier ministre Karlis Ulmanis, fondateur du Parti paysan letton, étant célibataire, la veut à ses côtés comme conseillère dans chaque événement important. C'est ainsi qu'elle devient la Première Dame de sa nation. On raconte que, dans l'une de ces somptueuses réceptions officielles, un visionnaire, connu dans le monde entier, Eugène Finks, personnellement invité par elle, prédit sa mort de faim et sa fin sur des planches de bois nues. Ni elle ni les personnes présentes prêtent attention à ces mots, et certains considèrent cela comme une plaisanterie de mauvais goût. Le 14 juin 1939, Anton Benjamins meurt et Emilija, seule, continue de gérer le très riche patrimoine qui dépasse les 60 000 francs suisses et compte 12 propriétés. Mais sa chance est sur le point de décliner.

En 1940, lorsque l'Armée rouge occupe la Lettonie et annexe le pays à l'Union soviétique, ses biens sont nationalisés et deviennent la propriété du peuple soviétique et elle est transférée dans un petit appartement. Le journal cesse également d'imprimer, le 9 août 1940, parce qu'il a une ligne éditoriale contraire aux totalitarismes communistes et national-socialistes. L'ambassadeur de Suède en Lettonie propose à Emily de l'épouser pour éviter la persécution. En fait, avec le mariage, elle serait devenue citoyenne suédoise et aurait bénéficié de l'immunité diplomatique. Elle dit qu'elle acceptera seulement si cet avantage s’étend également à l'enfant adopté. Malheureusement, cela n’est pas possible et Emilija refuse, attendant ce que le sort lui réservera. Son beau-frère essaie de la sauver en traitant avec le gouvernement allemand, mais en raison de la politique précédente de son journal, elle est laissée seule et définie une ennemie du Reich. Son ami Vilis Lacis, qui est nommé nouveau ministre de l'Intérieur de la République socialiste soviétique de Lettonie, lui tourne également le dos. Emilija paye ainsi le prix de l'esprit critique et indépendant de sa ligne éditoriale. Le 17 juin 1941, la police soviétique frappe à sa porte, l’emmène et la charge dans un train pour la déporter en Sibérie. Du 14 juin 1941 à la fin du même mois, 28 501 personnes furent déportées de Lettonie, dont de nombreux enfants. Entre autre, beaucoup d’autres enfants naissent et meurent dans ces wagons. Ce sont des voyages infernaux qui durent plusieurs semaines, en fait la destination finale est à 6000 kilomètres de leur patrie. Les déportés sont entassés dans les wagons et beaucoup tombent malades du typhus durant le trajet. Une survivante qui a voyagé avec elle raconte qu'à la fin de ce terrible voyage, Emilija, descendant du train, a du mal à porter ses bagages. Un homme s'approche d'elle pour l'aider mais elle refuse en disant: «Désormais, je porterai moi-même mon destin». Des somptueux palais, elle est catapultée dans cette terre froide, inhospitalière et hostile, prisonnière de la faim, de la solitude et de la misère. Le 23 septembre 1941, peu après son soixantième anniversaire, sa vie s’éteint: elle n'a pas réussi à survivre aux épreuves. Emily meurt de faim à Solikamsk, en Russie, étendue simplement sur un lit de planches de bois nues.

 

Traduzione inglese
Francesca Campanelli

"Queen of the Latvian press": this is how Emilija Benjamina went down in history, one of the richest and most influential women in Europe who, with intelligence, tenacity and entrepreneurial spirit, managed to create a financial (wealth) empire out of nothing. She was born in Riga on 10 September 1881 into a humble family. Her father, Andris, was a bureaucrat who, with a meagre salary, struggled to meet the expenses necessary for the support of his wife and three daughters. Her mother was Ede Usins and her sisters were Mina and Annija. The two girls, growing up, managed to realize their artistic aspirations: Mina, whose nickname was Tusnelda, became an opera singer and Annija an actress. Emilija, on the other hand, was not interested in the theatre stage and limelight, she was attracted to the world of press and business and at the age of seventeen she began working as advertising agent and drama critic, collaborating with the newspaper "Rigaer Tagesblatt" which published in German language and the owner was one of the most important members of the Russian Jewish community. In addition to work, she was precocious in marriage as well, she married early and became Mrs. Elks. However, this union was disastrous, her romantic dreams were shattered when her husband became an alcoholic and began to abuse her. Emilija, around 1905, met Anton Benjamins, a reporter who was 21 years older than her, already married and with three children. A deep understanding was born between the two and, in addition to a partnership of love, they formed a business partnership: Anton became the editor of the newspaper while she brilliantly managed the business. In 1911 Emilija founded a new newspaper: “Jaunakas Zinas” (“Breaking News”), which was the first in Latvian language and with a mass distribution. She was the editor and Benjamins the editor-in-chief. On those pages wrote those who would become the "beacons" of Latvian literature and culture, such as the writer Karlis Skalbe and the linguist Janis Endezelinis. At the outbreak of the First World War, the newspaper continued to publish free ads of refugees looking for missing family members but, during the Bolshevik occupation of Riga, the press was stopped, and Emily and Anton took refuge in Berlin for six months. After the war they began their activity again thanks to a fluke that allowed them to have both the printing machinery and the paper for free. In fact, the printing machines had been delivered shortly before the outbreak of the conflict and the supplier company had subsequently gone bankrupt, while the tons of paper, then a precious and expensive commodity, were abandoned by the Bolsheviks who had used the newspaper's printing house to print during the war. their propaganda leaflets.

In 1922 Emilija and Benjamins, having obtained divorces from their previous spouses, were finally able to get married. Emilija's ingenuity led her to set up a new magazine: "Atputa" which became the hub of Latvian culture that flourished after the tsarist government and German domination. She also began to make real estate investments by purchasing prestigious buildings, including “Fabu Palace”, the largest house in Riga, and also a fabulous seaside residence in the city of Jurmala still remembered today as Benjamina's home. Investments in the chemical and photographic industry followed. Having had no children, she decided to adopt her nephew, the eldest son of her sister Annija, Juris Benjamins who, being a chemist, assisted her in the administration of industrial investments. In short, Emilija became the most influential woman in Latvia, so much so that Prime Minister Karlis Ulmanis, founder of the Latvian Peasants' Party, not being married to her, wanted her next to her as an adviser in every important event. Thus, it was that she became the First Lady of her nation. It is said that, in one of these sumptuous official receptions, a visionary, known all over the world, Eugene Finks, personally invited by her, predicted her death by starvation and her death on bare wooden boards. Neither she nor those present gave weight to those words, and some considered it a joke in bad taste. On June 14, 1939 Anton Benjamins died and Emilija, alone, continued to manage the family wealth that exceeded 60,000 Swiss francs and counted 12 properties. But good luck was close to decline.

In 1940, when the Red Army occupied Latvia and annexed the country to the Soviet Union, her assets were nationalized and became the property of the Soviet people and she was moved to a small apartment. The newspaper also ceased printing, on 9 August 1940, because it had an editorial line contrary to both Communist and National Socialist totalitarianisms. The Swedish ambassador to Latvia proposed to Emily to marry him to avoid her persecution. In fact, with her marriage she would become a Swedish citizen and would have enjoyed diplomatic immunity. She said she would accept if her benefit extended to her adopted son as well. Unfortunately, it was not possible and Emilija refused, waiting for what fate had reserved for her. Her brother-in-law tried to save her by mediating with the German government but due to the previous policy of her newspaper she was left alone and called an enemy of the Reich. Her friend Vilis Lacis, appointed new Interior Minister of the Soviet Socialist Republic of Latvia, also turned his back on her. Emilija thus paid the price for the unconventional and independent spirit of her editorial line. On June 17, 1941, Soviet police knocked on her door and picked her up and loaded her onto a train to deport her to Siberia. From June 14, 1941 to the end of the same month, 28,501 people were deported from Latvia, including many boys and girls. Among other things, many others were born and died immediately on those railway wagons. They were hellish journeys that lasted several weeks, in fact the destination was 6,000 kilometres away from their homeland. The deportees were crammed into the wagons and many fell ill with typhus on the way. A survivor who travelled with her reported that at the end of that terrible journey Emilija, getting off the train, was struggling to carry her luggage. A man approached her to help but she refused, saying, "From now on I will carry my destiny myself." From the sumptuous palaces she was catapulted into that cold, inhospitable and hostile land, a prisoner of hunger, loneliness, and misery. On September 23, 1941, shortly after her sixtieth birthday, she died: she did not manage to survive hardship. Emily died of starvation in Solikamsk, Russia, simply lying on a bed of bare wooden boards.

Daphne Caruana Galizia

Nadia Verdile


Valentina Bartolotta

Nella Basilica dell'Assunzione di Nostra Signora a Malta il 3 novembre 2017 si tennero i funerali di Daphne Vella. Era stata uccisa il 16 ottobre da una bomba esplosa nella Peugeot 108, presa a noleggio, che stava guidando. «Ho guardato in basso e c'erano parti del corpo di mia madre tutt'intorno a me». Scrisse così sulla sua pagina Facebook uno dei figli. Fatta saltare in aria per chiuderle la bocca. Storia vecchia che non insegna perché quando si uccide la verità quella rispunta, più forte, nelle azioni di chi la vuole. Daphne aveva da poco compiuto 53 anni quando è stata fatta brillare in aria. Era nata a Silema il 26 agosto 1964. Nel 1985 aveva sposato Peter Caruana Galizia, dalla loro unione sono nati tre figli: Matthew Mark John, Andrew Michael Louis e Paul Anthony Edward. È col cognome del marito che continuano a ricordarla. Era laureata in Archeologia ma la sua vita era il giornalismo. Quello vero, quello d’inchiesta. Quello che serve a svelare i segreti, che serve a far conoscere i fatti. Era entrata come redattrice al “Sunday Times” di Malta nel 1987, ne fu editorialista dal ‘90 al ‘96. Collaborò con “The Malta Independent” per il resto della sua carriera. Molte riviste ospitavano la sua firma. Fondò -e ne fu editrice - le riviste “Taste” e “Flair”, che divennero una sola cosa nel 2014 e che ora sono pubblicate dalla Fondazione Daphne Caruana Galizia. Aveva un suo blog, seguitissimo, Running Commentary, fatto di inchieste, commenti sull’attualità e sui personaggi pubblici. Faceva numeri da capogiro, le visualizzazioni erano mediamente al di sopra delle 400mila. Dava fastidio Daphne, dava così fastidio che già da giovanissima aveva ricevuto attentati. Nel 1996 le incendiarono la porta di casa. Poi le uccisero il cane. Poi ancora diedero fuoco alla casa mentre la famiglia tutta era all’interno. E poi ancora l’uccisione di altri due cani, prima il terrier Zulu, avvelenato, poi il suo collie Rufus abbattuto a sprangate. Le minacce, come ha raccontato il marito, erano all’ordine del giorno: telefonate, lettere, bigliettini appuntati sulla porta di casa, e-mail, commenti violenti sul suo blog. L’arrestarono l'8 marzo 2013 per aver infranto il silenzio elettorale il giorno prima del voto quando pubblicò un video di denuncia su Joseph Muscat, divenuto dopo le elezioni primo ministro. “The Daily Telegraph” la definì la principale commentatrice di Malta. Poi lo scandalo dei Panama Papers. Nel 2016 Daphne diede notizia del coinvolgimento dei politici governativi Konrad Mizzi e Keith Schembri. Rivelò che Mizzi aveva legami con Panama e la Nuova Zelanda, questo costrinse il ministro ad ammettere l'esistenza del Rotorua Trust; rivelò poi che anche Schembri possedeva un trust neozelandese, a sua volta proprietario di una società a Panama.

Non faceva segnali di fumo Daphne, lei indagava, scriveva, denunciava. E non aveva paura. Quindi faceva paura. Il suo blog dava conto delle malefatte della politica e della finanza, il suo blog era faro di luce. Nel suo mirino quanti predicavano bene e razzolavano male. Non poteva essere lasciata in vita da chi sentiva che il terreno franava vorticosamente sotto i piedi. I documenti sull’affare Panama furono devastanti per molti. Fu lei a dimostrare che Egrant, un'altra società panamense, era di proprietà di Michelle Tanti, moglie del primo ministro Joseph Muscat. L’ultimo suo articolo sul blog lo aveva titolato Il truffatore Schembri oggi era in tribunale a sostenere che non è un truffatore e chiudeva il pezzo così: «ora ci sono truffatori ovunque si guardi. La situazione è disperata». Quando l’hanno uccisa Daphne aveva in corso 48 cause per diffamazione. Ovunque aveva “ficcato il naso” aveva acquistato nemici. Nel maggio 2017 il proprietario e presidente di Pilatus Bank, Ali Sadr Hasheminejad, la citò in giudizio in un tribunale dell'Arizona per un danno di 40 milioni di dollari ma Daphne non fu nemmeno informata e il banchiere ritirò la citazione a poche ore dalla sua morte. A novembre 2019 c’è stato l’arresto, come mandante dell’omicidio, di Yorgen Fenech, proprietario della società, con sede a Dubai, 17 Black. Daphne ne aveva dettagliatamente parlato nei suoi articoli dei Panama Papers in relazione a Keith Schembri e Konrad Mizzi. Fenech però scaricò l'accusa su Schembri, capo di gabinetto dell'ex primo ministro Muscat. Corinne Vella, sorella di Daphne, commentò: «Schembri era stato più volte segnalato da Daphne e se il nome di Schembri è stato fatto in tribunale non è possibile che Muscat non lo sapesse». E Muscat si dimise all’inizio del 2020. Contro Daphne una costante campagna di denigrazione e, come capita alle donne, è stata descritta come un’arrivista, una spregiudicata, una strega. Di contraltare a lei è stata intitolata la Sala stampa del Parlamento europeo e ventotto riconoscimenti le sono stati tributati, dopo la morte, in tutto il mondo. Le inchieste di Daphne non potevano e dovevano morire. Nacque così il Daphne Project. Giornali e giornalisti/e di fama internazionale decisero di unirsi in un progetto comune dando vita ad un'inchiesta coordinata dall'associazione no-profit francese Forbidden stories. Tra le testate che hanno aderito al progetto vi sono “New York Times”,” The Guardian”, “Reuters”, “Süddeutsche Zeitung”, “Die Zeit”, “Le Monde” e “la Repubblica”. Raccontava e voleva la verità Daphne, per scrivere quella verità è morta, dilaniata dalla bomba e dalle maldicenze ma il suo lavoro va avanti con le teste e le gambe della famiglia e di colleghi/e che alla morte e al silenzio non si rassegnano nel nome della verità, nel nome di Daphne.

 

Traduzione francese
Giuliana Gaudenzi

Dans la Basilique de l’Assomption de Notre Dame à Malta le 3 Novembre 2017 ont eu lieu les obsèques de Daphne Vella. Elle avait été tuée le 16 Octobre par une explosion dans la Peugeot 108 qu’elle avait loué et qu’elle était en train de conduire. « J’ai regardé en bas et il y avait les morceaux du corps de ma mère tout autour de moi ». Un de ses enfants a écrit cela sur sa page Facebook. On l’a faite exploser pour étouffer sa voix. C’est une vieille histoire qui n’enseigne rien, parce-que quand on tue la vérité elle réapparait, plus forte, dans les actes de ceux qui la désirent. Daphne venait de fêter ses 53 ans quand elle a été faite exploser. Elle était née à Silema le 26 août 1964. En 1985 elle avait épousé Peter Caruana Galizia ; ils ont eu trois enfants : Matthew Mark John, Andrew Michael Louis et Paul Anthony Edward. Elle est toujours connue avec son nom marital. Elle était diplômée en Archéologie mais sa vie était le journalisme. Le vrai, celui d’investigation. Celui qui permet de dévoiler les secrets, qui permet de connaître les événements. Elle était entrée comme rédactrice dans le « Sunday Times » de Malta en 1987, elle y a été éditorialiste de ’90 à ’96. Elle a collaboré avec « The Malta Independent » pour le restant de sa carrière. Sa signature figurait dans beaucoup de magazines. Elle a fondé – et elle en a été l’éditrice – les revues « Taste » et « Flair », qui sont devenues une unique chose en 2014 et qui, à présent, sont publiées par la Fondation Daphne Caruana Galizia. Elle avait son blog, très populaire, Running Commentary, fait d’enquêtes, commentaires sur l’actualité et sur les personnages publics. Le nombre de visualisations était exceptionnel, en moyenne en dessus de quatre cent mille. Daphne dérangeait, à tel point que même très jeune elle avait subi des attentats. En 1996 la porte de sa maison a été incendiée. Puis on a tué son chien. Ensuite on a incendié sa maison pendant que toute la famille était à l’intérieur. Et encore l’abattage de deux chiens, d’abord le terrier Zulu, empoisonné, puis le colley Rufus, tué à coups de bâton. Son mari a raconté qu’il y avait des menaces tous les jours : appels téléphoniques, lettres, billets scotchés sur la porte d’entrée, e-mails, violents commentaires sur son blog. Elle a été arrêtée le 8 mars 2013 pour avoir violé le silence électoral le jour avant le vote quand elle a publié une vidéo de dénonciation sur Joseph Muscat, devenu premier ministre après les élections. « The Daily Telegraph » l’a qualifiée comme la principale commentatrice. Et puis, le scandale des Panama Papers. En 2016 Daphne a annoncé l’implication des politiciens du gouvernement Konrad Mizzi et Keith Schembri. Elle a révélé que Mizzi avait des liens avec Panama et la Nouvelle Zélande et cela a obligé le ministre à admettre l’existence du Rotorua Trust ; elle a ensuite révélé que Schembri aussi possédait un trust néo-zélandais, propriétaire à son tour d’une société à Panama.

Daphne n’envoyait pas des signaux de fumée, elle enquêtait, écrivait, dénonçait. Et elle n’avait pas peur. Donc, elle faisait peur. Son blog relatait les méfaits de la politique et de la finance, son blog était un phare lumineux. Dans sa ligne de mire, ceux qui ne vivaient pas comme ils l’enseignaient. Elle ne pouvait pas être laissée vivante par ceux qui sentaient que le terrain s’écroulait vertigineusement sous leurs pieds. La documentation sur l’affaire Panama a été dévastatrice pour beaucoup de monde. C’est elle qui a démontré que Egrant, une autre société panaméenne, appartenait à Michelle Tanti, épouse du premier ministre Joseph Muscat. Elle avait titré son dernier article sur le blog L’escroc Schembri aujourd’hui était au tribunal pour soutenir qu’il n’est pas un escroc et elle terminait l’article comme ça : « à présent il y a des escrocs partout. La situation est sans espoir ». Quand on l’a assassinée, Daphne avait en cours 48 procès en diffamation. Où qu’elle avait fouiné, elle s’était fait des ennemis. En Mai 2017 le propriétaire et président de Pilatus Bank, Ali Sadr Hasheminejad, l’a poursuivie en justice auprès d’un tribunal d’Arizona pour un dommage de 40 millions de dollars mais Daphne n’a même pas été renseignée et le banquier a retiré l’acte d’accusation quelques heures avant sa mort. En Novembre 2019 Yorgen Fenech, propriétaire de la société 17 Black, basée a Dubaï, a été arrêté en tant que commanditaire du meurtre. Daphne en avait parlé en détail dans ses articles des Panama Papers en rapport à Keith Schembri et Konrad Mizzi. Mais Fenech a inculpé Schembri, chef de cabinet de l’ancien premier ministre Muscat. Corinne Vella, sœur de Daphne, a commenté « Schembri avait été plusieurs fois signalé par Daphne et si le nom de Schembri a été fait au tribunal il n’est pas possible que Muscat ne le savait pas ». Et Muscat a donné sa démission début 2020. Contre Daphne il y a eu une constante œuvre de dénigrement et, comme il arrive aux femmes, elle a été décrite comme une arriviste, une sans scrupules, une sorcière. Par contre, on a donné son nom à la Salle de presse du Parlement européen et, après sa mort, on lui a rendu hommage avec vingt huit récompenses. Les enquêtes de Daphne ne pouvaient pas et ne devaient pas mourir. Il est ainsi né le Daphne Project. Journaux et journalistes de renommée internationale ont décidé de se rassembler pour un projet commun en donnant vie à une enquête coordonnée par l’association française sans but lucratif Forbidden stories. Parmi les organes de presse qui ont adhéré au projet il y a « New York Times », « The Guardian », « Reuters », Süddeutsche Zeitung », « Die Zeit », « Le Monde », et « La Repubblica ». Daphne racontait et voulait la vérité, elle est morte pour écrire cette vérité, déchiquetée par l’explosion et par les médisances, mais son travail continue avec les esprits et les jambes de sa famille et de ses collègues qui ne se résignent pas à la mort et au silence au nom de la vérité, au nom de Daphne.

 

Traduzione inglese
Cettina Callea

In the Basilica of the Assumption of Our Lady, commonly known as the Rotunda of Mosta in Malta, on 3rd November, 2017, Daphne Vella's funeral was held. She had been murdered on 16th October when a car bomb placed in her leased Peugeot 108 exploded while she was driving. One of her children wrote on his Facebook profile "I looked down and there were my mother’s body parts all around me". She had been blown up to shut her mouth. It is the same old story which does not teach anything because when the truth is killed, it rises again stronger and stronger in the actions of people who want it. Daphne had just turned 53 years old when she was brutally murdered. She was born in Sliema on 26th August, 1964. In 1985 She had married Peter Caruana Galizia, and they had three sons: Matthew Mark John, Andrew Michael Louis e Paul Anthony Edward. She is remembered with her husband's surname. She had a degree in Archeology but journalism was her life. Real Journalism, investigative journalism to dig up secrets and to let people learn facts. She started as editor at “Sunday Times” in Malta in 1987, writing as editorialist from 1990 to 1996. She collaborated with “The Malta Independent” for her remaining career. She wrote articles for many magazines. She founded and was the publisher of the magazines “Taste” and “Flair”, which became one in 2014, now published by the Foundation Daphne Caruana Galizia. She had a very popular blog, “Running Commentary”, reporting on investigations and commenting on current affairs and public personalities. Her followers reached dizzying numbers - she usually reached more than 400 thousand views. Daphne was "annoying", so annoying that since she was really young she had experienced attacks. In 1996 her house door was burnt. Then her dog was killed. Later her house was set on fire with her family inside. Other two dogs were killed, first her terrier Zulu was poisoned and then her collie Rufus, was beaten to death with a crowbar. As her husband said, she used to receive everyday threats: phone-calls, letters, notes on her door, emails, violent comments on her blog. She was arrested on 8th March 2013 for breaking the pre-election silence, on the day before voting, when she posted a video denouncing Joseph Muscat, who became Prime Minister, after the elections. “The Daily Telegraph” defined her the main journalist in Malta. After that, the scandal of Panama Papers broke out. In 2016 Daphne found out about the involvement of Government politicians Konrad Mizzi and Keith Schembri with it. She revealed that Mizzi had connections with Panama and New Zealand, and this fact forced the minister to admit the existence of Rotorua Trust; moreover, she revealed that Schembri owned a New Zealand trust, which in turn was the owner of a Company in Panama.

Daphne didn’t just send smoke signals - she investigated, wrote, and denounced. And she had no fear. So she caused fear. Her blog gave an account of political and financial misdeeds, her blog was a lighthouse. She used to hit the ones who preached one thing and did another. She could not be allowed to stay alive by people who felt like threatened by her work. The documents about Panama affaire were devastating to many people. She managed to prove that Egrant, another Panama company, belonged to Michelle Tanti, the prime minister Joseph Muscat's wife. Her last blog article was entitled " That crook Schembri was in court today, pleading that he is not a crook" and she closed the article like this:"There are crooks everywhere you look now. The situation is desperate". When Daphne was murdered she had 48 ongoing libel cases. Wherever she had snooped around, she had gained enemies. In May 2017 the owner and president of Pilatus Bank, Ali Sadr Hasheminejad, sued her in a Court in Arizona for damages of 40 million dollars but Daphne did not have time to be informed and the banker retracted his citation a few hours after her death. In November 2019 Yorgen Fenech, the owner of the company, housed in Dubai, 17 Black, was arrested as the instigator of the murder. Daphne had written about him and his connections with Keith Schembri and Konrad Mizzi, with many details, in her articles about Panama Papers. But Fenech shifted the charge on Schembri, Head of Cabinet of the former Prime Minister Muscat. Corinne Vella, Daphne's sister declared: “Schembri has been named in a court so many Times by Daphne. It is not possible for Muscat not to have known". Muscat resigned at the beginning of 2020. Daphne has been the object of a constant campaign of slander, and as happens to many women, she has been described as an upstart, an unscrupulous witch. On the other hand, the European Parliament Press room was named after her and she has been given awards twenty-eight times, since her death, in different countries. Daphne's investigations could not and did not have to die. That's why Daphne Project was founded. The most famous International Press and journalists decided to join in a common project creating an investigation coordinated by the French non-profit Association Forbidden stories. Among the newspapers joining the project are “New York Times”,” The Guardian”, “Reuters”, “Süddeutsche Zeitung”, “Die Zeit”, “Le Monde” and “la Repubblica”. Daphne found and then wrote the truth, and for that she was torn apart by a bomb. But her work continues, thanks to the commitment of her family and friends. In their loyalty to truth, and to Daphne, they will not accept murder and suppression of the truth.

Beatrix de Rijk

Barbara Belotti


Giulia Capponi

Forse sono le dimostrazioni delle macchine volanti dei fratelli Wright nei cieli di Francia, tra il 1908 e il 1909, a spingere Beatrix de Rijk verso gli aeroplani. Da qualche anno la giovane Beatrix vive a Parigi e lavora come modella. Il bell’aspetto, il volto fresco e vivace le hanno aperto le porte dell’haute couture, ma non è quella la sua strada. La vita la porterà in alto, nell’aria, alla guida di quei nuovi trabiccoli leggeri capaci di sollevarsi da terra e volteggiare fra le nuvole. L’aeronautica è solo agli inizi, ma Beatrix sente di dover raccogliere la nuova sfida, anzi la doppia sfida: quella contro la forza di gravità e quella contro i pregiudizi. L’avventura del volo è per gli uomini, valorosi per carattere, temerari per natura; le donne, angeli del focolare, non possono diventarlo anche dell’aria. Beatrix de Rijk, donna dal carattere deciso, non è di questa opinione e sa che può dimostrarlo. Nasce a Surabaya, nelle Indie orientali olandesi, il 24 luglio 1883 da una agiata famiglia borghese originaria dei Paesi Bassi. La sua infanzia e la sua adolescenza sono piene di attività sportive, dal tennis all’equitazione al pattinaggio. Quando diventa grande abbastanza, rivela la sua natura ardimentosa: impara a guidare la motocicletta, l’automobile, partecipa a voli in mongolfiera. Dalla mongolfiera all’aereo il passo è quasi scontato e breve. Rientrata in Europa dalle Indie orientali olandesi intorno al 1903 Beatrix, dopo un breve periodo trascorso in Olanda, sceglie di vivere in Francia. Comincia a frequentare il campo di volo di Bétheny, vicino a Reims. Il suo istruttore, l’aviatore Marcel Hanriot, la giudica subito un’ottima allieva, migliore di tanti suoi colleghi. Ha talento e coraggio da vendere quella ragazza dallo sguardo intenso, che entra nella carlinga nonostante le gonne lunghe e una specie di turbante orientale in testa. Hanriot l’apprezza e le svela i segreti del volo.

Beatrix de Rijk, Museo di Amsterdam.

La scuola è costosa, ma Beatrix ha una solida rendita economica grazie alla quale non solo paga le lezioni, ma compra anche un velivolo personale, un monoplano Deperdussin, con il quale vuole dimostrare l’abilità femminile alla cloche. Il sogno si avvera qualche tempo dopo. Il 6 ottobre 1911 supera l’esame e ottiene la licenza di volo, ricevendo la tessera n° 652 della Federazione aeronautica di Francia. Beatrix de Rijk diventa pilota, una pioniera dell’aria, la prima donna dei Paesi Bassi a ottenere un brevetto di volo e a guidare un aereo. Entra a far parte del primo aero-club francese tutto femminile, La Stella, e come le altre socie intende dare il proprio contributo alla conquista del cielo, infischiandosene dei pregiudizi e degli stereotipi che la vorrebbero moglie fedele e mamma amorosa. Il suo primo matrimonio, celebrato contro la volontà della famiglia, è naufragato da tempo e il suo unico figlio è rimasto a vivere nelle Indie orientali olandesi. Quando scoppia la Prima guerra mondiale Beatrix è pronta a partire. Chiede di partecipare come volontaria nei ranghi della neonata aeronautica francese, ma la sua offerta cade nel vuoto, le leggi militari non prevedono la partecipazione femminile. Tenta allora con l’esercito olandese, riceve tanti ringraziamenti ma un fermo diniego. La delusione deve essere stata cocente, dopo il 1914 Beatrix non si dedica più al volo anche se nel 1935 prova, ancora senza successo, a proporsi come pilota in azioni di guerra, questa volta contro le truppe italiane di occupazione in Etiopia. Beatrix è alla ricerca di un posto in cui vivere e di nuove avventure, si muove con il secondo marito Jan tra l’Europa e le Indie orientali olandesi. Partecipa a gare automobilistiche, tenta di avviare attività economiche, ma pur essendo una donna risoluta e capace, non si dimostra altrettanto capace coi suoi averi, che perde completamente negli anni Venti. Fallita ma non sconfitta, Beatrix affronta la seconda parte della sua vita fedele al motto che le viene attribuito: «Ridi e dimentica». Non sono anni facili per lei ma la gioia di vivere non la abbandona mai.

Beatrix de Rijk. Icona dell'aviazione olandese

Durante la Seconda guerra mondiale suo marito scompare senza lasciare traccia, il suo unico figlio muore nel 1943, prigioniero in un campo di internamento giapponese. Praticamente in miseria, Beatrix deve adattarsi a vivere in modeste camere, a mantenersi con lavori umili come l’aiutante lavapiatti o la donna delle pulizie. Viene in suo soccorso la Royal Duch Aviation Association che integra un po’, con sussidi economici e materiali, la magra pensione. Nelle piccole stanze in cui è costretta a vivere, Beatrix si sente prigioniera come un uccello in gabbia. Ripensa alle sue scorribande nei cieli, le paragona a tentativi di suicidio, tanto erano pericolose e ai limiti dell’impossibile. Per affrontare il volo bisognava essere molto audaci e altrettanto incoscienti. Quei primi aeroplani erano leggeri, realizzati con materiali semplici, senza alcuna protezione di sicurezza e privi di strumentazioni adeguate. Erano state avventure rischiose e temerarie, ma erano state la realizzazione di un sogno. E quando le passioni si mescolano con l’incoscienza della giovinezza, tutto il resto passa in secondo piano. Il desiderio di Beatrix di volare è stato uno dei numerosi tentativi di aprire la breccia nel mondo dell’aeronautica, tradizionalmente “maschile”; è stato anche un modo di contribuire alla narrazione dell’epopea del volo. Eppure non è bastato. Pioniera dell’aviazione olandese, Beatrix de Rijk viene dimenticata subito, quando è ancora in vita. Muore in solitudine e povera il 18 gennaio del 1958, dopo una lunga malattia.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

Ce sont peut-être les démonstrations des machines volantes des frères Wright dans le ciel de France, entre 1908 et 1909, qui ont poussé Beatrix de Rijk vers l'avion. Depuis quelques années, la jeune Beatrix vivait à Paris et travaillait comme mannequin. Sa bonne mine et son visage frais et vif lui ont ouvert les portes de la haute couture, mais ce n'était pas sa voie. La vie l'emmènera dans les airs, aux commandes de ces nouveaux bimbos légers capables de décoller du sol et de s'élever dans les nuages. L'aéronautique ne fait que commencer, mais Beatrix sent qu'elle doit relever le nouveau défi, ou plutôt le double défi : celui contre la force de gravité et celui contre les préjugés. L'aventure du vol est réservée aux hommes, courageux par caractère, téméraires par nature ; les femmes, anges du foyer, ne peuvent devenir des anges de l'air. Beatrix de Rijk, une femme au caractère bien trempé, n'est pas de cet avis et sait qu'elle peut le prouver. Elle est née à Surabaya, dans les Indes orientales néerlandaises, le 24 juillet 1883, dans une famille aisée de la classe moyenne des Pays-Bas. Son enfance et son adolescence sont remplies d'activités sportives, du tennis à l'équitation en passant par le patinage. Lorsqu'elle atteint l'âge adulte, elle révèle sa nature audacieuse : elle apprend à conduire une moto, une voiture et participe à des vols en montgolfière. De la montgolfière à l'avion, le pas était presque évident et court. Après son retour en Europe des Indes orientales néerlandaises vers 1903, Beatrix, après un bref séjour en Hollande, choisit de vivre en France. Elle commence à fréquenter l'aérodrome de Bétheny, près de Reims. Son instructeur, l'aviateur Marcel Hanriot, a immédiatement jugé qu'elle était une excellente élève, meilleure que nombre de ses collègues masculins. La jeune fille au regard intense avait du talent et du courage à revendre, entrant dans le cockpit malgré ses longues jupes et une sorte de turban oriental sur la tête. Hanriot l'apprécie et lui révèle les secrets du vol.

Beatrix de Rijk, Musée d'Amestardam.

L'école est chère, mais Beatrix a un solide revenu, grâce auquel elle paie non seulement les leçons, mais achète aussi son propre avion, un monoplan Deperdussin, avec lequel elle veut démontrer son habileté féminine au manche. Le rêve se réalise quelque temps plus tard. Le 6 octobre 1911, elle passe l'examen et obtient son brevet de pilote, et reçoit la 652e carte de la Fédération française d'aéronautique. Beatrix de Rijk est devenue pilote, une pionnière dans les airs, la première femme aux Pays-Bas à obtenir une licence et à piloter un avion. Elle rejoint le premier aéroclub français exclusivement féminin, La Stella, et entend, comme les autres membres femmes, apporter sa contribution à la conquête du ciel, faisant fi des préjugés et des stéréotypes qui font d'elle une épouse fidèle et une mère aimante. Son premier mariage, célébré contre la volonté de sa famille, a échoué depuis longtemps et son fils unique est laissé à l'abandon dans les Indes orientales néerlandaises. Lorsque la première guerre mondiale éclate, Beatrix est prête à partir. Elle demande à se porter volontaire dans les rangs de la toute nouvelle armée de l'air française, mais sa proposition tombe dans l'oreille d'un sourd, car les lois militaires ne permettent pas la participation des femmes. Elle essaie ensuite l'armée néerlandaise, recevant de nombreux remerciements mais un refus ferme. La déception a dû être amère, après 1914 Beatrix ne s'est plus consacrée à l'aviation, même si en 1935 elle a essayé, toujours sans succès, d'être pilote dans des actions de guerre, cette fois contre les troupes d'occupation italiennes en Ethiopie. Beatrix cherche un endroit où vivre et de nouvelles aventures, elle se déplace avec son second mari Jan entre l'Europe et les Indes orientales néerlandaises. Elle participe à des courses automobiles, essaie de créer des entreprises, mais si elle est une femme résolue et capable, elle ne l'est pas autant avec ses biens, qu'elle perd complètement dans les années vingt. Échouée mais pas vaincue, Beatrix affronte la deuxième partie de sa vie en restant fidèle à la devise qui lui a été attribuée : "Rire et oublier". Ces années ne sont pas faciles pour elle, mais la joie de vivre ne l'abandonne jamais.

Beatrix de Rijk. Femmes emblématiques de l'aviation néerlandaise

Pendant la Seconde Guerre mondiale, son mari disparaît sans laisser de traces, son fils unique meurt en 1943, prisonnier dans un camp d'internement japonais. Pratiquement sans ressources, Beatrix a dû s'adapter à la vie dans des chambres modestes, et subvenir à ses besoins grâce à des emplois subalternes tels que plongeur ou femme de ménage. La Royal Duch Aviation Association est venue à son secours et a complété sa maigre pension par une aide financière et matérielle. Dans les petites pièces dans lesquelles elle est obligée de vivre, Beatrix se sent comme un oiseau en cage. Elle repensa à ses raids dans le ciel, les comparant à des tentatives de suicide, tant ils étaient dangereux et à la limite de l'impossible. Il fallait être très audacieux et tout aussi téméraire pour voler. Ces premiers avions étaient légers, faits de matériaux simples, sans aucune protection de sécurité et sans instrumentation adéquate. Ces aventures avaient été risquées et audacieuses, mais elles avaient été la réalisation d'un rêve. Et quand les passions se mêlent à l'insouciance de la jeunesse, tout le reste passe au second plan. Le désir de Beatrix de voler était l'une des nombreuses tentatives de percer dans le monde traditionnellement "masculin" de l'aéronautique ; c'était aussi une façon de contribuer au récit de l'épopée du vol. Pourtant, ce n'était pas suffisant. Pionnière de l'aviation néerlandaise, Beatrix de Rijk a vite été oubliée, de son vivant. Elle est morte dans la solitude et la pauvreté le 18 janvier 1958, après une longue maladie.

 

Traduzione inglese
Joelle Rampacci

Maybe they were the demonstrations of the flying machines organized by the Wright Brothers in the skies of France, between 1908 and 1909, that encouraged Beatrix de Rijk to be interested in planes. For some years the young woman Beatrix lived in Paris and worked as a model. She was good looking, with a fresh and lively face that gave her the opportunity for haute couture fashion shows, but that was not her way. Life would take her up in the air, ready to drive light flying machines that could rise her fom the ground twirling in the clouds. Aircraft science was in its early stages, but Beatrix felt she had to accept the new challenge, indeed a double challenge: the first one against the gravity force and the second one against the prejudices. The adventure of flying was only for men, reckless by nature; women, angels of the hearth, could not. Beatrix de Rijk, a strong- minded woman, did not agree with that point of view and she knew that she could prove. She was born in Surabaja, in the Dutch East Indies on 24th July 1883 in a wealthy family from the Netherlands. She lived her childhood and her adolescence practising a lot of sport activities, starting from tennis to horse riding and skating. When she was old enough, she revealed her fearless nature: she learnt to ride a motorcycle, to drive, she took part in hot-air balloon rides. It was a short step from hot-air balloons to the planes. After going back to Europe from Dutch East Indies Beatrix decided to live in France about 1903. She started frequenting air fields in Bethany, near Reims. Her flight instructor, the aviator Marcel Hanriot, thought she was an excellent learner, better than many colleagues. That talented, intense-eyed girl, was full of courage in going into the cockpit although she used to wear long skirts and a kind of oriental turban on her head. Hanriot appreciated her and revealed her every kind of secret of flying.

Beatrix de Rijk, Amsterdam Museum.

Lessons were expensive but Beatrix earned a very high economic income: she did not only pay for her lessons but she also bought her own aircraft, a Deperdussin monoplane, through which she wanted to show the feminine capability to flight. Her dream came true after a while. On 6th October 1911 she passed her exam and got her flight license receiving the card number 652 of the Aéro-Club de France. Beatrix de Rijk became an official pilot, an air pioneer, the first woman in the Netherlands to get a flight license and to fly an airplane. She became a member of the first all-female French Airclub called ‘the Star’. She wanted to make her own contribution, with all the other female members, to the rush to the sky, not caring about the prejudices and the stereotypes that only saw her as a faithful wife and a loving mother. At that age her first marriage, celebrated against her family wishes, had failed for a long time and her only child had stayed in the Dutch East indies. When the First World War broke out Beatrix was ready to leave. She asked to join the ranks of the newborn French Air Force as a volunteer but her proposal fell on deaf ears: at that time the female partecipation was not allowed by military laws. After she asked the Dutch Army, receiving a firm denial. It was a cruel disappointment to her; after 1914 Beatrix did not devote herself to flight any more even if, in 1935, she unsuccessfully tried to propose herself in war mission against the Italian troops occupying Etiopia. Beatrix was looking for a place where she could live new adventures in and so she moved travelling around Europe and the Dutch East Indies with her second husband Jan. She took part in car competitions, she tried to raise some business. Though she was a firm and decisive woman, she was not able to keep her possessions: she lost everything in the Twenties. Failed but not defeated, Beatrix lived the second part of her life to honour her motto: “laugh and forget”. It was not an easy period but she never lost her joy of living.

Beatrix de Rijk Iconic women of Dutch aviation

During the second World War her husband suddenly vanished without trace, her only child died in 1943 as a prisoner in a Japanese internment camp. Practically penniless, Beatrix was forced to adapt to living in unpretentious hotel rooms, earning a living with humble works such as dishwashing or housekeeping. The Royal Dutch Aviation Association came to the rescue helping her out with economic and financial subsidies. Beatrix felt a prisoner like a bird in a cage in the small rooms where she was forced to live in. Thinking back to her raids in the skies, she went comparing them with suicide attempts, so dangerous and to the edges of the impossible. It was needed to be very bold and equally unconscious to fly. Those first planes were light, made with basic materials, without any safeguard measures and appropriate equipments. During her all life she lived risky adventures but they were a dream come true. When the passions mix with the unconsciousness of young age everything takes second place. The wish of flying of Beatrix de Rijk was one of the many attempts to breach the world of Aircraft, traditionally held to be belonging to men; it was a way to contribute to the storytelling of flight. But it was not enough. Pioneer of the Dutch Aircraft, Beatrix was immediately forgotten when she was still alive. She died alone and poor on 18th January 1958, after a long disease.

Hélène Dutrieu

Stefania Carletti


Giulia Capponi

Hélène Dutrieu, la prima aviatrice belga, pioniera dell’aviazione femminile, membro d’onore a titolo postumo della Società Reale di aviazione. (A. Demoulin e R. Feullien)

Hélène nacque a Tournai in Belgio il 10 luglio 1877 e crebbe in una famiglia tutt’altro che ricca: figlia di un ufficiale dell'esercito belga, quando compie 14 anni è costretta ad abbandonare gli studi perché il padre perde il lavoro; comprende che deve darsi da fare, ma così giovane non ha un mestiere vero e proprio. Possiede tuttavia un talento nel pedalare con la bicicletta e così, sulla scia del fratello Eugéne, di cinque anni piu giovane e già noto ciclista, inizia a praticare, con tenacia e sacrificio, il ciclismo e a impegnarsi nelle corse che, molto timidamente, si stanno aprendo alle donne. Esile nel fisico, Hélène è forte nell’animo, caparbia ed entusiasta, tanto da dimostrare subito le sue doti e ottenere grandi successi come ciclista ed essere inserita nella squadra “Simpson Lever Chain”. Nel 1895 nel velodromo di Tournai s’aggiudica il record dell’ora; divenuta ciclista professionista, nel 1897 partecipa al campionato di velocità a Ostenda con ottimi risultati, tanto che le giornaliste coniano per lei il titolo di “la flèche humaine” (la freccia umana). Nel 1898, in seguito ad allenamenti pesanti e duri, Hélène vince due gare di grande prestigio internazionale: il “Grand Prix d’Europe” e la “Dodici giorni di Londra”; è determinata e va avanti nonostante i pregiudizi dell’epoca che non vedevano di buon occhio una ragazza che praticasse uno sport “da maschio”

La sua fama di ciclista indomita si diffonde velocemente in tutta Europa ed anche oltreoceano, tanto che per i suoi successi il re Leopoldo I la premia con la Croce di Sant’Andrea con diamanti. Tra le molteplici attività di quel periodo diviene testimonial della ditta Simpson per pubblicizzare l’innovativa “catena a leve per biciclette”. Oltre le doti sportive, Hélène ha anche il dono dello spettacolo, così tra una competizione e l’altra si esibisce nel Circo Excelsior-Dutrieu, che suo fratello Eugéne dirige da tempo, e partecipa a importanti manifestazioni popolari, durante le quali entusiasma il pubblico con numeri acrobatici in bicicletta, moto e automobile, dando prova di audacia, inventiva e resistenza fisica eseguendo dei veri looping. Nel 1908 (sono trascorsi pochi anni dal primissimo volo del 1903 ad opera dei fratelli Wright), viene proposto a Hélène di pilotare uno di questi trabiccoli: il Damoiselle, un monoplano molto leggero, mentre nel mondo solo una ventina di uomini audaci avevano sperimentato il volo. La ragazza è coraggiosa e sui campi di Issy-les-Moulineax prova a volare ma il velivolo si schianta senza neanche sollevarsi da terra. Non si arrende Hélène e due anni dopo, nelle Ardenne francesi, con un aereo piu performante ottiene il suo riscatto come aviatrice. È il 9 aprile 1910: a bordo di un grosso biplano Sommer con motore belga da 40 cv. riesce a rimanere in volo per 20 minuti e qualche giorno dopo ripete l’impresa portando a bordo un passeggero. Hélène è la prima donna a compiere queste imprese.

Tornata in Belgio, sicura delle sue capacità, il 3 settembre 1910 ottiene un altro primato che la fa entrare nella leggenda dell’aviazione. Partecipa alla Festa aerea di Blankenberge e, senza un piano di volo preordinato, decolla dalla spiaggia puntando su Ostenda, quindi verso Bruges e rientra Blankenberge: è il primo volo triangolare senza scalo. Compie numerose imprese aeree in Belgio e nei Paesi Bassi: vola, prima donna al mondo, per più di un’ora; vince la prima “Coupe Fémina” (premio voluto nel 1910 da Pierre Lafitte, direttore della rivista Fémina) con un volo senza scalo di 167 km in due ore e mezzo. Il suo impegno e questi straordinari risultati le permettono di ottenere, prima donna in Belgio e quarta al mondo, il brevetto di pilota. Nel 1910 e nel 1911 vola fino negli Stati Uniti per mostrare agli americani le novità tecniche raggiunte dall’aereonautica europea e partecipa con successo a molte manifestazioni e gare locali. Cosciente che la cultura maschilista e retrograda vorrebbe incardinare la donna solo nei ruoli di madre e moglie, sfida i tempi e con passione e coraggio continua la sua carriera. Nel 1911 a Firenze vince la prestigiosa “Coppa del Re”, gara di velocità e resistenza, battendo 13 piloti esperti e, per la seconda volta, la “Coupe Fémina” con un volo di 254 km in due ore.

Nel 1912 inizano gli esperimenti di decollo dei primi “idro-aeroplani” e Hélène, a luglio, è chiamata ad essere la prima donna al mondo a pilotarne uno. Ad agosto sarà ancora vincitrice in Italia sul lago di Como con un idrovolante biplano Farman con motore Gnome da 50 cv, battendo piloti con idrovolanti ben più potenti del suo. Arrivano altri prestigiosi riconoscimenti: la Francia le conferisce la Croce di Cavaliere della Legion d’Onore e il Belgio la rende Ufficiale dell’Ordine di Leopoldo. Allo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914 le donne non sono più autorizzate a pilotare velivoli, così anche Hélène mette fine alla sua breve ma eccezionale carriera di aviatrice. Non rimane tuttavia inoperosa, rispolvera le sue competenze da pilota di auto e si arruola nella Croce Rossa per il servizio ambulanze, di cui diverrà in breve tempo organizzatrice e direttrice presso l’ospedale di Messemi. La fama di Hélène è tale che il generale Gallieni, nel 1915, la convoca per un ciclo di conferenze patriottiche negli Stati Uniti d’America, per esortarne l’entrata in guerra a sostegno degli alleati europei. Rientrata in Francia, fino alla fine della guerra dirige l’ospedale militare di Val de Grace. Il dopoguerra le porta la nuova attività di giornalista e un marito. Sposa nel 1922 il giornalista e deputato francese Pierre Montier per il quale si occuperà dell’organizzazione e amministrazione delle sue pubblicazioni. Nel 1946, terminato il secondo conflitto mondiale, alla morte del consorte ritorna alla sua antica passione per l’aviazione e per la valorizzazione del volo al femminile istituisce la “Coppa Hélène Dutrieu”, un premio di 200.000 franchi francesi per l’aviatrice che ogni anno è in grado di compiere in solitaria il volo senza scalo più lungo. Muore a Parigi il 26 giugno 1961 ad 83 anni avendo dato testimonianza al mondo di allora e ai posteri di grande coraggio, passione e tenacia.

 

Traduzione francese
Piera Negri

Hélène Dutrieu, première aviatrice belge, pionnière de l'aviation féminine, membre d'honneur à titre posthume de la Royal Aviation Society. (A. Demoulin et R. Feullien)

Hélène est née à Tournai en Belgique le 10 juillet 1877 et a grandi dans une famille tout sauf riche : fille d'un officier de l'armée belge, à 14 ans, elle est contrainte d'abandonner ses études car son père perd son emploi ; elle comprend qu’elle doit s’occuper, mais en tant que si jeune, elle n'a pas un vrai travail. Cependant, elle révèle du talent pour pédaler à vélo et ainsi, sur le sillage de son frère Eugène, de cinq ans plus jeun et déjà cycliste bien connu, elle se met à pratiquer le cyclisme, avec ténacité et sacrifice, et à s'engager dans des courses qui, très timidement, s'ouvrent aux femmes. Avec un corps mince, Hélène est forte d'esprit, têtue et enthousiaste, à tel point qu'elle démontre immédiatement ses compétences et obtient un grand succès comme cycliste et sera incluse dans l'équipe "Simpson Lever Chain".En 1895, elle remporte le record de l'heure au vélodrome de Tournai ; après être devenue cycliste professionnelle, elle participe en 1897 au championnat de vitesse à Ostende avec d'excellents résultats, à tel point que les journalistes forgent pour elle le titre de « la flèche humaine ». En 1898, à la suite d'un entraînement intensif et intensif, Hélène remporte deux courses de grand prestige international : le « Grand Prix d'Europe » et les « Douze jours de Londres » ; elle est déterminée et continue malgré les préjugés de l'époque qui ne considéraient pas d'un bon œil une fille qui pratiquait un sport « masculin».

Sa réputation de cycliste indomptable s'est rapidement répandue dans toute l'Europe et même outre-mer, à tel point que pour ses succès, le roi Léopold Ier la récompense de la Croix de Saint-André avec diamants. Parmi les nombreuses activités de cette période, elle devient témoin de la société Simpson pour faire la publicité de l'innovante "chaîne à levier de vélo". Au-delà des qualités sportives, Hélène a aussi le don du spectacle, et donc d'une compétition à l'autre elle se produit dans le Cirque Excelsior-Dutrieu, que son frère Eugène dirige depuis quelque temps, et participe à d'importantes manifestations populaires, au cours desquelles elle enthousiasme le public avec des numéros acrobatiques sur vélos, motos et voitures, faisant preuve d'audace, d'inventivité et d'endurance physique en effectuant de vraies looping. En 1908 (quelques années après le tout premier vol de 1903 des frères Wright), Hélène se voit proposer de piloter un de ces coucous : le Damoiselle, un monoplan très léger, alors que dans le monde seulement une vingtaine d'hommes audacieux avaient expérimenté le vol. La fille est courageuse et sur les champs d'Issy-les-Moulineax elle essaie de voler mais l'avion s'écrase sans même décoller du sol. Hélène n'abandonne pas et deux ans plus tard, dans les Ardennes françaises, avec un avion plus performant elle obtient sa rédemption en tant qu'aviatrice. C’est le 9 avril 1910 : à bord d'un gros biplan Sommer avec un moteur belge de 40 cv. elle parvient à rester en vol pendant 20 minutes et, quelques jours plus tard, elle répète l'exploit en embarquant un passager. Hélène est la première femme à réaliser ces prouesses.

De retour en Belgique, sûre de ses capacités, elle obtient le 3 septembre 1910 un nouveau record qui la fait entrer dans la légende de l'aviation. Elle prende part au Blankenberge Air Festival et, sans plan de vol préparé, elle décolle de la plage en direction d'Ostende, puis de Bruges et de retour à Blankenberge : c'est le premier vol triangulaire sans escale. Elle réalise de nombreuses prouesses aériennes en Belgique et aux Pays-Bas : elle vole, la première femme au monde, pendant plus d'une heure ; remporte la première « Coupe Fémina » (prix voulu en 1910 par Pierre Lafitte, rédacteur en chef de la revue Fémina) avec un vol sans escale de 167 km en deux heures et demie. Son engagement et ces résultats extraordinaires lui permettent d'obtenir le brevet de pilote, la première femme en Belgique et la quatrième au monde. En 1910 et 1911, elle s'envole jusqu’aux États-Unis pour montrer aux Américains les innovations techniques réalisées par l’aéronautique européenne et participe avec succès à de nombreux événements et compétitions locaux. Consciente que la culture macho et rétrograde ne voudrait incardiner les femmes que dans des rôles de mère et d'épouse, elle défie les temps et poursuit sa carrière avec passion et courage. En 1911 à Florence, elle remporte la prestigieuse « Coupe du Roi », course de vitesse et d'endurance, battant 13 pilotes experts et, pour la deuxième fois, la « Coupe Fémina » avec un vol de 254 km en deux heures.

En 1912 débutent les expériences de décollage des premiers « hydro-avions » et Hélène, en juillet, est appelée à être la première femme au monde à en piloter un. En août, elle sera à nouveau la gagnante en Italie sur le lac de Côme avec un hydravion biplan Farman avec un moteur Gnome de 50 ch, battant les pilotes avec des hydravions bien plus puissants. D'autres récompenses prestigieuses arrivent : la France lui décerne la Croix de Chevalier de la Légion d'Honneur et la Belgique la fait Officier de l'Ordre de Léopold. Lorsque la Première Guerre mondiale éclate en 1914, les femmes n'ayant plus le droit de piloter des avions, Hélène met également fin à sa courte mais exceptionnelle carrière d'aviatrice. Pour autant, elle ne reste pas inactive, elle rafraichie ses compétences de conductrice automobile et s'engage dans la Croix-Rouge pour le service d'ambulance, dont elle deviendra bientôt l'organisatrice et la directrice de l'hôpital de Messemi. La réputation d'Hélène est telle qu'en 1915 le général Gallieni la convoque pour un cycle de conférences patriotiques aux États-Unis d'Amérique, pour l'engager à entrer en guerre en soutien à ses alliés européens. De retour en France, elle dirige l'hôpital militaire du Val de Grâce jusqu'à la fin de la guerre. L'après-guerre lui apporte la nouvelle activité de journaliste et d'époux. En 1922, elle épouse le journaliste et député français Pierre Montier pour lequel elle s'occupera de l'organisation et de l'administration de ses publications. En 1946, à la fin de la Seconde Guerre mondiale, à la mort de son époux, elle revient à sa passion ancestrale pour l'aviation et pour la valorisation du vol féminin, elle crée la "Coupe Hélène Dutrieu", un prix de 200 000 francs français pour l’aviatrice que chaque année est capable de faire le plus long vol sans escale en solo. Elle décède à Paris le 26 juin 1961 à l'âge de 83 ans après avoir témoigné au monde de cette époque et de la postérité un grand courage, passion et ténacité.

 

Traduzione inglese
Piera Negri

Hélène Dutrieu, the first Belgian aviator, pioneer of female aviation, posthumous honor member of the Royal Aviation Society. (A. Demoulin and R. Feullien)

Hélène was born in Tournai in Belgium on 10 July 1877 and grew up in a family that was far from rich: daughter of a Belgian army officer, when she turns 14 she is forced to leave her studies after her father lost his job; she understands that she has to get busy, but she is so young and she has no real profession. However, she has a talent for cycling and so, in the wake of her brother Eugéne, who is five years younger and already a well-known cyclist, she begins to practice cycling, with tenacity and sacrifice, and to engage in races that, very timidly, are taking place opening up to women. With a slim body, Hélène is strong in spirit, stubborn and enthusiastic, so much so that she immediately demonstrates her skills and achieves great success as a cyclist and she is then included in the "Simpson Lever Chain" team. In 1895 she won the hour record in the Tournai velodrome; became a professional cyclist, in 1897 she took part in the speed championship in Ostend with excellent results, so that the journalists coined for her the title of “la flèche humaine” (the human arrow). In 1898, following heavy and hard training, Hélène won two races of great international prestige: the "Grand Prix d’Europe" and the" Twelve days of London"; she is determined and goes on despite the prejudices of the time that did not like a girl playing a "male" sport.

Her fame as indomitable cyclist spread quickly throughout Europe and even overseas, so much so that for her successes, King Leopold I reward her with the St. Andrew's Cross with diamonds. Among the many activities of that period, she becomes the testimonial of the Simpson company advertising the innovative "bicycle lever chain". In addition to sporting skills, Hélène also has the gift of entertainment, so between one competition and another she performs in the Circus Excelsior-Dutrieu, that her brother Eugéne has directed for some time, and participates in important popular events, during which she enthuses the public. with acrobatic numbers on bicycles, motorcycles and cars, proving audacity, inventiveness and physical endurance by performing real loops. In 1908 (a few years have passed since the very first flight of 1903 by the Wright brothers), Hélène was proposed to fly one of these rickety vehicles: the Damoiselle, a very light monoplane, while in the world only about twenty daring men had experienced the flight The girl is brave and on the fields of Issy-les-Moulineax she tries to fly but the aircraft crashes without even lifting off the ground. She does not give up and two years later, in the French Ardennes, with a more performing plane she gets her redemption as an aviator. It is April 9, 1910: aboard a large Sommer biplane with a 40 hp Belgian engine. she manages to remain in the air for 20 minutes and a few days later she repeats the feat bringing a passenger on board. Hélène is the first woman to perform these feats.

Returned to Belgium, sure of her abilities, on September 3, 1910, she reaches another record that makes her enter the legend of aviation. She takes part in the Blankenberge Air Festival and, without a pre-ordered flight plan, takes off from the beach heading for Ostend, then towards Bruges and back in Blankenberge: it is the first non-stop triangular flight. She carries out several aerial feats in Belgium and the Netherlands: she flies, the first woman in the world, for more than an hour; she wins the first “Coupe Fémina” (prize wanted in 1910 by Pierre Lafitte, editor of the magazine Fémina) with a 167 km non-stop flight in two and a half hours. Her commitment and these extraordinary results allow her to obtain the pilot's license, the first woman in Belgium and fourth in the world. In 1910 and 1911 she flew to the United States to show the Americans the technical innovations achieved by the European air force and she successfully participated in many local events and competitions. Aware that the male chauvinist and retrograde culture would like to fix women only in the roles of mother and wife, she defies the times and with passion and courage she continues her career. In 1911 in Florence, she wins the prestigious “King's Cup”, a speed and endurance race, beating 13 expert pilots and, for the second time, the “Coupe Fémina” with a flight of 254 km in two hours.

In 1912 the take-off experiments of the first “hydro-airplanes” begins and Hélène, in July, is called to be the first woman in the world to fly one. In August she will again be the winner in Italy on Como Lake with a Farman biplane seaplane with a 50 hp Gnome engine, beating pilots with far more powerful seaplanes. Other prestigious awards arrive: France awarded her the Knight's Cross of the Legion of Honor and Belgium made her an Officer of the Order of Leopold. When the First World War broke out in 1914, women were no longer allowed to fly airplanes, so Hélène also ended her short but exceptional career as an aviator. However, she does not remain idle, she brushes up on her skills as a car driver and enlisted in the Red Cross for the ambulance service, of which she soon became the organizer and director at the Messemi hospital. The fame of Hélène is such that in 1915 General Gallieni called her for a cycle of patriotic conferences in the United States of America, to urge her to enter the war in support of the European allies. Back to France, she runs the military hospital of Val de Grace until the end of the war. The post-war period brings her the new activity of journalist and a husband. She marries in 1922 the French journalist and deputy Pierre Montier for whom she will take care of the organization and administration of his publications. In 1946, at the end of the Second World War, after the death of her husband she returns to her old passion for aviation and for the enhancement of female flight, she established the "Hélène Dutrieu Cup", a prize of 200,000 French francs for the women aviator that each year is able to fly solo the longest non-stop flight. She dies in Paris on June 26, 1961 at the age of 83 having given witness to the world of that time and to posterity of great courage, passion and tenacity.

Ida Laura Pfeiffer />

Ester Rizzo, Barbara Appiano


Giulia Capponi

Ida Laura Reyer, è un’austriaca e di famiglia benestante, nata a Vienna il 4 ottobre 1797: è la quinta di sei fratelli, tutti maschi, figli di un agiato mercante di tessuti che muore prematuramente quando lei ha appena nove anni. Sin da piccola non segue il modello dell’eterno femminino e veste come i fratelli, forgiata anche dalla rigida educazione del padre Alois, improntata a coraggio, determinazione, sobrietà… È un’accanita lettrice di libri di viaggi e di avventura e tutto ciò che le permette di evadere dal “quotidiano” l’attira irrefrenabilmente. Gli amici di famiglia raccontano che amava correre fuori casa per veder passare, con lo sguardo sognante, le diligenze che lasciavano la città. Si innamora del suo giovane precettore, che le trasmette la passione per la geografia, ma la madre si oppone al loro amore e, costretta dalle difficoltà economiche in cui versa la famiglia, a ventidue anni accetta di sposare l’avvocato Max Anton Pfeiffer, molto più anziano di lei: è un matrimonio triste e senza amore, vissuto in ristrettezze economiche per il fallimento del marito e con il cuore gonfio di malinconia. Non resta con le mani in mano e per tirare avanti dà lezioni di piano e fa la segretaria. Scrive di quegli anni: «Solo il cielo sa cosa ho sofferto. Vi sono stati giorni in cui vi era solo pane secco per la cena dei miei figli». Vede il mare per la prima volta nel 1836, quando si reca a Trieste con un figlio, e in quel momento scatta la scintilla.

Nel 1842, diventata vedova e con i figli già grandi, all’età di quarantasette anni guarda oltre lo steccato della mediocrità e dell’ovvio. Spinta dal desiderio incontrollato della conoscenza e dotata di grandissima immaginazione e coraggio verso la scoperta dell’ignoto, part per 9 mesi e, e da sola: discende il Danubio, si addentra in Turchia e in Libano, visita la Palestina, arriva in Egitto, sosta a Malta e risale l’Italia fino a Trieste. A casa studia le lingue del Nord e poi riparte per altri sei mesi, alla volta di Scandinavia e Islanda. Diviene navigatrice, esploratrice a bordo di mezzi di fortuna, gira il mondo portando a casa testimonianze di alternative esistenze dove non il denaro o il ceto sociale, ma lo stato di natura e la collocazione dell’umanità al suo interno erano motivo di studio, come forma di miglioramento della propria esperienza da trasmettere agli altri. Sono viaggi spartani, fatti in economia, spesso avvalendosi di passaggi gratuiti: a volte indossa abiti maschili per potersi mescolare alle gente e osservare più liberamente il comportamento delle popolazioni incontrate nel suo peregrinare tra i continenti. Percorrerà 140.000 miglia marine e 20.000 miglia inglesi via terra. Il suo primo viaggio intorno al mondo dura due anni e sette mesi.

Si imbarca da Amburgo per raggiungere il Brasile e poi il Cile. Da qui poi attraversa l’Oceano Pacifico approdando a Tahiti fino ad arrivare all’isola di Ceylon. Risale attraverso l’India fino al Mar Nero e alla Grecia sbarcando a Trieste e ritornando a Vienna. Mentre si trova in Oriente scrive sul suo diario: «In quella mischia ero davvero sola e confidavo solo in Dio e nelle mie forze. Nessuna anima gentile mi si avvicinò». Il secondo giro del mondo va in senso opposto, da Ovest verso Est, e dura quattro anni: da Londra giunge a Città del Capo per poi esplorare il Borneo e avere contatti ravvicinati con i “tagliatori di teste” del Dayak, attraversa l’Oceano Pacifico in senso inverso, arriva in California e inizia a percorrere tutti gli Stati americani. È la prima donna bianca che nel 1852 si reca nella giungla di Sumatra 1852) abitata dai batak, ritenuti cannibali. In quell'occasione riesce a salvarsi dicendo ai cannibali: «La mia testa è troppo vecchia e dura per essere mangiata», e il saggio capo tribù inizia a ridere e la lascia libera. Non si risparmia nulla in fatto di pericoli, in un mondo non ancora sotto la lente d’ingrandimento di un satellite. E poi il Madagascar, Réunion e Mauritius, con la malaria che la tiene sotto assedio e la porterà a quell’ultimo viaggio da cui non c’è ritorno. Dei suoi viaggi scrive appunti a matita, con una calligrafia piccola e minuta, raccontando i suoi sette viaggi in tredici volumi di diari che diventano bestseller e vengono tradotti in sette lingue. Finalmente, viene ammessa a far parte delle Società geografiche di Berlino e Parigi, ma non di quella inglese, ostinatamente negata alle donne. I musei di Vienna custodiscono, ancora oggi, piante, insetti e farfalle che lei raccoglie ovunque e porta in patria. In una bellissima e significativa foto del 1856 Ida è seduta su un divano con un vestito dell’epoca, con il capo coperto da una cuffietta bianca di pizzo, il braccio destro su un grosso libro, accanto a lei un enorme mappamondo, i suoi occhi non guardano l’obiettivo ma altrove, lontano lontano. Muore il 27 ottobre 1858. Il cimitero centrale di Vienna ne conserva le spoglie. Nel 2018 l’Università della stessa Vienna le intitola una cattedra con borsa di studio, ma nelle vie della sua città natale manca ancora il suo nome. È Monaco di Baviera a dedicarle la sua prima strada.

La sua tomba al Cimitero centrale di Vienna

 

Traduzione francese
Giuliana Gaudenzi

Ida Laura Reyer, autrichienne et issue d’une famille aisée, est née à Vienne le 4 octobre 1797 : elle est la cinquième de six frères, tous des garçons, fils d’un riche marchand de tissus qui meurt prématurément quand elle a neuf ans à peine. Depuis toute petite elle ne suit pas le modèle de la femme traditionnelle et s’habille comme ses frères, d’après la rigide éducation de son père Alois, empreinte de courage, détermination, sobriété… Elle est une farouche lectrice de livres de voyages et d’aventure et tout ce qui lui permet de s’évader du « quotidien » l’attire énormément. Les amis de la famille racontent qu’elle aimait courir hors de la maison pour voir passer, avec un regard rêveur, les diligences qui quittaient la ville. Elle tombe amoureuse de son jeune précepteur, qui lui transmet la passion pour la géographie, mais sa mère s’oppose à leur amour et, contrainte par les difficultés financières dans lesquelles se trouve sa famille, à vingt-deux ans elle accepte d’épouser l’avocat Max Anton Pfeiffer, beaucoup plus âgé qu’elle : c’est un mariage triste et sans amour, vécu dans des contraintes économiques suite à la faillite de son mari et avec le cœur plein de mélancolie. Elle ne reste pas à rien faire et pour survivre elle donne des leçons de piano et travaille comme secrétaire. A propos de ces années-là elle écrit : « Seulement le ciel sait ce que j’ai souffert. Il y a eu des jours où il y avait seulement du pain sec pour le dîner de mes enfants ».Elle voit la mer pour la première fois en 1836, quand elle se rend à Trieste avec un de ses fils et à ce moment-là il y a eu le déclic.

En 1842, veuve et avec des enfants déjà adultes, à l’âge de quarante sept ans elle regarde au-delà des clôtures de la médiocrité et de la banalité. Poussée par le désir incontrôlable de la connaissance et douée d’une imagination fertile et de courage face à la découverte de l’inconnu, elle part seule pendant six mois : elle descend le Danube, s’aventure en Turquie et au Liban, visite la Palestine, arrive en Egypte, s’arrête à Malte et remonte l’Italie jusqu’à Trieste. Chez soi elle étudie les langues du Nord et puis elle repart pendant encore six mois, en direction de la Scandinavie et de l’Islande. Elle devient navigatrice , exploratrice à bord de moyens de fortune, elle parcourt le monde en ramenant à la maison des témoignages d’existences alternatives où ni l’argent ni le statut social, mais l’état de la nature et la place de l’humanité à l’intérieur étaient sujet d’étude, en tant que forme d’amélioration de sa propre expérience à transmettre aux autres. Ce sont des voyages spartiates, accomplis simplement, souvent en bénéficiant de passages gratuites : parfois elle revêt des habits masculins pour se mêler aux gens et observer plus librement le comportement des populations rencontrées lors de son pèlerinage à travers les continents. Elle parcourra 140.000 milles marins et 20.000 milles anglais par voie terrestre.

Son premier voyage autour du monde dure deux ans et sept mois. Elle embarque à Hambourg pour arriver au Brésil et puis au Chili. D’ici, elle traverse l’Océan Pacifique en arrivant à Tahiti et puis jusqu’à l’île de Ceylon. Elle remonte à travers l’Inde jusqu’à la Mer Noire et à la Grèce en débarquant à Trieste et en retournant à Vienne. Lors de son séjour en Orient elle écrit sur son journal : « Dans cette mêlée j’étais vraiment seule et je confiais seulement en Dieu et en mes forces. Aucune bonne âme ne s’est approchée de moi ». Son deuxième tour du monde est en sens inverse, de l’Ouest à l’Est et dure quatre ans : de Londres elle arrive à Cape Town et puis elle explore le Bornéo et a des contacts rapprochés avec les « coupeurs de têtes » du Dayak, traverse l’Océan Pacifique en sens inverse, arrive en Californie et commence à parcourir tous les Etats américains. Elle est la première femme blanche qui en 1852 se rend dans la jungle de Sumatra, habitée par les batak, réputés cannibales. A cette occasion elle réussit à survivre en disant aux cannibales : « Ma tête est trop vieille et dure pour être mangée » et le sage chef de tribu commence à rire et la laisse libre. Elle ne recule pas face aux dangers, dans un monde qui n’est pas encore sous la loupe d’un satellite. Et puis le Madagascar, la Réunion et Ile Maurice, avec le paludisme qui la hante et qui l’amènera à son dernier voyage sans retour. Elle prend des notes au crayon de ses voyages, avec une écriture menue, en racontant ses sept voyages en treize volumes de journal qui deviennent des bestsellers et qui sont traduits en sept langues. Elle est, enfin, admise à faire part des Sociétés géographiques de Berlin et de Paris, mais pas de l’anglaise, obstinément fermée aux femmes. Les musées de Vienne conservent, aujourd’hui encore, des plantes, des insectes et des papillons qu’elle collecte partout et ramène dans son pays. Dans une très belle photo de 1856 Ida est assise sur un sofa avec une robe de l’époque, un bonnet en dentelle blanche sur la tête, le bras droit sur un gros livre, à côté d’elle un grand globe, ses yeux ne regardent pas l’objectif mais ailleurs, très loin. Elle meurt le 27 octobre 1858. Sa tombe se trouve dans le cimetière central de Vienne. E 2018 l’Université de Vienne a donné son nom à une chaire avec bourse, mais dans les rues de sa ville natale son nom n’est pas présent. C’est Munich de Bavière qui lui dédie sa première rue.

La sua tomba al Cimitero centrale di Vienna

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

Ida Laura Reyer, was an Austrian from a prosperous family, born in Vienna on 4 October 1797. She was the fifth of six children, all the others males. Her father was a wealthy textile merchant who died prematurely when she was just nine years old. From an early age she didn’t follow the eternal feminine model and dressed like her brothers. She was also forged by the strict education of her father Alois, and noted for her courage, determination, and sobriety. She became an avid reader of travel and adventure books, and was deeply attracted by anything that allowed her to escape from “everyday”, “normal”, life. Friends of the family say that she loved running out of the house to watch, with a dreamy stare, stagecoaches leaving the city. She fell in love with her young tutor, who transmitted to her his passion for geography. But her mother rejected their love and, forced by the economic difficulties in which the family found itself, at twenty-two she agreed to marry the lawyer Max Anton Pfeiffer, very much older than her. It was a sad and loveless marriage, lived in financial straits due to the failures of her husband. Her heart was full of sadness. She didn't sit idle, but gave piano lessons and worked as a secretary to try to get by financially. She wrote of those years, “Only heaven knows what I suffered. There were days when there was only dry bread for my children's supper.” She saw the sea for the first time in 1836, when she went to Trieste with a son, and in that moment a spark exploded in her soul.

In 1842, at 47 years old, having become a widow and with her children already grown, she began look beyond the bounds of mediocrity and the obvious. Driven by an uncontrollable desire for knowledge of the unknown, and endowed with great imagination and courage, she left, alone, for a nine-month trip, down the Danube and on to Turkey, Lebanon, Palestine, and Egypt, with stops in Malta and Italy on the way back up to Trieste. When she returned home, she studied the languages ​​of the North and then left for another six months, to Scandinavia and Iceland. She became a navigator, and an explorer aboard makeshift vehicles. She traveled the world, bringing home the experience of alternative existences where what mattered was not money or social class, but the state of nature and the place of humanity within it. These were the objects of her studies, and she wanted to pass her experiences on to others. They were spartan journeys, made on a budget, often making use of free passes. She sometimes wore men's clothes to be able to mingle with people and observe more freely the behavior of the populations she met in her wanderings between continents. She traveled some 140,000 nautical miles at sea and another 20,000 miles by land.

Her first trip around the world lasted two years and seven months. She embarked from Hamburg to reach Brazil and then Chile. From there she then crossed the Pacific Ocean, landing in Tahiti, continuing on to the island of Ceylon (now Sri Lanka). She then continued through India, to the Black Sea and Greece, disembarking in Trieste and returning to Vienna. While she was in the East she wrote in her diary, “In that struggle I was really alone and I trusted only in God and in my strength. No kind soul approached me.” Her second world tour went in the opposite direction, from West to East, and lasted four years. From London she first went to Cape Town, then explored Borneo and had close contact with the Dayak "head hunters", crossed the Pacific Ocean to California and began traveling through all the American states. In 1852, she was the first white woman to explore the jungles of Sumatra, inhabited by the Bataks, considered cannibals. On that occasion she reportedly managed to save herself by telling the cannibals, "My head is too old and tough to eat." A wise chieftain laughed with her and set her free. She spared herself nothing in terms of dangers, in a world not yet under the magnifying glass of a satellite. She then spent time in Madagascar, Reunion and Mauritius, acquiring the malaria that kept her under siege, and finally led her to that last journey from which there is no return. She wrote the notes about her voyages in pencil, in a minute handwriting, recounting her seven journeys in thirteen volumes of diaries that became bestsellers and were translated into seven languages. Finally, she was invited to join the Geographical Societies of Berlin and Paris, but not the English one, which was still stubbornly closed to women. The museums of Vienna still keep plants, insects and butterflies that she collected everywhere and carried home. In a beautiful and significant 1856 photo, Ida is sitting on a sofa in a period dress, with her head covered by a white lace cap, her right arm on a big book, with, next to her, a huge globe. Her eyes do not look at the camera lens but elsewhere, far away. She died on October 27, 1858. Her remains are in central cemetery of Vienna. In 2018 the University of Vienna named a teaching chair for her, and a scholarship, but her name is still missing from the streets of her hometown. It was Munich that dedicated a street to her.

La sua tomba al Cimitero centrale di Vienna

 

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