Žemaitė
Sara Balzerano



Rosalina Collu

 

Più di Prometeo poté la scrittura.
Più di qualunque fiamma, scintilla, tizzone, fu la parola a salvare l’umanità.
Con il fuoco si riuscì a cuocere la carne; con la lingua si poterono tramandare le ricette.

Esse – la scrittura, la parola, la lingua - sono rivoluzione e resistenza. Sono muro e breccia nella battaglia, identità e cambiamento, come una vecchia bandiera tutta da reinventare. Spesso, sono tutto ciò che le donne e gli uomini hanno a disposizione per conoscere e riconoscere sé stesse e sé stessi, nella lotta strenua e atavica che contrappone supremazia e diritto di esistere. Sulla scacchiera infame, dove il bianco e il nero sono luce e oblio, fare letteratura significa prendere una posizione netta, schierarsi, vestirsi da partigiane e partigiani. Questo, tutto questo, doveva esser chiaro anche a Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė, Žemaitė come i Lituani e il mondo intero la conosce. Žemaitė racconta la sua terra già dal nome, che nel suono e nella grafia riecheggia di Samogizia, di verdi prati e di folti boschi di conifere, del profondo lago Plateliai e del placido fiume Nemunas. Il fazzoletto, che sempre veste e che le contorna il volto, parla anch’esso della patria alla quale ella costruisce un perimetro di carta e inchiostro che la narra e la fa rimanere, ferma e orgogliosa. Quando Žemaitė nasce, nel 1845, la Lituania non esiste più da ormai cinquant’anni. Unita alla Polonia nella Rzeczpospolita - dinasticamente a partire dal 1385 e politicamente dal 1569 - è assorbita insieme a quest’ultima dall’impero russo (e dalla Prussia e dall’Austria) dopo la cosiddetta “terza spartizione” del 1795. E, da questo momento in poi, sarà talmente fitta e martellante la campagna di russificazione che la parola scritta diventa merce di contrabbando preziosissima. In realtà, Žemaitė camminerà sul ciglio linguistico, culturale e identitario sempre, e lo farà vivendo quasi costantemente in un ambiente rurale, in una di quelle bolle contadine dove niente pare mai modificarsi. Ma se la terra divelta è uguale a sé stessa nei solchi, nelle zolle e nei germogli, le tracce lasciate dal nero aratro e dai neri semi sul bianco campo porteranno qualcosa di mai visto prima.

La sua famiglia appartiene alla nobiltà decaduta e, nonostante il proprio status alto-borghese non esista più ormai da tempo, impone comunque alla figlia l’utilizzo della sola lingua polacca a evidenziare e rimarcare una condizione sociale che – però – è ormai finita. Eppure Žemaitė, che cresce con i figli dei contadini nel maniero dei conti Pliateris Bukantė – dove suo padre lavora come amministratore e sua madre come governante - masticherà tra denti e lingua il dialetto della Samogizia più di qualsiasi altro idioma, e sarà da lì, proprio da lì, che aprirà e si aprirà il varco sul mondo della letteratura. Frequenta la servitù, ne comprende le difficoltà e la vita di stenti, si schiererà dalla loro parte e sarà di loro, soprattutto di loro, che parlerà nelle sue opere. Perché ella è più di una scrittrice, vuol essere più di questo, vuol essere la forbice che trancia e illumina e fa comprendere. Nel 1863, sostiene convintamente la grande rivolta che i territori della vecchia Rzeczpospolita intraprendono contro la Russia zarista, col fine di restaurare l’antico regno e di strapparsi dal gioco moscovita, e ne sposa un partecipante attivo, Laurynas Žymantas, conosciuto due anni dopo nella tenuta di Džiuginėnai. E qui entrambi lavorano, lei come domestica e lui come guardaboschi, finché non decidono - anche a seguito della mobilità sociale venutasi a creare dopo l’abolizione della servitù della gleba da parte di Alessandro II Romanov nel 1861 - di trasferirsi e di affittare un terreno nei pressi di Kolainiai, dove rimangono per quasi vent’anni, provando a crescere quattro figlie e due figli e a strappare un qualcosa che li allontanasse, almeno un poco, dalla miseria. Nel 1883, la famiglia decide di spostarsi a Ušnėnai, vicino al confine con la Prussia orientale, regione nella quale si è creata una vera e propria enclave di resistenza. Dopo la rivolta del 1863, infatti, e a partire dal 1865, la Russia ha messo al bando tutti i testi di carattere latino – alfabeto usato nelle lingue polacca e lituana – imponendo così una supremazia atta a soffocare l’anima più intima delle terre conquistate. Lo zar vuole uniformare le vecchie popolazioni della Rzeczpospolita all’interno dell’apparato culturale e identitario russo e, per far ciò, ha bisogno, tra le altre cose, di allontanare quanto più possibile l’influenza che la Chiesa Cattolica opera in questi territori, anche alla luce della secolare diatriba cultuale e autoritaria tra Roma e Mosca. Essi, però, non mollano, non cedono, non smettono di parlare, di scrivere, di fare letteratura. Si crea così una rete strettissima di partigianato che ha, nella carta stampata, la sua arma più temibile. E in questo angolo di confine, Žemaitė incontra Povilas Višinskis, attivista politico e intellettuale, un contrabbandiere di libri e cultura, che la introduce nella resistenza lituana.


Višinskis convince Žemaitė a scrivere, ed ella racconta e narra ciò che conosce, la terra e i contadini di Samogizia, quel mondo oscuro che è anche il suo, che le ha dato la vita, le parole, che l’ha formata in ogni ruga di volto, che con lei ha dialogato, in un costante scambio che ha permesso a entrambe di esistere. La sua prima opera, Rudens Vakaras, che ella ha composto quando era già a Ušnėnai, viene pubblicata nel 1895 sul Tikrasis Lietuvos ūkininkų kalendorius 1895 metams, il Calendario reale degli agricoltori lituani per il 1895. E su suggerimento di Jonas Jablonskis, il grande codificatore e stabilizzatore della lingua lituana, Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė diventa Žemaitė: è a lui che Višinskis la presenta. Da questo momento in poi, la penna di Samogizia lavorerà incessantemente. Durante tutta la sua carriera, scriverà circa 354 racconti brevi, una dozzina di opere teatrali – tra cui Trys Mylimos , Piršlybos, Mūsų gerasis, Valsčiaus sūde - romanzi, saggi e articoli. Pare quasi che le parole non possano fermarsi, come non può fermarsi la lotta della Lituana per il diritto all’esistenza. Žemaitė racconta la realtà che conosce e che vive, quella povera dei contadini, quella crudele, ingiusta e sofferta delle donne, vittime ancor più vittime di un mondo schiacciato da soprusi e prepotenze. I dettagli che narra sono prosaici; la lingua che usa è ciancicata, inciampata, dialettale. Tutto è vero, nei suoi scritti. Tutto è reale. I nobili – che fino a quel momento erano stati i protagonisti della letteratura – vengono chiusi e inamidati nei loro salotti. Non serve immaginazione o fantasia. Serve la vita. La corrente realistica lituana nasce qui, con Žemaitė, e con il suo bisogno di dare riscatto, raccontando ciò che è: perché la parola fa esistere. E quello che esiste può essere cambiato, migliorato o abbattuto. Per esso si può combattere, vincere o soccombere. Ciò che non si nomina, invece, è destinato all’oblio ben prima che quest’ultimo arrivi con la fine. Tra le sue opere più celebri, ci sono sicuramente i racconti brevi e, tra essi, degni di nota sono Topilys, Petras Kurmelis, Sučiuptas velnias (Diavolo catturato), Sutkai, Gera galva (Buona testa) e, soprattutto, Marti (la Nuora). In quest’ultimo racconto, il punto di vista, il sentire, lo sguardo, tutto è femminile. La protagonista, Katre, è obbligata a sposare un uomo dedito all’alcool, pigro, aggressivo e rabbioso. La sola cosa che quest’individuo può portare di buono è una tenuta, ma tanto basta ai genitori di Katre per costringere la figlia al matrimonio. La giovane sposa proverà – dopo le nozze - a influenzare il marito, a cambiarlo, ma dovrà affrontare anche la violenza, il sadismo e i maltrattamenti della suocera. Si ammalerà gravemente, nessuno avrà la premura di curarla e morirà, nella solitudine di questa famiglia così piena di dolore e disperazione. Katre è una donna brillante, una donna che proverà a lottare per riscattare sé stessa dalla peggiore situazione possibile - la privazione del diritto di scegliere – ma che sarà costretta a soccombere alla miseria umana e a uno status quo che pare ineluttabile.




Così come il suo personaggio, anche Žemaitė si batterà per le donne, perché esse prendano coscienza dei propri diritti, perché abbiano la consapevolezza di potersi unire e opporsi a tutto ciò che le relega, le zittisce, le soffoca. Nel 1907 partecipa al primo Congresso delle donne lituane a Kaunas e, nel 1908, al Congresso delle donne russe a Pietroburgo. E’ ormai una personalità di rilievo del panorama culturale dell’epoca e il suo punto di vista viene ricercato e ascoltato. Scrive su diversi giornali e lavora, a partire dal 1912, nella redazione del Lietuvos Žinios, divenendone editrice. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, decide di traferirsi, prima in Russia e poi negli Stati Uniti, dove da anni viveva suo figlio Antanas e dove tiene discorsi, scrive per la stampa locale e raccoglie fondi per le vittime lituane del conflitto. Nel 1921 rientra a Marijampolėje e qui morirà, nello stesso anno, per una polmonite. Žemaitė, Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė, è annoverata nei classici della letteratura lituana e, proprio, in questi ultimi anni, sta vivendo una vera e propria rinascita, grazie alle nuove generazioni che la stanno riscoprendo. Ella, che non ha mai parlato correttamente il lituano, ma che ha conosciuto il dialetto della Samogizia, è stata la madre della letteratura della sua terra, unica donna ad apparire sulla litas. Tutta la sua esistenza, che prima sembrava pencolare nella bruma claustrofobica del mondo contadino, pare cominciare insieme alle sue opere. Žemaitė è scrittrice perché inizia a vivere solo in quanto tale, come se tutto quello che le è capitato fosse servito ad arrivare a quella prima parola. È scrittrice perché che sa che per esistere, uomini, donne, nazioni, popoli, hanno bisogno di qualcuno che parli di loro. È scrittrice perché conosce l’impatto rivoluzionario di una penna e ne usa tutto il clangore per portare luce laddove prima vi era solo un pesante e soffocante buio imposto. È scrittrice, Žemaitė, e partigiana e fondatrice. Perché ha tessuto, in calce alla storia, l'essenza della terra che ella ha salvato dall'oblio.

 

Traduzione francese
Giuliana Gaudenzi

L’écriture a été plus efficace que Prométhée.
Mieux que toute flamme, étincelle, tison, c’est la parole qui a sauvé l’humanité.
Avec le feu on a réussi à cuire la viande ; avec la langue on a pu transmettre les recettes.

Elles – l’écriture, les mots, la langue – sont révolution et résistance. Elles sont mur et brèche dans la bataille, identité et changement, comme un vieux drapeau tout à réinventer. Souvent, elles sont tout ce que les hommes et les femmes ont disponibles pour connaitre (accento circonflesso sulla i) et reconnaitre(idem come sopra) soi même, dans la lutte farouche et atavique qui oppose suprématie et droit à exister. Sur l’infâme échiquier, où le blanc et le noir sont lumière et oubli, faire de la littérature signifie prendre une position nette, se rallier, s’habiller en partisan et en partisane. Cela, tout cela, devait être clair à Julija Beniuseviciute Zymantiene, Zemaite comme les Lituaniens et le monde entier la connaissent. Zemaite raconte sa terre déjà avec son nom qui, par le son et la graphie, fait écho à Samogizia, aux prés verts et aux épaisses forets (accento circonflesso sulla e) de conifères, du profond lac Plateliai et du paisible fleuve Nemunas. Le foulard, qu’elle porte toujours et qui encadre son visage, parle lui aussi de la patrie à laquelle elle construit un périmètre de papier et d’encre qui la raconte et la fait demeurer, ferme et orgueilleuse. Lors de la naissance de Zemaite, en 1845, la Lituanie n’existe plus depuis cinquante ans. Unie à la Pologne dans la Rzeczpospolita – comme dynastie à partir de 1385 et politiquement depuis 1569 – elle a été absorbée avec cette dernière par l’empire russe (et par la Prusse et par l’Autriche) après la dite « troisième division » en 1795. A partir de ce moment, la campagne de russification sera tellement dense et battante au point que la parole écrite devient marchandise de contrebande très précieuse. En réalité, Zemaite empruntera toujours le chemin linguistique, culturel et identitaire et le fera en vivant presque en permanence dans un milieu rural, dans une de ces boules fermières où rien ne semble jamais changer. Mais si la terre retournée est égale à elle-même dans les sillons, dans les mottes et dans les bourgeons, les traces laissées par la noire charrue et par les noires semences sur les blancs champs engendreront quelque chose jamais vue auparavant.

Sa famille appartient à la noblesse déchue et, malgré son statut haut-bourgeois n’existe plus depuis longtemps, impose de toute façon à sa fille d’utiliser seulement la langue polonaise, pour marquer un statut social qui, pourtant, est déjà terminé. Cependant Zemaite, qui grandit avec les enfants des fermiers dans le manoir des comtes Pliateris Bukante – où son père travaille en tant qu’administrateur et sa mère en tant que gouvernante, parlera le dialecte de la Samogizia plus que tout autre langue et ce sera à partir de là, justement de là, qu’elle ouvrira et se frayera le chemin vers le monde littéraire. Elle fréquente les domestiques, comprend leurs difficultés et leur vie de privations, se rangera de leur coté (accento circonflesso sulla o) et ce sera d’eux, surtout d’eux, qu’elle parlera dans ses œuvres. Parce qu’elle est plus qu’une écrivaine, elle veut être plus que cela, elle veut être les ciseaux qui tranchent, éclairent et font comprendre. En 1863, elle soutient résolument la grande révolte que les territoires de l’ancienne Rzeczpospolita entreprennent contre la Russie tsariste, afin de restaurer l’ancien royaume et de s’arracher du joug moscovite et elle épouse un actif participant, Laurynas Zymantas, connu deux ans après dans le domaine de Dziuginenai. Ici tous les deux travaillent, elle comme domestique et lui comme bucheron (accento circonflesso sulla u), jusqu’à ce qu’ils décident – à la suite aussi de la mobilité sociale qui s’était créée après l’abolition du servage de la part d’Alessandro II Romanov en 1861 – de déménager et de prendre en location un terrain près de Kolainiai, où ils restent pendant presque vingt ans, essayant d’élever quatre filles et deux fils et d’arracher quelque chose qui puisse les éloigner, un peu au moins, de la misère. En 1883 la famille décide de déménager à Usnenai, près de la frontière avec la Prusse orientale, région dans laquelle s’est créée une véritable enclave de résistance. Après la révolte de 1863, en effet, et à partir de 1865, la Russie a banni tous les textes de caractère latin – alphabet utilisé dans les langues polonaise et lituanienne – imposant ainsi une suprématie susceptible d’étouffer l’âme la plus intime des terres conquises. Le tsar veut uniformiser les anciennes populations de la Rzeczpospolita à l’intérieur de l’apparat culturel et identitaire russe et, pour faire cela, il a besoin, entre autre, d’éloigner autant que possible l’influence que l’Eglise Catholique opère dans ces territoires, aussi au vu de la séculaire diatribe culturelle et autoritaire entre Rome et Moscou. Mais eux ne cèdent pas, ne renoncent pas, n’arrêtent pas de parler, d’écrire, de faire littérature. Ainsi, se constitue un réseau très étroit d’esprit partisan qui a, dans la presse écrite, son arme la plus redoutable. Et dans ce coin de frontière, Zemaite rencontre Povilas Visinskis, activiste politique et intellectuel, un contrebandier de livres et de culture, qui l’introduit dans la résistance lituanienne.




Visinskis convainc Zemaite à écrire et elle raconte ce qu’elle connait (accento circonflesso sulla i), la terre et les paysans de Samogizia, ce monde sombre qui est aussi le sien, qui lui a donné la vie, les mots, qui l’a formée dans chaque ride dans son visage, qui a dialogué avec elle, dans un échange continu qui a permis à tous les deux d’exister. Sa première œuvre, « Rudens Vakaras », qu’elle a écrit quand elle était déjà à Usnenai, est publiée en 1895 dans le Tikrasis Lietuvos ukininku kalendorius 1895 metams, le Calendrier réel des agriculteurs lituaniens pour 1895. Et après suggestion de Jonas Jablonskis, le grand codeur et stabilisateur de la langue lituanienne, Julija Beniuseviciute Zymantiene devient Zemaite : c’est à lui que Visinkis la présente. Dorénavant, la plume de Samogizia travaillera sans cesse. Pendant toute sa carrière, elle écrira environ 354 nouvelles, une douzaine de pièces de théâtre, - entre autres, Trys Mylimos, Pirslybos, Musu gerasis, Valsciaus sude – des romans, des essais et des articles. Il semble presque que les paroles ne puissent pas s’arrêter, comme ne peut pas s’arrêter la lutte de la Lituanie pour son droit à exister. Zemaite raconte la réalité qu’elle connait (accento circonflesso sulla i) et qu’elle vit, celle pauvre des paysans, celle cruelle, injuste et soufferte des femmes, victimes, victimes davantage d’un monde écrasé par les abus et les intimidations. Les détails qu’elle relate sont prosaïques ; le langage qu’elle utilise est imparfait, dialectal. Tout est vrai, dans ses écrits. Tout est réel. Les nobles – qui jusqu’à ce moment-là avaient été protagonistes de la littérature – sont fermés et amidonnés dans leurs salons. Il n’y a pas besoin d’imagination ou de fantaisie. La vie suffit. Le courant réaliste lituanien nait ici, avec Zemaite, et avec son besoin de donner rédemption, en racontant ce qui est : parce-que la parole fait exister. Et ce qui existe peut être changé, amélioré ou abattu. Pour cela on peut combattre, gagner ou succomber. Ce qui n’est pas nommé, par contre, est destiné à l’oubli bien avant que ce dernier arrive avec la fin. Parmi ses œuvres les plus célèbres, il y a sans aucun doute les nouvelles et, parmi elles, sont notables Topilys, Petras Kurmelis, Suciuptas velnias (Diable capturé), Sutkai, Gera galva (Bonne tête) et, surtout, Marti (La belle-fille). Dans cette dernière nouvelle, le point de vue, le sentir, le regard, tout est féminin. La protagoniste, Katre, est obligée à épouser un homme alcolique, paresseux, agressif et enragé. La seule bonne chose que cet homme peut apporter est un domaine, mais cela suffit aux parents de Katre pour forcer leur fille au mariage. La jeune épouse essaiera – après les noces – à influer sur son mari, à le changer, mais elle devra aussi faire face à la violence, au sadisme et à la maltraitance de sa belle-mère. Elle tombera gravement malade, personne ne veillera à la soigner et elle mourra, dans la solitude de cette famille si pleine de douleur et de désespoir. Katre est une femme brillante, une femme qui cherchera à lutter pour se racheter de la pire situation possible – la privation du droit de choisir – mais qui sera forcée à succomber à la misère humaine et à un status quo qui parait (accento circonflesso sulla i) inéluctable.

Comme son personnage, Zemaite aussi se battra pour les femmes, pour qu’elles prennent conscience de leurs propres droits, pour qu’elles aient la conscience de pouvoir s’unir et s’opposer à tout ce qui les relègue, les fait taire, les étouffe. En 1907 elle participe au premier Congrès des femmes lituaniennes à Kaunas et, en 1908, au Congrès des femmes russes à Pétersbourg. Elle est désormais une importante personnalité dans le panorama culturel de l’époque et son point de vue est recherché et écouté. Elle écrit dans différents journaux et travaille, à partir de 1912, pour la rédaction du Lietuvos Zinios, et elle en dévient éditrice. Lors du déclenchement de la Première Guerre Mondiale, elle décide de déménager, en Russie d’abord, aux Etats Unis ensuite, où son fils Antanas vivait depuis des années et elle fait des discours, écrit pour la presse locale et recueille des fonds pour les victimes lituaniennes du conflit. En 1921 rentre à Marijampoleje et là elle mourra, la même année, d’une pneumonie. Zemaite, Julija Beniuseviciute Zymantiene, est comptée parmi les classiques de la littérature lituanienne et, justement, ces dernières années, elle est en train de vivre une véritable renaissance, grâce aux nouvelles générations qui à présent la redécouvrent. Elle, qui n’a jamais parlé couramment le lituanien, mais qui a connu le dialecte de la Samogizia, a été la mère de la littérature de sa terre, la seule femme à apparaitre (accento circonflesso sulla i) dans la litas. Toute son existence, qui avant semblait pencher vers la brume claustrophobe du milieu paysan, semble commencer avec ses œuvres. Zemaite est écrivaine parce qu’elle commence à vivre seulement en tant que telle, comme si tout ce qui lui est arrivé avait servi à arriver à ce premier mot. Elle est écrivaine parce qu’elle sait que pour exister, hommes, femmes, pays, peuples, ont besoin de quelqu’un qui parle d’eux. Elle est écrivaine parce qu’elle connait (accento circonflesso sulla i) l’impact révolutionnaire d’une plume et elle en utilise tout le tapage pour porter la lumière là où, avant, il y avait seulement une lourde et étouffante obscurité imposée. Elle est écrivaine, Zemaite, et partisane et fondatrice. Parce qu’elle a tissé, en bas de l’histoire, l’essence de la terre qu’elle a sauvé de l’oubli.

 

Traduzione inglese
Francesca Campanelli

Writing can do more than Prometheus.
More than any flame, spark, or ember, it was the word that saved humanity.
With fire, it was possible to cook, but with language, the recipes can be handed down.

Writing, speech, and language - are revolution and resistance. They are walls, and a breach in the battle, identity, and change, like an old flag completely reinvented. Often, they are all that women and men have available to know and recognize themselves, in the strenuous and atavistic struggle that decides supremacy and the right to exist. As on the infamous chessboard, where white and black are light and oblivion, making literature means taking a clear position, taking sides, dressing in the garb of partisans. This, all this, had to be clear also to Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė - Žemaitė as Lithuanians, and the whole world, know her. Žemaitė already speaks about her land with her name, which in its sound and spelling reflect Samogizia, its green meadows and thick coniferous forests, its deep Plateliai lake and the placid Nemunas river. The headscarf, which she always wore and which surrounded her face, also spoke of the homeland around which she built a bulwark of paper and ink that tells its story and makes it strong and proud. When Žemaitė was born in 1845, Lithuania had no longer existed for fifty years. United with Poland in the Rzeczpospolita – a dynasty starting from 1385 and a political entity since 1569 - it was entirely absorbed by the Russian Empire (and later by Prussia and Austria) after the so-called "third partition" of 1795. And, from that moment on, the Russification campaign was so hammering and intense that the written word became a very precious contraband commodity. In reality, Žemaitė always walked on the cutting edge of language, culture and identity, doing so by living almost constantly in a rural environment, in one of those peasant bubbles where nothing ever seems to change. But if uprooted earth is equal to that in the furrows, the clods and the budding life, the traces left by the black plow and the black seeds on the white field, bring something never seen before.

Her family belonged to the fallen nobility and, although her high-bourgeois status had no longer existed for some time, it still required its daughter to use only the Polish language to highlight and emphasize a social condition which - however - was now over. Yet Žemaitė, who grew up with the children of peasants in the manor of the counts Pliateris Bukantė - where her father worked as an administrator and her mother as a housekeeper - chewed the Samogitian dialect between teeth and tongue more than any other language, and it was from there, right from there, that the way opened to the world of literature. She consorted with the servants, she understood their difficulties and their life of hardship, she grew to take their side and it was of them, especially of them, that she spoke in her later works. Because she was more than a writer, she wanted to be more than that, she wanted to be the scissors that cut and allow light in, and let us understand. In 1863, she strongly supported the great revolt that the territories of the old Rzeczpospolita waged against Tsarist Russia, with the aim of restoring the ancient kingdom and breaking away from Moscow She married an active participant, Laurynas Žymantas, whom she met two years before at the Džiuginėnai estate. There they both worked, she as a maid and he as a forester, until they decided - also as a result of the social mobility created after the abolition of serfdom by Alexander II Romanov in 1861 - to move and rent land - near Kolainiai, where they remained for almost twenty years, trying to raise four daughters and two sons, and to snatch something that would distance them, at least a little, from misery. In 1883, the family decided to move to Ušnėnai, near the border with East Prussia, a region in which a real enclave of resistance had been created. After the revolt of 1863, in fact, and starting from 1865, Russia banned all Latin texts - the alphabet used in the Polish and Lithuanian languages ​​- thus imposing a supremacy capable of suffocating the innermost soul of the conquered lands. The Tsar wanted to standardize the old populations of the Rzeczpospolita within the Russian cultural and identity apparatus and, to do this, he needed, among other things, to remove as much as possible the influence that the Catholic Church exerted in those territories, in the light of the centuries-old conflict of culture and authority between Rome and Moscow. However, they did not give up, they did not stop talking, writing, making literature. In this way, a very close network of arts was created which had its most feared weapon in the printed word. And in that corner of the border, Žemaitė met Povilas Višinskis, a political and intellectual activist, a smuggler of books and culture, who introduced her to the Lithuanian resistance.

Višinskis convinced Žemaitė to write, and she told the story of what she knew, the land and the peasants of Samogitia, that dark world which was also hers, which gave her life, and words, and which formed every wrinkle in her face, which conversed with her, in a constant exchange that allowed both of them to exist. Her first work, Rudens Vakaras, which she composed when she was already in Ušnėnai, was published in 1895 in the Tikrasis Lietuvos ūkininkų kalendorius 1895 metams, the Royal Calendar for Lithuanian Farmers for 1895. And at the suggestion of Jonas Jablonskis, the great recorder and stabilizer of the Lithuanian language, Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė became Žemaitė: it is to him that Višinskis introduced her. From this moment on, her Samogitian pen worked incessantly. Throughout her career, she wrote some 354 short stories, a dozen plays - including Trys Mylimos, Piršlybos, Mūsų gerasis, Valsčiaus sūde, and novels, essays and articles. It almost seems that the words could not stop, just as the Lithuanian's struggle for the right to exist could not stop. Žemaitė told of the reality that she knew and that she lived, the poor one of the peasants, the cruel, unjust and suffering one of women, even more victimized in a world crushed by oppression and bullying. The details she recounts are prosaic; the language she uses is jabbered, jumbled, dialect. Everything is true in her writings. Everything is real. The nobles - who until then had been the protagonists of literature - were closed and starched in their living rooms. No imagination or fantasy needed. She serves life. The Lithuanian realistic current was born here, with Žemaitė, and with its need for liberation, telling its real story, because the words brought it to existence. And what exists can be changed, improved or demolished. For it one can fight, win or succumb. What is not named, however, is doomed to oblivion well before oblivion comes. Among her most famous works, there are certainly short stories and, among them, noteworthy are Topilys, Petras Kurmelis, Sučiuptas velnias (Captured Devil), Sutkai, Gera galva (Good head) and, above all, Marti (the Daughter-in-law). In this last story, the point of view, the feeling, the look, everything, is feminine. The protagonist, Katre, is forced to marry a man addicted to alcohol, lazy, aggressive and angry. The only thing that this individual brings is an estate, but that is enough for Katre's parents to force their daughter into marriage. The young bride will try - after the wedding - to influence her husband, to change him, but she will also have to face the violence, sadism and mistreatment of her mother-in-law. She will become seriously ill, no one will take the trouble to cure her and she will die, in the isolation of this family so full of pain and despair. Katre is a brilliant woman, a woman who will try to fight to redeem herself from the worst possible situation - the deprivation of the right to choose - but who will be forced to succumb to human misery and to a status quo that seems inescapable.

Like her character, Žemaitė also fought for women, so that they would become aware of their rights, so that they were aware of being able to unite and oppose everything that relegates them, silences them, suffocates them. In 1907 she participated in the first Lithuanian Women's Congress in Kaunas and, in 1908, in the Russian Women's Congress in Petersburg. By then she was already a prominent personality on the cultural scene of the time and her point of view was sought and listened to. She wrote for various newspapers and worked, after 1912, in the editorial office of Lietuvos Žinios, becoming its publisher. With the outbreak of the First World War, she decided to move, first to Russia and then to the United States, where her son Antanas lived for years, and where she gave speeches, wrote for the local press and raised funds for the Lithuanian victims of the conflict. In 1921 she returned to Marijampolėje and there she died, in the same year, of pneumonia. Žemaitė, Julija Beniuševičiūtė Žýmantienė, is counted among the classical figures of Lithuanian literature and, in recent years, she is experiencing a real rebirth, thanks to the new generations who are rediscovering her. She, who never spoke Lithuanian correctly but who knew the Samogitian dialect, was the mother of the literature of her land, the only woman to appear on the lists. Her whole existence, which at first seemed suspended in the claustrophobic mist of the peasant world, seemed to begin together with her works. Žemaitė was a writer because she began to live only as one, as if everything that had happened to her had served to get her to that first word. She was a writer because she knew that in order to exist, men, women, nations, peoples, need someone who speaks of them. She is a writer because she knew the revolutionary impact of the pen, and uses all of its power to bring light where there was before only a heavy, imposed and suffocating darkness. She was a writer, Žemaitė, and a partisan and founder. Because she wove, at the foundation of her stories, the essence of the earth that she saved from oblivion.

Michaelina Wautier
Luisa Nattero



Silvia dell'Orco

 

Visitatori e visitatrici in attesa dei treni alla stazione di Anversa nell’estate del 2018 potevano passare il tempo tentando di collocare al posto giusto qualche tessera di un grande puzzle raffigurante Il trionfo di Bacco. Il puzzle riproduceva una tela di grande formato (270 x 354 cm), in passato conservata nei depositi del Kunsthistorisches Museum di Vienna, nel settore dei dipinti fiamminghi “di secondaria importanza”.

Trionfo di Bacco

È stato osservando nel 1993 quell’opera e chiedendo informazioni su di essa al conservatore del Museo che la storica dell’arte belga Katlijne van der Stighelen ha iniziato ad interessarsi alla sua autrice, identificata poi come Michaelina Wautier. Venticinque anni dopo, la mostra allestita grazie alla collaborazione della Rubenshuis e del Mas (Museum an der Stroom) ad Anversa – di cui il puzzle in stazione era uno degli spot pubblicitari – è stata contemporaneamente un approdo delle ricerche fino ad allora effettuate ed un ulteriore punto di partenza per altre tessere che vadano a migliorare la nostra ancora lacunosa conoscenza di una artista per molti versi straordinaria. Già nome e cognome appaiono incerti; registrata in alcuni inventari come “Magdalena” o “Maria Magdalena”, la pittrice si firma invece come Michaelina, evidentemente da lei preferito. Anche la grafia del cognome non è sempre identica; se lei si segna come Wautier, in stampe o inventari è citata pure come Woutier. Nata nel 1604 a Mons, nei Paesi Bassi del Sud, dal secondo matrimonio di Charles Wautier, appartenente alla piccola nobiltà locale e già “paggio” del conte di Fuentes, comandante dell’Armata spagnola, Michaelina crebbe come unica figlia femmina (due figlie di primo letto dovettero morire giovani) tra ben sette maschi sopravvissuti alla prima infanzia. La famiglia abitava, come quella dello zio materno, in Rue d’Havré, vicino alla Grande Place. Se la famiglia citata degli zii era sicuramente di ricchi mercanti, il padre di Michaelina aveva probabilmente perseguito una carriera militare e in questo verrà poi imitato da alcuni dei suoi figli. Morì, però, nel 1617, lasciando la vedova ad occuparsi di ben otto tra figli/e e figliastri ancora in età minorile. Cosa abbia spinto Michaelina e più tardi suo fratello minore Charles verso l’attività artistica e presso quale maestro possa essere avvenuta la loro formazione sono due degli interrogativi ancora senza risposta. In base alle ricerche fino ad ora effettuate conosciamo invece circa quindici opere di Michaelina firmate e/o datate, molto disparate per generi e dimensioni, in base alle quali è stato possibile con buon fondamento attribuirgliene un’altra decina. Tutte le opere datate risalgono agli anni Quaranta e Cinquanta del XVII secolo, in una fase in cui l’artista aveva tra i 39 e i 56 anni di età; come anticipato, mancano notizie ed opere sia di una fase giovanile e di formazione che della vecchiaia, visto che morirà ottantacinquenne, circa trent’anni dopo l’ultima opera nota.

 
Ragazzo che fuma la pipa
 
 Educazione della Vergine, 1656

È quasi la stessa epoca in cui l’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria, vescovo di molte diocesi, Gran maestro dell’ordine teutonico e gran collezionista, fu governatore dei Paesi Bassi spagnoli. Nell’inventario che della sua collezione verrà stilato nel 1656, compaiono elencate ben quattro opere di Michaelina: il già citato Trionfo di Bacco e tre teste di Apostoli. Il fatto di aver lavorato per un tale personaggio e che le sia stata affidata un’opera con molte figure in movimento e di grandi dimensioni, come il Bacco, fatto inaudito per una donna, la dice lunga sulla fama di cui all’epoca la pittrice dovette godere. È assai probabile che ella, alla morte della madre – di cui, unica femmina, aveva quasi certamente dovuto prendersi cura – abbia raggiunto il fratello Charles a Bruxelles, dove poi i due, entrambi mai coniugati, hanno abitato e lavorato nella stessa casa per tutta la loro vita rimanente. Charles era già a Bruxelles da alcuni anni. Per un certo periodo, però, deve essersene assentato, forse per un viaggio all’estero (qualcuno ha ipotizzato in Italia); al ritorno, gli venne chiesto di pagare le tasse di iscrizione alla gilda dei pittori della città. Nei decenni successivi risulta aver avuto vari apprendisti e garzoni regolarmente registrati. Michaelina può aver catturato certi influssi della cultura artistica italiana dalle opere e stampe portate dal fratello dal suo viaggio, anche se è vero che stampe e dipinti italiani circolavano frequentemente sul mercato fiammingo. Certe commissioni dovettero giungere a Michaelina grazie alle conoscenze dei suoi fratelli; Jacques, di soli due anni più vecchio di lei, era arciere di Filippo IV e frequentava l’entourage della corte, mentre Pierre, capitano di cavalleria, era frequentemente a Bruxelles. Forse tramite loro le arrivò l’incarico di ritrarre Andrea Cantelmo, condottiero abruzzese al servizio della corona asburgica ed in quel tempo (1643 o poco prima) di stanza nelle Fiandre. Il ritratto è perduto, ma ne è stata tratta una bella stampa. Altri due ritratti di eminenti capi militari fanno parte dell’ancora ristretto catalogo di Michaelina: uno datato 1646, oggi nei Musei reali di Bruxelles, ed il secondo, oggi in collezione privata, forse raffigurante proprio il fratello Pierre in occasione del suo tardivo fidanzamento. Se il tema dell’Autoritratto è stato interpretato da molte delle donne pittrici, anche per affermare con fermezza il proprio “status” di artista, strumenti alla mano, è del tutto straordinario ed eccezionale che la propria immagine compaia, rivolta verso chi guarda, addirittura ritratta a seno nudo, tra le comparse del Baccanale più volte ricordato. Si riteneva che le donne non potessero comporre soggetti con più figure in movimento, anche perché non conoscevano l’anatomia, non potendo frequentare lezioni con modelli/e nudi/e; ma possiamo facilmente dedurre che una giovane donna che ha sette fratelli maschi, di cui quattro più piccoli di lei, non avesse problemi eccessivi a procurarsi modelli per studiare l’anatomia maschile.


Ritratto di un comandante dell'esercito spagnolo, 1625

Michaelina Wautier, autoritratto

Del 1654 è un Ritratto del gesuita Martino Martini, eminente personaggio trentino che aveva studiato a Roma con Athanasius Kircher e, dopo aver completato la propria formazione in Portogallo, aveva viaggiato in Cina, ritornandone con importanti studi di storia della Cina premoderna, cartografia aggiornata, una grammatica cinese, tutte opere che verranno pubblicate negli anni successivi e tradotte in numerose lingue. Parlavo inizialmente di una eclettica versatilità di generi da parte di Michaelina: oltre alla ritrattistica, alcune opere sono a soggetto religioso, altre sono scene di genere, due, infine, le nature morte con fiori e insetti. A cavallo tra il soggetto religioso, il ritratto, la scena di genere, queste due ragazzine si sono travestite da sante, sant’Agnese e santa Dorotea, con i rispettivi attributi: l’agnellino ed un cesto con rose e frutti. La scelta di ritrarre in modo così intimo e domestico due sante martirizzate perché rifiutarono di sposarsi, avrà forse avuto un risvolto autobiografico? Certo è che tra le opere più fresche di Michaelina, spesso stese con pennellate ampie e sprezzanti, ci sono alcuni volti di donne o di ragazzini (questi ultimi legati anche a studi per una serie raffigurante I cinque sensi, descritta in inventari antichi, ma oggi perduta).


Ghirlanda di fiori

Ritratto di due fanciulle come Sant'Agnese e Santa Dorotea, 1655

Per finire, voglio ancora citare l’incursione di Michaelina nel mondo della natura morta floreale, questo sì un genere che vantava anche al suo tempo molte brave artiste specializzate, come Rachel Ruysch e Judith Leyster, ad esempio. Forse un modo per far apprezzare la propria versatilità e invitare al confronto con chi quel genere praticava da sempre? Voglio sperare che il ritrovato interesse per una artista quasi totalmente dimenticata non sia fugace ed effimero, ma duraturo e fruttifero, portando ad altre possibili, interessanti scoperte.

Due bambini che giocano con le bolle di sapone, 1640

 

Traduzione francese
Giuliana Gaudenzi

Les visiteurs et les visiteuses qui attendaient les trains à la Gare d’Anvers l’été de 2018 pouvaient passer le temps en essayant de placer quelque pièce d’un grand puzzle représentant Le triomphe de Bacchus. Ce puzzle reproduisait un tableau de grand format (270 x 354 cm), conservé auparavant dans les entrepôts du Kunsthistorisches Museum de Vienne, secteur peintures flamandes « d’importance secondaire ».

Le Triomphe de Bacchus

En observant en 1993 cette œuvre et en demandant des renseignements à son sujet au conservateur du Musée, l’historienne de l’art belge Katlijne van der Stighelen a commencé à s’intéresser à son auteur, identifiée comme Michaelina Wautier. Vingt-cinq ans plus tard, l’exposition mise en place grâce à la collaboration du Rubenshuis et du Mas (Museum an der Stroom) à Anvers – dont le puzzle à la Gare était un des spot publicitaires - a été, en même temps, le résultat des recherches effectuées jusqu’à ce moment et un point de départ supplémentaire pour d’autres éléments qui peuvent améliorer notre connaissance, encore incomplète, d’une artiste à bien des égards extraordinaire. D’abord, nom et prénom sont incertains ; enregistrée dans certains inventaires comme « Magdalena » ou « Maria Magdalena », la peintre signe Michaelina, nom que, évidemment, elle préférait. L’écriture même du nom n’est pas toujours identique ; si elle signe Wauthier, dans des gravures ou des inventaires elle est aussi citée comme Woutier. Née en 1604 à Mons, dans les Pays Bas du Sud, du deuxième mariage de Charles Wautier, faisant partie de la petite noblesse locale et « page » du comte de Fuentes , commandant de l’Armée espagnole, Michaelina a grandi en tant que seule fille (deux filles du premier lit ont du mourir jeunes) parmi sept garçons survécus à leur première enfance. La famille habitait, comme celle de l’oncle maternel, à la Rue d’Havré, près de la Grande Place. Si la famille de ces oncles était certainement de marchands riches, le père de Michaelina avait probablement mené une carrière dans l’armée, imité par certains de ses enfants. Mais il est mort en 1617, en laissant sa veuve à s’occuper de huit entre fils, filles et beaux-enfants encore mineurs. Savoir ce qui a poussé Michaelina et plus tard son frère cadet Charles vers l’activité artistique et quel enseignant les a formés, ce sont des questions sans réponse. Par contre, sur la base des recherches effectuées jusqu’à présent, nous connaissons environ quinze œuvres de Michaelina signées et/ou datées, très disparates pour genre et dimension, sur la base desquelles a été possible, raisonnablement, lui en attribuer une autre dizaine. Toute œuvre datée remonte aux années Quarante et Cinquante du XVII siècle, une période où l’artiste était âgée entre 39 et 45 ans ; comme mentionné auparavant, manquent les informations et les œuvres de sa jeunesse, de sa formation et de sa vieillesse aussi, étant donné qu’elle mourra à l’âge de quatre-vingt-cinq ans , environ trente ans après sa dernière œuvre connue.


Jeune homme fumant une pipe

L'éducation de la Vierge, 1656

Presque à la même époque, l’archiduc Léopold Guillaume d’Autriche, évêque de beaucoup de diocèses, Grand Maître de l’Ordre teutonique et grand collectionneur, a été gouverneur des Pays Bas espagnols. Dans l’inventaire de sa collection, établi en 1656, sont classées quatre œuvres de Michaelina : le Triomphe de Bacchus déjà cité et trois têtes d’Apôtres. Le fait d’avoir travaillé pour quelqu’un d’aussi important et qu’on lui ait confié une œuvre avec plein de personnages en mouvement et de grandes dimensions telle que le Bacchus, chose inouïe pour une femme, en dit beaucoup sur la renommée de cette peintre à l’époque. C’est très probable qu’elle, à la mort de sa mère – dont elle, unique fille, avait presque certainement du prendre soin – ait rejoint son frère Charles à Bruxelles, où pour la suite tous les deux, jamais mariés, ont habité et travaillé dans la même maison pendant toute leur vie. Charles était déjà à Bruxelles depuis quelques années. Mais pendant une certaine période il a du s’absenter, peut-être pour voyager à l’étranger (quelqu’un a supposé en Italie) ; à son retour, on lui a demandé de payer les impôts d’inscription à la guilde des peintres de la ville. Les décennies suivantes il a eu des apprentis et des serveurs régulièrement enregistrés. Il est possible que Michaelina ait saisi certaines influences de la culture artistique italienne à partir des œuvres et des gravures apportées par son frère au retour de son voyage, même si en réalité certaines gravures et peintures circulaient fréquemment dans le marché flamand. Certaines commandes ont du arriver à Michaelina grâce aux connaissances de ses frères ; Jacques, qui avait seulement deux ans de plus qu’elle, était archer de Philippe IV et fréquentait l’entourage de la cour tandis que Pierre, capitaine de cavalerie, était souvent à Bruxelles. Peut-être que grâce à eux la commande du portrait d’Andrea Cantelmo, chef des Abruzzes au service de la couronne des Habsbourg, à ce moment-là (1643 ou peu avant) stationnant dans les Flandres. Le portrait a été perdu, mais on en a tiré une belle gravure. Deux autres portraits d’éminents chefs militaires font partie du restreint catalogue de Michaelina : l’un daté 1646, aujourd’hui dans les Musées royales de Bruxelles, l’autre, à présent en collection privée, peut-être représentant justement son frère Pierre à l’occasion de ses fiançailles tardives. Alors que le sujet de l’autoportrait a été souvent interprété par beaucoup de femmes peintres, même pour affirmer leur « status » d’artiste, outils à la main, c’est absolument remarquable et exceptionnel que sa propre image apparaisse, face à celui qui regarde, carrément peinte les seins nus, parmi les figurants du Bacchanale plusieurs fois cité. On supposait que les femmes ne pouvaient pas peindre des sujets avec plusieures figures mouvantes, aussi parce-que elles ne connaissaient pas l’anatomie, ne pouvant pas fréquenter des leçons avec des modèles nus (hommes et femmes) , mais on peut aisément déduire qu’une jeune femme qui a sept frères, dont quatre plus petits qu’elle, n’avait pas de problèmes majeurs à se procurer des modèles afin d’étudier l’anatomie masculine.


Portrait d'un commandant de l'armée espagnole, 1625

Autoportrait avec chevalet

De 1654 est le Portrait du jésuite Martino Martini, éminent personnage de Trento qui avait étudié à Rome avec Athanasius Kircher et, après avoir achevé sa formation au Portugal, avait voyagé en Chine, d’où il était revenu avec d’importantes études d’histoire de la Chine pré-moderne, cartographie mise à jour, une grammaire chinoise, œuvres qui seront publiées dans les années suivantes et traduites dans de nombreuses langues. Au début je parlais d’une versatilité éclectique de genres de la part de Michaelina : en plus des portraits, des œuvres ont un sujet religieux, d’autres sont des scènes de genre, enfin deux natures mortes avec fleurs et insectes. A cheval entre le sujet religieux, le portrait, la scène de genre, deux petites filles se sont déguisées en saintes, Sainte Agnès et Sainte Dorothée, avec leurs attributions respectives : le petit agneau et un panier avec des roses et des fruits. Le choix de dépeindre d’une façon si intime et domestique deux saintes martyrisées parce-que elles avaient refusé de se marier, aurait par hasard un aspect autobiographique ? Il est certain que, parmi les œuvres les plus fraîches de Michaelina, souvent peintes avec des coups de pinceau larges et méprisants, il y a des visages de femmes ou de petits garçons (ces derniers liés aussi à des études pour une série représentante Les cinq sens, décrite dans d’anciens inventaires, mais aujourd’hui perdue).


Guirlande de fleurs avec libellule

Deux filles en tant que Sainte Agnès et Saint Dorothée

Pour terminer, je veux encore citer l’incursion de Michaelina dans le monde de la nature morte florale, genre qui vantait même à son époque nombreuses bonnes artistes spécialisées, comme Rachel Ruysch et Judith Leyster, par exemple. C’était peut-être une façon de faire apprécier leur propre versatilité et inviter à la confrontation avec ceux qui pratiquaient ce genre depuis toujours ? Je veux espérer que l’intérêt renouvelé pour une artiste presque totalement oubliée ne soit pas fugace et éphémère, mais durable et fécond, menant à d’autres possibles, intéressantes découvertes.

Deux garçons soufflant des bulles, 1640

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

Visitors waiting for trains at Antwerp station in the summer of 2018 could pass the time trying to place some pieces of a large puzzle represented by The Triumph of Bacchus in the right place. The puzzle was represented by a large-format canvas (270 x 354 cm), formerly kept in the deposits of the Kunsthistorisches Museum in Vienna, in the sector of Flemish paintings "of secondary importance".

Triumph of Bacchus

It was by observing that work in 1993 and asking the curator of the museum for information about it that the Belgian art historian Katlijne van der Stighelen became interested in its author, later identified as Michaelina Wautier. Twenty-five years later, the exhibition set up thanks to the collaboration of Rubenshuis and MAS (Museum an der Stroom) in Antwerp - the puzzle in the station was used in advertising the event - was at the same time a demonstration of the research carried out up to then, and a further starting point for other knowledge that improves our still incomplete understanding of an artist who was, in many ways, extraordinary. Even her name and surname appear uncertain, recorded in some inventories as “Magdalena” or “Maria Magdalena”, while the painter signed her works instead as Michaelina, evidently preferred by her. Even the spelling of her surname is not always identical. She she calls herself Wautier, yet in some reproductions or inventories she is also referred to as Woutier. Michaelina was born in 1604 in Mons, in the Southern Netherlands, from the second marriage of Charles Wautier, who belonged to the local petty nobility and was a former "page" of the Count of Fuentes, commander of the Spanish Army. She grew up as the only daughter (two daughters of the first marriage had died young) among seven males who survived early childhood. Her family lived, like that of her maternal uncle, in Rue d ’Havré, near the Grand Palace. While the aforementioned uncle’s family of was certainly among the wealthy merchant class, Michaelina's father had probably pursued a military career and in this would then be imitated by some of his sons. He died, however, in 1617, leaving his widow to take care of eight children and stepchildren still in their early years. Two of the questions still unanswered are, what led Michaelina, and later her younger brother Charles, towards artistic activity, and with which teacher their training may have taken place. On the basis of the research carried out so far, we know of about fifteen signed and/or dated works by Michaelina, very different in genres and sizes, on the basis of which it was possible with good foundation to attribute another ten or so to her. All the dated works were from the 1640s and 1650s, at a time when the artist was between 39 and 56 years of age. As could be expected, there is a lack of information and work from her youth and training phase, and also from her older years. She died at eighty-five, about thirty years after her last known work.


Young Man Smoking a Pipe

The Education of the Virgin, 1656

It is almost the same period in which Archduke Leopold William of Austria, bishop of many dioceses, Grand Master of the Teutonic order and great collector, was governor of the Spanish Netherlands. In the inventory that drawn up from his collection in 1656, four works by Michaelina are listed - the aforementioned Triumph of Bacchus and three heads of Apostles. The fact that she worked for such a character and that she was entrusted with a work with many moving and large figures, such as Bacchus, unheard of for a woman, speaks volumes about the reputation enjoyed by the painter at the time. It is very likely that, on the death of her mother - as the only female child, she had almost certainly had to take care of her – she joined her brother Charles in Brussels, where the two, both never married, lived and worked in the same house for the whole their remaining lives. Charles had already been in Brussels for some years. For a certain period, however, he must have been absent, perhaps for a trip abroad (some have speculated in Italy). Upon returning, he was asked to pay the registration fees to the guild of painters in the city. In the following decades he appears to have had various students and regularly registered apprentices. Michaelina may have absorbed certain influences of Italian artistic culture from the works and prints brought by her brother from his trip, although it is also true that Italian prints and paintings frequently circulated on the Flemish market. Certain commissions surely reached Michaelina thanks to the acquaintances of her brothers; Jacques, only two years older than her, was Philip IV's archer and frequented the entourage of the court, while Pierre, a cavalry captain, was frequently in Brussels. Perhaps through them she was commissioned to portray Andrea Cantelmo, an Abruzzese leader in the service of the Habsburg crown and at that time (1643 or shortly before) stationed in Flanders. The portrait is lost, but a beautiful reproduction of it survives. Two other portraits of eminent military leaders are part of Michaelina's then still limited catalog - one dated 1646, now in the Royal Museums of Brussels, and a second, now in a private collection, perhaps depicting her brother Pierre on the occasion of his belated engagement. If the theme of the self-portrait has been interpreted by many women painters, also to firmly affirm their "status" as an artist, instruments in hand, it is still quite extraordinary and exceptional that Michaelina's own image appears, facing the viewer, even portrayed topless, among the figures in The Triumph of Bacchus. It was believed that women could not compose subjects with multiple moving figures, also because they did not know anatomy, not being able to attend classes with nude models. But we can easily deduce that a young woman who has seven brothers, four of whom younger than her, would not have excessive problems in obtaining models to study male anatomy.


Portrait of a Man, 1625

Michaelina Wautier, self portrait

From 1654 there is a portrait of the Jesuit Martino Martini, an eminent character from Trentino who had studied in Rome with Athanasius Kircher and, after completing his training in Portugal, had traveled to China. He returned with important studies of the history of pre-modern China, updated cartography, a Chinese grammar, all works that were published in the following years and translated into numerous languages. Initially I was talking about an eclectic versatility of genres on the part of Michaelina: in addition to portraiture, some works are religious subjects, others are scenes of nature, and finally two still lifes with flowers and insects. Somewhere between a religious subject, a portrait, and a scenic work, are two young girls presented as saints, Saint Agnes and Saint Dorothea, with their respective attributes, a lamb for one and a basket with roses and fruit for the other. Could the choice to portray two saints in such an intimate and domestic way, women who were martyred because they refused to marry, have had an autobiographical implication? What is certain is that the among the most striking paintings of Michaelina, often showing broad and dashing brushstrokes, are faces of women or children (the latter also linked to studies for a series depicting the five senses, described in ancient inventories, but today lost).


Flower Garland with Butterfly

Two girls as Saint Agnes and Saint Dorothea, 1655

Finally, I want to mention Michaelina's foray into the world of floral still life, this being a genre that even in her time boasted many skilled specialized artists, such as Rachel Ruysch and Judith Leyster, for example. Perhaps these works were a way for her to demonstrate her versatility and to invite comparison with those who practiced that genre? I want to hope that the newfound interest in an almost totally forgotten artist is not fleeting and ephemeral, but lasting and fruitful, possibly leading to other interesting discoveries.

Two Boys Blowing Bubbles, 1640

Ivana Kobilka
Alessandra Paci



Silvia dell'Orco

 

«Volevo vedere tutto e guardare dietro ogni tenda.
E oggi non ho rimpianti.
Ho visto il mondo e la vita, è stato bello e pieno di sole.
Non ho rimpianti»

Questa citazione ben rappresenta la pittrice slovena più famosa di tutti i tempi, donna cosmopolita e libera. Non è facile per una artista affermarsi a fine Ottocento, in un contesto culturale ancora dominato da preconcetti e preclusioni alle donne, ma Ivana Kobilca ci riesce. Dotata di un talento che coltiva sin dalla scuola elementare e di grande apertura mentale, viaggia, studia, dipinge e si afferma nel panorama artistico e culturale a cavallo tra XIX e XX secolo. Pittrice realista, incontra e si confronta con i più grandi pittori – uomini – della sua epoca, tesse sodalizi con altre artiste, si forma presso varie scuole, evolve nella sua ricerca artistica e fa parlare di sé in mezza Europa. Non ha ancora 30 anni quando il suo talento è ufficialmente riconosciuto ed Ivana diventa rapidamente una figura chiave dello sviluppo artistico e culturale del proprio Paese. Lubiana, la città in cui nasce il 20 dicembre 1861, era allora il capoluogo della Carniola, una delle regioni dell’immenso Impero asburgico che si estendeva dal mare Adriatico alle steppe caucasiche. Era un centro commerciale e amministrativo molto dinamico, anche culturalmente. Ivana nasce in una famiglia di ricchi artigiani, che vogliono quindi offrire alla figlia una educazione all’altezza della loro posizione sociale. La giovane frequenta le scuole elementare e media presso le Orsoline ed impara due delle lingue più culturalmente rilevanti per l’epoca – italiano e francese – ed anche il disegno. Ma la scoperta dell’arte avviene grazie ad un viaggio a Vienna, con il padre, all’età di sedici anni. La capitale dell’Impero asburgico è una metropoli cosmopolita e Kobilca viene ammessa alla prestigiosa Akademie der bildenden Künste (Accademia delle Belle Arti). Vi rimane un paio di anni, durante i quali si dedica soprattutto a copiare le grandi opere lì esposte. Si trasferisce poi a Monaco, anch’essa città vivace e punto d’incontro degli artisti dell’epoca, dove frequenta una scuola di pittura per ragazze sotto la guida di Alois Erdtelt e un corso di disegno anatomico con lo scultore Christoph Roth. Disegnare un corpo umano nudo era proibito alle donne a causa della morale del tempo, e questo era anche il motivo per il quale non era loro consentito frequentare accademie di Stato! Erdelt insegna la pittura alla maniera dei pittori olandesi del XVII secolo, sottolineando l’importanza di ogni piccolo dettaglio: Ivana diventa così una grande ritrattista e comincia a vivere grazie a commissioni da parte di funzionari e di ricchi borghesi. In occasione della prima mostra collettiva a cui partecipa con un paio di opere nel 1888, viene notata da Richard Muther, uno dei maggiori critici d’arte del tempo, e l’anno seguente, nella sua Lubiana, realizza la prima mostra personale. A causa del clamore sollevato per il ritratto di sua sorella Fanny a spalle scoperte, deve per un po’ piegarsi alla "moralità" ancora molto rigida nel suo Paese, ma le sue sperimentazioni continuano. Nella prima fase della sua produzione le palette scure e terrose predominano: all’interno di una concezione di arte essa stessa in evoluzione, che inizia ad accogliere eventi di vita reale e quotidianità, Ivana Kobilca ritrae in particolare figure femminili, come la celebre Kofetarica (La bevitrice di caffè) (1888). È uno dei suoi ritratti più ammirati, conservato nella Galleria Nazionale della Slovenia, a Lubiana, che accoglie molte opere della sua pittrice: ritratti di familiari e membri della società borghese dell’epoca, ma anche scene di vita quotidiana, fiori e nature morte.

La svolta e la consacrazione definitiva di Kobilca arrivano con il trasferimento a Parigi, cuore pulsante della vita culturale e artistica di fine secolo. Qui l’artista continua a studiare, presso la scuola di Henri Gervex, uno dei più apprezzati pittori del periodo e amico, tra gli altri, di Rodin e Monet. Espone ben tre volte nel prestigioso Salon des Arts (1891, 1892 e 1897) e diventa membro onorario della Société Nationale des Beaux-Arts. Gli anni del soggiorno parigino sono i più fertili: la capitale francese è socialmente molto stratificata e Ivana sceglie per i suoi quadri i soggetti più disparati: dalle venditrici del mercato alle borghesi raffinatamente vestite. Vive in una specie di Comune bohémienne insieme anche ad altre donne artiste, tra cui Rosa Pfäffinger che così la definisce nel suo Parigi Bohémien (1889-1895), sottotitolato Rapporto autobiografico di Rose Pfäffinger: «pittrice di temperamento, che sapeva essere così meravigliosamente ubriaca e quando irritata, mostrava i suoi denti come un lupo mannaro dei Carpazi». A seguito di un clima sociale poco sereno Ivana si ritira con altre artiste ed altri artisti a Barbizon – a sud della capitale, ai margini della foresta di Fontainebleau - nell’immediata periferia di Parigi e comincia a dipingere en plein air ma non alla maniera impressionista. Qui le nuove tendenze e l’arte francese influenzano il suo stile e l’uso di alcuni colori, come l’inserimento della palette del blu e del verde.

Qualche anno dopo la troviamo in Italia, a Firenze, per un soggiorno studio e nel 1897 è la prima donna slovena ad esporre alla Biennale di Venezia con tre opere. Lo stesso anno si trasferisce a Sarajevo, dove vive agiatamente realizzando numerosi ritratti su commissione. Insieme ad un gruppo di artisti ed artiste di lingua tedesca fonda il Gruppo dei Pittori di Sarajevo e la rivista "Nada". A questo periodo appartengono i numerosi autoritratti, che realizza anche attraverso l’uso di modelli fotografici. Berlino è l’ultima capitale in cui soggiorna, prima di rientrare definitivamente a Lubiana allo scoppio della Prima guerra mondiale. Anche questa città "lascia un segno" nell’opera della pittrice, con l’inserimento dell’utilizzo del bianco e la realizzazione di nature morte. Muore a Lubiana il 4 dicembre 1926, ed è già considerata come la più grande pittrice jugoslava di tutti i tempi. Tale riconoscimento vede la sua consacrazione nel 1993 quando il volto dell’artista compare sulla banconota da 5000 talleri sloveni (la seconda, per valore), rimasta in circolazione fino all’introduzione dell’euro nel 2007.

La Galleria Nazionale della Slovenia, in occasione del centenario della sua fondazione, le ha consacrato una retrospettiva che ha visto esposte, tra giugno 2018 e febbraio 2019, circa 140 opere dell’artista, con dipinti provenienti anche da collezioni private fino ad allora sconosciute al grande pubblico. È stata la direttrice della Galleria, Barbara Jaki, a preparare con estrema cura questa esposizione, recuperando opere di privati raramente presentate in pubblico, bozzetti preparatori, fotografie e corrispondenze: un percorso articolato in dodici momenti che hanno esplorato tutta la creazione di Kobilca, la grande artista che tra le prime donne dell’era moderna è riuscita ad affermarsi in una professione prevalentemente maschile e ancora in buona parte da scoprire e studiare.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

"Je voulais tout voir et regarder derrière chaque rideau.
Et aujourd'hui, je ne regrette rien.
J'ai vu le monde et la vie, c'était beau et plein de soleil.
Je ne regrette rien."

Cette citation représente bien la peintre slovène la plus célèbre de tous les temps, une femme cosmopolite et libre. Il n'est pas facile pour une artiste de s'affirmer à la fin du XIXe siècle, dans un contexte culturel encore dominé par des préjugés et des exclusions à l'égard des femmes, mais Ivana Kobilca y parvient. Dotée d'un talent qu'elle cultive depuis l'école primaire et d'une grande ouverture d'esprit, elle voyage, étudie, peint et s'affirme dans le panorama artistique et culturel au tournant des XIXe et XXe siècles. Peintre réaliste, elle rencontre et échange avec les plus grands peintres masculins de son temps, noué des partenariats avec d'autres femmes artistes, se formée dans différentes écoles, développe sa recherche artistique et se fait connaître dans toute l'Europe. Elle n’a pas encore 30 ans lorsque son talent est officiellement reconnu et Ivana devient rapidement une figure clé du développement artistique et culturel de son pays.Ljubljana, la ville où elle est née le 20 décembre 1861, était alors la capitale de la Carniole, l'une des régions de l'immense empire des Habsbourg qui s'étendait de la mer Adriatique aux steppes du Caucase. C'était un centre commercial et administratif très dynamique, également sur le plan culturel. Ivana naît dans une famille d'artisans aisés, qui souhaitent offrir à leur fille une éducation digne de leur position sociale. La jeune fille fréquente l'école primaire et le collège des Ursulines et apprend deux des langues les plus importantes sur le plan culturel à l'époque - l'italien et le français - ainsi que le dessin. Mais la découverte de l'art se fait grâce à un voyage à Vienne avec son père à l'âge de seize ans. La capitale de l'empire des Habsbourg est une métropole cosmopolite et Kobilca est admise à la prestigieuse Akademie der bildenden Künste (Académie des beaux-arts). Elle y reste quelques années, pendant lesquelles elle se consacre surtout à copier les grandes œuvres qui y sont exposées. Elle s'installe ensuite à Munich, ville également animée et lieu de rencontre des artistes de l'époque, où elle fréquente une école de peinture pour filles sous la direction d'Alois Erdtelt et un cours de dessin anatomique avec le sculpteur Christoph Roth. Dessiner un corps humain nu était interdit aux femmes en raison des mœurs de l'époque, ce qui explique aussi pourquoi elles n'étaient pas autorisées à fréquenter les académies d'État! Erdelt enseigne la peinture à la manière des peintres hollandais du XVIIe siècle, en insistant sur l'importance de chaque petit détail : Ivana devient ainsi une grande portraitiste et commence à gagner sa vie grâce à des commandes de fonctionnaires et de riches bourgeois. Lors de la première exposition collective à laquelle elle participe avec quelques œuvres en 1888, elle est remarquée par Richard Muther, l'un des plus grands critiques d'art de l'époque, et l'année suivante, dans sa ville natale de Ljubljana, elle organise sa première exposition personnelle. En raison du tollé provoqué par le portrait de sa sœur Fanny aux épaules nues, elle doit se plier pour un temps à la "moralité" encore très rigide de son pays, mais ses expériences se poursuivent. Dans la première phase de sa production, les palettes sombres et terreuses prédominent : dans le cadre d'une conception de l'art elle aussi en évolution, et qui commence à accueillir les événements réels et la vie quotidienne, Ivana Kobilca représente en particulier des figures féminines, comme la célèbre Kofetarica (La buveuse de café) (1888). Il s'agit de l'un de ses portraits les plus admirés, conservé à la Galerie nationale de Slovénie à Ljubljana, qui abrite un grand nombre de ses œuvres: des portraits de membres de sa famille et de la société bourgeoise de l'époque, mais aussi des scènes de la vie quotidienne, des fleurs et des natures mortes.

Le tournant et la consécration définitive de Kobilca se produisent lorsqu'elle s'installe à Paris, cœur battant de la vie culturelle et artistique de cette fin de siècle. L'artiste y poursuit ses études à l'école d'Henri Gervex, l'un des peintres les plus appréciés de l'époque, ami de Rodin et de Monet, entre autres. Elle expose à trois reprises au prestigieux Salon des Arts (1891, 1892 et 1897) et devient membre honoraire de la Société Nationale des Beaux-Arts. Les années de son séjour à Paris sont les plus fertiles : la capitale française est socialement très stratifiée et Ivana choisit les sujets les plus variés pour ses peintures : des vendeuses de marché aux femmes bourgeoises élégamment vêtues. Elle vit dans une sorte de commune bohème avec d'autres femmes artistes, dont Rosa Pfäffinger, qui la décrit comme suit dans sa Bohème parisienne (1889-1895), sous-titrée Rapport autobiographique de Rose Pfäffinger : "un peintre de tempérament, qui pouvait être si merveilleusement ivre et qui, lorsqu'elle était irritée, montrait les dents comme un loup-garou des Carpates". En raison d'un climat social moins serein, Ivana se retire avec d'autres artistes à Barbizon - au sud de la capitale, à l'orée de la forêt de Fontainebleau - aux abords immédiats de Paris et commence à peindre en plein air, mais pas à la manière impressionniste. Les nouvelles tendances et l'art français ont influencé son style et l'utilisation de certaines couleurs, comme l'inclusion sur la palette du bleu et du vert.

Quelques années plus tard, nous la retrouvons en Italie, à Florence, pour un séjour d'études et en 1897, elle est la première femme slovène à exposer à la Biennale de Venise avec trois œuvres. La même année, elle s'installe à Sarajevo, où elle vit confortablement, réalisant de nombreux portraits sur commande. Avec un groupe d'artistes germanophones, elle fonde le groupe de peintres de Sarajevo et le magazine "Nada". C'est à cette période qu'appartiennent les nombreux autoportraits, qu'elle réalise également à l'aide de modèles photographiques. Berlin est la dernière capitale où elle séjourne, avant de retourner définitivement à Ljubljana au début de la Première Guerre mondiale. Cette ville aussi "marque" l'œuvre du peintre, avec l'inclusion de l'utilisation du blanc et la réalisation de natures mortes. Elle meurt à Ljubljana le 4 décembre 1926. Elle est déjà considérée comme le plus grand peintre yougoslave de tous les temps. Cette reconnaissance a été consacrée en 1993 lorsque le visage de l'artiste est apparu sur le billet de 5000 thalers slovènes (la deuxième valeur la plus élevée), qui est resté en circulation jusqu'à l'introduction de l'euro en 2007.

La Galerie nationale de Slovénie, à l'occasion du centenaire de sa fondation, lui consacre une exposition rétrospective qui a vu, entre juin 2018 et février 2019, environ 140 œuvres de l'artiste, avec des peintures également issues de collections privées jusqu'alors inconnues du grand public. C'est la directrice de la galerie, Barbara Jaki, qui prépare cette exposition avec un soin extrême, récupérant des œuvres de particuliers rarement présentées en public, des croquis préparatoires, des photographies et des correspondances : un parcours articulé en douze moments qui explore toute la création de Kobilca, la grande artiste qui, parmi les premières femmes de l'ère moderne, a réussi à s'imposer dans une profession essentiellement masculine et qui reste encore largement à découvrir et à étudier.

 

Traduzione inglese
Riccardo Vallarano

«All the world I wanted to see, and I wanted to take view behind every curtains.
And today I have no regrets.
All the world and life I saw, it was beautiful and sunny.
I have no regrets.»

This quote is quite representative of the all-time most famous Slovenian painter, a free and cosmopolitan woman. Ivana Kobilca succeeds as an artist despite being a woman at the end of the XIXth century, a time filled with prejudices and misconceptions about women in the arts. She was very talented and open-minded, travelling, studying and painting until she got quite a reputation in the cultural and artistic landscape between XIX and XX centuries. She was a realist painter, always meeting and discussing with the great – men – painters of her age, but also developing friendships with other women in arts and constantly evolving her craft through a wide and diverse education in many arts’ schools. Already publicly acclaimed before her ’30, Ivana rapidly became a key figure in the artistic and cultural development of Slovenia.She was born in Lubiana the 20th December of 1861. Lubiana was at the time the capital of Carniola, one of the many regions composing the vast Hapsburg Empire, stretching from the Adriatic Sea to the Caucasian Steppes. The city was a very dynamic hub, in terms of trade, bureaucracy and culture. Ivana was born in a petite-bourgeoise family of rich craftsman, having the opportunity to get an education matching her privileged social conditions. Young Ivana attended Orsoline’s elementary and middle schools, learning two culturally relevant languages for that time – Italian and French – and also drawing. But Ivana’s love for art was discovered through a journey to Vienna, with her father, at sixteen years old. Kobilca was admitted to the prestigious Akademie der bildenden Künste (Academy of Arts) located in the cosmopolitan capital of the Hapsburg Empire. She studied there for a couple of years, focussing on copying the great works of art exposed in the Academy. Then she moves to Munich, another culturally fuzzy hub for the artists of her time, where she attended a School for Painting under the guide Alois Erdtelt and a course on anatomic drawing taught by the sculptor Cristoph Roth. Even though, for a woman to draw a naked body was forbidden – given the customs of the time -, also for this reason women were not allowed to attend State Academy of Arts. Erdelt teaches painting following the style of dutch painters from the XVII century, thus stressing the importance of every single detail: Ivana became a gifted portraitist, living off upper-class generous commissions. In her first exposition, along with other artists, in 1888, Richard Muther, an important art critic, noticed and appreciated Ivana’s works, so that the following year she achieved to make the first personal exposition of her work, in Lubiana. Although Ivana’s work triggered a scandal for the portrait of her sister Fanny with naked shoulders, forcing Ivana to bend to the moral customs of her time, she keeps experimenting. The first phase of Ivana’s artistic production is characterised by a dark and earthy colour range: within a dynamic and ever-changing conception of art, everyday and real life events come at the center of her paintings, Ivana Kobilca portrays female figures especially, such as the famous Kofetarica (the coffee-drinker) (1888). It is one of her most appreciated and admired portaits, exposed in the Slovenia’s National Gallery, Lubiana, where there are exposed also many other works by Kobilca: family portarits and bourgeouis figures from her time, but also everyday life scenes, flowers and still-life paintings.

The definitive international fame begun with Kobilca’s moving to Paris, the cultural and artistic hub of Europe’s belle epoque. In Paris, Ivana keeps studying, attending Henri Gervex’s school, one of the major painters of that period, a friend of Rodin and Monet. She exposes three times in the prestigious Salon des Arts (1891, 1892 e 1897), also acquiring the honorary membership of the Société Nationale des Beaux-Arts. In Paris she lived extremely fertile years: the complex social stratification of the city enables her to indulge in a widespread range of peculiar human types and situations, from the markets to the palaces. She lived in a bohemienne commune along with other women artists, like Rosa Pfäffinger that defines Ivana in her book Paris Bohemien (1889-1895), subtitled An Auto-biographical report by Rose Pfäffinger: « painter with a very strong character, she knew when to be marvelously happy and when to be angry, she bared her teeth like a Carpatian were-wolf». Following a nefarious social climate towards her commune, Ivana moves with the other artists to Barbizon – south of Paris, near the Fointainblueau forest – in the outskirts of Paris and she starts to paint en plein air but without following the impressionist style. In Barbizon, the French art and the new trends influenced her style and selection of some colours, like the new usage of blue and green.

After some years she went to Florence, in Italy, for a study sojourn and in 1897 she is the first Slovenian woman to expose at the Biennale di Venezia with three works of art. The same year Ivana moves to Sarajevo, where she lives comfortly while working on many new portraits. Together with a group of german-speaking artists (men and women) she founds the Painters Group of Sarajevo and the art magazine “Nada”. In this period she made a lot of self-portraits, using photographic models as a reference. Berlin is the last European capital where Iavan Kobilca stays, before coming back for good to Lubiana when the First World War breaks out. Also this city “leaves a mark” on Kobilca’s work, through the usage of white and the presence of still-life. She died in Lubiana the 4th of December 1926, already one of the greatest jugoslavian painters of all-time. This kind of acknowledgment was consecrated in 1993 when her face appeared on the 5000 slovenian tallers banknote (the second most valued banknote), in circulation until the introduction of euro in 2007.

The National Gallery of Slovenia, in celebration for the One Houndreth anniversary from its foundation, consecrated to her an exposition where around 140 works of art by Ivana Kobilca were in place, from June 2018 to February 2019, even with unknown-to-the-public paintings coming from private collections. Barbara Jaki, head director of the National Gallery, prepared with care and love this important exposition, also recuperating work drafts, photographs and letters: articulating a complex path built around twelve moments, to explore the creative processes of Kobilca, that was one of the first great women in arts, in the modern age, to succeed in a dominantly male profession. An artist much to be studied and to be uncovered.

 

Traduzione slovena
Klara Luznik

“ Vse sem hotela videti, pogledati za vsako zaveso.
Danes nič ne obžalujem.
Videla sem svet in življenje, lepo in obsijano s soncem.
Nič ne obžalujem.”

Tale navedba dobro predstavlja najpomembnejšo slovensko slikarko vseh časov, svobodno svetovljanko. Ženski kot umetnici, se konec 19. Stoletja, ni bilo lahko potrditi. Ivani Kobilci je to uspelo. Velik talent, ki ga je razvijala že iz osnovne šole naprej in njena odprtost, jo vodita preko študija, potovanj in slikanja do potrditve kot profesionalna slikarka med prehodom iz 19.v 20.stoletje. Slikarka realizma se sreča in primerja z največjimi slikarji njenega časa, vzpostavi povezave z drugimi umetnicami, razvija njeno znanje in razgledanost v raznih šolah in tako njeno ime začne krožiti po Evropi. Že pri rosnih 30.letih postane uradno potrjena umetnica in ključna figura za umetniški in kulturni razvoj njene dežele. Ljubljana, mesto njenega rojstva 20.decembra leta 1861, je bila v času Avstro-Ogrske trgovsko in kulturno zelo dinamična. Ivana se je rodila v bogati obrtniški družini. Mladenka je obiskovala osnovno in meščansko šolo pri Uršulinkah, pri katerih se je učila tudi italijanščine in francoščine, pa tudi slikanje. Pri 16.letih jo je potovanje z očetom na Dunaj vzpodbudilo do odločitve njenega poklica. Tja se je po nekaj letih vrnila, kjer je v galeriji dunajske akademije kopirala slike starih mojstrov. Po dveh letih je svoje šolanje nadaljevala v Münchnu, kjer je vstopila v umetnoobrtno šolo in bila učenka Aloisa Erdelta v damski zasebni šoli. Obiskovala je tudi tečaj anatomskega risanja pri kiparju Christophu Rothu, kjer so risali tudi po golih modelih, tako moških kot ženskih. V tistem času je bila to izjema, saj se je večini zdelo nedopustno, da bi dekleta v ateljejih gledala gole moške. To je bil tudi vzrok zaradi katerega ženske v tistem času niso smele obiskovati državne Umetnostne akademije. Ivana pod vodstvom učitelja Erdelta, ki je učil tehniko nizozemskih slikarjev 17.stoletja, osredotočena na najmanjši detajl, postane slikarka portretov in se začne preživljati s prodajo njenih del. Leta 1888 je sodelovala na prvi kolektivni razstavi, kjer je njeno delo opazil Richard Muther, eden izmed najpomembnejših umetniških kritikov tistega časa. Naslednje leto je prvič samostojno razstavljala v Ljubljani. Njen Portret sestre Fani je bil kritiziran zaradi gole roke portretirane, češ da se to res ne spodobi in da bi morala imeti obleko z dolgimi rokavi. V prvi fazi njene ustvarjalnosti prevladajo temne barve. Ivana Kobilca se posveti ženskim figuram, kot zelo poznana Kofetarica (1888), ki je njen najbolj občudovan portret shranjen v Narodni Galeriji v Ljubljani skupaj s preostalimi deli s težiščem na portretu in žanrskih upodobitvah iz kmečkega in meščanskega življenja.

Henri je bil tudi prijatelj Rodina in Moneta. Svoja dela razstavi kar trikrat v Salon des Arts (1891, 1892 in 1897) in postane častni član Societe Nationale des Beaux-Arts. Pariška leta so bila zelo plodna. Za svoja dela Ivana izbere raznolike modele med katerimi najdemo vse, od prodajalk na tržnici pa do elegantnih bogatih meščank. Živi v takoimenovani bohemijanski skupnosti, ki združuje ženske umetnice, med katerim je tudi Rosa Pfäffinger, poznana kot slikarka temperamentov brez meja. Zaradi slabe socialne klime se Ivana v družbi drugih umetnic umakne na jug Pariza, v periferijo, kjer začne slikati en plein air. Nove tendence in francoska umetnost postaneta močan vpliv na njen slog in barv, kot uporaba modrih in zelenih odtenkov.

Kakšno leto kasneje jo srečamo v Firencah, kjer se leta 1897 udeleži kot prva Slovenka na Beneškem bienalu. Še isto leto se preseli v Sarajevo, kjer se ugodno preživlja z neštetimi naročili. Postane članica Sarajevskega slikarskega kluba, naredi tri cerkvene freske, številne avtoportrete z uporabo fotografije ter sodeluje pri reviji Nada. Berlin je predzadnja postaja v njenem življenju, potem pa se ob zacčetku prve svetovne vojne dokoncčno vrne v Ljubljano. Uporaba bele barve in risanje cvetličnega tihožitja, dekleta v narodni noši, otroke v zelenju, staro mamico ob ognjišču, branjevko z rožami, dekleta pri likanju itd. so berlinske umetniške sledi. 4 decembra leta 1926 umre v Ljubljani, že takrat poznana kot ena najpomembnejših jugoslovanskih slikark vseh časov. Njen obraz je bil natisnjen na bankovec 5000 slovenskih tolarjev leta 1993, ki je bil v uporabi do leta 2007.

Ob stoletnici Narodne galerije so postavili na ogled razstavo Ivane Kobilce, slikarke, katere dela so med obiskovalci najbolj priljubljena. Razstavljenih je 140 del, med njimi so nekatera, pridobljena iz zasebnih zbirk in tujine, na ogled prvič. Kakšna ženska je bila Ivana Kobilca, ki se je že v času življenja v neprizanesljivem 19.stoletju uspela postaviti ob bok moškim - izrazito moškem poklicu –? Edinstvena profesionalna slikarka!

Loukia Nicolaidou
Ilaria Billieri



Silvia dell'Orco

 

Loukia Nicolaidou è nata in una famiglia benestante a Limassol, Cipro, nel 1909 e ha studiato nella scuola privata di lingue straniere e studi greci. Dopo la laurea, ha iniziato un corso per corrispondenza della scuola di pittura parigina Abc. Incoraggiata dal pittore Vassilis Vryonidis, ha preso l’insolita decisione -per una donna del suo tempo- di partire per Parigi dove ha frequentato per un anno l'Accademia Colarossi. Su suggerimento dello scultore Constantinos Dimitriadis si iscrive quindi alla Scuola nazionale superiore di Belle Arti dove segue le lezioni di Lucien Simon. Contrariamente alla maggior parte dei pittori ciprioti (solo uomini), che all'epoca andavano a studiare a Londra a causa del controllo britannico dell'isola (data la mancanza di una scuola d'arte a Cipro), la scelta di Parigi di Nicolaidou non è stata casuale (Lamprou: 2014). Le donne avevano una presenza più diffusa nelle scuole d'arte della capitale francese e migliori opportunità di successo. Molto prima che a Londra, le pittrici a Parigi si avvalevano del potenziale dei modelli nudi (maschili e femminili) -necessari per lo studio dell'anatomia, dell'espressione e della plasticità della forma umana- e, in definitiva, potevano il coltivare il proprio talento (Nachlin : 1971). Nicolaidou è stata dunque la prima donna cipriota a studiare arte (Petridis: 2016). Si è laureata nel 1933, quindi è tornata nella sua isola. Un anno dopo ha tenuto a Cipro la sua prima mostra individuale che tuttavia ha ricevuto solo indifferenza. Sono seguite altre mostre singole, ma non sono andate meglio. La società cipriota ha dimostrato di non accettarla, in parte a causa della sua scelta e gestione dei soggetti, in parte per il suo genere. All'epoca il ruolo di una donna era ancora intrecciato con il matrimonio, la maternità e la vita privata, mentre la pittura, come altre arti e professioni, era dominata dall'uomo. Nel 1937 si trasferisce a Londra, dove continua la carriera artistica. Partecipa a una mostra collettiva, ricevendo recensioni assai positive. Non molto tempo dopo si sposa e gradualmente smette di prendere parte a mostre. Muore nel Regno Unito nel 1994.


Nicolaidou appartiene alla prima generazione di artisti/e ciprioti/e (nati prima del 1920), che ha focalizzato il suo interesse sull'essere umano e sull'ambiente urbano, assimilando creativamente gli insegnamenti dell'arte europea (Nikita: 2002). Come i suoi colleghi artisti contemporanei, Nicolaidou, durante il suo breve soggiorno a Cipro, ha trovato il suo stile personale studiando i temi del paesaggio e della vita quotidiana delle persone (vedi ad esempio Oi Agathoi Karpoi tis Gis [Τhe Fine Fruits of the Earth] e Politis Frouton stis Platres [Fruit Vendor at Platres]) - dando enfasi al colore e alla resa di una situazione esoterica e tentando di unire la tradizione al modernismo (Petridis: 2016). Dopo la partenza per il Regno Unito, le sue opere sono diventate più geometriche (Petridis: 2016). È stata influenzata dalle correnti artistiche del postimpressionismo, del fauvismo e dell'espressionismo, mentre tra i suoi colleghi artisti più evidenti sono state le influenze di Gauguin -sia per quanto riguarda i temi che per l'uso del colore- in particolare la costruzione dello spazio pittorico attraverso grandi superfici colorate (si può vedere l'influenza su di lei dai suoi dipinti, ad esempio Donne tahitiane, Parau Api, Donna caraibica, Suzanne Sewing, Night café). Tuttavia, Nicolaidou va oltre tali influenze. L'introduzione del nudo femminile -in effetti, non nel tradizionale modo maschile e in un momento in cui, in particolare a Cipro, era insolito - equivale a audacia. Nei suoi nudi, le donne sono o insieme ad altre donne (vedi Sta Horafia [Nei campi]) o sole (vedi Meleti Gymnou [Studio di nudo]) e non sembrano essere interessate all'occhio maschile. Esistono senza la sua approvazione e la loro nudità non mira a compiacerlo (Danos: 2006). Al contrario, ad esempio, dei nudi di un collega artista contemporaneo, Polyviou, che sono allungati e flessibili e si riferiscono direttamente all'immagine della donna come un oggetto erotico fragile e sensuale (Lamprou: 2004), le donne di Nicolaidou hanno le dimensioni di un solito corpo femminile di tutti i giorni. Il modo in cui si trovano nel loro spazio, senza essere impostati, consente a qualsiasi imperfezione di essere visibile. Inoltre, nella misura in cui non sono visti da dietro o da un angolo, dove essi stessi non sono consapevoli di essere osservati (quindi, senza il loro consenso) non sono soggetti al voyeurismo. Quando sono sorpresi, quando qualcuno si intromette nel loro spazio personale -come nel caso della donna che esce dal bagno indossando il suo asciugamano (vedi Meta to Banio [After the Bath])- sembrano piuttosto infastiditi.

Nel dipinto Prosopografia mias Filis [Ritratto di una ragazza], Nicolaidou va ancora oltre e rifiuta il ruolo di una donna come musa di un artista maschile (Lamprou: 2014). Questo dipinto è dominato dall'imponente figura di una pittrice che copre l'intera tela. Si fa avanti, non dà il permesso allo sguardo dello spettatore di sfuggire alla sua realtà, non vuole essere piacevole o carina, non sorride. Tiene i pennelli, gli strumenti del suo lavoro, in un modo molto professionale, non permettendo a nessuno di vedere cosa fa come fosse una leggera occupazione passatempo. Questo dipinto in particolare può far dialogare Nicolaidou con altre donne pittrici -una questione importante se si considera la narrativa che vuole che le donne siano influenzate dai colleghi maschi; una narrativa che vuole che le donne vivano e creino nell'ombra di un uomo, senza dialogare tra loro. Come esempi di altri dipinti simili, possiamo citare Autoritratto come allegoria della pittura (1638-1639) di Artemisia Gentileschi (1593-1653), Autoritratto con cappello di paglia (1782) di Elisabeth Vigee Le Brun (1755 -1842) e gli autoritratti di Frida Kahlo (1907-1954) (Stewart: 2019). A differenza di Gentileschi, la pittura di Nicolaidou non è però un'allegoria dell'arte, ma una rappresentazione dell'artista, che non ha più bisogno di un pretesto per ritrarsi in tale posizione (anche se nel suo caso non è un autoritratto, ma il ritratto di una amica). Inoltre, a differenza di lei, l'artista di Nicolaidou guarda direttamente verso chi osserva, cosa che accade anche a Le Brun e molto più sistematicamente a Kahlo. A differenza di Le Brun, tuttavia, la pittrice di Nicolaidou non indossa orecchini, un cappello o abiti pesantemente pieghettati, il che renderebbe il suo lavoro difficile. Sembra essere vestita in modo più semplice e comodo. In questa ritrattistica, il fatto che una pittrice sia raffigurata al lavoro da un'altra persona ha il proprio significato, in quanto riporta la donna al suo ruolo tradizionale di modella, anche se nella capacità di pittrice. Da Gentileschi a Kahlo attraverso Nicolaidou possiamo vedere la progressiva liberazione dell'artista e il superamento della sua paura di essere accusata di eccessiva ambizione e narcisismo, ma allo stesso tempo emergono tutti quei fattori che la trattengono. Nel caso di Nicolaidou, la fuga fiduciosa e visionaria a Parigi, l'indifferenza della società cipriota al suo lavoro al suo ritorno, ma anche il fatto che alla fine abbia rinunciato alla pittura quando ha formato una propria famiglia, dimostra che il talento e le virtù, come perseveranza e disciplina, non sono sufficienti a una donna per avere successo. Gli stereotipi di genere e i ruoli di genere, nonché le barriere istituzionali, trattengono le donne, mentre la biologia e la statistica arrivano a trasformare un problema sociale, politico, culturale ed economico in un ordine "normale" delle cose. Se una donna benestante, che ha una stanza tutta sua, secondo il famoso detto di Woolf, per dedicarsi all'arte alla fine si ritira, si può immaginare cosa succeda alle donne che sono prive dei privilegi a causa di altre caratteristiche identitarie, quali la razza o il censo. Opere di Loukia Nicolaidou si trovano nella collezione della Galleria di Stato di Arte cipriota contemporanea, nella collezione della Fondazione culturale della Banca di Cipro e nella Galleria comunale di Limassol.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

Loukia Nicolaidou naît dans une famille aisée de Limassol, à Chypre, en 1909 et étudie à l'école privée de langues étrangères et d'études grecques. Après avoir obtenu son diplôme, elle commence un cours par correspondance à l'école de peinture parisienne Abc. Encouragée par le peintre Vassilis Vryonidis, elle prend la décision inhabituelle - pour une femme de son temps - de partir pour Paris où elle fréquente l'Académie Colarossi pendant un an. Sur la suggestion du sculpteur Constantinos Dimitriadis, elle s'inscrit ensuite à l'École nationale supérieure des beaux-arts où elle suit les cours de Lucien Simon. Contrairement à la plupart des peintres chypriotes (uniquement des hommes), qui allaient à l'époque étudier à Londres en raison du contrôle britannique de l'île (étant donné l'absence d'école d'art à Chypre), le choix de Nicolaidou pour Paris n'était pas fortuit (Lamprou : 2014). Les femmes étaient plus présentes dans les écoles d'art de la capitale française et avaient de meilleures chances de réussite. Bien plus tôt qu'à Londres, les femmes peintres à Paris profitent du potentiel des modèles nus (hommes et femmes) - nécessaires à l'étude de l'anatomie, de l'expression et de la plasticité de la forme humaine - et, finalement, peuvent cultiver leur talent (Nachlin : 1971). Nicolaidou a ainsi été la première femme chypriote à étudier l'art (Petridis : 2016). Elle obtient son diplôme en 1933, puis retourne sur son île. Un an plus tard, elle organise sa première exposition individuelle à Chypre, qui ne suscite toutefois que de l'indifférence. D'autres expositions individuelles suivent, mais elles n’ont pas mieux marcher. La société chypriote s'est avérée ne pas l'accepter, en partie à cause de son choix et de son traitement des sujets, en partie à cause de son sexe. À cette époque, le rôle de la femme était encore étroitement lié au mariage, à la maternité et à la vie privée, tandis que la peinture, comme d'autres arts et professions, était dominée par les hommes. En 1937, elle s'installe à Londres, où elle poursuit sa carrière artistique.Elle participe à une exposition collective, recevant des critiques très positives. Peu de temps après, elle se marie et cesse progressivement de participer aux expositions. Elle meurt au Royaume-Uni en 1994.

Nicolaidou appartient à la première génération d'artistes chypriotes (nés avant 1920), qui ont concentré leur intérêt sur les êtres humains et l'environnement urbain, assimilant de manière créative les enseignements de l'art européen (Nikita : 2002). Comme ses collègues artistes contemporains, Nicolaidou, pendant son court séjour à Chypre, a trouvé son style personnel en étudiant les thèmes du paysage et de la vie quotidienne des gens (voir par exemple Oi Agathoi Karpoi tis Gis [ les beaux fruits de la terre) et Politis Frouton stis Platres [ Vendeuses de fruits à Platres]) - en mettant l'accent sur la couleur et le rendu d'une situation ésotérique et en tentant de combiner tradition et modernisme (Petridis : 2016). Après son départ pour le Royaume-Uni, ses œuvres sont devenues plus géométriques (Petridis : 2016). Elle a été influencée par les courants artistiques du post-impressionnisme, du fauvisme et de l'expressionnisme, tandis que parmi ses collègues artistes, les influences les plus évidentes étaient celles de Gauguin - tant en termes de thèmes que d'utilisation de la couleur -, en particulier la construction de l'espace pictural par le biais de grandes surfaces colorées (on peut en voir l'influence sur elle à partir de ses tableaux, par exemple Femmes tahitiennes, Parau Api, Femme antillaise, Suzanne cousant, Café de nuit). Cependant, Nicolaidou va au-delà de ces influences. L'introduction du nu féminin - en effet, non pas comme dans la tradition masculine et à une époque où, notamment à Chypre, c’était inhabituel - relève de l'audace. Dans ses nus, les femmes sont soit en compagnie d'autres femmes (voir Sta Horafia [Dans les champs]), soit seules (voir Meleti Gymnou [Étude de nu]) et ne semblent pas s'intéresser au regard masculin. Elles existent sans son approbation et leur nudité ne vise pas à lui plaire (Danos : 2006). Contrairement, par exemple, aux nus d'un autre artiste contemporain, Polyviou, qui sont allongés et flexibles et renvoient directement à l'image de la femme en tant qu'objet érotique fragile et sensuel (Lamprou : 2004), les femmes de Nicolaidou ont la taille d'un corps féminin ordinaire de tous les jours. La façon dont ils se trouvent dans leur espace, sans être mis en place, permet d’en voir aussi les imperfections. De même, dans la mesure où ils ne sont pas vus de dos ou sous un angle, où ils ne savent pas eux-mêmes qu'ils sont observés (donc sans leur consentement), ils ne sont pas sujets au voyeurisme. Lorsqu'ils sont surpris, lorsque quelqu'un empiète sur leur espace personnel - comme dans le cas de la femme qui sort de la salle de bain en portant sa serviette (voir Méta à Banio [Après le bain]) - ils semblent plutôt agacés.

Dans le tableau Prosopografia mias Filis [Portrait d'une fille], Nicolaidou va encore plus loin et rejette le rôle de la femme comme muse d'un artiste masculin (Lamprou : 2014). Ce tableau est dominé par la figure imposante d'une femme peintre qui recouvre toute la toile. Elle s'avance, elle ne donne pas au regard du spectateur la permission d'échapper à sa réalité, elle ne veut pas être agréable ou jolie, elle ne sourit pas. Elle tient ses pinceaux, les outils de son métier, d'une manière très professionnelle, ne permettant à personne de voir ce qu'elle fait, comme s'il s'agissait d'une occupation de loisir légère. Cette peinture en particulier peut amener Nicolaidou à dialoguer avec d'autres femmes peintres - une question importante si l'on considère le récit qui veut que les femmes soient influencées par leurs collègues masculins ; un récit qui veut que les femmes vivent et créent dans l'ombre d'un homme, sans dialoguer entre elles. Comme exemples d'autres peintures similaires, nous pouvons mentionner l'Autoportrait comme allégorie de la peinture (1638-1639) d'Artemisia Gentileschi (1593-1653), l'Autoportrait au chapeau de paille (1782) d'Elisabeth Vigee Le Brun (1755 -1842) et les autoportraits de Frida Kahlo (1907-1954) (Stewart : 2019). Toutefois, contrairement à Gentileschi, le tableau de Nicolaidou n'est pas une allégorie de l'art, mais une représentation de l'artiste, qui n'a plus besoin de prétexte pour se mettre dans une telle position (bien que dans son cas, il ne s'agisse pas d'un autoportrait, mais du portrait d'une amie). De plus, contrairement à elle, l'artiste de Nicolaidou regarde directement le spectateur, ce qui arrive aussi à Le Brun et beaucoup plus systématiquement à Kahlo. Cependant, contrairement à Le Brun, la femme peintre de Nicolaidou ne porte pas de boucles d'oreilles, de chapeau ou de vêtements fortement plissés, ce qui rendrait son travail difficile. Elle semble être habillée plus simplement et plus confortablement. Dans ce portrait, le fait qu'une femme peintre soit représentée au travail par une autre personne a une signification propre, car il ramène la femme à son rôle traditionnel de modèle, même si c’est dans ses capacités de peintre. De Gentileschi à Kahlo en passant par Nicolaidou, nous pouvons voir la libération progressive de l'artiste et le dépassement de sa peur d'être accusée d'ambition excessive et de narcissisme, mais en même temps émergent tous les facteurs qui la retiennent. Dans le cas de Nicolaidou, la fuite confiante et visionnaire à Paris, l'indifférence de la société chypriote à l'égard de son travail à son retour, mais aussi le fait qu'elle ait finalement abandonné la peinture lorsqu'elle a fondé sa propre famille, montrent que le talent et les vertus, telles que la persévérance et la discipline, ne suffisent pas à la réussite d'une femme. Les stéréotypes et les rôles sexuels, ainsi que les barrières institutionnelles, freinent les femmes, tandis que la biologie et les statistiques viennent transformer un problème social, politique, culturel et économique en un ordre des choses "normal". Si une femme riche, qui a sa propre chambre, selon la célèbre phrase de Woolf, pour se consacrer à l'art, finit par se retirer, on peut imaginer ce qui arrive aux femmes qui sont privées de privilèges en raison d'autres caractéristiques identitaires, comme la race ou le cens. Les œuvres de Loukia Nicolaidou se trouvent dans la collection de la Galerie nationale d'art contemporain chypriote, dans la collection de la Fondation culturelle de la Banque de Chypre et dans la Galerie municipale de Limassol.

 

Traduzione inglese
Vagia Kalfa

Loukia Nicolaidou was born into a well-off family in Limassol, Cyprus in 1909 and studied in the Private School of Foreign Languages and Greek Studies. After graduation, she began a course by correspondence with the ABC painting school in Paris. Encouraged by painter Vassilis Vryonidis, she took the unusual – for a woman of her time - step of leaving for Paris, where she attended the Colarossi Academy for a year. At the suggestion of sculptor Constantinos Dimitriadis, she then enrolled at the Ecole Nationale Superieure des Beaux - Arts, where she was taught by Lucien Simon. In contrast with most Cypriot painters, who went to study in London due to the British control of the island at the time (given the lack of an arts school in Cyprus), Nicolaidou’s choice of Paris was not coincidental (Lamprou: 2014). Women had a more noted presence in the art schools of the French capital and better opportunities for advancement. Quite earlier than in London, women painters in Paris were availed of the potential of nude models (male and female) – which was necessary for the study of anatomy, expression and plasticity of the human form – and, ultimately for cultivation of talent (Nachlin: 1971). Nicolaidou was the first Cypriot women to study art (Petridis: 2016). She graduated in 1933 and returned to Cyprus. A year later she held her first individual exhibition on the island, which met with an indifferent response. More individual exhibitions followed but they did not fare any better. Cypriot society proved unready to accept her - partly due to both her choice and handling of subjects as well as her gender. At the time, the role of a woman was still intertwined with marriage, motherhood and private life, whereas painting, like other arts and professions, was man - dominated. In 1937 she moved to London, where she continued her artistic career. She took part in a group exhibition, receiving very positive reviews. Not long thereafter she married and gradually stopped taking part in exhibitions. She died in the UK in 1994.

Nicolaidou belongs to the first generation of Cypriot artists (those born before 1920), which focused its interest on man and the urban environment, creatively assimilating the teachings of European art (Nikita: 2002). Like her contemporary fellow artists, Nicolaidou, during her short stay in Cyprus, found her personal style by studying the subjects of landscape and people’s everyday life (see e.g., Oi Agathoi Karpoi tis Gis [Τhe Fine Fruits of the Earth] and Politis Frouton stis Platres [Fruit Vendor at Platres]) – giving emphasis on colour and the rendering of an esoteric situation and attempting to couple tradition with modernism (Petridis: 2016). After her flight to the UK, her works became more geometric (Petridis: 2016). She was influenced by the artistic currents of post - impressionism, fauvism and expressionism, while among her fellow artists more evident were the influences of Gauguin – both as regards themes as well as the use of colour - in particular, the construction of painting space through large coloured surfaces (one can see the influence on her from his paintings, for instance, Tahitian Women, Parau Api, Caribbean Woman, Suzanne Sewing, Night café). Nevertheless, Nicolaidou goes beyond her influences. The introduction of the (female) nude – indeed, not in the traditional male way and at a time when, particularly in Cyprus, it was unusual- amounts to boldness. In her nudes, women are either together with other women (see Sta Horafia [In the fields]) or alone (see Meleti Gymnou [Nude Study]) and do not seem to be interested in the male eye. On the contrary, they exist without its approval and their nudity does not aim to please it (Danos:2006) In contrast, for instance, with the nudes of a contemporary fellow artist, Polyviou, that are elongated and flexible and directly refer to the picture of the woman as a fragile and sensual erotic object (Lamprou: 2004), Nicolaidou’s women have the dimensions of a usual, everyday female body. The way they stand in their space, without being set up, allows whatever blemishes to be visible. Moreover, to the degree that they are not seen from behind or at an angle, where they themselves are not aware of being seen (therefore, without their consent) they are not subject to voyeurism. When they are surprised, when someone intrudes in their personal space – as for instance in the case of the woman who exits the bath wearing her towel (see Meta to Banio [After the Bath]), they appear rather annoyed.

Ιn the painting Prosopografia mias Filis [Portrait of a Girlfriend], Nicolaidou goes even further and rejects the role of a woman as a male artist’s muse (Lamprou: 2014). This painting is dominated by the imposing figure of a paintress, covering the entire canvas. She comes forward, gives no permission to the viewer's gaze to escape her reality, does not want to be pleasant or cute, does not smile. She holds the brushes, the tools of her work, in a very professional manner, not allowing anybody to see what she does as a light pastime occupation. This painting in particular can bring Nicolaidou into dialogue with other women painters – an important issue if one considers the narrative that wants women to be influenced by male painters; a narrative that wants women to live and create in a man’s shadow, without conversing among themselves, thus creating a genealogy. As examples of other such paintings we may site Self-Portrait as an Allegory of Painting (1638-1639) by Artemisia Gentileschi (1593-1653), the painting Self-Portrait with a Straw Hat (1782) by Elisabeth Vigee Le Brun (1755-1842) and the self-portraits of Frida Kahlo (1907-1954) (Stewart: 2019). Unlike Gentileschi, Nicolaidou's painting is not an allegory of art, but a depiction of the artist, who no longer needs a pretext to portray herself in such a position (even though in her case it is not a self - portrait, but a portrait of a friend of the painter). In addition, unlike her, Nicolaidou’s artist looks directly into the lens, something that happens also in Le Brun and much more systematically in Kahlo. Unlike Le Brun, however, Nicolaidou's painter does not wear earrings, a hat or heavily pleated dresses, which actually make her job difficult. She seems to be more simply and comfortably dressed. In this portraiture, the fact that one painter is depicted at work while the other is not has its significance, as it brings the woman back to her traditional role as a model, even though in the capacity of a paintress. From Gentileschi to Kahlo through Nicolaidou we can see the progressive liberation of the artist and the overcoming of her fear that she will be accused of excessive ambition and narcissism, but at the same time all those factors that kept her back. In the case of Nicolaidou, the hopeful and visionary escape to Paris, the indifference of Cypriot society to her work on her return, but also the fact that she eventually gave up painting when she started a family, proves that talent and virtues, such as perseverance and discipline, are not enough for a woman to succeed. Gender stereotypes and gender roles, as well as institutional barriers, hold women back, while biology and statistics come to turn a social, political, cultural and economic problem into a "normal" order of things. If a wealthy woman, who has a room of her own, according to Wolf's famous saying, in order to engage in art eventually retires, one can imagine what happens to women who are deprived of privileges because of other characteristics of identity, such as race. Works by Loukia Nicolaidou are found in the collection of the State Gallery of Contemporary Cypriot Art, in the collection of the Cultural Foundation of the Bank of Cyprus and in the Municipal Gallery of Limassol.

 

Traduzione greca
Vagia Kalfa

Το 1909 γεννιέται στη Λεμεσό της Κύπρου η Λουκία Νικολαΐδου. Η καταγωγή της από εύπορη οικογένεια της επιτρέπει να φοιτήσει στην Ιδιωτική Σχολή Ξένων Γλωσσών και Ελληνικών Μαθημάτων. Μετά την αποφοίτησή της ξεκινά μαθήματα δι’ αλληλογραφίας στη σχολή ζωγραφικής ABC στο Παρίσι. Μετά από παρότρυνση του ζωγράφου Βασίλη Βρυωνίδη παίρνει την ασυνήθιστη, ειδικά για την εποχή, απόφαση για γυναίκα και φεύγει στο Παρίσι, όπου φοιτά για έναν χρόνο στην Ακαδημία Colarossi. Με παρότρυνση του γλύπτη Κωνσταντίνου Δημητριάδη μετεγγράφεται στην Ecole Nationale Superieure des Beaux-Arts, όπου έχει δάσκαλο τον Lucien Simon, από τον οποίο επηρεάζεται. Αντίθετα με τους περισσότερους Κύπριους ζωγράφους, οι οποίοι πηγαίνουν να σπουδάσουν στο Λονδίνο, με το οποίο η Κύπρος έχει δεσμούς λόγω της αγγλικής αποικιοκρατίας στο νησί (και με δεδομένο ότι στο τελευταίο δεν υπάρχει ακόμα Σχολή Καλών Τεχνών), η Νικολαΐδου επιλέγει το Παρίσι και όχι τυχαία (Λάμπρου: 2014). Στο τελευταίο υπάρχει μεγαλύτερη αντιπροσώπευση των γυναικών στις σχολές καλών τεχνών, καθώς επίσης και περισσότερες ευκαιρίες εξέλιξης. Αρκεί να σημειωθεί ότι, αρκετά νωρίτερα από το Λονδίνο, στο Παρίσι προσφέρονταν η δυνατότητα γυμνών (αντρικών και γυναικείων) μοντέλων για τις γυναίκες ζωγράφους, κάτι απαραίτητο για τη μελέτη της ανατομίας, της έκφρασης, της κίνησης και της πλαστικότητας και, τελικά, της καλλιέργειας του ταλέντου (Nachlin: 1971). Η Νικολαΐδου είναι η πρώτη Κύπρια, που σπουδάζει τέχνη (Πετρίδης: 2016). Το 1933 παίρνει το δίπλωμά της και επιστρέφει στην Κύπρο. Ένα χρόνο μετά, γίνεται η πρώτη ατομική της έκθεση στο νησί, όπου είχε αδιάφορη υποδοχή. Ακολούθησαν κι άλλες ατομικές εκθέσεις, οι οποίες είχαν την ίδια ψυχρή αντιμετώπιση. Η κυπριακή κοινωνία αποδείχτηκε ανέτοιμη να τη δεχτεί και σε αυτό συνέβαλε τόσο η επιλογή και ο χειρισμός των θεμάτων της όσο, οπωσδήποτε, και το φύλο της, καθώς εκείνη την εποχή ο ρόλος της γυναίκας ήταν συνυφασμένος με το γάμο, τη μητρότητα και τον ιδιωτικό χώρο, ενώ η ζωγραφική, όπως άλλες τέχνες και επαγγέλματα, ήταν ανδροκρατούμενη. Το 1937 εγκαθίσταται στο Λονδίνο, όπου συνεχίζει την καλλιτεχνική της σταδιοδρομία. Παίρνει μέρος σε ομαδική έκθεση και εισπράττει πολύ θετικές κριτικές. Τα επόμενα χρόνια παντρεύεται και σταδιακά σταματά να εκθέτει έργα της. Πεθαίνει το 1994 στην Αγγλία.

Η Νικολαΐδου ανήκει στην πρώτη γενιά Κύπριων καλλιτεχνών (αυτών που είναι γεννημένοι ως το 1920), η οποία στρέφει το ενδιαφέρον της στον άνθρωπο και στο άστυ, αφομοιώνοντας δημιουργικά τα διδάγματα της ευρωπαϊκής τέχνης (Νικήτα: 2002). Όπως οι σύγχρονοι ομότεχνοί της, η Νικολαΐδου, κατά τη διάρκεια της βραχύχρονης παραμονής της στην Κύπρο, βρίσκει το προσωπικό της ύφος, μελετώντας τη θεματική του τοπίου και την καθημερινή ζωή των ανθρώπων (ενδεικτικά βλ. τους πίνακες Οι Αγαθοί Καρποί της Γης και Πωλητής Φρούτων στις Πλάτρες) , δίνοντας έμφαση στο χρώμα και στην απόδοση της εσωτερικής κατάστασης και επιχειρώντας να παντρέψει την παράδοση με το νεωτερισμό (Πετρίδης: 2016). Μετά την φυγή της στην Αγγλία τα έργα της γίνονται περισσότερο γεωμετρικά (Πετρίδης: 2016). Επηρεάζεται από τα καλλιτεχνικά ρεύματα του μετα - ιμπρεσσιονισμού, του φωβισμού και του εξπρεσσιονισμού, ενώ από τους ομότεχνούς της εμφανέστερες είναι οι επιρροές του Γκωγκέν τόσο ως προς τη θεματική όσο και ως προς τη χρήση του χρώματος, πιο συγκεκριμένα, τη δόμηση του ζωγραφικού χώρου μέσω μεγάλων χρωματικών επιφανειών (ενδεικτικά μπορεί να δει κανείς τις επιρροές της από τους πίνακές του Οι Γυναίκες της Αϊτής, Parau Api, Η Γυναίκα της Καραϊβικής, Η Σουζάνα Ράβει, Το Καφενείο της Νύχτας). Ωστόσο, η Νικολαΐδου πηγαίνει πέρα από τις επιρροές της. Η ίδια η εισαγωγή του (γυναικείου) γυμνού, και μάλιστα όχι με τον παραδοσιακό αντρικό τρόπο, σε μια εποχή, όπου ειδικά στην Κύπρο δεν ήταν συνηθισμένο, συνιστά τόλμη. Στα γυμνά της οι γυναίκες είτε είναι μαζί με άλλες γυναίκες (βλ. τον πίνακα Στα Χωράφια) είτε μόνες τους (βλ. Μελέτη Γυμνού) φαίνεται να μην ενδιαφέρονται για το αντρικό βλέμμα. Αντίθετα, υπάρχουν χωρίς την έγκρισή του και η γύμνια τους δεν αποσκοπεί στην τέρψη του (Δανός: 2006). Διαφορετικά, για παράδειγμα, από τα γυμνά του σύγχρονου ομότεχνού της Πολυβίου, που είναι μακρόστενα και ευλύγιστα και παραπέμπουν ευθέως στην εικόνα της γυναίκας ως εύθραυστου και αισθησιακού ερωτικού αντικειμένου (Λάμπρου: 2014), οι γυναίκες της Νικολαΐδου έχουν τις διαστάσεις ενός καθημερινού γυναικείου σώματος και ο τρόπος, που στέκονται στον χώρο, χωρίς να στήνονται, επιτρέπει να φανούν οι όποιες ατέλειες. Επιπλέον, στον βαθμό που δεν βλέπονται από πίσω ή από οπτική γωνία, όπου οι ίδιες αγνοούν ότι βλέπονται (άρα χωρίς τη συναίνεσή τους) αρνούνται την ηδονοβλεπτική θέασή τους. Όταν αιφνιδιάζονται, επειδή κάποιος εισβάλλει στον προσωπικό τους χώρο, όπως για παράδειγμα στην περίπτωση της γυναίκας που βγαίνει από το μπάνιο, φορώντας την πετσέτα της (βλ. τον πίνακα Μετά το Μπάνιο), δείχνουν μάλλον ενοχλημένες.

Στον πίνακα Προσωπογραφία μιας Φίλης η Νικολαΐδου πηγαίνει ακόμα παραπέρα και αρνείται το ρόλο της γυναίκας ως μούσας του άντρα καλλιτέχνη (Λάμπρου: 2014). Σε αυτό τον πίνακα κυριαρχεί στον χώρο η επιβλητική μορφή μιας ζωγράφου, που καταλαμβάνει όλο τον καμβά και κλείνει τον χώρο πίσω της, έχοντας μπει μπροστά στο βλέμμα του θεατή και μην επιτρέποντάς του να κλείσει τα μάτια του από την πραγματικότητά της. Η φιγούρα αυτή δεν θέλει να είναι ευχάριστη και χαριτωμένη, δεν χαμογελά, αλλά κρατά τα εργαλεία της δουλειάς της, τα πινέλα και πολύ επαγγελματικά δηλώνει την παρουσία της, μην επιτρέποντάς του να δει αυτό που κάνει ως μια ανάλαφρη ενασχόληση για να περνά ο χρόνος. Ειδικά, ο τελευταίος πίνακας μπορεί να φέρει τη Νικολαΐδου σε διάλογο με άλλες γυναίκες ζωγράφους, κάτι σπουδαίο, αν αναλογιστεί κανείς την αφήγηση, που θέλει τις γυναίκες να επηρεάζονται από τους άντρες ζωγράφους και να ζουν και να δημιουργούν στη σκιά τους, χωρίς να συνομιλούν μεταξύ τους, φτιάχνοντας μιας γενεαλογία. Ενδεικτικά, μπορούν να αναφερθούν ο πίνακας Αυτοπροσωπογραφία ως Αλληγορία της Ζωγραφικής (1638-1639) της Artemisia Gentileschi (1593-1653), ο πίνακας Αυτοπροσωπογραφία με Ψάθινο Καπέλο (1782) της Elisabeth Vigee Le Brun (1755-1842) και οι αυτοπροσωπογραφίες της Frida Kahlo (1907-1954) (Stewart: 2019). Αντίθετα με την Gentileschi, ο πίνακας της Νικολαΐδου δεν αποτελεί αλληγορία της τέχνης, αλλά είναι απεικόνιση της καλλιτέχνιδος, η οποία πια δε χρειάζεται πρόσχημα για να απεικονίσει τον εαυτό της σε μια τέτοια θέση (αν και στην περίπτωση της Νικολαΐδου δεν πρόκειται για αυτοπροσωπογραφία, αλλά για προσωπογραφία μιας φίλης της ζωγράφου). Επιπλέον, αντίθετα με εκείνη, η καλλιτέχνιδα της Νικολαΐδου κοιτά απευθείας στο φακό, κάτι το οποίο συμβαίνει και στην Le Brun και πολύ συστηματικότερα στην Kahlo. Αντίθετα με την Le Brun, ωστόσο, η ζωγράφος της Νικολαΐδου δεν φοράει σκουλαρίκια, καπέλο, βαριά φουρφουριστά φορέματα, που στην πραγματικότητα δυσκολεύουν το έργο της - φαίνεται να είναι πιο απλά και άνετα ντυμένη. Σε αυτή την απεικόνιση παίζει ρόλο ότι η μία ζωγράφος συλλαμβάνεται επί τω έργω, ενώ η άλλη έξω από αυτό, κάτι που την επαναφέρει στην παραδοσιακή θέση της γυναίκας ως μοντέλου, έστω και με την ιδιότητα ταυτόχρονα της ζωγράφου. Από την Gentileschi μέχρι την Kahlo μέσα από την Νικολαΐδου μπορούμε να δούμε την προοδευτική απελευθέρωση της καλλιτέχνιδος και την υπέρβαση του φόβου της ότι θα κατηγορηθεί για υπέρμετρη φιλοδοξία και ναρκισσισμό, αλλά ταυτόχρονα και όλα αυτά, που την κρατούσαν και την κρατάνε πίσω. Η περίπτωση της Νικολαΐδου, η γεμάτη ελπίδες και όραμα φυγή στο Παρίσι, η αδιαφορία της κυπριακής κοινωνίας για το έργο της κατά την επιστροφή της, αλλά και το γεγονός ότι αποσύρθηκε τελικά από τη ζωγραφική, όταν έκανε οικογένεια, αποτελεί απόδειξη ότι το ταλέντο και αρετές, όπως η επιμονή και η πειθαρχία, δεν είναι αρκετές για μια γυναίκα, ώστε να πετύχει. Έμφυλα στερεότυπα και έμφυλοι ρόλοι, αλλά και θεσμικά εμπόδια κρατάνε πίσω τη γυναίκα, ενώ η βιολογία και η στατιστική έρχονται να μετατρέψουν ένα κοινωνικό, πολιτικό, πολιτισμικό και οικονομικό πρόβλημα σε «φυσιολογική» τάξη πραγμάτων. Αν μια εύπορη γυναίκα, που έχει ένα δωμάτιο δικό της, κατά την γνωστή ρήση της Γουλφ, για να ασχοληθεί με την τέχνη, τελικά αποσύρεται, μπορεί να φανταστεί κανείς τι συμβαίνει με γυναίκες, οι οποίες στερούνται προνομίων λόγω άλλων κατηγοριών ταυτότητας, όπως είναι το χρώμα του δέρματος ή η τάξη. Έργα της Λουκίας Νικολαΐδου βρίσκονται στη συλλογή της Κρατικής Πινακοθήκης Σύγχρονης Κυπριακής Τέχνης, στη συλλογή του Πολιτιστικού Ιδρύματος Τράπεζας Κύπρου και στη Δημοτική Πινακοθήκη Λεμεσού.

Mary Swanzy
Kay Mc Carthy



Silvia dell'Orco

 

Mary Swanzy nacque a Dublino il 15 febbraio 1882, seconda delle tre figlie di sir Henry Rosborough Swanzy, chirurgo oftalmico, e di sua moglie Mary Denham-Swanzy. La famiglia viveva al numero 23 di Merrion Square, a poca distanza dalla residenza della famiglia di un altro chirurgo oftalmico, sir William Wilde, padre di Oscar. Studiò presso l'Alexandra College, in Earlsfort Terrace, un istituto di pregio destinato alla gioventù della borghesia protestante dublinese. In seguito, frequentò il Lycée di Versailles, in Francia, e successivamente una scuola di Friburgo, in Germania. I suoi soggiorni esteri fecero sì che Swanzy parlasse correntemente sia il francese sia il tedesco. Al suo rientro a Dublino prese lezioni di pittura presso gli studi della paesaggista Mary Manning, diretti dal pittore John Butler Yeats, padre del poeta William. Vivendo a pochi passi dalla National Gallery of Ireland, Swanzy trascorse molto tempo ad osservare e copiare i grandi maestri. La sua prima mostra si tenne alla Royal Hibernian Academy (Rha) nel 1905 dove presentò il suo Portrait of a Child. Continuò a esporre ritratti lì ogni anno fino al 1910. Sempre nel 1905 andò a Parigi dove lavorò presso lo studio Delacluse, frequentò lo studio di Antonio de La Gándara e prese lezioni anche presso l’Académie de la Grande Chaumière e l'Académie Colarossi. Durante il soggiorno parigino Swanzy conobbe le opere di Gauguin, Matisse e Picasso. La sua vita nella capitale francese, sebbene piacevole, fu insolitamente poco bohémien. Normalmente, Swanzy si ritirava alle 8 di sera e si trovava già al proprio studio alle 7:45 del mattino, dove lavorava intensamente. A detta di tutte le persone che la conobbero, era moralmente rigorosa, coscienziosa e laboriosa, caratteristiche che potrebbero farla sembrare un po’ unidimensionale.

Il livello delle sue realizzazioni, i suoi numerosi viaggi e il suo pensiero originale furono davvero sorprendenti. Nata alla fine dell'epoca vittoriana, nei primi vent’anni di vita Swanzy apprese lo stile accademico della pittura canonica. Ma dopo, nella Parigi degli anni prima della Grande Guerra, assistette alla nascita dell'arte moderna e il suo lavoro subì una rapida evoluzione. Sperimentò i diversi stili di quegli anni, interpretandoli e trasformandoli in maniera assai personale. Nel 1920, allo scoppio della violenta guerra d'indipendenza irlandese, lasciò Dublino e andò in esilio autoimposto. Viaggiò per il mondo, prima nell’Europa orientale e nei Balcani, poi visitò le Hawaii e le Samoa dove rimase dal 1923 al '24. Lì produsse un corpus di opere davvero uniche con immagini che testimoniano il suo proto-femminismo e la sua posizione fortemente anti-colonialismo. Conosciuta soprattutto per i dipinti cubisti e futuristi, dopo il 1914 espose regolarmente al Salon des Indépendants e alle Beaux-Arts di Parigi. Nel 1946 partecipò ad una mostra insieme a Chagall, William Scott e Henry Moore, ma dopo questo periodo il suo lavoro fu dimenticato. Ciò era dovuto con ogni probabilità al suo status di artista donna; in effetti, lei stessa commentò una volta: «Se fossi nato Henry invece di Mary la mia vita sarebbe stata molto diversa».

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

Mary Swanzy est née à Dublin le 15 février 1882, la deuxième des trois filles de Sir Henry Rosborough Swanzy, un chirurgien ophtalmologue, et de son épouse Mary Denham-Swanzy. La famille vivait au 23 Merrion Square, à proximité de la résidence familiale d'un autre chirurgien ophtalmologue, Sir William Wilde, le père d'Oscar. Elle étudie au Alexandra College, à Earlsfort Terrace, une institution prestigieuse pour les jeunes de la bourgeoisie protestante de Dublin. Elle fréquente ensuite le Lycée de Versailles, en France, puis une école à Freiburg, en Allemagne. Ses séjours à l'étranger ont permis à Swanzy de parler couramment le français et l'allemand. À son retour à Dublin, elle prend des cours de peinture dans les ateliers du peintre paysagiste Mary Manning, dirigés par le peintre John Butler Yeats, père du poète William. Vivant à quelques pas de la National Gallery of Ireland, Swanzy passe beaucoup de temps à observer et à copier les grands maîtres. Sa première exposition a lieu à la Royal Hibernian Academy (Rha) en 1905, où elle présente son Portrait of a Child (Portrait d'un enfant). Elle continue à y exposer des portraits chaque année jusqu'en 1910. Toujours en 1905, elle se rend à Paris où elle travaille au studio Delacluse, fréquente le studio d'Antonio de La Gándara et suit également des cours à l'Académie de la Grande Chaumière et à l'Académie Colarossi. Pendant son séjour à Paris, Swanzy apprend à connaître les œuvres de Gauguin, Matisse et Picasso. Sa vie dans la capitale française, bien qu'agréable, était inhabituellement peu bohémienne. Normalement, Swanzy se retirait à 20 heures et était déjà à son atelier à 7 h 45, où elle travaillait intensément. De l'avis de tous ceux qui l'ont connue, elle était moralement rigoureuse, consciencieuse et travailleuse, des caractéristiques qui pourraient la faire paraître un peu unidimensionnelle.

Le niveau de ses réalisations, ses nombreux voyages et sa pensée originale étaient vraiment étonnants. Née à la fin de l'ère victorienne, Swanzy a appris dans les vingt premières années de sa vie le style académique de la peinture canonique. Mais plus tard, dans le Paris des années précédant la Grande Guerre, elle assiste à la naissance de l'art moderne et son œuvre connaît une évolution rapide. Elle expérimente les différents styles de ces années-là, les interprétant et les transformant de manière très personnelle. En 1920, lorsque la violente guerre d'indépendance irlandaise éclate, elle quitte Dublin et s'exile. Elle parcourt le monde, d'abord en Europe de l'Est et dans les Balkans, puis à Hawaï et à Samoa, où elle reste de 1923 à 24. Elle y produit un ensemble d'œuvres véritablement unique, dont les images témoignent de son proto-féminisme et de sa position fortement anticolonialiste. Connue surtout pour ses peintures cubistes et futuristes, elle expose régulièrement après 1914 au Salon des Indépendants et aux Beaux-Arts de Paris. En 1946, elle participe à une exposition aux côtés de Chagall, William Scott et Henry Moore, mais après cette période, son travail est oublié. Cela est très probablement dû à son statut d'artiste féminine ; en effet, elle déclare elle-même un jour : "Si j'étais née Henry au lieu de Mary, ma vie aurait été très différente".

 

Traduzione inglese
Kay Mc Carthy

Mary Swanzy was born in Dublin on the 15th of February 1882, the second of the three daughters of Sir Henry Rosborough Swanzy, an eye surgeon, and his wife Mary (née Denham). The family lived at 23 Merrion Square, only a few houses away from where the family of another eye specialist, Sir William Wilde (Oscar’s father) lived. She attended Alexandra College, Earlsfort Terrace, famous for encouraging independent thinking in its pupils, then went to a finishing school in Versailles, France, and later to a school in Freiburg, Germany. This meant that Swanzy was fluent in both French and German. She took art classes at Mary Manning's studio, under the direction of the painter John Butler Yeats, father of the poet William Butler Yeats. Living within walking distance of the National Gallery of Ireland, Swanzy spent a lot of time studying and copying the great masters. Swanzy's first exhibition was with the Royal Hibernian Academy (RHA) in 1905 with Portrait of a child, and she continued to exhibit portraits every year until 1910. In 1905 she went to Paris and worked at the Delacluse studio. She went on to attend the studio of Antonio de La Gándara in 1906 and took classes at Académie de la Grande Chaumière and Académie Colarossi. Whilst in Paris, Swanzy was exposed to the works of Gauguin, Matisse, and Picasso, which made a lasting impression on her Her life in Paris, while agreeable, was unusually unbohemian. The centre of the western art world and a magnet for artists of many nationalities. Usually, Swanzy was in bed by 8 pm each evening and in the studio by 7.45 am each morning, working intensively. By all accounts, she was straight-laced, conscientious and hardworking, something which may make her sound a little one-dimensional.

Her level of achievement, world travel and original thinking were astonishing. Born in the late Victorian era, by her early twenties Swanzy had mastered the academic style of painting. She witnessed the birth of Modern art in Paris before the First World War and her work rapidly evolved through the different styles of the day, each of them interpreted and transformed by her in a highly personal way. In 1920, against the background of violence of the Irish War of Independence, she left Ireland in self-imposed exile. Travelling worldwide she went first through Eastern Europe and the Balkans, then sailed to Hawaii and Samoa from 1923 to 24. While there she produced a body of work that is unique in an Irish context with images that show her proto-feminism and critique of the colonial system. Best known for her Cubist and Futurist paintings, after 1914, she exhibited regularly at the Paris Salon des Indépendants and the Beaux-Arts. By 1946 she was included in exhibitions with Chagall, William Scott and Henry Moore but after this period her work fell into obscurity. This may in part have been due to her status as a female artist and indeed she was vocal on issues of gender, remarking; "f I had been born Henry instead of Mary my life would have been very different".

Elizaveta Konsulova Vazova
Angela Scozzafava



Silvia dell'Orco

 

1897: un’adolescente dal piglio deciso si presenta a Ivan Murvichka, direttore della Scuola statale di Pittura (in seguito Accademia nazionale di Belle Arti), chiedendo che a lei e all’unica altra studente della scuola venga permesso di esercitarsi nel nudo non copiando modelli di gesso ma dal vero, così come facevano gli studenti maschi. Il direttore cede ed Elizaveta Konsulova diventa la prima donna a disegnare nudi dal vero. Fin da questo momento la sedicenne Elizaveta mostra quell’intraprendenza e quella determinazione che le permetteranno di realizzare con coraggio i suoi progetti. Ma chi era Elizaveta Konsulova? Prima di sei figli, era nata il 4 dicembre 1881 a Plovdiv da Anna Hadjiyenova e da Georgi Konsulov. La madre proveniva da una famiglia benestante e colta di Tulcea, città appartenente all’Impero ottomano e dal 1878 assegnata alla Romania. Il padre, Georgi, commerciante di professione, originario di Levski, era un sostenitore dell’indipendenza della Bulgaria, e per questo era stato esiliato ad Izmir; dopo la formazione del Principato di Bulgaria, diventerà membro del Parlamento. Dall’ambiente familiare Elizaveta assorbe l’attenzione ai problemi del moderno Stato nazionale: una parte importante della sua attività sarà infatti dedicata con passione alla formazione di una cultura e di un’identità nazionale bulgara moderna ed in particolare alla difesa del diritto delle donne ad una piena partecipazione alla vita culturale e pubblica. Nel 1891 la famiglia si traferisce a Sofia; Elizaveta si iscrive alla Scuola statale di Pittura, dove si diplomerà nel 1902 e dove conosce Boris Vazov, suo futuro marito nonché fratello minore di Ivan Vazov, figura significativa della nascente letteratura bulgara. Dopo il diploma avrebbe desiderato proseguire gli studi all’estero ma non le è possibile nell’immediato: a causa della morte del padre deve contribuire al bilancio familiare, apre una scuola di pittura per donne (convinta dell’importanza della formazione come veicolo per una piena presenza femminile nella vita culturale) e continua il suo percorso artistico dipingendo, in stile impressionista, nature morte e ritratti che scavano nell’intimità. Nel 1906, superata l’iniziale opposizione della famiglia di lui, sposa Boris Vazov. Il matrimonio - vale la pena di sottolineare che Elizaveta affianca al proprio cognom qeuello del marito - e la nascita delle prime due figlie (ne avrà tre) non la spingono a rinunciare ai suoi progetti, anzi. Nel 1909 riprende a studiare, si reca con le figlie a Monaco, dove frequenta l’Accademia di Belle Arti e continua a dipingere: bellissimi i lavori Donne in bianco e Ritratto in bianco. Tornata a Sofia, approfondisce la ricerca pittorica lavorando en plein air, realizza ritratti di molti intellettuali e artisti, utilizza tecniche e materiali diversi (olio, acquerello, pastelli); è tra le prime pittrici professioniste in Bulgaria, partecipa a numerose esposizioni collettive e nel 1919 sarà la prima a tenere una mostra personale. È in questo periodo che inizia ad affiancare al lavoro di artista quello di critica d’arte, traduttrice, intellettuale. La Bulgaria deve costruirsi un’identità culturale moderna, confrontarsi con la ricerca, l’arte, la letteratura internazionale: ed Elizaveta dà il suo contributo. Studia le lingue (ne conosce ben sei), traduce articoli, romanzi (tra questi Tre uomini in barca di J.K. Jerome), viaggia (Monaco, Roma, Milano, Venezia e poi ancora in Germania tra il 1920 e il 1922 e altrove): il suo ruolo è e sarà anche nei decenni successivi quello di divulgatrice e di intermediatrice tra la cultura bulgara e quella europea. Con articoli pubblicati su "Hudojnik" (Artista) fa conoscere al grande pubblico Francois Millet, Giovanni Segantini e altri. Ma non basta; perché si formi una diffusa e moderna identità culturale e artistica bisogna che ci sia una adeguata conoscenza storica dell’arte europea: Elizaveta traduce la Storia della pittura di Richard Muther, la prima parte della quale viene pubblicata nel 1907 diventando un testo di riferimento per l’insegnamento della storia dell’arte e per la formazione intellettuale in genere.

 

Il suo impegno non si limita all’arte. Durante le guerre balcaniche presta servizio come infermiera volontaria in diversi ospedali al confine turco assistendo i soldati nel culmine di un’epidemia di colera; dopo la guerra sarà insignita della Gran Croce. Questo episodio tuttavia, a differenza di quanto accade ad altri artisti, sembra rimanere del tutto separato dal suo lavoro; Elizaveta nei suoi scritti lascia testimonianze drammatiche di questo periodo, ma della guerra non c’è traccia nelle sue opere: i temi e lo stile rimangono gli stessi. E un’altra questione: cosa spinge Elizaveta, che ha 31 anni e tre figlie (la più piccola ha due anni) a lasciare la famiglia e rischiare la vita? Solo l’adesione agli ideali di “rinascita nazionale”? O anche il desiderio di dimostrare che la donna ha gli stessi diritti, passioni e capacità degli uomini? Superata la Prima guerra mondiale, la Bulgaria attraversa un periodo complicato, politicamente instabile ma ricco di fermento culturale: come accennavamo l’esperienza della Grande Guerra segna molti artisti e la Bulgaria si apre al confronto con le più importanti avanguardie europee (Espressionismo, Dadaismo, Futurismo, Bauhaus tra le altre). Ma Elizaveta rifiuta questo confronto (durante e dopo il suo soggiorno in Germania del 1920-1922, ad esempio, non riporta nulla su queste correnti): in un articolo del 1922 pubblicato sul giornale "Slovo" (Parole) scrive che l’arte dell’Occidente è malata, stigmatizza l’utilizzo di materiali non canonici (metallo, stoffe, vetro) da parte di alcuni artisti: essi sono diversi tra loro ma «tutti hanno in comune la volontà di rottura e l’incomprensione per i valori passati». Queste posizioni conservatrici si spiegano con la sua convinzione che l’assimilazione della “modernità” non sia ancora stata completata in Bulgaria: per rifiutare e rompere con la tradizione bisogna prima averla fatta pienamente propria; a confermare di questa posizione c’è un articolo del 1923 in cui sostiene di non rilevare affatto nella produzione artistica bulgara quello spirito di rivolta che soffia in Occidente. In verità in quegli anni alcune riviste diffondono le idee delle avanguardie ma questi movimenti hanno un carattere elitario, mentre Elizaveta Konsulova vuole rimanere fedele alla sua impostazione pedagogica e divulgatrice. In tale contesto si comprende bene l’importanza da lei attribuita all’associazione d’arte popolare "Slavia Beseda" -che aveva contribuito a fondare- e che si proponeva di recuperare e rivitalizzare la cultura popolare bulgara; nello stesso periodo lavora anche alla formazione di un teatro di marionette, che diventerà in seguito un punto di riferimento nella cultura nazionale.

   

Dal 1927 al 1933 la famiglia si trasferisce a Praga (per il lavoro diplomatico del marito). Anche qui Elizaveta svolge un’intensa attività diventando un elemento centrale nella vita cittadina: crea un’associazione per la reciprocità cecoslovacca-bulgara, partecipa al Congresso dell’Unione internazionale delle marionette e anche al Congresso internazionale delle Arti con una relazione sui costumi tradizionali bulgari. Al ritorno a Sofia inizia la sua collaborazione con "Beseda", una rivista culturale femminile; persegue sempre nella mission di svecchiare e internazionalizzare la cultura locale. Lo sguardo di Elizaveta ora si concentra sul mondo femminile: sostiene il diritto delle donne e la necessità per il Paese di favorire l’istruzione femminile come strumento per una loro piena partecipazione alla vita politica, cura e appoggia il lavoro delle artiste. Per la rivista traduce articoli dall’inglese, dal francese, dal tedesco; si occupa di genitorialità, diffonde le innovazioni igieniche, propugna una più razionale organizzazione della vita domestica come strumento per liberare il tempo delle donne e permettere loro di partecipare alla vita artistica, culturale e politica. Certamente non viene proposta una radicale revisione dei ruoli tradizionali ma viene difesa una maggiore partecipazione dell’uomo alla vita domestica e familiare che avrebbe lasciato alle compagne più tempo “tutto per loro”. Molti articoli sono dedicati ad artiste, in altri si batte per il diritto all’accesso delle donne all’istruzione universitaria e per il diritto di voto. Nel 1940 cessa la sua attività di artista e intellettuale. Nel 1956 le viene dedicata una retrospettiva delle sue opere e nel 1961 viene insignita della medaglia di Cirillo e Metodio. Elizaveta Konsulova Vazova muore il 29 agosto 1965 a Sofia. Numerose le mostre delle sue opere in tutto il mondo.

Per saperne di più:
Genova Irina, L’activité critique d’Elisaveta Konsulova Vazova (1881-1965) dans la formation de la modernité artistique en Bulgarie pendant les premières décennies du XX siècle, Collection Texte & Image https://en.wikipedia.org/w/index.php?title=Elisaveta_Konsulova-Vazova&oldid=946982592

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

1897 : une adolescente au caractère bien trempé se présente à Ivan Murvichka, directeur de l'École nationale de peinture (qui deviendra plus tard l'Académie nationale des beaux-arts), pour demander qu'elle et seulement une autre élève de l'école soient autorisées à pratiquer le dessin de nu non pas en copiant des modèles en plâtre mais d'après nature, comme le font les élèves masculins. Le directeur a cédé et Elizaveta Konsulova est devenue la première femme à dessiner des nus d'après nature. À partir de ce moment, Elizaveta, âgée de seize ans, fait preuve de l'ingéniosité et de la détermination qui lui permettront de réaliser courageusement ses projets. Mais qui était Elizaveta Konsulova? Première de six enfants, elle est née le 4 décembre 1881 à Plovdiv d'Anna Hadjiyenova et de Georgi Konsulov. Sa mère était issue d'une famille aisée et cultivée de Tulcea, une ville qui avait appartenu à l'Empire ottoman et qui, depuis 1878, avait été attribuée à la Roumanie. Son père, Georgi, commerçant de profession, originaire de Levski, était partisan de l'indépendance de la Bulgarie, et pour cette raison avait été exilé à Izmir ; après la formation de la Principauté de Bulgarie, il est devenu membre du Parlement. C'est à partir de son environnement familial qu'Elizaveta a porté son attention sur les problèmes de l'État-nation moderne : une partie importante de son activité est en effet passionnément consacrée à la formation d'une culture et d'une identité nationale bulgares modernes, et en particulier à la défense du droit des femmes à participer pleinement à la vie culturelle et publique. En 1891, la famille s'installe à Sofia ; Elizaveta s'inscrit à l'École nationale de peinture, où elle obtient son diplôme en 1902 et où elle rencontre Boris Vazov, son futur mari et frère cadet d'Ivan Vazov, figure importante de la littérature bulgare naissante. Après avoir obtenu son diplôme, elle aurait voulu poursuivre ses études à l'étranger, mais ce n'est pas possible à ce moment-là : en raison du décès de son père, elle doit contribuer au budget familial, elle ouvre donc une école de peinture pour femmes (convaincue de l'importance de la formation comme vecteur d'une pleine présence féminine dans la vie culturelle) et poursuit sa carrière artistique en peignant, dans le style impressionniste, des natures mortes et des portraits qui plongent dans l'intimité En 1906, après avoir surmonté l'opposition initiale de sa famille, elle épouse Boris Vazov. Le mariage - il convient de noter qu'Elizaveta a ajouté le nom de famille de son mari au sien - et la naissance de ses deux premières filles (elle en aura trois) ne l'ont pas fait renoncer à ses projets, au contraire. En 1909, elle reprend ses études, se rend avec ses filles à Munich, où elle fréquente l'Académie des Beaux-Arts et continue à peindre : les œuvres Femmes en blanc et Portrait en blanc sont très belles. De retour à Sofia, elle approfondit ses recherches picturales en travaillant en plein air, réalisant les portraits de nombreux intellectuels et artistes, en utilisant différentes techniques et matériaux (huile, aquarelles, pastels) ; elle fait partie des premiers peintres professionnels en Bulgarie, participant à de nombreuses expositions collectives et, en 1919, elle est la première à organiser une exposition individuelle. C'est à cette époque qu'elle a commencé à combiner son travail d'artiste avec celui de critique d'art, de traductrice et d'intellectuelle. La Bulgarie devait se construire une identité culturelle moderne, en se confrontant à la recherche, à l'art et à la littérature internationale, et Elizaveta y a apporté sa contribution. Elle étudie les langues (elle en connaît six), traduit des articles et des romans (dont Trois hommes dans un bateau de J.K. Jerome), elle voyage (Munich, Rome, Milan, Venise, puis à nouveau en Allemagne entre 1920 et 1922 et ailleurs) : son rôle est et restera dans les décennies suivantes celui de divulgatrice et d'intermédiaire entre la culture bulgare et européenne. Avec des articles publiés dans "Hudojnik" (Artiste), elle a fait connaître François Millet, Giovanni Segantini et d'autres au grand public. Mais cela ne suffit pas ; pour qu'une identité culturelle et artistique moderne et répandue se forme, il faut une connaissance historique adéquate de l'art européen : Elizaveta traduit l'Histoire de la peinture de Richard Muther, dont la première partie est publiée en 1907, devenant un texte de référence pour l'enseignement de l'histoire de l'art et pour la formation intellectuelle en général.

Son engagement ne s'est pas limité à l'art. Pendant les guerres des Balkans, elle a servi comme infirmière volontaire dans divers hôpitaux à la frontière turque, aidant les soldats au plus fort d'une épidémie de choléra ; après la guerre, elle a été décorée de la Grand-Croix. Cet épisode, cependant, contrairement à ce qui se passe pour d'autres artistes, semble rester complètement séparé de son œuvre ; Elizaveta laisse dans ses écrits des témoignages dramatiques de cette période, mais il n'y a aucune trace de la guerre dans ses œuvres : les thèmes et le style restent les mêmes. Et une autre question : qu'est-ce qui pousse Elizaveta, qui a 31 ans et trois filles (la plus jeune a deux ans), à quitter sa famille et à risquer sa vie ? Seulement l'adhésion aux idéaux de la "renaissance nationale" ? Ou encore le désir de démontrer que les femmes ont les mêmes droits, passions et capacités que les hommes ? Après la Première Guerre mondiale, la Bulgarie a traversé une période compliquée, politiquement instable mais riche en ferments culturels : comme nous l'avons mentionné, l'expérience de la Grande Guerre a marqué de nombreux artistes et la Bulgarie s'est ouverte aux plus importantes avant-gardes européennes (expressionnisme, dadaïsme, futurisme, Bauhaus, entre autres). Mais Elizaveta refuse cette comparaison (pendant et après son séjour en Allemagne en 1920-1922, par exemple, elle ne rapporte rien sur ces courants) : dans un article de 1922 publié dans le journal "Slovo" (Mots), elle écrit que l'art de l'Ouest est malade, elle stigmatise l'utilisation de matériaux non canoniques (métal, tissus, verre) par certains artistes : ils sont différents les uns des autres mais "ils ont tous en commun la volonté de rupture et l'incompréhension des valeurs du passé". Ces positions conservatrices s'expliquent par sa conviction que l'assimilation de la "modernité" n'est pas encore achevée en Bulgarie : pour rejeter et rompre avec la tradition, il faut d'abord l'avoir faite pleinement sienne ; cette position est confirmée par un article de 1923 dans lequel elle affirme ne pas déceler dans la production artistique bulgare l'esprit de révolte qui souffle en Occident. En effet, dans ces années-là, certains magazines diffusent les idées de l'avant-garde, mais ces mouvements ont un caractère élitiste, tandis qu'Elizaveta Konsulova veut rester fidèle à son approche pédagogique et populaire. Dans ce contexte, il est facile de comprendre l'importance qu'elle accordait à l'association d'art populaire "Slavia Beseda", qu'elle avait contribué à fonder et qui visait à récupérer et à revitaliser la culture populaire bulgare ; au cours de la même période, elle travaille également à la formation d'un théâtre de marionnettes, qui va devenir un point de référence dans la culture bulgare. De 1927 à 1933, la famille s'installe à Prague (pour le travail diplomatique de son mari). Là aussi, Elizaveta mène une activité intense, devenant un élément central de la vie de la ville : elle crée une association pour la réciprocité tchécoslovaque-bulgare, participe au congrès de l'Union internationale des marionnettes et aussi au congrès international des arts avec un rapport sur les costumes traditionnels bulgares.

À son retour à Sofia, elle commence à collaborer avec "Beseda", un magazine culturel féminin ; elle a toujours poursuivi la mission de moderniser et d'internationaliser la culture locale. Le regard d'Elizaveta se porte désormais sur le monde des femmes : elle soutient les droits des femmes et la nécessité pour le pays de promouvoir l'éducation des femmes comme outil de leur pleine participation à la vie politique, elle s'occupe et soutient le travail des femmes artistes. Pour le magazine, elle traduit des articles de l'anglais, du français et de l'allemand ; elle traite de la parentalité, diffuse des innovations hygiéniques, prône une organisation plus rationnelle de la vie domestique afin de libérer le temps des femmes et de leur permettre de participer à la vie artistique, culturelle et politique. Ce n'est certes pas une révision radicale des rôles traditionnels qui est proposée, mais une plus grande participation des hommes à la vie domestique et familiale est défendue, ce qui aurait laissé à leurs compagnes plus de temps "à elles seulement". De nombreux articles sont consacrés aux femmes artistes, dans d'autres elle se bat pour le droit d'accès des femmes à l'enseignement universitaire et pour le droit de vote. En 1940, elle cesse son activité d'artiste et d'intellectuelle. En 1956, une exposition rétrospective de ses œuvres lui a été consacrée et en 1961, elle a reçu la médaille Cyrille et Méthode. Elizaveta Konsulova Vazova décède le 29 août 1965 à Sofia. De nombreuses expositions de ses œuvres ont été organisées dans le monde entier.

Pour en savoir plus:
Genova Irina, L’activité critique d’Elisaveta Konsulova Vazova (1881-1965) dans la formation de la modernité artistique en Bulgarie pendant les premières décennies du XX siècle, Collection Texte & Image https://en.wikipedia.org/w/index.php?title=Elisaveta_Konsulova-Vazova&oldid=946982592

 

Traduzione inglese
Piera Negri

1897: A resolute teenager introduces herself to Ivan Murvichka, director of the State School of Painting (later the National Academy of Fine Arts), asking to be allowed (her and the only other female student in the school) to practice nude painting not copying plaster models but from life, as the male students did. The director accepts and Elizaveta Konsulova becomes the first woman to draw nudes from life. From this moment on, the sixteen-year-old Elizaveta shows that initiative and determination that will allow her to carry out her projects with courage. But who was Elizaveta Konsulova? The first of six children, she was born on December 4, 1881 in Plovdiv from Anna Hadjiyenova and Georgi Konsulov. Her mother was from wealthy and cultured family in Tulcea, a city belonging to the Ottoman Empire and assigned to Romania since 1878. Her father, Georgi, a merchant, originally from Levski, was a supporter of the independence of Bulgaria, and for this he had been exiled to Izmir; after the formation of the Principality of Bulgaria, he will become a member of Parliament. From the family environment Elizaveta absorbs attention to the problems of the modern nation state: an important part of her activity will in fact be passionately dedicated to the formation of a modern Bulgarian national culture and identity and in particular to the defence of women’s right for a full participation in cultural and public life. In 1891 the family moves to Sofia; Elizaveta enrols in the State School of Painting, where she graduates in 1902 and where she meets Boris Vazov, her future husband and younger brother of Ivan Vazov, a significant figure in the emerging Bulgarian literature. After graduation she would have liked to continue her studies abroad but this is not possible at the moment: due to the death of her father she has to contribute to the family budget, she opens a painting school for women (convinced of the importance of training as a vehicle for full female presence in cultural life) and continues her artistic path by painting, in impressionist style, still lives and portraits that dig into intimacy. In 1906, overcoming the initial opposition of her family, she marries Boris Vazov. The marriage - it is worth underlining that Elizaveta puts her husband's surname alongside her surname - and the birth of her first two daughters (she will have three) do not push her to give up on her plans, on the contrary. In 1909 she resumes her studies, she goes with her daughters to Munich, where she attends the Academy of Fine Arts and continues painting: her beautiful works Women in white and Portrait in white. Back to Sofia, she deepens her pictorial research working en plein air, she creates portraits of many intellectuals and artists, she uses different techniques and materials (oil, watercolour, pastels); she is one of the first professional painters in Bulgaria, she participates in numerous collective exhibitions and in 1919 she will be the first to hold a personal exhibition. It is in this period that she starts joining her work as an artist with that of art critic, translator, intellectual. Bulgaria must build a modern cultural identity, deal with international research, art, literature: and Elizaveta gives her contribution. She studies languages (she knows six of them), translates articles, novels (among these Three men in a boat by JK Jerome), travels (Munich, Rome, Milan, Venice and then again in Germany between 1920 and 1922 and elsewhere): her role is and will also be in the following decades that of populariser and intermediary between Bulgarian and European culture. With articles published in "Hudojnik" (Artist) she introduces Francois Millet, Giovanni Segantini and others to the general public. But that's not enough; for a widespread and modern cultural and artistic identity to be formed, an adequate historical knowledge of European art is required: Elizaveta translates Richard Muther's History of Painting, the first part of which was published in 1907, becoming a reference text for art history teaching and intellectual training in general.

Her commitment is not limited to art. During the Balkan wars she served as a volunteer nurse in several hospitals on the Turkish border assisting soldiers in the height of a cholera epidemic; after the war she will be awarded the Grand Cross. This episode, however, unlike what happens to other artists, seems remaining completely separate from her work; Elizaveta in her writings leaves dramatic evidence of this period, but there is no trace of the war in her works: her themes and style remain the same. And another question: what pushes Elizaveta, who is 31 years old and has three daughters (the youngest is two years old), to leave her family and risk her life? Only adherence to the ideals of "national rebirth"? Or even the desire to prove that women have the same rights, passions and abilities as men? After the First World War, Bulgaria goes through a complicated period, politically unstable but rich in cultural ferment: as we mentioned, the experience of the Great War marks many artists and Bulgaria opens up to confrontation with the most important European avant-gardes (Expressionism, Dadaism, Futurism, Bauhaus among others). But Elizaveta rejects this comparison (during and after her stay in Germany in 1920-1922, for example, she does not report anything on these currents): in a 1922 article published in the newspaper "Slovo" (Words) she writes that the art of the West is sick, it stigmatizes the use of non-canonical materials (metal, fabrics, glass) by some artists: they are different from each other but "they all have in common the desire to break and the incomprehension of past values". These conservative positions are explained by her idea that the assimilation of "modernity" has not yet been completed in Bulgaria: to reject and break with tradition one must first make it fully one's own; to confirm this position there is an article from 1923 in which she states not to detect in Bulgarian artistic production the spirit of revolt that is blowing in the West. In truth, in those years some magazines spread the ideas of the avant-gardes but these movements have an elitist character, while Elizaveta Konsulova wants to remain faithful to her pedagogical and popularizing approach. In this context, it is well understood the importance she attributed to the "Slavia Beseda" folk art association - she helped to found - and which aimed to recover and revitalize Bulgarian popular culture; in the same period she also works on the formation of a puppet theater, which would later become a point of reference in the national culture.

From 1927 to 1933 the family moves to Prague (due to her husband's diplomatic job). Here too Elizaveta carries out an intense activity becoming a central element in city life: she creates an association for Czechoslovakian-Bulgarian reciprocity, participates in the Congress of the International Union of Puppets and also in the International Congress of Arts with a report on traditional Bulgarian costumes. Back to Sofia she starts a cooperation with "Beseda", a women's cultural magazine; she always pursues the mission of up-dating and internationalizing the local culture. Elizaveta's gaze now focuses on the female world: she supports the women’s right and the need for the country to promote female education as a tool for their full participation in political life, she takes care and supports the work of female artists. For the magazine she translates articles from English, French, German; she deals with parenting issue, spreads hygienic innovations, supports a more rational organization of domestic life as a tool to free up women's time and allow them to participate in artistic, cultural and political life. Certainly, a radical revision of traditional roles is not proposed, but a greater participation of men in domestic and family life is advocated, which would leave to women more time "all for them". Many articles are dedicated to female artists, in others she fights for women's right to access to university education and for the right to vote. In 1940 she stops her activity as an artist and intellectual. In 1956 a retrospective of her works was dedicated to her and in 1961 she was awarded the Cyril and Methodius medal. Elizaveta Konsulova Vazova died on August 29, 1965 in Sofia. Several exhibitions of her works are all over the world.

More information:
Genova Irina, L’activité critique d’Elisaveta Konsulova Vazova (1881-1965) dans la formation de la modernité artistique en Bulgarie pendant les premières décennies du XX siècle, Collection Texte & Image

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