Margaret Ann Bulkley

Kay McCarthy


Giulia Capponi

La dissenteria dilagava a Londra durante la calura estiva del 1865. Il dottor James Barry sapeva di star morendo di quella malattia orribile e umiliante. Nella sua casa di Margaret Street osservò evolversi il morbo che conosceva benissimo e, all'età di 71 anni, ucciderlo mentre il suo corpo scaricava il nauseabondo efflusso acquoso, prosciugandolo di forza e di vita. La carriera del dottor James Barry era stata particolarmente illustre. Quel minuscolo chirurgo dell'esercito, ufficiale e gentiluomo, dal viso liscio e dai modi burberi, era stato l'ispettore generale degli ospedali. La sua voce insolitamente acuta aveva rimproverato superiori e sottoposti; si dice che in un'occasione abbia discusso perfino con la grande Florence Nightingale.

 

La sua morte fu certificata dal medico personale, il maggiore D. R. McKinnon, il quale registrò il decesso senza esaminare il cadavere. La vera identità del dottor James Barry fu rivelata da una giovane irlandese, Sophia Bishop, chiamata a preparare il corpo per la sepoltura. Nonostante l'odore nauseabondo, Sophia svolse il lavoro per cui la pagavano: doveva lavare e vestire il corpo del dottore. In vita il vecchio era stato un uomo magro dalle spalle strette, di statura bassa. Con l'età era diventato ricurvo. Nella morte le sue guance smunte e i capelli tinti di rosso appiccicati sulla fronte lo facevano sembrare scarno, i suoi lineamenti ancora più aguzzi. Quando la donna rimosse le lenzuola e tolse la camicia a quel corpo emaciato rimase di stucco. Il cadavere era sicuramente quello del vecchio signore che conosceva. Lo avrebbe riconosciuto ovunque. Eppure questo corpo non era di un maschio ma, senza alcun dubbio, di una donna: dai genitali femminili, dai seni cascanti e dal viso glabro. E non era tutto. Quelle striature sull’addome erano tipiche di una donna che aveva partorito da adolescente. Tutti sapevano che il dottor Barry era stato un militare dalla carriera lunga e illustre. Come aveva fatto una donna a fare il chirurgo (la chirurga?) nell'esercito senza essere mai scoperta? Sophia rimase attonita. Lì per lì non disse nulla, ma un paio di settimane dopo che il dottor Barry giaceva nella tomba parlò alle autorità di quanto aveva visto. La storia fece il giro dell’Impero Britannico arrivando alle orecchie di persone che avevano conosciuto il dottor James Barry fin dagli anni della giovinezza. Quasi tutte ammisero che fosse stato un tipo strano, anche se nessuno sapeva spiegare come una donna avesse potuto mettere a segno un inganno così audace. “Il dottor Barry” era nata a Cork, in Irlanda, intorno al 1789, in un'epoca in cui le donne ricevano poca istruzione, per non parlare della pratica della professione medica. Il suo nome era Margaret Ann Bulkleym, secondogenita di Jeremiah e Mary-Ann Bulkely, una famiglia di commercianti abbastanza agiata. Durante l’adolescenza sembra che Margaret fosse stata violentata da un parente e che abbia dato alla luce una bambina, Juliana, cresciuta da sua madre Mary-Ann come figlia propria. Quando la famiglia conobbe un grave dissesto economico, la giovane Margaret si trasferì a Londra, dove la madre aveva un fratello, James Barry, membro della Royal Academy e pittore. Le due donne frequentavano gli amici di Barry, tra i quali il generale Francisco de Miranda, patriota venezuelano in esilio, e David Stewart Erskine, conte di Buchan. I due uomini rimasero colpiti dalle capacità intellettive della ragazza e ritennero che, con la dovuta istruzione, protesse andare lontano. Forse sono stati loro a tessere la trama che le avrebbe permesso di intraprendere la professione medica. Lo zio James Barry morì nel 1806, lasciando a Mary Ann e Margaret abbastanza soldi per metter su casa a Londra. Tre anni più tardi, Margaret Bulkely scomparve dalla faccia della terra. Nascosto sotto un paltò (indossato sempre e con qualsiasi clima), James Barry lasciò la capitale per Edimburgo, dove si iscrisse alla facoltà di medicina nel 1809. Tolse alcuni anni della sua vera età per giustificare l' aspetto giovanile e fanciullesco. Girava voce che, poiché Barry era basso di statura, aveva una voce acuta, una corporatura minuta, la pelle liscia, fosse in realtà un bambino, troppo giovane per studiare medicina. Barry non tradì il segreto. Quando le/gli fu negato il permesso di sostenere gli esami, intervenne lord Erskine: il futuro medico si laureò in medicina all'età di 22 anni. In seguito si arruolò nell'esercito come assistente chirurgo e ancora una volta si mise in discussione la sua giovane età. Alla fine, però, fu arruolato.



Barry iniziò la carriera militare il 6 luglio 1813, come assistente ospedaliero dell'esercito britannico, e fu presto promosso assistente chirurgo del personale prima di andare a prestare servizio a Città del Capo, in Sudafrica, dove rimase per dieci anni diventando amico del governatore, lord Charles Somerset. Alcuni credono che con ogni probabilità Somerset conoscesse il segreto di Barry. I due furono amici intimi e Barry si trasferì in un appartamento privato presso la residenza di Somerset. Cominciarono a circolare voci sulla natura della loro relazione e il poster di un anonimo li accusò di omosessualità (reato penale all'epoca). Furono istituite commissioni per indagare sulla questione, ma i due furono scagionati. Forse per sembrare più mascolino e sfacciato o forse perché la sua natura era così, Barry apparve focoso, irascibile e incline alla rabbia. I pazienti, i superiori, il personale medico, furono i bersagli dei suoi scatti d’ira. Lanciava bottiglie di medicinali contro le persone e una volta prese parte a un duello, in cui nessuno rimase gravemente ferito. Le capacità mediche di Barry erano senza precedenti. Abile chirurgo, è stato il primo a eseguire con successo un taglio cesareo salvando sia la madre sia il bambino. Si è dedicato con grande determinazione alle riforme sociali e condannava la cattiva gestione degli arresti militari, delle prigioni e dei manicomi. Durante il suo soggiorno decennale in Sudafrica, fece migliorare il sistema idrico di Cape Town. Come medico, trattava ricchi e poveri, coloni e schiavi senza alcuna distinzione. Trasferito alle Mauritius nel 1828, si scontrò con un chirurgo dell'esercito che lo fece arrestare e processare presso la Corte marziale per «condotta inqualificabile da parte di un ufficiale gentiluomo». Anche questa volta fu assolto. Barry andava ovunque fosse necessario prestare servizio e salì ai vertici della carriera militare-sanitaria.


 

Nel 1857 divenne ispettore generale responsabile degli ospedali militari. Forte di questo incarico iniziò una lotta senza quartiere contro le carenze igieniche e pretese un vitto migliore e cure mediche adeguate per carcerati e lebbrosi. Il segreto della sua vera identità fu reso pubblico dopo uno scambio di lettere tra l'Ufficio del registro generale e il medico di Barry, il maggiore D. R. McKinnon. In queste lettere, il maggiore, che aveva sottoscritto il certificato di morte, scrisse: «non sono affari miei» se il dottor James Barry era maschio o femmina, una dichiarazione con cui lo stesso Barry sarebbe stato probabilmente d'accordo. Margaret Ann Bulkely, alias il dottor James Barry, è sepolta nel cimitero di Kensal Green, nel nord-ovest di Londra. Una cosa certa è che fosse molto più avanti dei suoi tempi, come donna, medica e umanitaria.

Fonti:

Du Preez, M, Dronfield, J., Dr James Barry, A woman ahead of her time, Oneworld Publications 10 Bloomsbury Street London WC1B 3SR Rose, June, THE PERFECT GENTLEMAN. The remarkable life of Dr. James Barry, the woman who served as an officer in the British Army from 1813 to 1859, Lume Books, 2018 http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/margaret-ann-bulkley/
https://www.history.com/news/the-extraordinary-secret-life-of-dr-james-barry

 Traduzione francese
Giuliana Gaudenzi

La dysenterie se propageait à Londres pendant la chaleur estivale en 1865. Le docteur James Barry savait qu’il était en train de mourir de cette maladie horrible et humiliante. Dans sa maison en Margaret Street il observait l’évolution de cette maladie qu’il connaissait très bien et qui, à l’âge de 71 ans, le tuait, alors que son corps déversait le nauséabond efflux aqueux, en le vidant de force et de vie. La carrière du docteur James Barry avait été particulièrement illustre. Ce petit chirurgien de l’armée, officier et gentleman, au visage lisse et aux manières bourrues, avait été l’inspecteur général des hôpitaux. Sa voix anormalement aiguë avait réprimandé supérieurs et subordonnés ; on dit que une fois il s’est disputé même avec la grande Florence Nightingale.


 


Sa mort a été certifiée par son médecin personnel, le major D. R. McKinnon, qui a enregistré le décès sans examiner le cadavre. La véritable identité du docteur James Barry a été révélée par une jeune irlandaise, Sophia Bishop, appelée à préparer le corps pour la sépulture. Malgré l’odeur nauséabonde, Sophia a fait le travail pour lequel elle était payée : elle devait laver et habiller le corps du docteur. De son vivant le vieil homme avait été un homme mince avec les épaules étroites, de petite taille. Avec l’âge il s’était voûté. Dans sa mort, ses joues pâles et ses cheveux teints en roux collés sur son front le faisaient paraître maigre, ses traits encore plus pointus. Quand la femme a soulevé les draps et enlevé la chemise à ce corps émacié elle a été sidérée. Le cadavre était sûrement celui du vieux monsieur qu’elle connaissait. Elle l’aurait reconnu n’importe où. Pourtant, ce corps n’était pas celui d’un mâle mais, sans aucun doute, d’une femme : par les organes génitaux féminins, par les seins tombants et par le visage imberbe. Et ce n’était pas tout. Ces striures sur l’abdomen étaient typiques d’une femme qui avait accouché dans l’adolescence. Tout le monde savait que le docteur Barry avait été un militaire avec une carrière longue et illustre. Comment avait pu une femme être chirurgien (chirurgienne ?) dans l’armée sans jamais avoir été découverte ? Sophia a été stupéfaite. Sur le moment elle n’a rien dit, mais deux semaines après l’enterrement du docteur Barry elle a rapporté aux autorités ce qu’elle avait vu. L’histoire a fait le tour de l’Empire Britannique et elle est arrivée jusqu’aux oreilles des personnes qui avaient connu le docteur James Barry depuis sa jeunesse. Presque tous ont admis qu’il avait été un type bizarre, même si personne ne pouvait expliquer comment une femme avait été capable de réussir une si audace tromperie. «Le docteur Barry » était née à Cork, en Irlande, aux alentours de 1789, dans une époque où les femmes ne recevaient pas beaucoup d’éducation, sans parler de la pratique de la profession médicale. Son nom était Margaret Ann Bulkley, seconde fille de Jeremiah et Mary-Ann Bulkley, une famille de commerçants assez aisée. Pendant son adolescence il semble que Margaret ait été violée par un membre de la famille et qu’elle ait accouché d’une petite fille, Juliana, élevée par sa mère Mary-Ann comme sa propre fille. Lorsque la famille a connu des graves difficultés économiques, la jeune Margaret a déménagé à Londres, où sa mère avait un frère, James Barry, membre de la Royal Academy et peintre. Les deux femmes fréquentaient les amis de Barry, parmi lesquels le général Francisco de Miranda, patriote vénézuélien en exile, et David Stewart Erskine, comte de Buchan. Les deux hommes ont été impressionnés par l’intelligence de la jeune fille et ont estimé que, avec un enseignement adéquat, elle pouvait aller bien loin. Ce sont eux, probablement, qui l’ont aidée à devenir médecin. L’oncle James Barry est mort en 1806, en léguant à Mary Ann et à Margaret assez d’argent pour s’installer dans leur propre maison à Londres. Trois ans plus tard, Margaret Bulkley est disparue de la face de la terre. Caché sous un manteau (porté tout le temps et avec n’importe quel climat), James Barry a quitté la capitale pour Edimbourg, où il s’est inscrit à la faculté de médecine en 1809. Il a enlevé quelques années à son vrai âge pour justifier son apparence juvénile. Le mot passait que, puisque Barry était de petite taille, avec une voix aiguë, mince, avec la peau lisse, il était en réalité un enfant, trop jeune pour étudier la médecine. Barry n’a pas trahi son secret. Quand on lui a nié la permission de soutenir les examens, lord Erskine est intervenu : le futur médecin s’est diplômé en médecine à l’âge de 22 ans. Par la suite il s’est engagé dans l’armée comme assistant chirurgien et à nouveau son âge a été remis en question. Mais finalement il a été enrôlé.




Barry a commencé sa carrière militaire le 6 juillet 1813, comme assistant hospitalier de l’armée britannique et il a été bientôt promu assistant chirurgien du personnel avant d’aller prêter service à Cape Town, Afrique du Sud, où il est resté dix années en devenant ami du gouverneur, lord Charles Somerset. Quelques uns croient que très probablement Somerset connaissait le secret de Barry. Les deux ont été amis intimes et Barry a déménagé dans un appartement privé près de la résidence de Somerset. Des rumeurs ont commencé à circuler sur la nature de leur relation et l’affiche d’un anonyme les a accusés d’homosexualité (délit pénal à l’époque). Des commissions ont été créés pour enquêter sur l’affaire, mais tous les deux ont été innocentés. Peut-être pour sembler plus masculin et effronté ou peut-être parce-que telle était sa nature, Barry est apparu fougueux, irascible et enclin à la colère. Ses patients, ses supérieurs, le personnel médical, Florence Nightingale même ont été les cibles de ses crises de colère. Il jetait des bouteilles de médicaments contre les gens et une fois il a participé à un duel, où personne n’a été gravement blessé. Les compétences médicales de Barry étaient sans pareil. Chirurgien expert, il a été le premier à effectuer avec succès une césarienne en sauvant la vie de la mère et du bébé. Il s’est consacré avec grande détermination aux réformes sociales et il a dénoncé la mauvaise gestion des arrêts militaires, des prisons et des asiles. Pendant les dix années de son séjour en Afrique du Sud, il a fait améliorer le système hydrique de Cape Town. En tant que médecin, il traitait riches et pauvres, colons et esclaves, sans faire de distinction. Muté à l’Île Maurice en 1828, il s’est disputé avec un chirurgien de l’armée qui l’a fait arrêter et poursuivre par la Cour martiale pour « comportement inqualifiable de la part d’un officier et gentilhomme ». Cette fois aussi il a été innocenté. Barry allait partout où il était nécessaire de servir et il est arrivé au niveau le plus élevé de la carrière militaire-sanitaire.


 


En 1857 il est devenu inspecteur général responsable des hôpitaux militaires. En raison de cette mission il a commencé une lutte sans merci contre le manque d’hygiène et il a exigé une nourriture meilleure pour les détenus et les lépreux. Le secret de sa vraie identité a été rendu public suite à un échange de lettres entre le Bureau d’enregistrement général et le médecin de Barry, le major D. R. McKinnon. Dans ces lettres le major, qui avait signé le certificat de décès, a écrit : « ce ne sont pas mes affaires » si le docteur James Barry était un mâle ou une femme, déclaration avec laquelle Barry même aurait probablement été d’accord. Margaret Ann Bulkley, alias docteur James Barry, est inhumée dans le cimetière de Kensal Green, à nord-ouest de Londres. Ce qui est certain est qu’elle en était beaucoup plus loin que son époque, comme femme, médecin et personne de sentiments humanitaires.

Sources

Du Preez, M, Dronfield, J., Dr James Barry, A woman ahead of her time, Oneword Publications 10 Bloomsbury Street London WC1B 3SR Rose, June, THE PERFECT GENTLEMAN. The remarkable life of Dr. James Barry, the woman who served as an officier in the British Army from 1813 to 1859, Lume Books, 2018 http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/margaret-ann-bulkley/
https://www.history.com/news/the-extraordinary-secret-life-of-dr-james-barry

 Traduzione inglese
Kay McCarthy

Dysentery was rife in London during the summer heatwave of 1865. Dr James Barry knew he was dying of that ugly, demeaning disease. In his house in Margaret Street he watched the pathology he knew well as it evolved and, at the age of 71, would soon kill him as body discharged its nauseous watery efflux, sapping him of his strength and life. Dr James Barry’s career had been particularly striking. This minute, smooth-faced, gruff army surgeon, an officer and a gentleman, had been Inspector General of Hospitals. His unusually high-pitched voice had reprimanded those who worked with him and it is said he even gave Florence Nightingale a telling off on one occasion.


 


When he died the fact was registered by his personal physician , Major D. R. McKinnon, who simply registered his decease without examining the corpse. The true identity of Dr James Barry was revealed by a young Irishwoman, Sophia Bishop, called in to prepare this body for burial. Despite the stomach-wrenching smell, Sophia performed the job for which she was paid: to wash and lay out the doctor’s body. In life the old man had been a slender, narrow-shouldered and short. With age he had grown stooped. In death his sunken cheeks and the dyed red hair stuck to his forehead made him look gaunt, his features pointed. As the woman rolled back the sheets and removed the nightshirt from the emaciated body she gasped. The corpse was undoubtedly that of the old gentleman. She knew him and would have recognised him anywhere. Yet this was not the body of a man. It was unquestionably that of a female: the genitals, sagging breasts and the hairless face. This was not all. Those distinctive striations on the skin of the abdomen were typical of a woman who had given birth in early adolescence. Everyone knew that Dr Barry had been an Army man with a long, illustrious career. How could a woman have got away with being a surgeon in the Army without ever being discovered? Sophia was so bewildered. She said nothing at first, but a couple of weeks after Dr Barry was cold in his grave, she finally spoke to the authorities of what she had seen. The story flew quickly around the British Empire reaching the ears of people who had known Doctor James Barry throughout his career and during his youth. Almost everyone admitted he had been a trange fellow though nobody knew how to explain how a woman had perpetrated such an audacious deception. Dr. Barry had actually been born in Cork, Ireland, around 1789. Born at a time when women were denied a formal education, let alone allowed to practice medicine, her name was Margaret Ann Bulkley. She was the second child of Jeremiah and Mary-Ann Bulkely, a fairly well-to-do family of merchants. While a teenager, Margaret seems to have been was raped by a relative and to had given birth to a baby, Juliana, who was raised by her mother Mary-Ann as her youngest child. When the family fell on hard times, Margaret (in her late teens) moved to London, where her mother had a brother, James Barry, a Royal Academician and painter. The two women frequented Barry’s friends, including the General Francisco de Miranda a Venezuelan patriot in exile and David Stewart Erskine, the Earl of Buchan. The two men were impressed by young Margaret, and believed her intelligence could take her far. They may have thought of the way to permit Margaret to be educated and enter the medical profession. The original James Barry died in 1806, leaving his sister and niece enough money to set up house in London. Three years later, Margaret Bulkely vanished from the face of the earth. Dressed in an overcoat (worn at all times and in all climates), James Barry left London for Edinburgh, where he enrolled in medical school in 1809, took some years off his real age to justify his young, boyish looks. Rumour had it, that as Barry was short of stature, his voice, high-pitched, his build slight and his skin smooth that he was a child, too young to study medicine. Barry never betrayed his secret. When he was not allowed to sit for examinations because deemed too young, Lord Erskine intervened. The soon-to-be doctor received a degree in medicine at the age of 22. Barry then enlisted in the army as an assistant surgeon where once again his age was called into question, but he was eventually allowed to serve.




Barry began his military career on the 6th of July 1813, as a Hospital Assistant in the British Army, and was soon promoted to Assistant Staff Surgeon before serving in Cape Town, South Africa for ten years where he befriended the governor, Lord Charles Somerset. Some believe that Somerset probably knew Barry’s secret. The two grew close, and Barry moved into a private apartment at his residence. Rumours began circulating about the nature of their relationship and a poster by an anonymous accuser held that their relationship. homosexual (a criminal offence at the time). Commissions were set up to investigate the issue, but they were declared innocent. Maybe to appear more brash and brash masculine or maybe because it was his nature, Barry was fiery, short-tempered and prone to rage. Patients, superiors, army and medical personnel, even Florence Nightingale herself were on the receiving end of his anger. He threw medicine bottles at people and even participated in a duel, where neither combatant was seriously injured. Barry’s medical skills were unprecedented. A skilled surgeon, he was the first to perform a successful caesarean section were mother and child both survived. He was also dedicated to social reform and condemned sanitary conditions and mismanagement of military arracks, prisons and asylums. During his ten-year stay in South Africa, he obtained a better water system for Cape Town. As a doctor, he treated the rich and the poor, colonists and slaves without distinction. Posted in Mauritius in 1828 where he clashed with an army surgeon who had him arrested and court-martialled for “conduct unbecoming of the character of an Officer and a Gentleman.” He was acquitted. Barry went wherever he was needed and climbed the ranks as he travelled the world.


 


In 1857, he became Inspector General in charge of military hospitals. In that position, he continued his fight for proper sanitation, demanding better food and proper medical care for prisoners and lepers. The secret of his true identity was made public after an exchange of letters between the General Register Office and Barry’s doctor, Major D. R. McKinnon, were leaked. In these letters, Major McKinnon, who signed the death certificate, said it was “none of my business” whether Dr. James Barry was male or female, a statement with which Barry himself would probably have agreed. Margaret Ann Bulkley aka Dr. James Barry is buried in Kensal Green cemetery, in north-west London. One thing is sure she was way ahead of her time, as a woman, a doctor and a humanitarian.

References

Du Preez, M, Dronfield, J., Dr James Barry, A woman ahead of her time, Oneworld Publications 10 Bloomsbury Street London WC1B 3SR Rose, June, THE PERFECT GENTLEMAN. The remarkable life of Dr. James Barry, the woman who served as an officer in the British Army from 1813 to 1859, Lume Books, 2018 http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/margaret-ann-bulkley/
https://www.history.com/news/the-extraordinary-secret-life-of-dr-james-barry

Marija Gimbutas

Giuseppina Massarelli


Giulia Capponi

 

Avvicinarmi al culto della Dea ha significato per me stabilire un legame profondo con le antiche culture che la rappresentavano; non solo mi ha incuriosito, ma ha travolto la mia vita. Non voglio scrivere di Marija Gimbutas quanto piuttosto riflettere su come la conoscenza delle sue scoperte sia stata in grado di incidere un segno trasformativo dentro di me. Marija Gimbutas, archeologa e linguista lituana, ha dedicato l’intera sua vita a mettere insieme testimonianze per far conoscere quella metà di storia taciuta e ha dovuto lottare per farla riconoscere al mondo intero, attraverso le testimonianze trovate andando sempre più indietro nel tempo e attraverso gli scavi sempre più giù nella terra.

Marija Gimbutas ha avuto il grande merito di far notare quanto sia importante ciò che «non è ritratto nell’arte Neolitica», ovvero la mancanza di immagini che idealizzano la potenza armata, il potere basato su crudeltà e violenza; non esistono nell'arte Neolitica immagini di nobili guerrieri o scene di battaglia, sono assenti sontuose sepolture di capi tribù e ne ha dedotto che nella storia non ci sono sempre state guerre, intese come momenti di conquiste e sopraffazioni ma ci ha parlato di civiltà che erano in pace. A me piace dire che era un tempo in cui gli uomini e le donne vivevano in armonia con tutte le cose, loro stessi erano natura e le donne in quanto fertili erano riconosciute come superiori, fertili come la terra. Era una struttura sociale pacifica, matrilineare, egualitaria ed anche la simbologia religiosa era strettamente connessa al femminile. La domanda che mi sono fatta, quando sono entrata in contatto con la cultura della Dea grazie agli scritti di Gimbutas, è stata quanta di quella storia fosse rimasta dentro di me, e dentro noi tutte. Avevo sentito sin da subito che le mie cellule richiedevano giustizia. Nelle grotte e nell’umidità nasce la vita, così ci ha insegnato Marija Gimbutas. Per me non era una grotta ma una bottega, fucina d’ingegno e di ricerca; è lì che sono nata creativamente, plasmavo la terra umida e forgiavo oggetti inspirati alla cultura della Daunia, fino a quando i segni geometrici che incidevo sulla terracotta hanno cominciato a risuonare dentro di me, e si sono riempiti di significato quando li ho collegati alla cultura della Dea, comprendendo che i triangoli, le linee ondulate intervallate da foglie, i vortici o le semplici successioni di linee che avevo per anni decorato senza saperne il senso, prendevano corpo e significato, erano segni legati alla vita e alla trasformazione.

Il legame di quella cultura con la terra e le cose viventi era così forte e sacro da riprenderlo sui numerosi manufatti ritrovati, traducendosi in un vero e proprio linguaggio storico. Una scoperta a dir poco magica ha fatto sì che mi si aprisse un mondo e con esso avvenisse la mia trasformazione. Il motivo dominante nell'ideologia e nell’arte dell’antica Europa fa riferimento a un mutamento continuo, a un’energia vitale in costante movimento per la celebrazione della vita; tutto veniva significato su vasi o oggetti di vario ordine e forma, serpenti che strisciano, api e farfalle, spirali e vortici, energia che muove, si rigenera, le colonne della vita, una forma che si dissolve in un’altra, un inno continuo. La vita sulla terra è in continua trasformazione, in costante e ritmico cambiamento dalla creazione alla distruzione, dalla nascita alla morte e la Dea era il simbolo dell’unità di tutte le forme di vita esistenti in Natura in Europa. La simbologia della Dea dominò per tutto il Paleolitico e il Neolitico e nella fase seguente fu soppiantata da popolazioni di invasori arrivate con cavalli e armi. La Dea si ritirò allora nel profondo delle foreste o sulle vette delle montagne, lì sopravvisse fino ai giorni nostri poiché i cicli storici non si fermano mai; ora vediamo riemergere la Dea recandoci speranza per il futuro nel riportarci alle nostre antiche radici umane. È grazie al lavoro di Marija Gimbutas che abbiamo delle chiavi di lettura di un passato che non ci è stato restituito ma che possiamo riscoprire.

 

Traduzione francese
Piera Negri

Approcher le culte de la Déesse a signifié pour moi établir un lien profond avec les cultures anciennes qui la représentaient ; cela m'a non seulement intrigué, mais il a bouleversé ma vie. Je ne veux pas écrire sur Marija Gimbutas mais plutôt réfléchir sur la façon dont la connaissance de ses découvertes a pu graver en moi un signe transformateur.

Marija Gimbutas, archéologue et linguiste lituanienne, a consacré toute sa vie à rassembler des témoignages pour faire connaître cette moitié de l'histoire passée sous silence et elle a dû se battre pour la faire reconnaître au monde entier, à travers les témoignages trouvés allant de plus en plus loin dans le temps et à travers les creusages de plus en plus profondément dans la terre. Marija Gimbutas a eu le grand mérite de souligner l'importance de ce qui « n'est pas représenté dans l'art Néolithique », c’est à dire le manque d'images idéalisant le pouvoir armé, pouvoir basé sur la cruauté et la violence ; il n'y a pas d'images de nobles guerriers ou de scènes de bataille dans l'art néolithique, il n'y a pas de somptueuses sépultures de chefs tribaux et elle en a déduit que dans l'histoire il n'y a pas toujours eu de guerres, conçues comme des moments de conquête et d'oppression mais elle nous a parlé de civilisations qui étaient en paix. J'aime à dire que c'était une époque où les hommes et les femmes vivaient en harmonie avec toutes choses, ils étaient eux-mêmes nature et les femmes aussi fertiles étaient reconnues comme supérieures, aussi fertiles que la terre. C'était une structure sociale pacifique, matrilinéaire, égalitaire et le symbolisme religieux était également étroitement lié au féminin. La question que je me suis posée, lorsque je suis entrée en contact avec la culture de la Déesse grâce aux écrits de Gimbutas, était de savoir quelle part de cette histoire était restée en moi, et en nous toutes. J'avais senti tout de suite que mes cellules réclamaient justice. La vie naît dans les grottes et dans l'humidité, ça nous a appris Marija Gimbutas. Pour moi ce n'était pas une grotte mais une boutique, une forge d'ingéniosité et de recherche ; c'est là que je suis née de manière créative, j'ai façonné la terre humide et forgé des objets inspirés de la culture de Daunia, jusqu'à quand les signes géométriques que je gravais sur la terre cuite commençaient à résonner en moi, et se sont remplis de sens lorsque je les ai reliés à la culture de la Déesse, comprenant que les triangles, les lignes ondulées entrecoupées de feuilles, les tourbillons ou la simple succession de lignes que j'avais décoré pendant des années sans en connaître le sens, prenaient corps et sens, ils étaient des signes liés à la vie et à la transformation.

Le lien de cette culture avec la terre et les êtres vivants était si fort et sacré qu'il s'est répété sur les nombreux artefacts trouvés, se traduisant dans un véritable langage historique. Une découverte magique, c'est le moins qu'on puisse dire, signifiait qu'un monde s'ouvrait à moi et avec lui ma transformation s'opérait. Le motif dominant dans l'idéologie et l'art de l'Europe ancienne se réfère à un changement continu, à une énergie vitale en mouvement constant pour la célébration de la vie ; tout était signifié sur des vases ou des objets d'ordre et de forme variés, des serpents qui rampent, des abeilles et des papillons, des spirales et des tourbillons, une énergie qui bouge, se régénère, les piliers de la vie, une forme se dissolvant dans une autre, un hymne continu. La vie sur la terre est en constante transformation, un changement constant et rythmé de la création à la destruction, de la naissance à la mort et la Déesse était le symbole de l'unité de toutes les formes de vie existant dans la Nature en Europe. Le symbolisme de la Déesse a dominé tout au long des périodes paléolithique et néolithique et dans la phase suivante, il a été supplanté par des populations d'envahisseurs qui sont arrivés avec des chevaux et des armes. La Déesse s'est alors retirée dans les profondeurs des forêts ou sur les sommets des montagnes, elle y a survécu jusqu'à nos jours puisque les cycles historiques ne s'arrêtent jamais ; maintenant, nous voyons la Déesse réapparaître, nous apportant de l'espoir pour l'avenir en nous ramenant à nos anciennes racines humaines. C'est grâce au travail de Marija Gimbutas que nous avons des clés de lecture d'un passé qui ne nous a pas été rendu mais que nous pouvons redécouvrir.

 

Traduzione inglese
Francesca Campanelli

Approaching the cult of the Goddess meant for me to establish a deep bond with the ancient cultures that represented it; not only intrigued me, but it overwhelmed my life. I don't want to write about Marija Gimbutas but rather reflect on how the knowledge of her discoveries was able to engrave a transformative sign within me.

Marija Gimbutas, Lithuanian archaeologist and linguist, dedicated her entire life to putting together testimonies to make known that half of the unspoken history and has had to fight to make it recognized by the whole world, through the testimonies found going further back in time and through you dig it deeper and deeper into the earth. Marija Gimbutas had the great credit of pointing out how important is what "is not portrayed in Neolithic art", namely the lack of images that idealize armed power, power based on cruelty and violence; there are no images of warriors or battle scenes in Neolithic art, there are no sumptuous burials of tribal chiefs and she deduced that in history there have not always been wars, intended as moments of conquest and oppression but she spoke of civilizations that they were at peace. I like to say that it was a time when men and women lived in harmony with all things, they themselves were nature and women as fertile were recognized as superior, as fertile as the earth. It was a peaceful, matrilineal, egalitarian social structure and religious symbolism was also closely connected to the feminine. The question I asked myself, when I met the culture of the Goddess thanks to the writings of Gimbutas, was how much of that story was left inside me, and inside all of us. I had felt early on that my cells demanded justice. Life is born in caves and in humidity, as Marija Gimbutas taught us. For me it was not a cave but a shop, a forge of ingenuity and research; it is there that I was born creatively, I shaped the damp earth and forged objects inspired by the culture of Daunia, until the geometric signs I engraved on the terracotta began to resonate within me, and were filled with meaning when I connected them to the culture of the Goddess, understanding that the triangles, the wavy lines interspersed with leaves, the vortices or the simple succession of lines that I had decorated for years without knowing the meaning, took on body and meaning, they were signs linked to life and transformation.

The bond of that culture with the earth and living things was so strong and sacred that it was repeated on the numerous artifacts found, translating into a real historical language. A magical discovery, to say the least, meant that a world opened to me and with it my transformation took place. The dominant motif in the ideology and art of ancient Europe refers to a continuous change, to a vital energy in constant movement for the celebration of life; everything was meant on vases or objects of various order and shape, snakes that crawl, bees and butterflies, spirals and vortices, energy that moves, regenerates, the columns of life, one form dissolving into another, a continuous hymn. Life on earth is in constant transformation, in constant and rhythmic change from creation to destruction, from birth to death and the Goddess was the symbol of the unity of all forms of life existing in Nature in Europe. The symbolism of the Goddess dominated throughout the Palaeolithic and Neolithic periods and in the following phase it was supplanted by populations of invaders who arrived with horses and weapons. The Goddess then withdrew into the depths of the forests or the peaks of the mountains, there she survived to the present day since the historical cycles never stop; now we see the Goddess re-emerge bringing us hope for the future in bringing us back to our ancient human roots. It is thanks to the work of Marija Gimbutas that we have some keys to reading a past that has not been returned to us but that we can rediscover.


Aspazija

Rosa Maria Clemente


Rosalina Collu

 

Ho visitato le Repubbliche Baltiche, con la mia famiglia, poco dopo la conquista della loro indipendenza dalla Russia, ex Urss ormai in frantumi. Eravamo idealmente vicini/e a quei piccoli Paesi, perché avevano trovato il coraggio di sottrarsi al gigante che li aveva fagocitati, imponendogli prezzi di morte e sofferenza altissimi, la rinuncia alle loro identità di popoli. Grande fu la nostra compiaciuta sorpresa, perciò, quando, attraversandoli, in particolare le capitali: Vilnius (Lituania), Riga (Lettonia), Tallin (Estonia), ci siamo resi/e conto che avevano comunque conservato le loro peculiari vestigia storico-culturali, insieme ad un’irrefrenabile evidente voglia di riappropriarsi del tempo perduto. A Riga, senza averlo programmato, ci imbattemmo in un festival dei popoli dell’Ue nei loro costumi tradizionali, un vero e proprio tripudio di colori di bellezza di incontri tra culture diverse. Quell’anno l’ Italia era rappresentata da una cittadina della Sardegna, per noi un altro luogo del cuore! Ora, a distanza di anni, il bel progetto Calendaria 2021, della meritoria associazione Toponomastica Femminile, mi ha fatto ripensare a quel bellissimo viaggio, offrendomi la possibilità di restituire almeno un po’ della gioia che procurò a me, a mia figlia e a mio marito, raccontando di una delle protagoniste più significative della storia e della cultura lettone, la poeta e drammaturga Johanna Emilija Liete Rosenberga, detta Elza e nota con lo pseudonimo fortemente rievocativo di Aspasia. Una figura di donna straordinariamente complessa e moderna, che vive e anticipa in modo sorprendente le contraddizioni e le aspirazioni ambivalenti di quante di noi, ancora oggi, sono dimidiate tra il desiderio di realizzarsi dal punto di vista professionale e lavorativo, e quello di vivere felici relazioni affettive, trovandosi a fare i conti con le molteplici aspettative dell’ambiente di appartenenza e della società, che pesano tuttora in modo eccessivo sulle spalle femminili, malgrado le conquiste giuridiche e le maggiori possibilità di accedere agli studi, anche di livello superiore. Si comprendono, allora, l’empatia e l’ammirazione che mi prendono quasi immediatamente per Aspasia, una donna che, come le nostre nonne o bisnonne, si è trovata a vivere tra la fine dell’ Ottocento e la metà circa del Novecento, affrontando, anche in nostro nome, le sette fatiche di Ercole per conquistare la pari dignità morale, prima ancora che giuridica. Il fascino e la forza di Aspasia consistono, infatti, nella sua consapevolezza di percepirsi come capace di andare oltre tutti i limiti del tempo, che opprimevano lei e il suo popolo da secoli. L’Ordine dei Cavalieri teutonici, che fonda Riga, la capitale, e impone il cristianesimo, sarà seguìto dalle popolazioni polacca, svedese, tedesca, russa, dal dominio sovietico, e poi dall'invasione del nazismo hitleriano, quindi dai sovietici staliniani fino alla benedetta perestroika di Gorbaciov. Il 23 agosto 1989, infatti, i popoli dei tre Paesi baltici formarono una catena umana di 600 km, che univa le tre capitali, Tallin, Riga e Vilnius. Vi presero parte ben due milioni di abitanti sui nove complessivi, fra la stupita commozione del mondo democratico, che prese atto della loro volontà di indipendenza. A seguito della caduta del muro di Berlino, il governo liberamente eletto dichiarò l’indipendenza della Lettonia, che a settembre del 1991 fu riconosciuta dalla stessa Russia.

Il sogno di Aspasia, dei Giovani Lettoni e del successivo movimento di sinistra, Nuova corrente, influenzato dal marxismo, con a capo Rainis e Peteris Stucka, del giornale "Dienas Lapa", si è finalmente realizzato! Desiderata a lungo, Elza nasce il 16 marzo 1865, in una fattoria, nella regione di Zemgale, a sud di Riga. La sua benestante famiglia contadina vive in una bella casa di mattoni, invece che nelle più diffuse costruzioni di legno. La madre Grieta, energica ed amante di gioielli e begli abiti, il padre tenero e paziente, che le insegna presto a leggere e scrivere, non le consentono di frequentare figli e figlie degli altri contadini, perché vogliono per lei una sorte migliore. Di religione luterana, tra i primi doni una Bibbia in tedesco, la lingua della cultura, da leggere tutta sola, che accende la sua fantasia, mentre la nonna le raccontava le storie della tradizione popolare lettone. Impara volentieri e in fretta, da qualsiasi fonte le consenta di andare oltre gli spazi conclusi della sua vita familiare. Iscritta a scuola nella città di Jelgava, si dedica totalmente agli studi, passando notti insonni a leggere a lume di candela. Mi sembra di vederla (e rivedo me, giovane studente di paese alle prese col latino, in lei), mentre s’inoltra rapita nella civiltà classica, emozionandosi ai racconti di Omero e di Virgilio, alle leggende e ai miti delle eroine e degli eroi che fondarono Atene e Roma, le culle della democrazia e del diritto. Fra loro, il condottiero Pericle e la sua fatale mentore, Aspasia, l’etera aristocratica, amatissima inseparabile compagna, artefice della sua ascesa politica, colta e affascinante animatrice di una sorta di salotto culturale d’antan, frequentato da Fidia e più spesso da Socrate, che subisce la sua influenza e pare ne fosse innamorato. Lì è persino consentito che gli aristocratici si facciano accompagnare dalle mogli, perché imparino dalle dotte conversazioni di Aspasia. Elza capisce, allora, che Aspasia è lei, vuole essere lei, cogliendo a fondo le ragioni di quello pseudonimo attribuitole da un suo insegnante, con l’intento di svelarle le sue grandi doti, di sensibilità e intelligenza, facendole comprendere come la conoscenza sia il lasciapassare per la libertà, per l’ indipendenza. Sua, delle donne, della sua patria. Mentre così sogna l’ intrepida Elza-Aspasia, improvvisamente e senza possibilità di appello sua madre, che fin lì l’aveva incoraggiata e sostenuta, a soli 16 anni e senza aver conseguito il vicino diploma, le impone di interrompere gli studi. Sarà per Aspasia il primo bruciante tradimento, che la segnerà profondamente, incrinando la sua fiducia nel prossimo e, a livello inconscio, persino in sé stessa e nelle sue reali possibilità. Si sente rifiutata, respinta, le ali tarpate anzitempo. Sensibile, appassionata, suggestionabile, con un grande amor proprio, intuendo, desiderando per sé un destino non comune, comincerà prestissimo a scrivere poesie e a vincere premi. La figlia del sole, tra quelle più amate, è ispirata alla mitologia lettone, come tramandata dalla tradizione orale del suo popolo, attraverso le Dainas, avvincenti storie che nella cultura contadina lettone si tramandavano di generazione in generazione, nelle lunghe fredde notti d’inverno. A scuola si era appassionata di teatro, trovando nei tempi e nei ritmi di quel mondo, ove tutto era possibile, la sua dimensione più congeniale. Recita con passione e coinvolgimento pieno in Il mercante di Venezia, del bardo Shakespeare. Vuole fare l’attrice e iscriversi a un corso di teatro, a Riga, perciò scappa di casa. I suoi genitori vanno ogni volta a riprenderla, temendo che le compagnie cittadine, la frequentazione della gioventù che si riunisce nel Movimento Nuovo la mettano in pericolo, esponendola alla censura dei dominatori russi, o l’allontanino definitivamente da loro. Nel 1886, a 21 anni, la sposano ad un borghese, tale Wilhelm Max Walter, pensando di conquistarle una migliore posizione sociale, mentre lei vede nel matrimonio una via di fuga dalla ristretta cerchia familiare. La dote richiesta e offerta è cospicua, coincidendo con la gran parte dei beni della famiglia. In soli due anni, invece, Wilhelm si rivelerà un bevitore e un giocatore senza limiti, dissipando ogni loro avere e riducendoli in miseria. Scapperà negli Usa, facendo perdere ogni sua traccia. Il matrimonio sarà poi annullato nel 1897. Aspasia scriverà dell’ infelice esperienza vissuta prima in Seltite (Dorato) e poi nell’opera teatrale Vaidelote (La vendicatrice), che le farà vincere nel 1888 il premio del teatro di Riga. I toni sono forti e il linguaggio del tutto nuovo introduce nella nascente letteratura lettone la figura di una madre violenta, dominatrice, che richiama il mito di Medea.




Ormai costretta a mantenere la sua famiglia, i genitori e due fratelli minori, lavorerà come istitutrice, scrivendo nel restante tempo. Ricomincia a frequentare i giovani del Movimento, coltivando con loro ideali romantici e nazionalisti. Pubblica sul quotidiano "Dienas Lapa", col nome di Aspasia, le sue poesie, divenendo la voce del suo Paese in cerca di identità e indipendenza. Al giornale incontrerà Janis Plieksans, detto Rainis (il variegato), di agiata famiglia lituano-svedese, caporedattore e scrittore, seppure non troppo convinto. Si ritrovano nel Movimento, nutrendo entrambi aspirazioni libertarie e indipendentiste. Cominciano a parlare dei loro scritti e della loro volontà di contribuire alla formazione dell’ identità nazionale, di risvegliare le coscienze sopite del loro popolo attraverso la poesia e il genere teatrale che, ispirati alle leggende antiche, diano vita a una sorta di nuovo mito fondativo della loro patria. A lei piacciono la sua eleganza, i suoi occhi profondi e la fiducia che riceve, quell’avere in grande considerazione i suoi pensieri, i suoi suggerimenti, malgrado gli studi universitari e la sua laurea in Giurisprudenza. Lui è colpito dalla sua intelligenza, dalla passione ispirata dalla capacità immaginifica e dalla giovane avvenenza. Diventeranno inseparabili, nella buona e nella cattiva sorte, novelli Pericle e Aspasia, fino alla morte di lui, nel 1929, a cui la scrittrice sopravviverà, suo malgrado, per lunghi 14 anni. Le loro vite sono strettamente intrecciate alle vicende politiche del loro Paese, capace di risorgere ogni volta dalle ceneri. Rainis socialista internazionalista, Aspasia più sensibile ai diritti umani e alla libertà delle persone. Lui, razionalista e ateo, coltiva il sogno di una fratellanza universale ed è teoricamente sostenitore dell’emancipazione femminile. Lei è una poeta lirica di straordinario talento, che lotta per l’affermazione concreta dei diritti delle donne. Decidono di vivere insieme, a Jurmala, vivace località balneare non lontana da Riga. È il periodo piu felice della vita di Aspasia, dal punto di vista personale e creativo. Pubblica La vestale e poi la sua prima raccolta di poesie, Fiori rossi, che incontra gran favore di critica e di pubblico, rendendola popolare in tutto il Paese. Nel frattempo scrive altre opere teatrali e con Rainis si occupa della traduzione del Faust in lingua lettone. Sono una coppia di successo, amata dai lettoni, che li considerano i cantori della loro patria libera. Nel 1897, a causa delle sue idee e della sua attività politica rivoluzionaria, Rainis viene arrestato dalla polizia zarista e condannato a cinque anni di carcere, da scontare in Siberia. Per poterlo seguire, Aspasia lo sposa e lo sosterrà nella traduzione del Faust, esortandolo a scrivere una sua opera. Rientrati a Riga da ormai due anni, nel 1905 si darà a teatro la prima del dramma Il velo d’ argento, scritto da Aspasia, con due donne protagoniste, la sottomessa e l’ avventurosa, che lottano per affermare il proprio volere. Il successo è enorme, il pubblico lettone coglie nell’opera lo sprone a ribellarsi contro gli oppressori. Seguono molte repliche, finchè arriva la notizia della rivolta di San Pietroburgo. Si sollevano anche i lettoni, ma la repressione sarà spietata, con moltissimi morti e altrettanti deportati. Aspasia e Rainis, campioni di questa lotta, vengono convinti a lasciare la Lettonia e, con numerose persone profughe, andranno in Svizzera, prima a Zurigo poi a Lugano e infine a Castagnola, dove resteranno per ben 15 anni.



Rainis si immergerà completamente nella sua scrittura, adattandosi alla povera vita in due stanze e alla continua penuria di denaro. Aspasia, invece, sarà angosciata dalla necessità di procurare almeno quanto basti alla sopravvivenza, soffrendo per la lontananza della sua famiglia, del suo pubblico, dei suoi compagni di lotta; oppressa dal timore di non riuscire nel suo compito più arduo, quello di continuare ad ispirare spronare sostenere il suo vate. Rainis stesso, tempo dopo, le riconoscerà questo merito immenso, affermando che senza di lei la sua opera non sarebbe mai stata realizzata: il destino di Aspasia, la musa ispiratrice e l’instancabile mentore, si è di nuovo compiuto, prima con Pericle e poi con Rainis! Alla fine della Prima guerra mondiale, la Lettonia si ribella alla sconfitta Germania e dichiara l’indipendenza. Gli/le esuli possono farvi ritorno e nel 1920 Aspasia e Rainis saranno accolti a Riga da trionfatori, con tutti gli onori dovuti ai fondatori della patria libera. A ciascuno dei due sarà intitolato uno dei viali più importanti della capitale e potranno finalmente abitare una comoda casa, in via Basniza iela, 30. Le loro opere spopolano nei teatri del Paese, mentre partecipano da protagonisti di spicco alla vita culturale e politica, entrambi eletti in Parlamento. Lui mancherà di poco la Presidenza della Repubblica, ma sarà nominato Ministro della cultura. Lei preferirà dedicarsi alla scuola di teatro per giovani, che le ridarà slancio ed ispirazione per nuovi progetti. Lui viaggia ed è preso da un nuovo amore, tenuto segreto al popolo, lei preferisce non accompagnarlo, recandosi spesso nella loro casa con giardino di Jurmala. Continua a scrivere poesie, è felice del suo lavoro, lì la raggiunge ogni volta Rainis. In quella casa, il 14 settembre 1929, Rainis morirà all’ improvviso e Aspasia ne avviserà i connazionali con queste parole: «Rainis è morto. Il suo nome era il sole che brillava su tutta la gente. Io chiedo a tutti… di accompagnarlo con amore. Rainis credeva nell’ immortalità. Io continuo con la sua anima». Alla scomparsa del suo vate, lascerà la vita pubblica e si ritirerà a Jurmala, continuando a fare progetti, a suonare il pianoforte, a scrivere poesie. Ora che non è più la moglie di un famoso osannato politico, invisa a molti per le sue rivendicazioni della libertà individuale e dei diritti delle donne, si praticherà nei suoi confronti una diminuzione sistematica, che la spingerà ad isolarsi sempre più, finendo col vivere in povertà, con la domestica e con i suoi gatti. Morirà sola, in ospedale, a 78 anni, nel novembre del 1943, mentre infuria tragica la Seconda guerra mondiale e la sua patria, occupata dai sovietici di Stalin nel 1940, già dal 1941 è caduta sotto il dominio del Terzo Reich. Proveranno a darle una sepoltura anonima, ma la notizia della sua morte si diffonderà rapidamente, suscitando grande cordoglio nei/lle concittadini/e, che accorreranno numerosi a tributare i giusti onori alla loro indomita poeta. La Lettonia libera dei giorni nostri, perfettamente integrata nell’Unione Europea, di cui è entrata a far parte nel 2004, adottando l’euro nel 2014, è finalmente la patria voluta da Aspasia e Rainis, che ne hanno ispirato l’ orgoglio nazionale, nutrendo i sentimenti di riscatto e ribellione del popolo contro le invasioni straniere, dei russi dei tedeschi e infine dei sovietici. Considerati a ragione madre e padre della patria, fanno a pieno titolo parte della letteratura e della storia della Lettonia, che gli ha dedicato un museo molto frequentato, mentre a teatro si continuano a rappresentare le loro opere. Recentemente, nel 2015, a seguito dell’ingresso nella moneta unica europea, li hanno effigiati sulla stessa splendida moneta da 5 euro, costituita di due parti magistralmente complementari, celebrando il loro destino comune, fatto di poesia amore e patriottismo.

Principali raccolte di liriche:
I fiori rossi;
Nell’ombra dell’ anima;
Il cantuccio soleggiato;
Il grembo pieno di fiori;
Le ali tese;
La notte delle streghe;
Nella stagione dei crisantemi;
Il viaggio dell’ anima.

Principali opere teatrali:
La Vendicatrice;
I diritti perduti;
La meta non raggiunta;
La fanciulla dai capelli d'oro;
Aspasia;
Il velo d’ argento.

Autobiografia in due volumi:
La mia vita e le mie opere.

 

Traduzione francese
Piera Negri

J'ai visité les républiques baltes avec ma famille peu après qu'elles aient obtenu leur indépendance de l'ancienne URSS en ruines. Nous étions idéalement proches de ces petits pays, parce qu'ils avaient trouvé le courage d'échapper au géant qui les avait engloutis, leur imposant un prix très élevé de mort et de souffrance, le renoncement à leur identité de peuple. Ce fut donc une grande surprise pour nous lorsque, en parcourant les capitales de Vilnius (Lituanie), Riga (Lettonie) et Tallinn (Estonie), nous avons réalisé qu'elles avaient conservé des vestiges historiques et culturels uniques, ainsi qu'un désir irrépressible de reprendre possession de leur temps perdu. À Riga, sans l'avoir prévu, nous sommes tombés sur un festival des peuples de l'UE dans leurs costumes traditionnels, une véritable explosion de couleurs, de beauté et de rencontres entre différentes cultures. Cette année-là, l'Italie était représentée par une ville de Sardaigne, pour nous, un autre endroit du cœur ! Aujourd'hui, des années plus tard, le beau projet Calendaria 2021, de la méritante association Toponomastica Femminile, m'a fait repenser à ce beau voyage, m'offrant l'occasion de rendre au moins un peu de la joie qu'il nous a procuré, à moi, à ma fille et à mon mari, en racontant l'une des protagonistes les plus significatives de l'histoire et de la culture lettones, la poétesse et dramaturge Johanna Emilija Liete Rosenberga, dite Elza et connue sous le pseudonyme très évocateur d'Aspasia. C'est une femme extraordinairement complexe et moderne, qui vit et anticipe de manière surprenante les contradictions et les aspirations ambivalentes de beaucoup d'entre nous, aujourd'hui encore, qui sont déchirées entre le désir de se réaliser professionnellement et par le travail, et le désir de vivre des relations affectives heureuses, en devant faire face aux multiples attentes de leur environnement et de la société, qui pèsent encore excessivement sur les épaules des femmes, malgré les conquêtes juridiques et les plus grandes possibilités d'accès à l'éducation, même à un niveau supérieur. Il est donc facile de comprendre l'empathie et l'admiration qui me saisissent presque immédiatement pour Aspasia, une femme qui, comme nos grands-mères et arrière-grands-mères, s'est trouvée à vivre entre la fin du XIXe siècle et le milieu du XXe siècle environ, en affrontant, également en notre nom, les sept travaux d'Hercule pour obtenir une égale dignité morale, avant même de la dignité juridique. La fascination et la force d'Aspasia consistaient en la conscience qu'elle avait d'être capable de dépasser toutes les limites du temps, qui ont opprimé elle et son peuple, pendant des siècles. L'ordre des chevaliers teutoniques, qui a fondé Riga, la capitale, et imposé le christianisme, sera suivi par les peuples polonais, suédois, allemands et russes, la domination sovietique puis par l'invasion du nazisme hitlérien, puis par les soviets staliniens jusqu'à la pérestroïka bénie de Gorbatchev. Le 23 août 1989, les peuples des trois pays baltes ont formé une chaîne humaine de 600 km de long reliant les trois capitales de Tallinn, Riga et Vilnius. Deux millions de personnes sur un total de neuf millions d'habitants y participent, à la stupéfaction du monde démocratique, qui prend acte de leur désir d'indépendance. Après la chute du mur de Berlin, le gouvernement librement élu a déclaré l'indépendance de la Lettonie, qui a été reconnue par la Russie elle-même en septembre 1991.

Le rêve d'Aspasia, des Jeunes Lettons et du futur mouvement de gauche, Nouveau courant, influencé par le marxisme, dirigé par Rainis et Peteris Stucka, du journal "Dienas Lapa", est enfin devenu réalité ! Longtemps désirée, Elza est née le 16 mars 1865, dans une ferme, dans la région de Zemgale, au sud de Riga. Sa riche famille de paysans vit dans une belle maison en briques, au lieu des bâtiments en bois plus courants. Sa mère Grieta, énergique et amatrice de bijoux et de beaux vêtements, et son père, tendre et patient, qui lui a appris à lire et à écrire dès son plus jeune âge, ne lui permettaient pas de fréquenter les fils et les filles des autres paysans, car ils souhaitaient lui réserver un meilleur sort. En tant que luthérienne, l'un de ses premiers cadeaux a été une Bible en allemand, la langue de la culture, à lire seule, ce qui a stimulé son imagination, tandis que sa grand-mère lui racontait des histoires tirées de la tradition populaire lettone. Elle apprend volontiers et rapidement, à partir de n'importe quelle source qui lui permet d'aller au-delà des limites de sa vie familiale. Inscrite à l'école dans la ville de Jelgava, elle se consacre entièrement à ses études, passant des nuits blanches à lire à la lumière des bougies. Il me semble la voir (et je me revois, moi, une jeune étudiante de village se débattant avec le latin), alors qu'elle se passione pour la civilisation classique, captivée par les histoires d'Homère et de Virgile, par les légendes et les mythes des héroïnes et des héros qui ont fondé Athènes et Rome, les berceaux de la démocratie et du droit. Parmi eux, le condottiere Périclès et son fatal mentor, Aspasie, l'hétaïre aristocrate, compagne inséparable adorée, architecte de son ascension politique, animatrice cultivée et fascinante d'une sorte de salon culturel d'antan, fréquenté par Phidias et plus souvent par Socrate, qui subissait son influence et semble avoir été amoureux d'elle. Les aristocrates y sont même autorisés à se faire accompagner par leurs épouses pour profiter des conversations savantes d'Aspasia. Elza comprend alors qu'Aspasia est elle, elle veut être elle, saisissant les raisons du pseudonyme que lui a donné un de ses professeurs, dans l'intention de lui révéler ses grandes qualités de sensibilité et d'intelligence, lui faisant comprendre comment la connaissance est le passeport pour la liberté, pour l'indépendance. La sienne, celle des femmes, celle de son pays. Alors que l'intrépide Elza-Aspasia en rêve, soudainement et sans aucune possibilité de recours, sa mère, qui l'avait encouragée et soutenue jusque-là, l'oblige à interrompre ses études à seulement 16 ans et sans avoir obtenu l’alors proche diplôme. C'est la première trahison brûlante d'Aspasia, qui l'a profondément marquée, sapant sa confiance dans les autres et, à un niveau inconscient, même en elle-même et en ses possibilités réelles. Elle se sent refusée, rejetée, les ailes coupées prématurément. Sensible, passionnée, impressionnable, dotée d'un grand amour-propre, pressentant, désirant pour elle-même un destin hors du commun, elle commencera très tôt à écrire des poèmes et à remporter des prix. La Fille du soleil, l'un de ses poèmes les plus appréciés, s'inspire de la mythologie lettone, telle qu'elle a été transmise par la tradition orale de son peuple, à travers les Dainas, des histoires captivantes qui, dans la culture paysanne lettone, étaient transmises de génération en génération au cours des longues et froides nuits d'hiver. À l'école, elle se passionne pour le théâtre, trouvant dans les temps et les rythmes de ce monde, sa vraie dimension où tout est possible. Elle joue avec passion et une implication totale dans Le Marchand de Venise, du barde Shakespeare. Elle veut être actrice et s'inscrit à un cours de théâtre à Riga, alors elle s'enfuit de chez elle. Ses parents vont la chercher à chaque fois, craignant que les compagnies citadines et la fréquentation des jeunes réunis au sein du Nouveau Mouvement ne la mettent en danger, l'exposant à la censure des dirigeants russes, ou tout cela ne l'éloigne définitivement d'eux. En 1886, à l'âge de 21 ans, ils la marient à un bourgeois, un certain Wilhelm Max Walter, pensant lui faire gagner une meilleure position sociale, alors qu'elle voit dans le mariage un moyen d'échapper au cercle familial restreint. La dot demandée et offerte est substantielle, coïncidant avec la plupart des biens de la famille. En deux ans, cependant, Wilhelm se révèle être un buveur et un joueur sans limites, dilapidant tous leurs biens et les réduisant à la pauvreté. Il fuit aux États-Unis, perdant toute trace de lui. Le mariage a été annulé en 1897. Aspasia a raconté son expérience malheureuse d'abord dans Seltite (Doré), puis dans la pièce Vaidelote (La vengeresse), qui lui a valu le prix du théâtre de Riga en 1888. Les tons sont forts et la langue entièrement nouvelle introduit dans la littérature lettone naissante la figure d'une mère violente et dominatrice, rappelant le mythe de Médée.

Désormais obligée de subvenir aux besoins de sa famille, de ses parents et de ses deux jeunes frères, elle travaille comme gouvernante et écrit pendant le temps qui lui reste. Elle commence à fréquenter les jeunes du Mouvement, cultivant avec eux des idéaux romantiques et nationalistes. Elle publie ses poèmes dans le journal "Dienas Lapa" sous le nom d'Aspasia, devenant ainsi la voix de son pays en quête d'identité et d'indépendance. Au journal, elle rencontre Janis Plieksans, dit Rainis (le bigarré), issu d'une riche famille lituano-suédoise, rédacteur en chef et écrivain, même si pas complètement convaincu. Ils se rencontrent au sein du Mouvement, nourrissant tous deux des aspirations libertaires et indépendantistes. Ils commencent à parler de leurs écrits et de leur désir de contribuer à la formation d'une identité nationale, de réveiller les consciences endormies de leur peuple à travers la poésie et le théâtre qui, inspirés des légendes anciennes, donneraient vie à une sorte de nouveau mythe fondateur de leur patrie. Elle aime son élégance, son regard profond et la confiance qu'il lui accorde, le fait qu'il prenne ses pensées et ses suggestions en grande considération, malgré ses études universitaires et son diplôme de droit. Il est frappé par son intelligence, sa passion inspirée par sa capacité d'imagination et sa jeune beauté. Ils deviennent inséparables, pour le meilleur et pour le pire, les nouveaux Périclès et Aspasie, jusqu'à la mort de ce dernier en 1929, à laquelle l'écrivaine survit, malgré elle, pendant quatorze longues années. Leurs vies sont étroitement liées aux événements politiques de leur pays, capable de renaître de ses cendres à chaque fois. Rainis, socialiste internationaliste, Aspasia, plus sensible aux droits de l'homme et à la liberté individuelle. Rationaliste et athée, il cultive le rêve de la fraternité universelle et est un partisan théorique de l'émancipation féminine. Poétesse lyrique au talent extraordinaire, elle se bat pour l'affirmation concrète des droits des femmes. Ils décident de vivre ensemble à Jurmala, une station balnéaire animée non loin de Riga. C'est la période la plus heureuse de la vie d'Aspasia, tant sur le plan personnel que créatif. Elle publie La Vestale puis son premier recueil de poèmes, Fleurs rouges, qui rencontre un grand succès critique et public, la rendant populaire dans tout le pays. Entre-temps, elle a écrit d'autres pièces et, avec Rainis, elle a traduit Faust en letton. Ils forment un couple à succès, aimé par les Lettons, qui les considèrent comme les laudateurs de leur patrie libre. En 1897, en raison de ses idées révolutionnaires et de son activité politique, Rainis est arrêté par la police tsariste et condamné à cinq ans de prison, à purger en Sibérie. Pour le suivre, Aspasia l'épouse et le soutient dans la traduction de Faust, l'incitant à écrire sa propre œuvre. De retour à Riga depuis déjà deux ans, en 1905, le drame Le voile d'argent, écrit par Aspasia, avec deux protagonistes féminines, la soumise et l'aventurière, luttant pour affirmer leur volonté, est donné pour la première fois au théâtre. Le succès est énorme et le public letton voit dans cette pièce un encouragement à se rebeller contre ses oppresseurs. De nombreuses répliques ont suivi, jusqu'à ce que la nouvelle du soulèvement de Saint-Pétersbourg arrive. Les Lettons se soulèvent également, mais la répression sera impitoyable, avec de nombreux morts et tout autant de déportés. Aspasia et Rainis, champions de cette lutte, sont persuadés de quitter la Lettonie et, avec de nombreux réfugiés, se rendent en Suisse, d'abord à Zurich, puis à Lugano et enfin à Castagnola, où ils restent pendant 15 ans.

Rainis se plonge complètement dans son écriture, s'adaptant à la vie pauvre dans deux pièces et au manque constant d'argent. Aspasia, en revanche, sera angoissée par la nécessité de se procurer au moins de quoi survivre, souffrant de l'éloignement de sa famille, de son public, de ses compagnons de lutte ; oppressée par la peur de ne pas réussir dans sa tâche la plus ardue, celle de continuer à inspirer et à soutenir son vate. Rainis lui-même, quelque temps plus tard, reconnaîtra cet immense mérite, affirmant que sans elle, son œuvre n'aurait jamais été accomplie : le destin d'Aspasie, muse inspirée et mentor infatigable, s'est une fois de plus accompli, d'abord avec Périclès, puis avec Rainis ! À la fin de la Première Guerre mondiale, la Lettonie se rebelle contre l'Allemagne vaincue et déclare son indépendance. Les exilés sont autorisés à rentrer et, en 1920, Aspasia et Rainis sont accueillis à Riga en triomphateurs, avec tous les honneurs dus aux fondateurs de la patrie libre. L'une des avenues les plus importantes de la capitale portera le nom de chacun d'entre eux, et ils pourront enfin vivre dans une maison confortable au 30, rue Basniza iela. Leurs oeuvres font un tabac dans les théâtres du pays, tandis qu'ils participent en tant que protagonistes de premier plan à la vie culturelle et politique, étant tous deux élus au Parlement. Il manquera de peu la présidence de la République, mais sera nommé ministre de la Culture. Elle préfère se consacrer à une école de théâtre pour les jeunes, qui lui donnera un nouvel élan et l'inspiration pour de nouveaux projets. Il voyage et est pris d'un nouvel amour, tenu secret au peuple, elle préfère ne pas l'accompagner, se rendant souvent dans leur maison avec jardin à Jurmala. Elle continue à écrire des poèmes, est heureuse de son travail, et Rainis l’y rejoint à chaque fois. Dans cette maison, le 14 septembre 1929, Rainis est mort subitement et Aspasia informe ses compatriotes en ces termes : “ Rainis est mort. Son nom était le soleil qui brillait sur tous les peuples. Je demande à tous... de l'accompagner avec amour. Rainis croyait en l'immortalité. Je continue avec son âme.” Lorsque son vate est décédé, elle a quitté la vie publique et s'est retirée à Jurmala, continuant à faire des projets, à jouer du piano et à écrire des poèmes. Désormais qu'elle n'est plus l'épouse d'un homme politique célèbre, détestée par beaucoup pour ses revendications en matière de liberté individuelle et de droits des femmes, elle sera systématiquement diminuée et isolée, vivant dans la pauvreté avec sa domestique et ses chats. Elle meurt seule à l'hôpital à l'âge de 78 ans, en novembre 1943, alors que la Seconde Guerre mondiale fait rage, tragiquement, et que son pays, occupé par les Soviétiques de Staline en 1940, est tombé sous la coupe du Troisième Reich déjà en 1941. Ils ont tenté de lui offrir une sépulture anonyme, mais la nouvelle de sa mort s'est rapidement répandue, provoquant une grande tristesse parmi ses concitoyens, qui ont afflué nombreux pour rendre un juste hommage à leur poète indomptable. La Lettonie libre d'aujourd'hui, parfaitement intégrée à l'Union européenne, qu'elle a rejointe en 2004, adoptant l'euro en 2014, est enfin la patrie souhaitée par Aspasia et Rainis, qui en ont inspiré la fierté nationale, nourrissant les sentiments de rédemption et de rébellion du peuple contre les invasions étrangères, les Russes, les Allemands et enfin les Soviétiques. Considérés à juste titre comme la mère et le père du pays, ils font partie intégrante de la littérature et de l'histoire de la Lettonie, qui leur a consacré un musée populaire, tandis que leurs œuvres continuent d'être jouées dans les théâtres. Récemment, en 2015, suite à leur entrée dans la monnaie unique européenne, ils ont été représentés sur la même splendide pièce de 5 euros, composée de deux parties magistralement complémentaires, célébrant leur destin commun, fait de poésie, d'amour et de patriotisme.

Principales collections lyriques :
Les fleurs rouges;
À l’ombre de l’âme ;
Le coin ensoleillé ;
Le ventre plein de fleurs ;
Les ailes tendues ;
La nuit des sorcières ;
La saison des chrysanthèmes ;
Le voyage de l’âme.

Pièces principales :
Le vengeresse;
Les droits perdus ;
Le but non atteint ;
La jeune fille aux cheveux d'or ;
Aspasie ;
Le voile d’argent.

Autobiographie en deux volumes :
Ma vie et mes œuvres.

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

My family and I visited the Baltic Republics shortly after their 1991 conquest of independence from the former USSR, now in ruins. We shared the ideals of those small countries. They had found the courage to free themselves from the giant that had swallowed them up, imposing a very high price on them - death and suffering, and the renunciation of their identity as peoples. We were greatly pleased and surprised when we realized that they had still preserved their peculiar historical-cultural identity and had a clear, irrepressible, desire to regain lost time. This was particularly clear in the capitals - Vilnius (Lithuania), Riga (Latvia), and Tallin (Estonia). In Riga, without having planned it, we came across a popular festival of the people of the EU, in their traditional costumes. It was a real riot of beautiful colors and of encounters between different cultures. That year Italy was represented by a town in Sardinia, another place close to our hearts! Now, years later, the beautiful 2021 calendar project of the excellent Female Toponymy Association, has brought back that beautiful journey to my mind, offering an opportunity to pass on at least some of the joy it brought to me, my daughter and my husband, by telling of one of the most significant figures in Latvian history and culture, the poet and playwright Johanna Emilija Liete Rosenberga, known as Elza and also known by the strongly evocative pseudonym, Aspasia. An extraordinarily complex and modern female figure, who lived and anticipated in a surprising way the contradictions and ambivalent aspirations of many of us as, even today, we are torn between the desire to fulfill ourselves from a professional point of view, and that of living happy emotional relationships, having to deal with the multiple expectations of the home environment and society, which still weigh excessively on the shoulders of women, despite the legal achievements and the greater possibilities of accessing studies, even at a higher level. I understandably felt an almost immediate empathy and admiration for Aspasia, a woman who, like our grandmothers or great-grandmothers, found herself living between the end of the nineteenth century and about the middle of the twentieth century, facing, also in our name, the seven labors of Hercules to conquer equal moral dignity, even before legal equality. Aspasia's charm and strength consist in her perceiving herself as capable of going beyond all the limits of her time, which oppressed her and her people for centuries. The Order of the Teutonic Knights, which founded Riga, the capital, and imposed Christianity, was followed by the Polish, Swedish, German, Russian invasions, by Soviet rule, and then by the invasion of Hitler's Nazism, then by the Stalinist Soviets until the blessed perestroika of Gorbachev. On 23 August 1989, the peoples of the three Baltic countries formed a human chain of 600 km, which united the three capitals, Tallin, Riga and Vilnius. Two million out of the nine million inhabitants took part in it, stirring the astonished emotion of the democratic world, which took full note of their desire for independence. Following the fall of the Berlin Wall, the freely elected government declared the independence of Latvia, which in September 1991 was recognized by Russia itself.

The dream of Aspasia, the Young Latvians and the subsequent left movement, New Current, influenced by Marxism, led by Rainis and Peteris Stucka of the newspaper "Dienas Lapa", has finally come true! Elza, a long desired child, was born on March 16, 1865, on a farm in the Zemgale region, south of Riga. Her wealthy peasant family lived in a beautiful brick house, rather than in the more common wooden buildings. Her mother Grieta, energetic and a lover of jewels and beautiful clothes, and her tender and patient father, soon taught her to read and write, did not allow her to socialize with other farmers' sons and daughters, dreaming of a better fate for her. One of her Lutheran family’s first gifts to her was a Bible in German, regarded as the language of culture, to be read on her own. This ignited her imagination, while her grandmother told her the stories from Latvian folk tradition. She learned willingly and quickly, from any source that allowed her to go beyond the enclosed spaces of her family life. She enrolled in school in the city of Jelgava, where she was totally dedicated to her studies, spending sleepless nights reading by candlelight. I see her (and I see myself, a young rural student struggling with Latin, in her), as she enters into the study of classical civilization, getting excited by the tales of Homer and Virgil, by the legends and myths of heroines and heroes who founded Athens and Rome, the cradles of democracy and law. Among them, the leader Pericles, who is under the influence and apparently was in love with Aspasia, his fated mentor, the aristocratic concubine, beloved inseparable companion, architect of his political rise. She was the cultured and fascinating animator of a sort of cultural salon of yesteryear, frequented by Phidias and more often by Socrates. There it was even permitted for the aristocrats to be accompanied by their wives, so that they can learn from Aspasia's learned conversations. Elza understood, then, that Aspasia was her, she wanted to be her, fully grasping the reasons for that pseudonym attributed to her by one of her teachers, with the intention of revealing her great gifts, sensitivity and intelligence, making her understand how knowledge is the pass to freedom and independence. For her and for the women of her homeland. While the intrepid Elza-Aspasia, at the age of 16, dreamed of this, her mother, suddenly and without the possibility of appeal, who had encouraged and supported her until then, forced her to interrupt her studies without having obtained her nearly completed diploma. For Aspasia it was a first burning betrayal, which deeply affected her, breaking her trust in others and, at an unconscious level, even in herself and in her real possibilities. She felt rejected, crushed, her wings clipped prematurely. She was sensitive, passionate, suggestible, with a great self-love, sensing, desiring for herself an uncommon destiny. She very soon began to write poems and win prizes. “The Daughter of the Sun,” one of her most beloved, is inspired by Latvian mythology, as conveyed in the oral tradition of her people through the Dainas, compelling stories that in Latvian peasant culture were handed down from generation to generation during the long cold winter nights. At school she had become passionate about theater, finding in the times and rhythms of that world, where everything was possible, her most congenial dimension. She acted with passion and full involvement in The Merchant of Venice, by the bard Shakespeare. She wanted to be an actress and enroll in a theater course in Riga, so she ran away from home. Her parents took her back time and again, fearing that she was endangered by her urban companions, and by her contact with the youth in the New Movement, exposing her to the dangerous attention of the Russian rulers, who could permanently take her away. In 1886, at the age of 21, they married her to a bourgeois, a certain Wilhelm Max Walter, thinking of winning her a better social position, while she saw the marriage as an escape from her narrow family circle. The dowry requested of and offered by her family is huge, consuming most of the assets of her family. In just two years, however, Wilhelm proved to be a reckless drinker and gambler, dissipating all their possessions and reducing them to misery. He fled to the US, and all trace of him was lost. The marriage was later annulled in 1897. Aspasia first wrote about the unhappy experience in “Seltite” (Golden) and then in the play “Vaidelote” (The Avenger), which won her the Riga Theater Prize in 1888. The prose is strong, and the language introduces in the emerging Latvian literature the figure of a violent, dominating mother, recalling the myth of Medea.

At that point, forced to support her family, parents and two younger siblings, she worked as a governess, writing in her free time. She began to frequent the young people of the Movement again, cultivating romantic and nationalist ideas with them. She published her poems in the newspaper "Dienas Lapa" under the name Aspasia, becoming the voice of her country’s search of identity and independence. At the newspaper she met Janis Plieksans, known as Rainis (the variegated), from a wealthy Lithuanian-Swedish family, editor-in-chief and writer, although not too committed. They found themselves in the Movement, both nourishing libertarian and independence aspirations. They began to talk about their writings and their desire to contribute to the formation of national identity, to awaken the dormant consciences of their people through poetry and the theatrical genre which, inspired by ancient legends, could give life to a sort of new founding myth of their homeland. She liked his elegance, his penetrating gaze, and the trust that she received from him, that he gave great consideration to her thoughts and suggestions, despite his university studies and his degree in law. He is struck by her intelligence, by her passion inspired by her imaginative ability and by her youthful beauty. The new Pericles and Aspasia will become inseparable, in good times and bad, until his death in 1929, beyond which the writer survived, despite her, for 14 years. Their lives were closely intertwined with the political events of their country, capable of rising from the ashes every time. Rainis as an internationalist socialist, Aspasia more sensitive to human rights and people's freedom. He, a rationalist and atheist, cultivated the dream of a universal brotherhood and is an ideological supporter of women's emancipation. She was an extraordinarily talented lyric poet, who fought for the concrete affirmation of women's rights. They decided to live together, in Jurmala, a lively seaside resort not far from Riga. It was the happiest time in Aspasia's life, from both her personal and creative points of view. She published La Vestale and then her first collection of poems, Red Flowers, which met with great acclaim from critics and audiences, making her popular throughout the country. In the meantime, with Rainis, she wrote other plays and she did the translation of Faust into the Latvian language. They were a successful couple, loved by Latvians, who considered them the singers of their free homeland. In 1897, due to his ideas and his revolutionary political activity, Rainis was arrested by the Tsarist police and sentenced to five years in prison, to be served in Siberia. In order to follow him, Aspasia married him and supported him in the translation of Faust, urging him to write work of his own. In 1905, two years after returning to Riga, the drama The Silver Veil was premiered, written by Aspasia, with two female protagonists, one submissive and one adventurous, who struggle to assert their will. The success was enormous, the Latvian public saw in the work the spur to rebel against their oppressors. Many repeat performances followed, until the news of the revolt in St. Petersburg arrived. The Latvians are also aroused, but the repression was ruthless, with many dead and as many deportees. Aspasia and Rainis, champions of this fight, were convinced to leave Latvia and, with many refugees, they went to Switzerland, first to Zurich then to Lugano and finally to Castagnola, where they remained for 15 years.

Rainis fully immersed himself in his writing, adjusting to their two-room life of poverty and their continuing shortage of money. Aspasia, on the other hand, was anguished by the need to provide at least enough for survival, and suffered from the separation from her family, her audience, and her comrades in the fight. She was oppressed by the fear of failing in her most arduous task, that of continuing to inspire and give her support to his poetry. Rainis himself, sometime later, recognized her immense merit, stating that without her his work would never have been realized. The destiny of Aspasia, the inspiring muse and tireless mentor, has been fulfilled again, first with Pericles. and then with Rainis! At the end of the First World War, Latvia rebelled in the context of Germany’s defeat and declared independence. The exiles could return and in 1920 Aspasia and Rainis were welcomed in triumph in Riga, with all the honors due to the founders of the free homeland. They were given a residence on one of the most important avenues of the capital and were finally be able to live in a comfortable house, in via Basniza iela, 30. Their works were popular in the theaters of the country, and while participating as prominent protagonists in cultural and political life, both were elected to Parliament. He barely missed becoming the President of the Republic, but was appointed Minister of Culture. She chose to dedicate herself to the theater school for young people, which gave her impetus and inspiration for new projects. He traveled and, taken by a new love, kept secret from the public, she preferred not to accompany him, often going to their house with a garden in Jurmala. She continued to write poetry and was happy with her work, and Rainis often joined her there. In that house, on September 14, 1929, Rainis died suddenly and Aspasia informed his compatriots with these words: "Rainis is dead. His name was the sun that shone on all the people. I ask everyone… to accompany him with love. Rainis believed in immortality. I will continue with his spirit.” When her poet disapeared, she left public life and retired at Jurmala, continuing to take on projects, play the piano, write her own poetry. Now that she was no longer the wife of a famous politician, hated by many for her claims of individual freedom and women's rights, a systematic pressure was exerted against her, which pushed her into isolation more and more, ending up with her living in poverty, with a maid and with her cats. She died alone, in hospital, at the age of 78, in November 1943, while the Second World War raged tragically and her homeland, occupied by Stalin's Soviets in 1940, had already fallen under the rule of the Third Reich in 1941. They tried to give her an anonymous burial, but the news of her death spread quickly, causing an outpouring of her fellow citizens, who flocked to pay the just honors to their indomitable poet. Today's free Latvia, is perfectly integrated into the European Union, which it joined in 2004, adopting the euro in 2014. It is finally the homeland desired by Aspasia and Rainis, who inspired its national pride, nourishing the feelings of redemption and rebellion of the people against foreign invasions, the Russians, the Germans, and finally the Soviets. Rightly considered the mother and father of their homeland, they are fully part of the literature and history of Latvia, which has dedicated a very popular museum to them, while their works continue to be represented in the theater. Recently, in 2015, following their entry into the single European currency, they were portrayed on the same splendid 5 euro coin, made up of two masterfully complementary parts, celebrating their common destiny, made up of poetry, love and patriotism.

Main collections of poetry:
The Red Flowers;
In the Shadow of the Soul;
The Sunny Corner;
The Womb Full of Flowers;
The Outstretched Wings;
The Night of the Witches;
In the Chrysanthemum Season;
The Journey of the Soul.

Main plays: The Avenger;
The Lost Rights;
The Goal not Reached;
The Girl with the Golden Hair;
Aspasia;
The Silver Veil.

Two-volume autobiography:
My Life and My Works.


Karen Blixen

Loretta Junck


Rosalina Collu

 

«In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong.
A un centocinquanta chilometri più a nord su quegli altipiani passava l’equatore;
eravamo a milleottocento metri sul livello del mare».

È il celebre incipit di Out of Africa (in Italia La mia Africa), il libro di memorie che rese nota in tutto il mondo la sua autrice, considerata ora tra le voci più originali della letteratura europea del Novecento. L’opera fu pubblicata, in inglese, nel 1937 – solo in seguito fu tradotta nella lingua madre di Karen, il danese – e ottenne subito un gran successo soprattutto negli Stati Uniti. Il film che ne fu tratto negli anni Ottanta, con l’interpretazione di Meryl Streep e Robert Redford, amplificò naturalmente questa fama, anche se tradì in parte il libro. A lei sarebbe dispiaciuto, ma se n’era andata ormai da più di 20 anni, e i proventi del film servirono per far diventare un museo la casa dove aveva abitato in Danimarca.

Era nata nel 1885 a Rungsted, un piccolo centro affacciato sul mar Baltico e battuto dai gelidi venti del nord, tra Copenaghen ed Elsinore, la città dove sorge il celebre castello dove Shakespeare ambientò Amleto. Il padre di Karen, Wilhelm Dinesen, apparteneva a una famiglia di ufficiali e proprietari terrieri, ma presto aveva abbandonato la carriera militare, che lasciava troppo poco spazio al suo spirito di avventura, ed era partito per l’America. Qui era vissuto per un periodo presso una tribù indiana, facendo il cacciatore e il mercante di pelli. Il fascino dei racconti paterni ebbe un’influenza determinante sul destino di Karen: da lui la piccola Tanne (così era chiamata in famiglia) imparò ad ascoltare e a raccontare storie e apprese l’amore per la natura e l’anelito alla libertà. Ma Wilhelm morì suicida lasciando tre figlie femmine e due figli maschi. Gli era stata diagnosticata la sifilide e forse il suo gesto era connesso con il terrore delle gravi conseguenze della malattia, per la quale allora esistevano pochi incerti rimedi. Per Karen, che aveva solo dieci anni, la ferita fu profonda e immedicabile. Come si usava allora, alla bambina fu impartita un’educazione famigliare, sotto la guida della madre, Ingeborg Westenholz, e della zia. Ma con la madre il rapporto non era troppo buono: Karen l’accusava di eccessiva rigidezza, che attribuiva all’influsso su di lei della congregazione religiosa cui apparteneva. Compiuti gli studi, la giovane si iscrisse all’Accademia delle Arti di Copenaghen per sfruttare la predisposizione per il disegno, che si univa a quella per le lettere. A 24 anni si innamorò, non corrisposta, del cugino svedese Hans Blixen e finì per fidanzarsi con il gemello di Hans, Bror. Con lui nel 1912 partì per il Kenia, che era protettorato britannico da meno di vent’anni, con l’intenzione di acquistarvi una proprietà, come avevano già fatto molte famiglie europee che da tempo si erano stabilite nelle fertili terre intorno a Nairobi.

La casa museo danese di Karen Blixen Karen, 1913

I due si sposarono a Mombasa e acquistarono vicino a Nairobi un terreno di 3000 ettari, una parte dei quali era occupata da una piantagione di caffè. Ma l’impresa non fu fortunata e il matrimonio nemmeno: Bror si rivelò subito un marito infedele e, oltre tutto, trasmise alla moglie la sifilide. Lei andò in Danimarca per curarsi e ci rimase parecchi mesi, poi tornò in Africa, ma dopo i fatidici sette anni i due finirono per separarsi e infine divorziarono. Karen, rimasta da sola a condurre la fattoria, nel frattempo aveva conosciuto in Kenia l’inglese Denys Finch Hatton, appassionato di safari, fine intenditore di musica classica e di letteratura e ascoltatore prezioso delle storie che lei amava raccontare. Karen lo considerò sempre il grande amore della sua vita, pur sapendo di non poter contare sulla sua presenza costante. Forse fu la morte precoce di Denys, per un incidente aereo, a favorire la mitizzazione di questo rapporto che nella realtà non fu senza problemi. Intanto la grande crisi economica degli anni Trenta aveva dato il colpo di grazia al progetto della piantagione che, un po’ per l’altezza eccessiva, un po’ per la siccità ricorrente non era mai stata davvero redditizia. Nel 1931, lo stesso anno della morte del suo grande amico, Karen fu costretta a vendere la proprietà, come molti anni prima avrebbe voluto fare suo marito Bror, mentre lei non ne aveva voluto sapere. Così perse il denaro investito e le fatiche profuse per diciassette anni nell’impresa, ma poté lasciarci una delle più vivide immagini dell’Africa e dei suoi popoli che siano mai state affidate alla parola scritta.

Karen in africa Out of Africa. Locandina del film

Tornata in patria, riprese a vivere nella casa di famiglia a Rungsted e, ormai quarantaseienne, si mise a scrivere; non era cosa nuova per lei, ma ora ci si dedicò intensamente, con il proposito di pubblicare. La prima opera, Sette storie gotiche, uscì in inglese in Inghilterra e negli Stati Uniti, con lo pseudonimo maschile di Isak Dinesen; seguirono La mia Africa e altre due raccolte, Racconti d’inverno e Capricci del destino, cui appartiene il racconto reso famoso da una splendida versione cinematografica, Il pranzo di Babette. Fanno parte della sua produzione anche alcuni saggi e due romanzi (I vendicatori angelici, scritto durante l’occupazione nazista della Danimarca e Ombre sull’erba, pubblicato nel 1960) ma è il racconto la misura ideale della scrittura di Blixen. Lo conferma Ehrengard, opera postuma che è forse il suo capolavoro. Il personaggio della protagonista, il più affascinante, credo, della ricca galleria di eroine lasciataci dalla scrittrice danese, ripropone ancora una volta i temi che le erano cari, ribadendo la concezione schiettamente aristocratica che lei aveva della vita: non c’è posto per la mediocrità nelle storie di Karen Blixen, come non c’era nell’ambito dei suoi interessi. Anche il nutrito epistolario è stato pubblicato.

Ehrengard

Già assai sofferente per i postumi di un’operazione allo stomaco subita a 70 anni, nel 1959 la scrittrice volle partire per gli Stati Uniti, dove era stata invitata, per conoscere finalmente di persona il Paese cui sapeva di dovere la fama raggiunta. Riscosse un gran successo e ovunque fu festeggiatissima. Molte sono le fotografie che la ritraggono in questa occasione; in alcune, la vediamo seduta al tavolo di un ristorante insieme a Carson McCullers (c’era una stima reciproca fra loro), Arthur Miller e Marilyn Monroe, di cui disse che le ricordava una cucciola di leone che un giorno le avevano portato, in Africa, ma lei non l’aveva voluta tenere. La scrittrice è ormai anziana, ridotta a pelle e ossa (non poteva mangiare quasi nulla), ma gli occhi colpiscono per la luce e l’intensità intelligente e partecipe dello sguardo. Si spense nel 1962, nella casa di Rungsted, con accanto famigliari, amiche e amici da cui era adorata, ma senza aver ottenuto il Nobel per la letteratura come aveva sperato: per due volte, nel ’54 e nel ’57, era stata candidata al Premio, ma il prestigioso riconoscimento era andato prima a Hemingway, poi a Camus. La giuria, si è saputo recentemente, da quando una parte dei documenti contenuti nell’archivio del Premio sono stati resi disponibili, non l’aveva scelta nel timore di dare un’impressione di parzialità nel privilegiare una scrittrice scandinava.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

«En Afrique, j'avais une ferme au pied des hauts plateaux de Ngong.
Cent cinquante kilomètres plus au nord sur ces plateaux passaient l'équateur;
nous étions à mille huit cents mètres au-dessus du niveau de la mer».

C'est le célèbre incipit de Out of Africa -la ferme africaine (en Italie La mia Africa), le mémoire qui a fait connaître son auteure dans le monde entier, aujourd'hui considérée comme l'une des voix les plus originales de la littérature européenne du XXe siècle. L'ouvrage est publié en anglais en 1937 - ce n'est que plus tard qu'il est traduit dans la langue maternelle de Karen, le danois - et connait immédiatement un grand succès, notamment aux États-Unis. Le film qui a été tourné dans les années 1980, avec l'interprétation de Meryl Streep et Robert Redford, a naturellement amplifié cette notoriété, même si il a en partie trahi le livre. Elle aurait été désolée, mais elle n’était plus depuis plus de 20 ans déjà, et les bénéfices du film ont été utilisés pour transformer la maison où elle vivait au Danemark en musée.

Elle est née en 1885 à Rungsted, une petite ville surplombant la mer Baltique et battue par les vents glacials du nord, entre Copenhague et Elseneur, la ville où se dresse le célèbre château où se déroule le drame d’Hamlet de Shakespeare. Le père de Karen, Wilhelm Dinesen, appartenait à une famille d'officiers et de propriétaires terriens, mais il abandonne bientôt une carrière militaire, qui laissait trop peu de place à son esprit d'aventure, et part pour l'Amérique. Il y vit pendant une période avec une tribu indienne, travaillant comme chasseur et commerçant. Le charme des contes de son père a une influence décisive sur le destin de Karen : de lui, la petite Tanne (comme on l'appelait dans la famille) apprend à écouter et à raconter des histoires et apprend l'amour de la nature et le désir de liberté. Mais Wilhelm se suicide en laissant derrière lui trois filles et deux fils. On lui a diagnostiqué la syphilis et peut-être son geste est lié à la terreur des conséquences graves de la maladie, pour laquelle il y avait alors peu de remèdes certains. Pour Karen, qui n’a que dix ans, la blessure est profonde et incurable. Comme c'est la coutume à l'époque, l'enfant reçoit une éducation familiale, sous la direction de sa mère, Ingeborg Westenholz, et de sa tante. Mais la relation avec sa mère n’est pas trop bonne : Karen l'accuse d'une rigidité excessive, qu'elle attribue à l'influence sur elle de la congrégation religieuse à laquelle elle appartient. Après avoir terminé ses études, la jeune femme s'inscrit à l'Académie des Arts de Copenhague pour profiter de sa prédisposition pour le dessin, qui se conjugue à celle pour les lettres. À 24 ans, elle tombe amoureuse, sans contrepartie, de son cousin suédois Hans Blixen et finit par se fiancer avec le jumeau de Hans, Bror. Avec lui, en 1912, elle part pour le Kenya, protectorat britannique depuis moins de vingt ans, avec l'intention d'y acheter une propriété, comme l'ont déjà fait de nombreuses familles européennes installées depuis longtemps dans les terres fertiles autour de Nairobi.

La maison-musée danoise de Karen Blixen Karen, 1913

Les deux se marient à Mombasa et achètent 3 000 hectares de terres près de Nairobi, dont une partie est occupée par une plantation de café. Mais l'entreprise n'a pas de chance et le mariage non plus : Bror se révèle immédiatement être un mari infidèle et surtout, transmet la syphilis à sa femme. Elle va au Danemark pour un traitement et y reste plusieurs mois, puis retourne en Afrique, mais après les sept années fatidiques, les deux finissent par se séparer et finalement divorcent. Karen, laissée seule à la tête de la ferme, a entre-temps rencontré l'anglais Denys Finch Hatton au Kenya, passionné de safari, fin connaisseur de musique classique et de littérature et auditeur précieux des histoires qu'elle aime raconter. Karen l'a toujours considéré comme le grand amour de sa vie, même si elle savait qu'elle ne pouvait pas compter sur sa présence constante. C'est peut-être la mort prématurée de Denys, due à un accident d'avion, qui a favorisé le mythe de cette relation, qui en réalité n'était pas sans problèmes. Entre-temps, la grande crise économique des années 1930 donne le coup de grâce au projet de plantation qui, en partie à cause de la hauteur excessive, en partie à cause de la sécheresse récurrente, n'a jamais été vraiment rentable. En 1931, la même année où son grand ami décède, Karen est forcée de vendre la propriété, comme son mari Bror aurait voulu le faire depuis de nombreuses années, alors qu’elle, elle n’était jamais d’accord. Elle a donc perdu l'argent qu'elle avait investi et le dur labeur qu'elle a consacré pendant dix-sept ans dans l’entreprise mais elle a su nous laisser l'une des images les plus vives de l'Afrique et de ses peuples qui n'ait jamais été confiée à l’écriture.

Karen en Afrique Out of Africa. Affiche

De retour dans son pays natal, elle recommence à vivre dans la maison familiale de Rungsted et, a maintenant quarante-six ans, elle commence à écrire ; ce n'est pas nouveau pour elle, mais maintenant elle s’y dévoue intensément, avec l'intention de publier. Le premier ouvrage, sept histoires gothiques, sort en anglais en Angleterre et aux États-Unis, sous le pseudonyme masculin d'Isak Dinesen ; suivi de La Ferme Africaine et de deux autres recueils, Les Contes d’hiver et Caprices du destin, qui comprend l'histoire rendue célèbre par une splendide version cinématographique, Le dîner de Babette. Quelques essais et deux romans font également partie de sa production (les voies du châtiment, écrit pendant l'occupation nazie du Danemark et Ombres sur la prairie, publié en 1960) mais l'histoire est la mesure idéale de l'écriture de Blixen. C'est ce que confirme Ehrengarde œuvre posthume qui est peut-être son chef-d'œuvre. Le personnage de la protagoniste, la plus fascinante, je pense, de la riche galerie d'héroïnes que nous a laissée l'écrivaine danoise, propose une fois de plus les thèmes qui lui sont chers, réaffirmant la conception franchement aristocratique qu'elle se fait de la vie : il y a pas de place pour la médiocrité dans les histoires de Karen Blixen, car il n'y en a pas dans ses intérêts. L'abondante correspondance a également été publiée.

Ehrengard

Souffrant déjà des séquelles d'une opération à l'estomac à l'âge de 70 ans, l'écrivaine souhaite partir en 1959 aux États-Unis, où elle a été invitée, pour enfin connaître physiquement le pays auquel elle sait devoir sa renommée. C’est un grand succès et elle est célébrée de partout. Il existe de nombreuses photographies qui la représentent dans ces occasions ; dans certaines, on la voit assise à une table de restaurant avec Carson McCullers (il y avait une estime mutuelle entre eux), Arthur Miller et Marilyn Monroe, dont elle a dit qu'elle lui rappelait un lionceau qu’on lui avait apporté un jour, en Afrique, mais elle n’avait pas voulu le garder. L'écrivaine est aujourd'hui âgée, réduite à la peau et aux os (elle ne peut presque plus rien manger), mais ses yeux frappent par la lumière et l'intensité intelligente et sympathique de son regard. Elle meurt en 1962, dans la maison Rungsted, avec sa famille, ses amies et amis qui l’adorent, mais sans avoir obtenu le prix Nobel de littérature comme elle l'avait espéré : à deux reprises, en 54 et en 57, elle avait été nominée pour le Prix, mais le prix prestigieux est allé d'abord à Hemingway, puis à Camus. Le jury, on l'a appris récemment, puisque certains des documents contenus dans les archives du Prix ont été mis à disposition, ne l'avait pas choisie de peur de donner une impression de partialité en favorisant un écrivain scandinave.

Karen Blixen, vieille Sa tombe à Rungstedlund

 

Traduzione inglese
Cettina Callea

“I had a farm in Africa at the foot of the Ngong Hills.
The equator runs across these highlands, a hundred miles to the North,
and the farm lay at an altitude of over six thousand feet”.

These are the famous first words of Out of Africa, the book of memoirs which made its author so popular all over the world that she is still considered one of the most original voices in the European literature of the twentieth century. The book was published in English, in 1937 and became soon very successful especially in the USA. Only later was it translated into Karen’s mother tongue, Danish. The film, which was made in the 1980s, with the interpretation of Meryl Streep and Robert Redford, naturally amplified this fame, even if it partially betrayed the book. She would have been sorry, but she had passed away more than 20 years before, and the proceeds from the film were used to turn the house where she lived in Denmark into a museum.

She was born in 1885 in Rungsted, a small town beaten by the icy north winds and overlooking the Baltic Sea. It is situated between Copenhagen and Elsinore, the city where the famous castle where Shakespeare set Hamlet stands. Karen's father, Wilhelm Dinesen, belonged to a family of officers and landowners, but he soon abandoned his military career, which left too little room for his spirit of adventure, and left for America. There, he lived for a period with an Indian tribe, working as a hunter and trader. The charm of her father's tales had a decisive influence on Karen's destiny. From him, little Tanne (as she was called in the family) learned to listen to and to tell stories. And she learned the love of nature and the desire for freedom. But Wilhelm committed suicide leaving three daughters and two sons. He had been diagnosed with syphilis and perhaps his gesture was connected with the terror of the serious consequences of the disease, for which there were then only a few uncertain remedies. For Karen, who was only ten, the wound was deep. As they used to do then, the child was given her education by her family, under the guidance of her mother, Ingeborg Westenholz, and her aunt. But the relationship with her mother was not particularly good. Karen accused her of excessive rigidity, which she attributed to the influence on her of the religious congregation to which she belonged. After completing her studies, the young woman enrolled at the Copenhagen Academy of Arts to further develop her talent for drawing, which was combined with her abilities at writing. When she was 24, she fell in love, unrequited, with her Swedish cousin Hans Blixen and ended up getting engaged to Hans's twin, Bror. In 1912 she left with him for Kenya, which had been a British protectorate for less than twenty years. They had the intention of buying a property there, as had many European families who had long settled in the fertile lands around Nairobi.

Karen Blixen's Danish house museum Karen, 1913

The two married in Mombasa and bought 3,000 hectares of land near Nairobi, part of which was occupied by a coffee plantation. But the enterprise was not lucky and neither was the marriage: Bror immediately revealed himself to be an unfaithful husband and, above all, transmitted syphilis to his wife. She went to Denmark for treatment and stayed several months, then returned to Africa, but after seven years the two separated and eventually divorced. In Kenya Karen, alone leading the farm, had meanwhile met the English Denys Finch Hatton, safari enthusiast, fine connoisseur of classical music and literature and precious listener to the stories she loved to tell. Karen always considered him the great love of her life, even though she knew she could not count on his constant presence. Perhaps it was Denys' early death from a plane crash that helped to avoid trouble in this relationship, which in reality was not without its problems. Meanwhile, the great economic crisis of the 1930s had given the final blow to the plantation project which, because of its excessive height and the recurring drought, had never really been profitable. In 1931, the same year as her great friend's death, Karen was forced to sell the property, as her husband Bror wanted to do many years earlier, while she did not. As a result, she lost the money she had invested and any benefit of the labor she had put into the enterprise for seventeen years. But her time there left her able to leave us one of the most vivid images of Africa and its peoples.

Karen in Africa Out of Africa. Movie poster

She returned to live in the family home in Rungsted and, then forty-six years old, began to write. Writing was not new to her, but in Rungsted she devoted herself to it intensely, with the intention of publishing. Her first work, Seven Gothic Tales, was published in English in England and the United States, under the male pseudonym Isak Dinesen. This first book was followed by Out of Africa and two other collections, Winter’s Tales and Anecdotes of Destiny. Anecdotes of Destiny included the story made famous by its splendid film version, Babette’s Feast. Her production also includes essays and two novels (The Angelic Avengers, written during the Nazi occupation of Denmark and Shadows on the Grass, published in 1960). The very best of her writing was her fiction. This is confirmed by Ehrengard, a posthumously published work that is perhaps her masterpiece. The protagonist is the most fascinating, I believe, of the rich gallery of heroines left to us by the Danish writer. It once again offers themes she really loved, reflecting her frankly aristocratic conception of life - there is no place for mediocrity in the stories of Karen Blixen, as there was not in the range of her interests. Her extensive correspondence has also been published.

Ehrengard

In 1959, already suffering from the after-effects of stomach surgery she had at the age of 70, Karen left for the United States, where she had been invited, to finally get to know in person the country to which she knew she owed her fame. Her trip was a great success and she was celebrated everywhere she went. There are many photographs of her during the trip. In some of them, we see her sitting at a restaurant table with Carson McCullers (there was mutual esteem between them), Arthur Miller and Marilyn Monroe, who reminded Karen of a lion cub she had been given while living in Africa, but that she didn't want to keep. By this time she was reduced to skin and bones by her extremely limited diet. Her advanced age is apparent, but one is still struck by the intelligence and intensity of her gaze. She died in 1962, in the Rungsted house, in the company of close family and friends who had loved her, unfortunately without having obtained the Nobel Prize for Literature as she had hoped. Twice, in 1954 and 1957, she had been nominated for the Prize, but the prestigious award had gone first to Hemingway, then to Camus. Some of the documents contained in the archives of the Nobel Prize committee have since been made available, and they reveal that the jury had not chosen her for fear of giving an impression of partiality by favoring a Scandinavian writer.

Old Karen Blixen His grave in Rungstedlund


Magda Szabó

Daniela Fusari


Rosalina Collu

 

Una bambina che a tre anni sa già leggere e parla in latino con il padre non è una bambina “normale”… eppure questa sua atipicità è l’anticipazione del senso di una vita lunga e benvissuta, spesa nella ricerca, nel rispetto, nella distillazione della parola al servizio della scrittura come specchio della vita. Magda Szabó nasce il 5 ottobre 1917 a Debrecen, seconda città dell’Ungheria e culla della religione riformata. Il padre e la madre sono due intellettuali che appartengono alla borghesia benestante ed entrambi, ognuno con le proprie passioni e vocazioni, si occupano con grande dedizione della cura e dell’educazione della loro unica figlia. Conosciamo la prima parte della vita della scrittrice grazie al racconto autobiografico contenuto in Per Elisa, ultimo suo lavoro pubblicato nel 2002, primo tassello di un’opera incompiuta in più volumi che avrebbe dovuto coprire l’arco della sua intera vita. Per Elisa racconta l’infanzia e l’adolescenza di Magda dalla nascita al 1935, quando si conclude il suo percorso di studi liceali. Grazie a questa autobiografia romanzata possiamo conoscere i personaggi principali della famiglia, il clima sociale della città natale, il contesto culturale che l’ha nutrita, l’ambiente spirituale che ha formato il suo orizzonte morale, sullo sfondo della situazione storica seguita alla Grande guerra, da cui l’Ungheria, in seguito al Trattato di pace del Trianon, è uscita smembrata e mutilata. Dodi, come è chiamata in famiglia, è una bambina curiosa, ama il sapere, la cultura classica, ma si lascia condurre dalla infinita fantasia della madre nei territori liberi dell’immaginazione. Una mente con questo imprinting non poteva certo avere vita facile nei rigidi percorsi disciplinari previsti dalle istituzioni scolastiche del tempo. E così la piccola Dodi subisce i giudizi severi delle insegnanti che non tollerano la sua libertà di pensiero e patisce la derisione e l’emarginazione da parte delle sue compagne troppo diverse da lei. Un evento che scuote potentemente i suoi riferimenti affettivi è l’arrivo in famiglia di Cili, un’orfana di quattro anni, sua coetanea, che gli Szabó decidono di adottare. Cecilia, questo il nome della nuova arrivata, è una vittima della Storia: i suoi genitori, infatti, sono morti durante la fuga da Zenta nella Voivodina, uno dei territori sottratti all’Ungheria dopo la sconfitta subita nella Prima guerra mondiale. Dodi in un primo momento rifiuta la piccola, ma in breve le due bambine, riconoscendo il valore della loro diversità, si scoprono complementari e si legano di un affetto profondo che non finirà nemmeno con la morte precoce di Cili. Anche se nella forma dell’autobiografia, la narrazione non segue un andamento lineare, ma, con la maestria di sempre, Szabó procede utilizzando analessi e prolessi, accompagnandoci avanti e indietro nel tempo con un uso ricercato della lingua, che le viene da un’antica e costante dimestichezza con la parola. La stessa materia autobiografica è al centro di Il vecchio pozzo. Qui i capitoli affrontano ognuno un argomento come un racconto a sé: i genitori, gli animali, le immagini, la vita religiosa, le arti, la poesia, la scuola, l’educazione sentimentale…

Ma in tutta la sua ricca produzione si possono riconoscere echi e trasfigurazioni di momenti che hanno segnato la sua biografia. E alcuni passaggi sono stati davvero dolorosi. Dopo la laurea in lettere classiche, si sposa con Timor Szóbotka, scrittore e traduttore, e inizia ad insegnare in collegi e istituti privati. Le atmosfere di questa dimensione scolastica, vissuta prima come alunna e poi come docente, sono presenti nel romanzo di formazione Abigail (1970) in cui la protagonista, Giorgina detta Gina, orfana di madre, viene inspiegabilmente espulsa, per volontà del padre, dal suo nido domestico, luogo privilegiato della Budapest benestante, riscaldato dall’affetto del genitore e dell’istitutrice francese. È il 1943, l’Ungheria sta per essere invasa dalle truppe naziste e le buie nubi della Storia si addensano anche sulle vite di Gina e di suo padre. La sua nuova dimora è un prestigioso ma tetro collegio calvinista, il Matula, in una cittadina di provincia, lontanissima sia fisicamente che culturalmente dalla città di Budapest in cui l’adolescente è vissuta. Gina (come Magda nella vita reale) si ribella alla nuova condizione, fatica ad accettare le regole e a integrarsi, rifiuta la credenza delle sue coetanee che Abigail, la statua posta nel giardino del collegio, abbia la capacità di proteggere le alunne a patto che queste non ne rivelino i poteri straordinari. In realtà, come scopriranno Gina e chi legge il romanzo, la Storia con la S maiuscola penetra nella vita dei personaggi e la modifica, orientandone le scelte e le azioni: è il coinvolgimento nella Resistenza ungherese che ha spinto il padre ad allontanare da sé Gina per proteggerla e persino dietro l’inquietante figura di Abigail si muovono forze molto più reali di quelle “magiche” immaginate dalle educande. Ciò che Szabó ci dice attraverso questo romanzo è che non si sfugge alla presa della Storia e che la comprensione ritardata, parziale e superficiale di quanto accade produce danni irreparabili, come nel caso dell’inadeguatezza dimostrata da molti magiari nei confronti delle persecuzioni razziali contro la popolazione ebrea ungherese. La stessa Magda, nel ruolo di insegnante, ha provato in prima persona la vergogna di non sapersi opporre alle leggi razziali entrate in vigore nel suo Paese dopo l’invasione tedesca, non ha infatti potuto premiare una sua alunna, la migliore nella lingua ungherese, proprio perché ebrea. Non solo romanzo di formazione, quindi, ma testimonianza di un senso di colpa individuale e collettivo che cerca espiazione attraverso la scrittura. Ma la carriera letteraria di Magda Szabó non era iniziata con la narrativa, in un primo momento il suo mondo interiore si era espresso attraverso il linguaggio poetico. Siamo dopo la fine della Seconda guerra mondiale e, con l’inclusione dell’Ungheria nel blocco dei Paesi satelliti dell’Unione Sovietica, la sua scrittura “intimista” non è ritenuta rispondente ai canoni della cultura di regime. Nel 1949 il Premio Baumgarten, appena assegnatole, le viene revocato e, in rapida successione, è licenziata dal Ministero della Pubblica istruzione, esclusa da ogni incarico ufficiale e costretta a ripiegare sull’insegnamento elementare. Ma, a differenza di altri intellettuali ungheresi, non se ne va dal suo Paese (come ad esempio Sándor Márai) e continua a scrivere e a chiudere nei cassetti testi che, in attesa di tempi migliori, per il momento riserva al suo uditorio di relazioni più intime e fidate, senza mai abbassarsi a compromessi con il regime.

Il primo frutto di questa scrittura “clandestina”, che segna anche la conversione dalla poesia alla prosa, è Affresco. Dopo il 1956 il contesto politico cambia e così quest’opera, scritta tre anni prima, può vedere la luce. Viene tradotto in 40 lingue e, chiave di volta del successivo riconoscimento internazionale dell’autrice, è apprezzato e segnalato da Herman Hesse. L’affresco del titolo è un affresco reale, dipinto anni prima da Annuska, la protagonista, artista mancata, il cui disvelamento serve, sin dalle prime pagine, a presentare i personaggi; ma la vicenda stessa è un affresco dell’Ungheria oppressa dal Comunismo in cui il regime limita la libertà di espressione, non esclusa la sua forma artistica, e in cui anche la Chiesa è al servizio del potere. Così quest’opera è significativa sia per la comprensione dell’ambiente culturale in cui la scrittrice è cresciuta, impregnato com’è di fede ed etica calvinista, sia per la conoscenza del periodo storico in cui si svolgono i fatti raccontati. Il romanzo è incentrato sulla giornata che precede il funerale della madre di Annuska, ma l’apparente semplicità della situazione è presentata facendo ricorso a una struttura narrativa complessa che mostra i fatti attraverso lo sguardo dei diversi personaggi e ricostruisce le vicende e le relazioni dei membri della famiglia con la tecnica del flashback, così che il graduale rilascio di particolari permette di comporre il quadro completo e definitivo solo nell’ultima pagina. Già in questo primo romanzo brillano la bellezza, la forza e la grazia dei personaggi femminili: Mammina, la madre defunta, presentata come un angelo biondo, Janka, la sorella della protagonista, votata al sacrificio, sottomessa all’autoritarismo paterno ma vero cardine della famiglia, e Annuska che incarna la libertà intellettuale, l’aspirazione artistica, la curiosità e le istanze della femminilità, viste come pericolose dai maschi garanti dell’ordine patriarcale.

Le donne, giovani o vecchie, sposate o sole, di qualsiasi condizione sociale, sono figure centrali nelle opere di Szabó, e così forte è l’urgenza di entrare nella loro anima e di vedere il mondo con i loro occhi che l’autrice non esita a rileggere la vicenda dell’Eneide in chiave femminile. Il momento. Creusaide, così si intitola l’opera scritta nel 1990 ma concepita molti anni prima, presenta la vicenda della fuga da Troia in fiamme dal punto di vista di Creusa, la sposa di Enea che Virgilio esclude e cancella, lasciando sulla scena solo la stirpe maschile: Anchise, Enea, Ascanio. Nella finzione narrativa, Szabó parte dal ritrovamento di un lacunoso poema in versi dell’immaginario poeta dell’età augustea Sartorio Saboade che celebra le gesta di Creusa, sopravvissuta e sostituitasi ad Enea nel viaggio verso la salvezza. Ma, oltre a questa originale rilettura del classico virgiliano, il testo vuole, ancora una volta, denunciare la limitazione alla libertà creativa subita dalla scrittrice durante il tempo del regime filosovietico di Mátyás Rákosi. Nella finzione narrativa, infatti, il poema dell’immaginario Saboade è messo all’indice e il poeta ridotto al silenzio perché non organico al consenso costruito attorno al potere di Augusto, così come era stato sciolto il circolo di poesia “Luna nuova”, di cui Szabó faceva parte al tempo della sua prima produzione letteraria in forma poetica. I personaggi femminili e le relazioni che intessono tra loro sono al centro di tre grandi romanzi: La porta, il primo ad aver fatto conoscere Szabó in Italia, La ballata di Iza e L’altra Eszter. In L’altra Eszter (1959) la protagonista è la Eszter del titolo, attrice affermata, che ha saputo emanciparsi da un’infanzia di povertà materiale e affettiva. La sua antagonista, senza saperlo né volerlo essere, è Angela, ex compagna di scuola, più fortunata di lei perché ricca, bella e felice, tutto ciò che Eszter non è ma avrebbe voluto essere, verso la quale nutre per tutta la vita sentimenti di invidia, rancore e odio. Nella forma del monologo interiore, Eszter racconta di sé e ripercorre la sua vita, con grande consapevolezza dei suoi stati emotivi che Szabó descrive con precisione chirurgica. Ma anche questo personaggio, che ha caratteristiche sgradevoli e può risultare antipatico, ha le sue ragioni: non è stata amata e non può amare. Solitudine e incomunicabilità sono dunque temi centrali nel romanzo, temi che ritornano nel successivo La ballata di Iza (1963): anche questa storia ha al centro due figure femminili, una madre anziana, vedova da poco, e una figlia che ha conquistato la sua autonomia attraverso lo studio e la realizzazione nel lavoro. Dopo la morte del padre, Iza, primaria in un ospedale della capitale, pensa che la cosa migliore per la madre sia non lasciarla sola nel paese d’origine, ma portarla a vivere con sé, nel suo appartamento di Budapest. Il dramma della relazione tra le due donne consiste nel fatto che, pur essendo legate da un affetto profondo, non sono capaci di comunicare reciprocamente la natura dei loro sentimenti e le motivazioni delle proprie scelte. Sono i temi complessi e potenti dell’ambivalenza emotiva, dell’impossibilità di comunicare compiutamente i propri vissuti, della difficoltà di agire per il bene dell’altra persona, temi che ritornano di nuovo in La porta. Anche questo romanzo mette al centro la relazione tra due donne, Magda, la scrittrice, io narrante, e Emerenc, una domestica molto particolare che impiega il suo tempo offrendo servizi qualificati a diverse famiglie più o meno importanti della città. La materia autobiografica è assai evidente: Magda, la protagonista, che ha lo stesso nome dell’autrice e come lei è stata da poco politicamente riabilitata, è parecchio impegnata fuori casa per presentare le sue opere, partecipare a eventi pubblici e ricoprire incarichi ufficiali in cui rappresenta il proprio Paese all’estero. Un aiuto domestico le è dunque diventato indispensabile. Ma non sarà la “padrona” a scegliere la “serva”, bensì il contrario, proprio a illuminare da subito la statura del personaggio di Emerenc. Questa anziana signora, ostentatamente ostile alla modernità e al mondo intellettuale, laconica e bizzarra, nasconde dietro a quella porta che mai si apre a vicini e conoscenti, (la porta del titolo, quella di casa sua) il distillato di una vita i cui segreti hanno radici nelle vicende storiche dell’Ungheria del Novecento. La scrittrice avrà infine il privilegio di essere messa a parte del mistero che avvolge l’esistenza di Emerenc, ma, nel tentativo di salvarle la vita, tradirà la fiducia che la vecchia le ha accordato e finirà per farle del male volendo fare il suo bene.

Non è possibile dar conto di tutta la vasta produzione letteraria dell’autrice che conta una cinquantina di opere e spazia dalla poesia al teatro, dal romanzo all’autobiografia e alla narrativa per l’infanzia e l’adolescenza. Ma di un romanzo ancora è necessario parlare: Via Katalin, l’opera più complessa di Szabó, per alcuni il capolavoro, per altri la meno riuscita proprio a causa della più ambiziosa e ardita concezione. In via Katalin, a Budapest, durante la guerra, abitano tre famiglie: i Bíró, gli Held e gli Elekes. Bambini e bambine giocano insieme, crescono e provano i primi turbamenti amorosi. Una delle famiglie è ebrea e, quando anche in città iniziano le retate e le stragi antisemite, in seguito all’uccisone dei genitori, i vicini di casa cercano di mettere in salvo la piccola Henriette. Ma il loro tentativo non ha successo e la piccola muore. Negli anni seguenti, mentre le vite di chi è sopravvissuto continuano a scorrere, tornerà per essere ancora presente in via Katalin come un’entità fantasmatica, a perenne memoria della tragedia vissuta anche in Ungheria da innocenti uomini e donne, ragazzi e ragazze, bambini e bambine, la cui unica colpa è stata quella di nascere e appartenere alla stirpe ebraica. È un romanzo corale in cui i tratti identitari dei personaggi emergono con grande vivezza attraverso sentimenti e pulsioni basilari come l’amore, l’ambizione, il tradimento, l’istinto di conservazione, il senso di colpa, la meschinità, la tenerezza. Via Katalin è un mondo in sedicesimo dove la Storia, anche se non travolge e cancella la vita delle persone, segna l’esistenza di chi accetta di vedere cosa essa produce e decide di darne testimonianza a futura memoria, un mondo in cui chi è vivo e chi non lo è più possono continuare a tessere un dialogo amorevole. La particolare struttura e l’uso di diverse voci narranti, se da una parte, almeno inizialmente, ne rendono un po’ difficile la lettura, dall’altra costituiscono la cifra stilistica dell’autrice, grande tessitrice di trame narrative mai banali. Una grande scrittrice, amatissima in Ungheria e apprezzata in tutto il mondo, testimone di quasi un secolo di vita della storia del suo tormentato Paese. Muore nel 2007 mentre è intenta a svolgere l’attività a cui, oltre alla scrittura, si dedicava da sempre con immenso piacere… leggere.

 

Traduzione francese
Piera Negri

Une fille qui à l'âge de trois ans sait déjà lire et parle latin avec son père n'est pas une fille "normale" ... cependant ce particulier aspect atypique est l'anticipation du sens d'une vie longue et bien vécue, passée dans la recherche, le respect, dans la distillation de la parole au service de l'écriture comme miroir de la vie. Magda Szabó est née le 5 octobre 1917 à Debrecen, la deuxième ville de Hongrie et le berceau de la religion réformée. Le père et la mère sont deux intellectuels appartenant à la riche bourgeoisie et tous les deux, chacun avec ses propres passions et vocations, s'occupent de l'éducation de leur fille unique avec grand dévouement. Nous connaissons la première partie de la vie de l'écrivain grâce au récit autobiographique contenu dans Pour Elise, son dernier ouvrage publié en 2002, premier morceau d'une œuvre inachevée en plusieurs volumes qui aurait dû couvrir toute la durée de sa vie. Pour Elise, raconte l'enfance et l'adolescence de Magda dès sa naissance au 1935, date de la fin de ses études secondaires. Grâce à cette autobiographie romancée, nous pouvons connaître les personnages principaux de la famille, le climat social de la ville natale, le contexte culturel qui l'a nourrie, l'environnement spirituel qui a formé son horizon moral, dans le contexte de la situation historique après la Grande guerre, de laquelle la Hongrie, à la suite du traité de paix de Trianon, est sortie démembrée et mutilée. Dodi, comme on l'appelle en famille, est une petite fille curieuse, elle aime la connaissance, la culture classique, mais se laisse entraîner par l'imagination infinie de sa mère dans les territoires libres de l'imaginaire. Un esprit avec cette empreinte ne pouvait certainement pas avoir une vie facile dans les cours disciplinaires rigides fournis par les instituts d'enseignement de l'époque. Et ainsi Dodi subit les jugements sévères des professeurs qui ne tolèrent pas sa liberté de pensée et souffre de la dérision et de la marginalisation de ses camarades trop différentes d'elle. Un événement qui secoue fortement ses références émotionnelles est l'arrivée dans la famille de Cili, une orpheline de quatre ans, de son même âge, que les Szabó décident d'adopter. Cecilia, c'est le nom de la nouvelle venue, est victime de l’histoire : ses parents, en effet, sont morts lors de la fuite de Zenta en Voivodine, l'un des territoires pris à la Hongrie après la défaite subie lors de la Première Guerre mondiale. Au début, Dodi rejette la petite fille, mais en peu de temps les deux filles, reconnaissant la valeur de leur diversité, se trouvent complémentaires et se lient avec une profonde affection qui ne s'arrêtera même pas avec la mort prématurée de Cili. Même si sous forme d’autobiographie, la narration ne suit pas une tendance linéaire, mais, avec la maîtrise habituelle, Szabó procède par analepses et prolepses, nous accompagnant dans les allers-retours dans le temps avec une utilisation raffinée du langage, qui vient d’une familiarité ancienne et constante avec la parole. La matière autobiographique elle-même est au centre de Le Vieux Puits. Ici les chapitres traitent chacun d'un sujet comme une histoire en soi : parents, animaux, images, vie religieuse, arts, poésie, école, éducation sentimentale ...

Mais dans toute sa riche production, on reconnaît des échos et des transfigurations de moments qui ont marqué sa biographie. Et certaines étapes ont été vraiment douloureuses. Après avoir obtenu son diplôme en littérature classique, elle épouse Timor Szóbotka, écrivain et traducteur, et commence à enseigner dans des collèges et instituts privés. Les ambiances de cette dimension scolastique, vécue d'abord comme élève puis comme enseignante, sont présentes dans le roman de formation Abigail (1970) dans lequel la protagoniste, Giorgina dite Gina, orpheline de mère, est inexplicablement expulsée, par la volonté du père, de son nid domestique, une place privilégiée dans la riche Budapest, réchauffé par l'affection du père et de la gouvernante française. C’est le 1943, la Hongrie est sur le point d'être envahie par les troupes nazies et les nuages sombres de l'histoire se rassemblent également sur la vie de Gina et de son père. Sa nouvelle maison est un collège calviniste prestigieux mais sombre, le Matula, dans une ville de province, physiquement et culturellement éloignée de la ville de Budapest où elle a vécu. Gina (comme Magda dans la vie réelle) se rebelle à la nouvelle condition, lutte pour accepter les règles et s'intégrer, rejette la croyance de ses pairs qu'Abigail, la statue placée dans le jardin du collège, a la capacité de protéger les élèves à condition qu’elles n’en révèlent pas ses pouvoirs extraordinaires. En réalité, comme ils vont le découvrir Gina et qui lit le roman, l'Histoire avec la H majuscule pénètre dans la vie des personnages et la modifie, orientant leurs choix et leurs actions : c'est l'implication dans la Résistance hongroise qui a poussé le père à éloigner Gina de lui-même pour la protéger et même derrière la figure inquiétante d'Abigaïl, des forces bien plus réelles que celles "magiques" imaginées par les écolières bougent. Ce que Szabó nous dit à travers ce roman, c'est que nous n'échappons pas à la prise de l'histoire et que la compréhension retardée, partielle et superficielle de ce qui se passe produit des dommages irréparables, comme dans le cas de l'inadéquation manifestée par plusieurs Magyars face aux persécutions raciales contre la population juive hongroise. Magda elle-même, dans le rôle d'enseignante, a ressenti de première main la honte de ne pas savoir comment s'opposer aux lois raciales entrées en vigueur dans son pays après l'invasion allemande, elle n’a pas pu reconnaitre le prix à une de ses élèves, la meilleure en langue hongroise, parce qu’elle était juive. Pas seulement un roman de formation, donc, mais le témoignage d'un sentiment de faute individuelle et collective qui cherche l'expiation à travers l'écriture. Mais la carrière littéraire de Magda Szabó n'a pas commencé par la fiction, son monde intérieur s'est d'abord exprimé à travers un langage poétique. Nous sommes après la fin de la Seconde Guerre mondiale et, avec l'inclusion de la Hongrie dans le bloc des pays satellites de l'Union soviétique, son écriture « intimiste » n'est pas considérée répondante aux canons de la culture du régime. En 1949, le prix Baumgarten, qui venait de lui être décerné, lui fut révoqué et, dans une succession rapide, elle fut licenciée par le ministère de l'Éducation, exclue de tout poste officiel et contrainte de se replier sur l'enseignement primaire. Mais, contrairement à d'autres intellectuels hongrois, elle ne quitte pas son pays (comme Sándor Márai, par exemple) et continue d'écrire et de fermer dans les tiroirs des textes qui, en attendant des temps meilleurs, pour le moment elle réserve à son public de relations intimes et dignes de confiance, ne faisant jamais de compromis avec le régime.

Le premier fruit de cette écriture « clandestine », qui marque également la conversion de la poésie à la prose, est Fresque. Après 1956, le contexte politique change et cet ouvrage, écrit trois ans auparavant, peut voir le jour. Il est traduit en 40 langues et, clé de voûte de la reconnaissance internationale ultérieure de l'autrice, est apprécié et signalé par Herman Hesse. La fresque du titre est une fresque réelle, peinte il y a des années par Annuska, la protagoniste, artiste ratée, dont le dévoilement sert, dès les premières pages, à présenter les personnages ; mais l'histoire elle-même est une fresque de la Hongrie opprimée par le communisme où le régime limite la liberté d'expression, n'excluant pas sa forme artistique, et dans laquelle l'Église aussi est au service du pouvoir. Ce travail est donc significatif à la fois pour la compréhension de l'environnement culturel dans lequel l'écrivaine a grandi, imprégné de la foi et de l'éthique calvinistes, et pour la connaissance de la période historique dans laquelle les faits racontés se déroulent. Le roman se concentre sur la veille des funérailles de la mère d'Annuska, mais l'apparente simplicité de la situation est présentée à l'aide d'une structure narrative complexe qui montre les faits à travers les yeux des différents personnages et reconstruit les événements et les relations des membres de la famille avec la technique du flashback, de sorte que la diffusion progressive des détails permet de composer l'image complète et définitive seulement à la dernière page. Déjà dans ce premier roman brillent la beauté, la force et la grâce des personnages féminins : Mammina, la mère décédée, présentée comme un ange blond, Janka, la sœur de la protagoniste, dévouée au sacrifice, soumise à l'autoritarisme paternel mais véritable charnière de la famille, et Annuska qui incarne la liberté intellectuelle, l'aspiration artistique, la curiosité et les instances de la féminité, perçues comme dangereuses par les garants masculins de l'ordre patriarcal.

Les femmes, jeunes ou âgées, mariées ou célibataires, de tout statut social, sont des figures centrales les œuvres de Szabó, et si forte est l'envie d'entrer dans leur âme et de voir le monde avec leurs yeux que l'auteur n'hésite pas à relire l’histoire de l'Énéide en clé féminine. Le moment, (Creusaide), c'est le titre de l'ouvrage écrit en 1990 mais conçu nombreuses années avant, présente l'histoire de l'évasion de Troie en flammes du point de vue de Creusa, l'épouse d'Enée que Virgil exclut et annule, ne laissant sur la scène que la lignée : Anchise, Enée, Ascanio. Dans la fiction narrative, Szabó commence par la découverte d'un poème incomplet en vers par le poète imaginaire de l'époque augustéenne Sartorio Saboade qui célèbre les exploits de Creusa, survivante et qui a remplacé Énée sur le chemin du salut. Mais, en plus de cette réinterprétation originale du classique virgilien, le texte veut, une fois de plus, dénoncer la limitation de la liberté de création subie par l'écrivaine à l'époque du régime pro-soviétique de Mátyás Rákosi. Dans la fiction narrative, en effet, le poème de l'imaginaire Saboade est mis à l'index et le poète réduit au silence car il n'est pas organique au consensus construit autour du pouvoir d'Auguste, tout comme le cercle de la poésie "Nouvelle Lune" dont Szabó faisait partie lors de sa première production littéraire sous forme poétique. Les personnages féminins et les relations qu'ils tissent entre eux sont au centre de trois grands romans : La porte, le premier à faire connaître Szabó en Italie, La ballade d'Iza et L’autre Eszter. Dans L'Autre Eszter (1959), la protagoniste est la Eszter du titre, une actrice établie, qui a su s’émanciper d'une enfance de pauvreté matérielle et affective. Son antagoniste, sans le savoir ni vouloir l'être, est Angela, une ex-camarade d’école, plus chanceuse qu'elle étant riche, belle et heureuse, tout ce qu'Eszter n'est pas, mais qu’elle aurait voulu être, envers qui elle a pour toute la vie des sentiments d'envie, de ressentiment et de haine. Sous forme de monologue intérieur, Eszter se raconte et retrace sa vie, avec une grande conscience de ses états émotionnels que Szabó décrit avec une précision chirurgicale. Mais même ce personnage, qui a des caractéristiques désagréables et peut apparaitre antipathique, a ses raisons : elle n'était pas aimée et elle ne peut pas aimer. La solitude et l'incommunicabilité sont donc des thèmes centraux dans le roman, thèmes qui reviennent dans la suite La Ballade d'Iza (1963) : cette histoire a également deux figures féminines centrales, une mère âgée, récemment veuve, et une fille qui a gagné son autonomie à travers l'étude et la réalisation dans le travail. Après la mort de son père, Iza, médecin chef d'un hôpital de la capitale, pense qu’il est mieux pour sa mère est de ne pas rester seule dans le pays d'origine, mais de l'emmener vivre avec elle dans son appartement à Budapest. Le drame de la relation entre les deux femmes consiste en ce que, bien qu'étant liées par une profonde affection, elles sont incapables de communiquer réciproquement la nature de leurs sentiments et les raisons de leurs choix. Ce sont les thèmes complexes et puissants de l'ambivalence émotionnelle, de l'impossibilité de communiquer pleinement ses propres expériences, de la difficulté d'agir pour le bien de l'autre, thèmes qui reviennent à nouveau dans La porte. Ce roman aussi se concentre sur la relation entre deux femmes, Magda, l'écrivaine, narratrice, et Emerenc, une femme de chambre très particulière qui utilise son temps à offrir services qualifiés aux familles plus ou moins importantes de la ville. La question autobiographique est très évidente : Magda, la protagoniste, qui porte le même nom que l'auteur et qui comme elle a récemment été réhabilitée politiquement, est très occupée à l'extérieur de la maison pour présenter ses œuvres, participer à des événements publics et occuper des postes officiels où elle représente son pays à l'étranger. L'aide domestique lui est donc devenue indispensable. Mais ce ne sera pas la « maîtresse » qui choisira le « serviteur », mais le contraire, ce qui illumine immédiatement la stature du personnage d'Emerenc. Cette vieille dame, ostensiblement hostile à la modernité et au monde intellectuel, laconique et bizarre, cache derrière cette porte qui n’ouvre jamais aux voisins et aux connaissances, (la porte du titre, celle de sa maison) le distillat d'une vie dont les secrets ont des racines dans les événements historiques de la Hongrie au XXe siècle. L'écrivain aura enfin le privilège d'être mise au courant du mystère qui entoure l'existence d'Emerenc, mais, en essayant de lui sauver la vie, elle trahira la confiance de la vieille femme et finira par lui faire du mal en voulant lui faire du bien.

Il n'est pas possible de rendre compte de l'ensemble de la vaste production littéraire de l'auteur qui compte une cinquantaine d'œuvres qui vont de la poésie au théâtre, des romans à l'autobiographie et à la fiction pour l'enfance et l'adolescence. Mais il faut encore parler d'un roman : Via Katalin, l'œuvre la plus complexe de Szabó, pour certains le chef-d'œuvre, pour d'autres la moins réussie précisément à cause de sa conception la plus ambitieuse et hardie. Trois familles vivaient dans la rue Katalin à Budapest pendant la guerre : les Bíró, les Helds et les Elekes. Les garçons et les filles jouent ensemble, grandissent et vivent leurs premiers troubles amoureux. Une des familles est juive et, lorsque les raids et massacres antisémites commencent dans la ville, suite au meurtre des parents, les voisins tentent de sauver la petite Henriette. Mais leur tentative échoue et la petite fille meurt. Dans les années suivantes, alors que les vies de survivants continuent, elle redeviendra pour être encore présente en rue Katalin en tant qu'entité fantomatique, en souvenir éternel de la tragédie également vécue en Hongrie par des hommes et des femmes innocents, des garçons et des filles, enfants et jeunes filles, dont la seule faute était de naitre et appartenir à la lignée juive. C'est un roman choral dans lequel les traits identitaires des personnages émergent avec une grande vivacité à travers des sentiments et des impulsions de base tels que l'amour, l'ambition, la trahison, l'instinct de préservation de soi, le sentiment de culpabilité, la méchanceté, la tendresse. Rue Katalin est un monde in-seize où l'histoire, même si elle ne submerge pas et n'efface pas la vie des gens, marque l'existence de ceux qui acceptent de voir ce qu'elle produit et décident d'en témoigner pour la mémoire future, un monde dans lequel ceux-ci qui sont vivants et ceux qui ne le sont plus peuvent continuer à tisser un dialogue affectueux. La structure particulière et l'utilisation de différentes voix narratives, si d'une part, au moins au début, la rendent un peu difficile à lire, d'autre part elles représentent le code stylistique de l'auteur, grande tisseuse d'intrigues narratives jamais banales. Une grande écrivaine, très aimée en Hongrie et appréciée dans le monde entier, témoin de près d'un siècle de vie dans l'histoire de son tourmenté Pays. Elle est décédée en 2007 alors qu'elle était occupée dans l'activité à laquelle, en plus de l'écriture, elle s'était toujours consacrée avec un immense plaisir ... la lecture.

 

Traduzione inglese
Piera Negri

A girl who at the age of three can already read and speaks Latin with her father is not a "normal" girl ... yet this atypical aspect represents what will then be a long and well-lived life, spent in research, respect, distillation of the word at the service of writing as a mirror of life. Magda Szabó was born on 5 October 1917 in Debrecen, the second largest city in Hungary and cradle of the reformed religion. The father and mother are two intellectuals who belong to the wealthy bourgeoisie and both, each with their own passions and vocations, carefully take care of their only daughter’s growth and education. We know the first part of the writer's life thanks to the autobiographical story contained in For Elisa, her last work published in 2002, the first piece of a never completed work in several volumes expected to cover all her life. For Elisa tells of Magda's childhood and adolescence from her birth to 1935, when she finished her high school studies. Thanks to this fictional autobiography we can know the main characters of the family, the social climate of her hometown, the cultural context that nourished her, the spiritual environment that formed her moral horizon, on the background of the historical situation followed by the Great War, from which Hungary, following the Trianon Peace Treaty, emerged dismembered and mutilated. Dodi, as she is called in the family, is a curious child, she loves knowledge, classical culture, but let herself be led by her mother's infinite fantasy into the free territories of the imagination. A mind with such an imprinting certainly could not have an easy life in the rigid disciplinary courses provided by the scholastic institutions of the time. And so little Dodi suffers the severe judgments of the teachers who do not tolerate her freedom of thought and she suffers the derision and marginalization on the part of her companions who are too different from her. An event that powerfully shakes her emotional references is the arrival in the family of Cili, a four-year-old orphan, of her same age, whom the Szabó decide to adopt. Cecilia, this is the name of the newcomer, is a victim of history: her parents, in fact, died during the escape from Zenta in Voivodina, one of the territories taken from Hungary after the defeat suffered in the First World War. At first Dodi rejects the little one, but in a short time the two girls, recognizing the value of their diversity, find each other complementary and bond with a deep affection that will not end even with Cili's premature death. Even if in the form of autobiography, the narration does not follow a linear trend, but, with her usual skill, Szabó proceeds using analexys and prolixes, accompanying us back and forth in time with a refined use of the language, which comes from a ancient and constant familiarity with the word. The autobiographical matter itself is at the centre of The old well. Here each chapter deal with a topic as a story in itself: parents, animals, images, religious life, arts, poetry, school, sentimental education ...

But in all of his rich production we can recognize echoes and transfigurations of moments that have marked her biography. And some of the steps have been really painful. After graduating in classical literature, she married Timor Szóbotka, writer and translator, and she starts teaching in private colleges and institutes. The atmospheres of this scholastic dimension, experienced first as a student and then as a teacher, are present in the novel Abigail (1970) in which the protagonist, Giorgina called Gina, motherless, is inexplicably expelled, by her father, from the domestic nest, a privileged place in wealthy Budapest, warmed by the affection of the parent and the French governess. It is 1943, Hungary is being invaded by Nazi troops and the dark clouds of history are also gathering over the lives of Gina and her father. Her new home is a prestigious but gloomy Calvinist college, the Matula, in a provincial town, very far both physically and culturally from the city of Budapest where the teenager lived. Gina (like Magda in real life) rebels against the new condition, struggles to accept the rules and to integrate, rejects her peers’ beliefs that Abigail, the statue placed in the garden of the college, has the ability to protect the pupils as long as they do not reveal her extraordinary powers. Actually, as Gina and the readers of the novel will discover, the Story with a capital S penetrates into the life of the characters and modifies it, orienting their choices and actions: it is the involvement in the Hungarian Resistance that pushed the father to distance Gina from himself to protect her and even behind the disturbing figure of Abigail, there are forces much more real than the "magical" ones imagined by the boarders. What Szabó tells us through this novel is that we do not escape the grasp of history and that the delayed, partial and superficial understanding of what is happening produces irreparable damage, as in the case of the inadequacy as proven by many Magyars towards the racial persecutions against the Hungarian Jewish population. Magda herself, as teacher, felt first-hand the shame of not knowing how to oppose the racial laws came into force in her country after the German invasion, in fact she could not reward one of her students, the best in the Hungarian language, just because she was Jewish. Not only a bildungsroman, then, but testimony of an individual and collective sense of guilt looking for expiations through writing. But Magda Szabó's literary career did not begin with fiction, at first, she expressed her inner world through poetic language. We are after the end of the Second World War and, with the inclusion of Hungary in the block of the satellite countries of the Soviet Union, her “intimistic” writing is not considered matching the canons of the regime's culture.In 1949 the Baumgarten Prize, just been awarded to her, was revoked and, in quick succession, she was fired from the Ministry of Education, excluded from any official post and forced to fall back on elementary education. But, unlike other Hungarian intellectuals, she does not leave her country (such as Sándor Márai) and continues to write and close in drawers texts that, waiting for better times, she reserves at the moment for her most intimate and trustworthy listeners, never compromising with the regime.

The first fruit of this “clandestine” writing, which also marks the conversion from poetry to prose, is Affresco. After 1956 the political context changes and so this work, written three years earlier, can see the light. It is translated into 40 languages and, the keystone of the author's following international recognition, is appreciated and recommended by Herman Hesse. The fresco of the title is a real fresco, painted years earlier by Annuska, the protagonist, a failed artist, whose unveiling serves, from the very first pages, to present the characters; but the story itself is a fresco of Hungary oppressed by Communism in which the regime limits freedom of expression, not excluding its artistic form, and in which the Church is also at the service of power. This work is significant both for the understanding of the cultural environment in which the writer grew up, impregnated as it is with Calvinist faith and ethics, and for the knowledge of the historical period where the described facts take place. The novel focuses on the day before the funeral of Annuska's mother, but the apparent simplicity of the situation is presented using a complex narrative structure that shows the facts through the eyes of the different characters and reconstructs the events and relationships of the members of the family with the flashback technique, so that the gradual release of details composes the complete and definitive picture on the last page only. Already in this first novel the beauty, strength and grace of female characters shine: Mommy, the deceased mother, presented as a blond angel, Janka, the sister of the protagonist, devoted to sacrifice, subjected to paternal authoritarianism but a true cornerstone of family, and Annuska who embodies intellectual freedom, artistic aspiration, curiosity and the femininity requests, seen as dangerous by the male guarantors of the patriarchal order.

Women, young or old, married or single, of any social status, are central figures in Szabó's works, and so strong is the urge to enter their soul and see the world with their eyes that the author does not hesitate to read again the story of the Aeneid in a feminine key. The moment. Creusaide, this is the title of the work written in 1990 but conceived many years earlier, tells the story of the escape from Troy in flames from the point of view of Creusa, Aeneas’ wife that Virgil excludes and cancels, leaving only the male lineage on the scene: Anchises, Aeneas, Ascanius. In narrative fiction, Szabó starts with the discovery of an incomplete poem in verse by the imaginary poet of the Augustan age Sartorio Saboade who celebrates the exploits of Creusa, who survived and replaced Aeneas in the journey to salvation. But, in addition to this original reinterpretation of the Virgilian classic, the text wants, once again, to denounce the limitation to creative freedom suffered by the writer during the time of the pro-Soviet regime of Mátyás Rákosi. In the narrative fiction, in fact, the poem of the imaginary Saboade is put on the index and the poet reduced to silence because it is not organic to the consensus built around the power of Augustus, just as the circle of poetry "New Moon", of which Szabó was part, was dissolved at the time of her first literary production in poetic form. The female characters and the relationships they build between them are at the centre of three great novels: The door, the first to introduce Szabó in Italy, The ballad of Iza and The other Eszter. In The Other Eszter (1959) the protagonist is Eszter, an established actress, who was able to free herself from a childhood of material and emotional poverty. Her antagonist, without knowing or wanting to be, is Angela, a former schoolmate, more fortunate because rich, beautiful and happy, all what Eszter is not but wanted to be, towards whom she has feelings of envy, resentment and hate for all her life. As an inner monologue, Eszter talks about herself and retraces her life, with great awareness of her emotional states that Szabó describes with surgical precision. But even this character, who has disagreable characteristics and can be found unpleasant, has her reasons: she was not loved and cannot love. Solitude and incommunicability are therefore central themes in the novel, returned again in the The Ballad of Iza (1963): this story too has two main female figures, an elderly mother, recently widowed, and a daughter who has gained her autonomy through her studies and her job. After the death of her father, Iza, head doctor of a hospital in the capital, thinks that the best thing for her mother is not to leave her alone in her country of origin, but to take her to live with her in her flat in Budapest. The drama of the relationship between the two women consists in the fact that, despite being linked by a deep affection, they are unable to mutually communicate the nature of their feelings and the reasons for their choices. These are the complex and powerful themes of emotional ambivalence, the impossibility of fully communicating one's own experiences, the difficulty of acting for the good of the other person, themes that return again in La porta. This novel too focuses on the relationship between two women, Magda, the writer, storyteller, and Emerenc, a very particular maid who spends her time offering qualified services to various more or less important families in the city. The autobiographical matter is very evident: Magda, the protagonist, who has the same name as the author and like her has recently been politically rehabilitated, is very busy away from home to present her works, participate in public events and hold official positions to represent her country abroad. Domestic help has therefore become necessary. But she will not be the "mistress" to choose the "servant", but the opposite, just to immediately illuminate the stature of the character of Emerenc. This elderly lady, clearly hostile to modernity and the intellectual world, laconic and bizarre, hides behind that door that never opens to neighbours and acquaintances (the title’s door, that of her house) the distillation of a life whose secrets have roots in the historical events of Hungary in the twentieth century. The writer will finally have the privilege of being set apart from the mystery that surrounds the existence of Emerenc, but in an attempt to save her life, she will betray the trust the old woman placed in her and will end up hurting her trying to do the good to her.

It is not possible to summarize all the author's vast literary production which has about fifty works and ranges from poetry to theatre, from novels to autobiography and fiction for childhood and adolescence. But we still need to talk about a novel: Katalin Street, Szabó's most complex work, her masterpiece for some, for others the least successful because of the most ambitious and daring conception. Three families lived in Katalin Street in Budapest during the war: the Bíró, the Helds and the Elekes. Boys and girls play together, grow up and experience their first love troubles. One of the families is Jewish and, when the anti-Semitic raids and massacres begin in the city, after the killing of parents, the neighbours try to save little Henriette. But their attempt is unsuccessful and the little girl dies. In the following years, while the lives of those who survived continue to flow, she will return in Katalin Street as a ghost entity, in perpetual memory of the tragedy also experienced in Hungary by innocent men and women, boys and girls, children and girls, whose only fault was to be born and belong to the Jewish lineage. It is a choral novel in which the identifying traits of the characters emerge with great vividness through basic feelings and impulses such as love, ambition, betrayal, self-preservation instinct, sense of guilt, meanness, tenderness. Katalin Street is a world in sixteenmo where history, even if it does not overwhelm and erase people's lives, marks the existence of those who accept to see what it produces and decide to be witness for future memory, a world in which those who is alive and who is no longer can continue to weave a loving dialogue. The special structure and the use of different narrative voices, if on the one hand, at least initially, make it a bit difficult to read, on the other they constitute the stylistic code of the author, a great weaver of never banal narrative plots. A great writer, beloved in Hungary and appreciated all over the world, witness to almost a century of life in the history of her tormented Country. She died in 2007 while she is absorbed in carrying out the activity to which, besides writing, she has always dedicated herself with great pleasure ... reading.

 


Minna Canth

Laura Bertolotti


Rosalina Collu

 

La scrittrice Minna Canth ha avuto un ruolo importante nella letteratura finlandese. Autrice prolifica, anche come commediografa e giornalista, impegnata politicamente, sottolineò sempre l'importanza dell'istruzione per le donne, in un periodo in cui a loro era riservata solo una generica preparazione in vista del matrimonio. Ulrika Vilhelmina Johnsson nacque a Tampere il 19 marzo 1844, in una famiglia modesta, tuttavia ebbe la fortuna di essere la prima donna ammessa a frequentare nel 1863 il Seminario Jyväskylä, una scuola per insegnanti, dove conobbe il futuro marito, Johan Ferdinand Canth, che sposò nel 1865. Cominciò per lei un periodo della vita votato al servizio del coniuge: preparava il cibo, attendeva ai lavori domestici e viveva, secondo lei, nel dilemma di conciliare il talento avuto da Dio nelle lettere e il ruolo assegnato da Dio come moglie e madre. Ebbe sei figli e, mentre aspettava il settimo, venne a mancare il marito e scrisse la sua prima commedia, Murtovarkaus (1882). Per qualcosa come cento anni la sua opera è stata classificata come realista tanto che nel 1953 venne definita "la madre del realismo finlandese". Anche se non fu estranea all'influenza letteraria di Tolstoj, il realismo è sicuramente uno degli aspetti più importanti della sua produzione, infatti Minna sosteneva, al pari di suoi contemporanei, che il genere realistico potesse salvare la società finlandese dai suoi mali sociopolitici, come la sudditanza delle donne, l'alcolismo, l'estrema povertà. Secondo Minna l'autore o l'autrice doveva essere onesto/a e non "abbellire" il testo, che doveva risultare uno specchio della gente, la quale, vergognandosene, poteva migliorare. Minna guardava alla società con occhio critico, nel desiderio di migliorarla; riscontri del suo realismo si trovano sia nelle opere teatrali che nei numerosi articoli giornalistici, i più memorabili spaziavano su libertà di culto, diritti delle donne e pacifismo. È del 1887 la sua firma a un documento per la tolleranza religiosa in Finlandia; successivamente focalizzò problematiche morali e di psicologia femminile, come in Sylvi del 1892, in cui si possono cogliere influenze ibseniane.

Nel 1880 si trasferì a Kuopio, dopo la morte del marito, e diventò anche un'abile imprenditrice, rilevando e sviluppando l'esercizio commerciale che era stato del padre. Il successo nel lavoro le permise di sostenere economicamente la famiglia e le diede la libertà di continuare a scrivere. La sua casa diventò un importante punto di riferimento per gli/le intellettuali che raccolsero la lezione dell'accademico danese Georg Brandes, fautore dell'approccio positivista utile alla trasformazione sociale. Secondo questo pensatore la Finlandia era arretrata di molti decenni rispetto a Francia, Germania e Inghilterra e la "chiamata positivista" si concretizzò proprio nel salotto letterario di Minna, dove si raccoglievano studiosi e studiose per discutere le tesi di Zola, Darwin, Spencer e Mill. La sua formazione in svedese e finlandese le permetteva di parlare e scrivere in entrambe le lingue, ma si adoperò per l'uso generalizzato del finlandese nelle scuole, che non era ancora diffuso come lingua di studio, e facilitò la traduzione di opere dallo svedese. L'impegno profuso per l'istruzione femminile, a partire dal saggio del 1874 Sull'educazione delle nostre figlie, la portò anche a dirigere un liceo femminile a Kuopio, per consentire finalmente alle ragazze l'accesso all'università. Si tende a privilegiare l'importanza di Minna Canth nel campo della letteratura, d'altra parte è stata la prima scrittrice finlandese e alcune sue opere sono ancora lette ai giorni nostri come Anna Liisa (1895), La famiglia del prete (1891), La moglie dell'operaio (1885) perché i temi trattati sono tuttora rilevanti : responsabilità personale, senso di colpa, conflitti intergenerazionali, condizione della donna. Ma occorre sottolineare che la sua opera fu caratterizzata dall'impegno sociale e l'uguaglianza tra uomo e donna era un altro suo tema centrale: «Fintanto che la relazione di genere non si basa sull'uguaglianza, come si può parlare di amore, stato di diritto e sviluppo significativo della società?».

Minna fu stroncata da un attacco di cuore il 12 maggio 1897, a cinquantatré anni, ed è sepolta nel cimitero di Kuopio.Le è stato dedicato un francobollo nel 1944, a cento anni dalla nascita. Nel 1946 è nata ad Helsinki un'associazione che si riunisce otto volte l'anno per conservare l'eredità di pensiero di questa autrice e la attualizza in vari settori della vita sociale. Esiste anche un Premio Minna Canth, finanziato dalla Finnish Fair Foundation, assegnato a persone il cui lavoro come scrittore/trice, imprenditore/trice o influencer sociale ispira la costruzione di una Finlandia migliore. Minna è stata la prima donna a cui il suo Paese ha dedicato un Flag day, a partire dal 2007, nel giorno della sua nascita, il 19 marzo.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

L'écrivain Minna Canth a joué un rôle important dans la littérature finlandaise. Auteure prolifique, également dramaturge et journaliste, politiquement engagée, elle a toujours souligné l'importance de l'éducation pour les femmes, à une époque où on ne leur réservait qu'une préparation générique au mariage. Ulrika Vilhelmina Johnsson naît à Tampere le 19 mars 1844, dans une famille modeste, mais elle a la chance d'être la première femme admise à fréquenter en 1863 le séminaire de Jyväskylä, une école pour enseignants, où elle rencontre son futur mari, Johan Ferdinand Canth, qu'elle épouse en 1865. Elle entame une période de vie consacrée au service de son époux : elle prépare les repas, s'occupe des tâches ménagères et vit, selon elle, dans le dilemme de concilier son talent divin pour les lettres et son rôle divin d'épouse et de mère. Elle a eu six enfants, et alors qu'elle attendait le septième, son mari est décédé et elle a écrit sa première pièce, Murtovarkaus (1882). Pendant une centaine d'années, son œuvre a été classée comme réaliste, à tel point qu'en 1953, elle a été appelée "la mère du réalisme finlandais". Bien qu'elle n'ait pas été étrangère à l'influence littéraire de Tolstoï, le réalisme est certainement l'un des aspects les plus importants de sa production. En effet, Minna soutient, comme ses contemporains, que le genre réaliste peut sauver la société finlandaise de ses maux socio-politiques, tels que l'assujettissement des femmes, l'alcoolisme, l'extrême pauvreté. Selon Minna, l'auteur doit être honnête et ne pas "embellir" le texte, qui doit être un miroir du peuple, qui, ayant honte, peut s'améliorer. Minna regarde la société d'un œil critique, dans le but de l'améliorer ; on trouve des preuves de son réalisme tant dans ses pièces que dans ses nombreux articles journalistiques, dont les plus mémorables portent sur la liberté de culte, les droits des femmes et le pacifisme. En 1887, elle signe un document pour la tolérance religieuse en Finlande ; plus tard, elle se concentre sur les problèmes moraux et la psychologie féminine, comme dans Sylvi de 1892, dans lequel on peut déceler des influences ibséniennes.

En 1880, elle s'installe à Kuopio, après la mort de son mari, et devient une entrepreneuse compétente, reprenant et développant l'entreprise qui avait été celle de son père. Sa réussite dans les affaires lui permet de soutenir financièrement sa famille et lui donne la liberté de continuer à écrire. Sa maison devient un point de référence important pour les intellectuels et intellectuelles qui ont intégré les leçons de l'universitaire danois Georg Brandes, partisan de l'approche positiviste utile à la transformation sociale. Selon ce penseur, la Finlande avait plusieurs décennies de retard sur la France, l'Allemagne et l'Angleterre, et "l'appel positiviste" a pris forme dans le salon littéraire de Minna, où les universitaires se réunissaient pour discuter des thèses de Zola, Darwin, Spencer et Mill. Sa formation en suédois et en finnois lui permet de parler et d'écrire dans les deux langues, mais elle œuvre pour l'utilisation générale du finnois dans les écoles, qui n'est pas encore répandu comme langue d'étude, et facilite la traduction d'ouvrages à partir du suédois. Son engagement en faveur de l'éducation des femmes, qui commence avec son essai de 1874 intitulé “Sur l’éducation de nos filles", l'amène également à diriger un lycée de filles à Kuopio, afin de permettre enfin aux jeunes filles d'accéder à l'université. On tend à privilégier l'importance de Minna Canth dans le domaine de la littérature, d'autre part elle a été la première écrivaine finlandaise et certaines de ses œuvres sont encore lues aujourd'hui comme Anna Liisa (1895), La famille du prêtre (1891), La femme du travailleur (1885) car les thèmes qu'elle a traités sont toujours d'actualité : la responsabilité personnelle, le sentiment de culpabilité, les conflits intergénérationnels, la condition des femmes. Mais il faut souligner que son œuvre se caractérise par un engagement social et que l'égalité entre les hommes et les femmes est un autre de ses thèmes centraux : "Tant que la relation entre les sexes n'est pas fondée sur l'égalité, comment peut-on parler d'amour, d'État de droit et de développement significatif de la société ?"

Minna meurt d'une crise cardiaque le 12 mai 1897, à l'âge de cinquante-trois ans, et est enterrée au cimetière de Kuopio. Un timbre-poste lui a été dédié en 1944, cent ans après sa naissance. En 1946, une association a été fondée à Helsinki, qui se réunit huit fois par an pour préserver l'héritage de la pensée de cet auteur et l'actualiser dans divers domaines de la vie sociale. Il existe également un prix Minna Canth, financé par la Finnish Fair Foundation, décerné aux personnes dont le travail en tant qu'auteur/auteure, entrepreneur/entrepreneuse ou influencer social inspire la construction d'une meilleure Finlande. Minna a été la première femme à qui son pays a consacré un Flag day (Jour du drapeau), à partir de 2007, le jour de sa naissance, le 19 mars.

 

Traduzione inglese
Riccardo Vallarano

Minna Canth played an important role as an author in Finnish literature. She was a prolific author, as well as a play-writer and a journalist, politically active, she highlighted the importance of education for women, in a time when bourgeoisie women were groomed and educated only for marriage life. Ulrika Vilhelmina Johnsson was born on 19 March 1844 in Tampere, in a working-class family, but nonetheless she was the first woman to be admitted in the Jyvaskyla Seminar in 1863 – a Teacher Training College. In this institution, she met her future husband, Johan Ferdinand Canth, to whom she got married in 1865. Afterwards, it began a period of her life solely dedicated to her husband, attending domestic work while experiencing a dilemma: how to reconciliate her God’s given talent as writer and her God’s given role as a wife and a mother. She had six children and, while waiting for the seventh one, her husband died and shortly after she wrote her first comedy, Murtovarkaus (1882). For almost a century her work was identified as Realism, so far that in 1953 she was defined “the mother of Finnish Realism”. Even though slightly influenced by Tolstoj, realism was surely the main facet of her literary production, in fact Minna promoted, aligned with her contemporaries peers, that the realistic genre could have saved Finnish society from its sociopolitical vices, like women submission, alcohol addiction and extreme poverty. According to Minna, the author/writer/novelist must be honest and must not “enrich” the text, which it should mirror people’s real behavior, to shame them and prompt to improve themselves. Minna had a critical approach to society, longing to improve it. Her realism can be found both in theatrical work and in many journalistic articles, the most iconic ranged from freedom of religion, women rights and pacifism. She signed a petition for religious tolerance in 1887 Finland; afterwards she focused on moral issues and feminine psychology, like in Sylvi (1892), where Ibsen influence can be tracked.

She moved in Kuopio in 1880, after her husband’s death, and became a cunning entrepreneur, taking on herself and developing her father’s shop. Her successful managing of the shop was crucial to economically sustain the family, also covering all the necessities to freely write. Minna’s house became an intellectual hub for writers who where highly influenced by the danish academic Georg Brandes theories, consisting on a positivist approach to social change. According to Brandes, Finland was decades backward in respect to France, Germany and England and Minna’s managed to make the way for the “positivist appeal” through her literary salon, where many scholars gathered to discuss ideas from Zola, Darwin, Spencer and Mill. Minna’s mastering of the Finnish and Swedish language allowed her to speak and write in both languages, but she advocated for Finnish as the common language in education, because it was not already widely spread as a language for study, and she helped translating many books from Swedish to Finnish. The strong engagement for women education, since the publication of her first essay Our daughters ‘upbringing in 1874, allowed her to be the principal of a women-only high school in Kuopio and to finally advocate for women access to university. The importance of her work is usually deemed to be in the field of literature, given the fact that Minna Canth was basically the first Finnish writer to be famous and her works are still being read nowadays, like Anna Liisa (1895), the Priest family (1891) the Laborer's wife (1885), for the themes’ relevance: personal responsibility, sense of guilt, inter-generational conflicts, women condition. Nonetheless it should be underscored that her entire work was characterized by social activism and promoting equality between men and women was another of her central themes: “Until gender relations is not based on equality, how can we talk about love, the rule of law and of a meaningful development of society?”

Minna died for an heart attack the 12th of May of 1897, she was fifty-three years old, and she was buried in Kuopio’s cemetery. In 1944 for the centenary since her birth the Finnish state dedicated a commemorative stamp to honor her legacy. In 1946 a foundation to preserve, spread and realize Minna Canth’s intellectual heritage was founded in Helsinki. It exists also a Minna Canth’s Award, funded by The Finnish Fair Foundation, and it is assigned to writers, entrepreneurs and social influencers that successfully inspire the building of a better Finland. Minna was the first woman to be dedicated a Flag Day by the Finnish state, every year since 2007, for her birthday, the 19th of March.

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