Louise Weiss

Sara Marsico


Grafica di Martina Zinni

Chi si trovi a passare davanti alla sede del Parlamento europeo di Strasburgo non potrà fare a meno di notare che è intitolato a una donna: Louise Weiss.

La sede dell’organo più democratico dell’Unione Europea non avrebbe potuto avere intitolazione migliore: Weiss è, tra le Madri fondatrici d’Europa, la più visionaria, anche se con i piedi ben piantati sulla terra. La sua vita, raccontata in un’autobiografia di cinque volumi, rappresenta il percorso travagliato della costruzione dell’Europa anche attraverso la battaglia per il voto alle donne.

Presidente per un giorno, il 17 luglio 1979, come decana, a 86 anni, del Parlamento europeo, all’atto del suo insediamento fu definita dal cancelliere Helmut Schmidt col soprannome di “nonna d’Europa” (appellativo in cui potremmo leggere una velata discriminazione, quando invece il titolo di Madre costituente d’Europa le spettava tutto, al pari dei Padri fondatori). Ma Weiss, europeista convinta fin dagli anni Venti, fu forse la precorritrice delle persone che oggi chiameremmo “diversamente giovani”. Nonna non fu mai, e nemmeno madre, anche se a un certo punto della sua vita adottò un figlio, con cui ebbe un legame travagliato. I suoi rapporti con gli uomini non furono semplici né sereni e la sua vita amorosa fu piuttosto sfortunata, tanto è vero che, quando finalmente si sposò, il matrimonio durò meno di quattro anni. Una donna tanto colta ed indipendente poteva far paura, a quell’epoca. Appartenere a una famiglia agiata, multilingue e cosmopolita, ad Arras, in Alsazia, le aveva assicurato una serie di stimoli e di opportunità rare per le ragazze della sua generazione. Era nata nel gennaio del 1893, non si sa se il 25 o il 26 del mese, sotto la costellazione dell’Acquario, il segno della libertà e libera volle essere fin dall’adolescenza, in forte conflitto col padre, ma attratta dalla figura del nonno materno, Emile Javal, che la fece appassionare alla causa dell’Europa e del pacifismo. Fu grazie alla madre se le fu consentito di studiare, mentre il padre aveva immaginato per lei una vita da casalinga. A tale proposito Weiss avrebbe scritto nelle sue memorie: «Come avrei potuto accettare l’ordinarietà di una vita in famiglia? Che sconfitta! L’alternativa davanti a me: divorare il Pianeta o divorare me stessa». Fortemente determinata e caparbia, nel 1914 fu tra il dieci per cento delle francesi che superarono l’agrégation, l’esame che dava accesso alla pubblica amministrazione e si laureò in letteratura presso le Università di Oxford e di Parigi. Dopo aver vinto un difficile concorso per l’insegnamento, rifiutò il posto ritenendo che la paga fosse troppo bassa per una docente e per una donna. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale si buttò in prima linea nel contrasto alle conseguenze terribili del conflitto, allestì un piccolo ospedale militare in Bretagna per i soldati francesi feriti e fondò una casa per i rifugiati. Alla fine della guerra andò in Svizzera, si offrì come infermiera per i soldati ex prigionieri francesi e volle scrivere, servendosi di uno pseudonimo maschile, delle condizioni in cui questi erano tenuti nei campi di prigionia tedeschi. Il suo imperativo era “far guerra alla guerra” e capì presto che diventare giornalista sul campo le avrebbe permesso, in assenza del diritto delle donne di votare e di essere votate, di diffondere le proprie idee e di condurre campagne pacifiste. Dopo avere scritto per "Le Radical", realizzò reportage interessantissimi per "Le Petit Parisienne", intervistando personaggi famosi tra cui, a Mosca, Lev Trotskj. Il suo sforzo più grande fu la fondazione, insieme a Hiacynthe Philouze, del settimanale "L’Europe Nouvelle", che venne pubblicato dal 1918 al 1934 e divenne ben presto il più importante periodico di relazioni internazionali, aperto a contributi di diverso orientamento politico. Nel 1930 fondò la Nouvelle Ecole de la Paix, una vera scuola per adulti che vide una partecipazione notevole di persone interessate ad assistere a seminari e conferenze di affari internazionali, tenuti da personaggi di grande levatura intellettuale. La minaccia nazista era alle porte e il pacifismo non sembrò più la strada giusta a Louise Weiss. Hitler era troppo pericoloso e la politica della pacificazione portata avanti dalla Lega delle Nazioni non le sembrò all’altezza della sfida. Per questo abbandonò "L’Europe Nouvelle" e appoggiò l’uso della forza per garantire la pace. In questa parte della sua vita sposò la causa dei diritti delle donne ed in particolare la battaglia per il diritto di voto, portata avanti con azioni dimostrative originali e provocatorie, com’era nel suo stile, interrompendo manifestazioni sportive e lanciando volantini da aeroplani. In uno di questi era scritto: «Se ci darete il voto, i vostri calzini continuerano ad essere rammendati». Da ricordare un aneddoto che ben rappresenta la sua ostinazione e creatività: in occasione delle elezioni amministrative a Parigi del maggio del 1935, Louise presentò la propria candidatura simbolica al XVIII arrondissement –  a Montmartre – e con l’aiuto delle donne aderenti alla Femme Nouvelle, organizzazione da lei fondata con sede agli Champs Elysées, costruì un gazebo permanente con finte urne di cartone ed un programma politico: «La francese desidera amministrare gli interessi della città così come ella amministra gli affari domestici». Impegnarsi per la causa delle donne e per il suffragio femminile era il suo modo di scongiurare la guerra.

Nella sua attività di giornalista dedicò moltissima attenzione alla persecuzione delle persone dissidenti e del popolo ebraico e convinse il Ministro degli Affari esteri Bonnet a costituire un Comitato per i rifugiati che aiutasse gli ebrei perseguitati dai nazisti a fuggire. Due altre azioni meritevoli di essere ricordate furono il visto concesso a 1000 bambini/e ebrei/e scappati/e dalla Germania e dall’Austria dopo la Notte dei Cristalli e l’autorizzazione per diverse centinaia di rifugiati rimasti bloccati a bordo dei transatlantici Saint-Louis e Flandre a stabilirsi temporaneamente in Francia dopo essere stati respinti dagli Stati Uniti.

Quando nel 1940 la Francia cadde sotto l’occupazione tedesca Weiss non esitò a schierarsi apertamente con la Resistenza e pubblicò il giornale clandestino "La Nouvelle République". Dopo la guerra si dedicò a viaggi in tutto il mondo e scrisse articoli in favore di un mercato comune e di un’Europa unita, come contrappeso allo strapotere di Usa e Urss. Con l’età divenne più pragmatica ma sempre convinta della necessità che Francia e Germania si riavvicinassero, costruendo un’organizzazione fondata su una comune identità culturale. Nel 1971 istituì la Fondazione Louise Weiss, che assegna ogni anno un premio alla persona o alla istituzione che più si sono battute per la scienza della pace. I premi in questi anni sono andati, tra gli/le altri/e, a Simone Veil, Vaclav Havel e Helmut Schmidt.

Dal 1979 fu ininterrottamente parlamentare europea, eletta nel partito che si ispirava a De Gaulle, quello stesso che il 21 aprile 1944, con un’ordinanza, aveva assicurato il voto alle donne. A lei, nominata Grande ufficiale della Legione d’Onore, vincitrice del Premio Schuman e membro onorario del Consiglio universitario a Strasburgo, sono intitolate una via nel Dodicesimo arrondissement di Parigi, una scuola primaria e una piazza a Strasburgo, una sezione del Museo di Saverne, in cui sono conservati i suoi oggetti personali e i suoi scritti, oltre alla sede francese del Parlamento europeo. L'intitolazione fu fortemente voluta da un’altra donna, Nicole Fontaine, seconda e purtroppo ultima Presidente, dopo Simone Veil, di questo importante organo dell’Unione Europea.

Di Louise Weiss rimangono moltissimi libri, reportage, fotografie, romanzi e saggi, perché aveva intuito, con grande lungimiranza, l’importanza di lasciare traccia di sé nel mondo attraverso lo scritto. Tutto ciò che ha fondato è stato accompagnato da un aggettivo, Nouvelle, e nuova e giovane Louise lo fu fino al giorno della sua morte, avvenuta a 90 anni, nel 1983.


 

Traduzione francese
Daniela Troni

Si on passe devant le siège du Parlement Européen à Strasbourg on peut noter qu’il est attribué à une femme: Louise Weiss.Le siège de l’organe le plus démocratique de l’Union Européeenne n’aurait pas pu avoir une meilleure attribution: Weiss est, parmi les Mères qui ont fondé l’Union, la plus visionnaire, mais au meme temps très concrète. Sa vie, racontée dans une autobiographie en cinq volumes, représente le parcours difficile de la contruction de l’Europe meme à travers la bataille pour le vote des femmes.Présidente pour une journée, le 17 juillet 1979, comme doyenne, à 86 ans, elle a été définie par le Chancelier Helmut Schmidt “grand-mère d’Europe” (surnom où on pourrait lire une discrimination voilée, elle aurait du au contraire avoir le titre de Mère Constituante, comme les Pères). Mais Weiss, européaniste convaincue depuis les années 20, a été peut etre la première des personnes que de nos jours on appelle “différemment jeune”. Elle ne fut jamais grand-mère, mère non plus, meme si pendant sa vie elle adopta un enfant, avec qui elle aura un rapport difficile. Ses rapports avec les hommes n’ont jamais été faciles et sa vie de relations a été plutot malheureuse. En effet son mariage durera moins de quatre ans. Une femme si cultivée et indépendante pouvait faire peur, à cette époque. Sa famille aisée, multilingues et cosmopolite à Arras, lui avait donné des stimules et des opportunités rares pour les femmes de sa génération. Elle était née en janvier 1893, on ne sait pas si le 25 ou le 26, signe Aquarium, signe de  la liberté et elle a voulu etre libre depuis son adolescence, en conflit avec son père, mais attirée par son grand-père maternel, Emile Javal, qui l’adressa vers l’européanisme et le pacifisme. Elle pourra étudier grace à sa mère alors que son père aurait préféré pour elle une vie de ménagère. A ce propos Weiss a écrit dans ses mémoires: “Comment j’aurais pu accepter une vie en famille? Quelle défaite! Devant moi: dévorer la Planète ou dévorer moi-meme”. Très déterminée, en 1914 elle sera parmi le 10 pour cent des fançaises à obtenir l’agrégation, examen qui permet d’acceder à l’administration publique et elle aura sa maitrise en littérature auprès des Universités de Paris et Oxford. Après avoir gagné un difficile concours pour l’enseignement, elle refusa le poste à cause du salaire trop bas pour une enseignante et pour une femme. Au début de la Première Guerre Mondiale elle contrastera les térribles conséquences du conflit, ouvrira un petit hopital militaire en Bretagnepour les soldats français blessés et une “maison” pour les réfugiés. A la fin de la guerre elle ira en Suisse comme infirmière pour les soldats et les prisonniers français et elle voudra écrire, avec un pseudonyme masculin, de leur condition dans les camps allemands. Sa volonté était de “faire guerre à la guerre” et elle comprendra bientot que devenir journaliste lui aurait permis, sans le droit des femmes de voter et d’etre votées, de diffuser ses idées et de conduire la lutte pacifiste. Apres avoir écrit pour “Le Radical”, elle réalisa des reportages très intéressants pour “Le Petit Parisien”, elle interwieva des personnages fameux comme Lev Trotskj. Son plus grand effort a été la fondation, avec Hiacynthe Pilouze, de l’hebdomadaire “L’Europe Nouvelle”, qui sera publié de 1918 à 1934 et qui deviendra bientot le plus important hebdomadaire de relations internationales, ouvert aux  contributions politiques les plus différentes. En 1930 elle fonda “The Nouvelle Ecole dela Paix, une véritable école pour adultes qui a vu la participation de personnes intéréssées à assister à des séminaires et à des conférences d’affaires. La menace naziste s’approchait et le pacifisme semblait insuffisant. Hitler était trop dangereux et la politique de la pacification de la Ligue des Nations ne semblait pas à la hauteur du défi. Pour cette raison elle quittera “L’Europe Nouvelle” et appuyera l’utilisation de la force pour garantir la paix. Pendant ces années elle commencera la bataille pour les droits des femmes et en particulier celle pour le droit de vote à travers des actions originales comme l’interruption de manifestations sportives ou le lancement de tracts. Les mots d’un tract: “ Si vous nous donnez le vote, on continuera à raccomoder vos chaussettes”. A l’occasion des élections administratives à Paris en mai 1935, Louise présentera sa candidature symbolique au XVIII arrondissement à Montmartre et, à l’aide des femmes de Femme Nouvelle, organisation qu’elle avait fondée, elle construira un kiosque avec des urnes fausses en carton et un programme politique: “La française désire administrer les intérets de la ville comme elle administre son foyer”. S’engager pour les femmes et pour leur vote était sa façon d’éloigner la guerre. Comme journaliste elle dédiera beaucoup d’attention à la persécution des juifs et des dissidents et elle convaicra le Ministre pour les Affaires Etrangères Bonnet à former un comité pour les réfugiés pour aider les juifs à fuir les persécutions nazistes. En outre elle fera obtenir le visa à 1000 enfants juifs allemands et autrichiens apres la Nuit de cristal et l’autorisation pour des centaines de réfugiés bloqués dans les navires Saint-Louis et Flandre à s’établir en France après avoir été refusés par les Etats Unis. En 1940 la France sera occupée par les nazistes , Weiss prendra position pour la résistence et publiera le journal clandestin La Nouvelle République. Après la guerre elle voyagera dans le monde entier et elle écrira des articles en faveur d’un marché commun et d’une Europe Unie, contrepoids des Etats Unis et de l’URSS. Elle deviendra plus pragmatique mais toujours convaincue de la nécéssité du rapprochement de France et Allemagne à travers une organisation commune basée sur une commune identité culturelle. En 1971 elle a fondé la Fondadion Louise Weiss, qui donne chaque année un prix à la personne ou à l’institution qui s’est le plus battue pour la paix.Entre autres Simone Veil, Vaclav Havel et Helmut Schmidt ont gagné le prix. Depuis 1979 elle a été membre du Parlement Européen, élue dans le parti qui s’inspirait à De Gaulle qui en 1944 avait assuré le vote aux femmes. Elle a éte nommée Grand Officier de la Légion d’Honneur, elle a gagné le Prix Schuman et elle a été membre d’honneur du Conseil Universitaire de Strasbourg. On lui a attribué une rue dans le XII arrondissement à Paris, une école primaire et une place à Strasbourg, un secteur du Musée de Saverne où ses effets personnels sont abrités, et le siège français du Parlement Eropéen. Cette attribution a été fortement voulue par une autre femme, Nicole Fontaine, deuxième et malheureusement dernière Présidente,  après Simone Veil, de cet important organe de l’Union Européenne.Louise Weiss nous a laissé beaucoup de livres, de reportages, de photos, de romans et d’essais dans le but de laisser sa trace à travers les écrits. Tout ce qu’elle a fondé a été accompagné par le mot Nouvelle, et nouvelle et jeune Louise a été jusqu’à sa mort, à 90 ans,  en 1983.

Traduzione inglese
Irene Cardani

Anyone walking past the European Parliament in Strasbourg will not fail to notice that it is named after a woman: Louise Weiss. The seat of the most democratic institution in the European Union could not have been given a better name: Weiss was, among the founding mothers of Europe, the most visionary one and, at the same time, the most sensible. Her life, told in a five-volume autobiography, shows the troubled path leading to the building of Europe, seen especially from the point of view of the battle for women’s suffrage. On 17 July 1979, when she was 86, she became, as its oldest member, President of the European Parliament. On that day she was defined by Chancellor Helmut Schmidt as "the grandmother of Europe", a nickname in which it is possible to see a veiled discrimination since she would have deserved the title of Founding Mother of Europe, being one of its architects just like the Founding Fathers.  Weiss, pro-European since the 1920s, was perhaps the forerunner of the people we would now call "differently young". She never became either a grandmother or a mother, even if  she adopted a son, with whom she had a troubled relationship. Her love stories were neither simple nor serene and her love life was rather unfortunate, so much so that, when she finally got married, her  marriage lasted less than four years. Such an educated and independent woman could be challenging to any man at that time. As a matter of fact, she  belonged to a wealthy, multilingual and cosmopolitan family from Alsace which had provided her with really uncommon stimuli and opportunities for a woman belonging to her generation. She was born in January 1893, it is not known whether on 25th or 26th, under the constellation of Aquarius, the sign of freedom, and freedom was what she cared for in her adolescence, during which she was in strong conflict with her father; nevertheless, she was attracted by the figure of her maternal grandfather, Emile Javal, who made her focus on the cause of Europe and on  pacifism. It was thanks to her mother that she was allowed to study, while her father wanted her to become a housewife. In this regard, Weiss wrote in her memoirs: "How could I have accepted the ordinariness of a family life? What a defeat! The alternative before me: devour the Planet or devour myself ". Strong-willed and stubborn, in 1914 she was among ten percent of the French women who passed the agrégation, the exam that gave access to public administration and she graduated in literature at the Universities of Oxford and Paris. After getting a challenging qualification in teaching, she refused the position because the salary was too low both for a teacher and a woman. With the outbreak of the First World War, she threw herself into fighting the terrible consequences of the conflict setting  up a small military hospital in Brittany for the wounded French soldiers and founding a house for the refugees. At the end of the war she went to Switzerland, worked as a nurse to the former French prisoners and wrote, using a male pseudonym, about their conditions in the German prison camps. Her imperative was to "make war on war" and she soon realized that working as a journalist  would allow her to spread her ideas and  conduct pacifist campaigns since, like all women, she was not allowed to vote or be voted . After writing for Le Radical, she made very interesting reports for Le Petit Parisien and interviewed famous people, including Lev Trotsky in Moscow. Her greatest effort was the creation, together with Hiacynthe Philouze, of the weekly L 'Europe Nouvelle, which was published from 1918 to 1934 and soon became the most important periodical of international affairs, open to contributions from different political wings. In 1930 she founded the Nouvelle Ecole de la Paix, a school for adults where remarkable lectures and conferences on international affairs were held by personalities of great intellectual stature. When the Nazi threat became evident, Louise Weiss abandoned pacifism. Hitler was extremely dangerous and the League of Nations' policy did not seem to face the challenge in the right way according to Weiss. For this reason, she abandoned Europe Nouvelle and supported the use of force to guarantee peace. In this part of her life she married the cause of women's rights, especially the battle for women’s suffrage, and she carried it out with provocative demonstrative actions such as interrupting sporting events and throwing leaflets from airplanes. One of her slogans was: "Even if you give us the vote, your socks will still get darned."  It’s interesting to write about an episode that well represents her obstinacy and creativity:  on the occasion of the administrative elections in Paris in May 1935, Louise presented her symbolic candidacy in the XVIII arrondissement - à Montmartre – and, with the help of the women adhering to the Femme Nouvelle, an organization she had founded on the Champs Elysées, she built a permanent gazebo with fake cardboard urns and a political programme: "The Frenchwoman wishes to administer the interests of the city as she manages domestic affairs." The cause of women, especially women's suffrage, was her way of trying to avert war.As a journalist, she wrote about the persecution of dissidents and Jews and convinced the Minister of Foreign Affairs Georges Bonnet to set up a Committee for Refugees to help the Jews persecuted by the Nazis to escape. Two other actions that it is important to mention are the visa granted to 1000 Jewish children flying from Germany and Austria after the “”Crystal Night” and the authorization for several hundred refugees who were aboard the transatlantic Saint-Louis and Flandre to settle temporarily in France,  after being rejected by the US. When France was occupied by the Germans in 1940, Weiss did not hesitate to openly siding with the Resistance and published the clandestine newspaper La Nouvelle République.

After the war she devoted herself to travel around the world and wrote articles in favour of a common market and a united Europe, as a counterweight to the excessive power of the US and the USSR. As time went by, she became more pragmatic but always convinced of the need for France and Germany to reconnect, building an organization based on a common cultural identity. In 1971 she established the Louise Weiss Foundation, which annually awards a prize to the person or the institution that has fought most for “the science of peace”. The awards in recent years have been given, among others, to Simone Veil, Vaclav Havel and Helmut Schmidt.

Since 1979 she was uninterruptedly a European parliamentarian, elected in the party inspired by De Gaulle, the same party that on 21 April 1944 had ensured women’s suffrage. A street in the 12th arrondissement of Paris, a primary school and a square in Strasbourg, and a section of the Saverne Museum, where her personal objects and writings are kept, are named after her. The French section of the European Parliament is also dedicated to her. This honour was also strongly desired by another woman, Nicole Fontaine, second and sadly last President, after Simone Veil, of this important institution of the European Union.

 Moreover, she was nominated Grand Officer of the Legion of Honour, she won the Schuman Prize and became honorary member of the University Council in Strasbourg.

Louise Weiss left us many books, reportages, photographs, novels and essays since she foresaw the importance of leaving a trace of  in the world through writing. Everything she founded was accompanied by a name, “Nouvelle” and the adjective  “new” really suited her because Louise was “new” and young until she died, when she was 90, in 1983.

 

 

Fausta Deshormes La Valle

Maria Pia Di Nonno


Grafica di Martina Zinni

Fausta (1927-2013), nata e cresciuta in una famiglia di giornalisti, studia in Giurisprudenza presso l’Università di Roma, ma al contempo sviluppa una forte passione che l’accompagna per il resto della propria vita: l’amore per una corretta informazione, con la consapevolezza di quanto essa possa influire sulla formazione e di conseguenza sulla responsabilizzazione dei cittadini e delle cittadine e sulla loro partecipazione alla vita sociale e politica. Nel 1945 è già redattrice di "L’Universitario" (una rivista del gruppo di studenti L’Interfacoltà); dal 1946 al 1951 è segretaria di redazione della rivista "Annali Ravasini" – mensile dedicato al settore medico – e dal 1951 al 1955 è redattrice della rivista "Ricerca", organo della Federazione Universitaria Cattolici Italiani (Fuci). Sono proprio gli incontri, le amicizie e le reti intessute in quegli anni a risultare decisivi e determinanti per il suo futuro. Già dal 1951 grazie ad Ivo Murgia, fondatore di "Ricerca" e direttore responsabile della rivista dal 1945 al 1947, inizia per lei una nuova entusiasmante avventura. Viene coinvolta nelle attività del Segretariato italiano della Campagna Europea della Gioventù (Ceg), un’organizzazione legata al Movimento Europeo, e nella sensibilizzazione dei/lle giovani sulle questioni europee; dal 1955 al 1958 viene designata caporedattrice della rivista, organo della Campagna, "Giovane Europa". Un periodo breve ma che, come l’esperienza in "Ricerca", la segna profondamente. È proprio in quegli anni, infatti, che la giovane Fausta affina le sue doti di giornalista e quelle abilità e competenze che le tornano utili durante il proprio lavoro nella Commissione europea, immagina e pianifica eventi che possano raggiungere il pubblico più giovane (come concorsi e seminari), amplia la sua rete di contatti e trova l’amore, Philippe Deshormes (Segretario della Campagna Europea dal 1953 sino al 1959).

Ma Fausta, grazie alla Campagna Europea della Gioventù, non trova solo l’amore. Dopo la nascita dei suoi due figli e il trasferimento a Bruxelles vuole tornare, e ne è fermamente convinta, a mettere le proprie energie a disposizione del progetto di integrazione europea. Già il 1° gennaio 1961 viene reclutata dal direttore del Servizio di Stampa e Informazione delle Comunità, Jacques-René Rabier, ed entra a lavorare per la divisione Informazione Universitaria- Gioventù- Educazione popolare,  il cui responsabile è una sua vecchia conoscenza: Jean-Charles Moreau, ex segretario della Campagna Europea della Gioventù. Le viene, così, offerta la possibilità di mettere a frutto l’esperienza maturata, in particolare nella Fuci e durante il lavoro come caporedattrice di "Giovane Europa", nel campo dell’educazione della gioventù. Questo sino al 1974, anno in cui viene chiamata a prendere servizio (sino al dicembre del 1976) presso il Gabinetto del Vice-presidente della Commissione, l’italiano Carlo Scarascia Mugnozza. In quel frangente si occupa in particolare di protezione ambientale, di tutela dei consumatori, di relazioni con il Parlamento europeo. Inoltre, sono proprio quelli gli anni in cui comincia a diventare sempre più insistente e pressante il dibattito sui diritti delle donne. La mobilitazione delle Nazioni Unite, a cui segue il Decennio delle Donne, arriva sino alle porte delle istituzioni europee. La Commissione europea programma, perciò, un sondaggio i cui risultati vengono discussi durante una grande conferenza intitolata Le donne e la Comunità europea che si tiene a Bruxelles nel marzo 1976 e che riunisce circa 120 delegate.  Ed è esattamente al termine di quella conferenza che le donne avanzano la proposta, e che la Commissione europea avalla, di creare due unità per le donne. Una, diretta da Fausta Deshormes La Valle, su Informazione della stampa e delle associazioni femminili e una su I problemi concernenti il lavoro delle donne, la cui prima responsabile è Jacqueline Nonon. L’evento viene ben raccontato dalla stessa Deshormes in un saggio pubblicato in un libro contenente alcune riflessioni del gruppo Donne per l’Europa, un’organizzazione nata da un’idea di Ursula Hirschmann, consorte di Altiero Spinelli, verso la metà degli anni Settanta:

«Questo bisogno di informazione si è in particolare manifestato in occasione di un colloquio che riunì a Bruxelles, nel marzo 1976, centoventi donne che rappresentavano ad alto livello gli ambienti della vita politica, sociale e culturale dei Nove. Scopo di tale colloquio – Le donne e la Comunità europea – era quello di valutare i risultati di un sondaggio d’opinione realizzato nei nove Paesi della Comunità europea, nel 1975, in occasione dell’Anno Internazionale della Donna. Durante i dibattiti, la Commissione delle Comunità fu investita da proposte concrete, in seguito alle quali venne creata, in seno alla Direzione Generale dell’Informazione, un’unità destinata ad intrattenere permanentemente un dialogo con le associazioni femminili informandole e documentandole su tutti gli aspetti dell’integrazione europea, ed aiutandole a scambiare le informazioni da un’associazione dall’altra e da Paese a Paese.»

Quell’evento, e in particolare l’Anno Internazionale della Donna, è destinato a cambiare per sempre il corso della storia delle donne europee ed in un certo senso della democrazia stessa. A partire dal 1975, dalla nota conferenza di Città del Messico sino a tutto il periodo indetto dalle Nazioni Unite per le donne (1976-1985) – noto come Decennio per le donne: uguaglianza, sviluppo e pace – le donne d’Europa, sostenute in parte dalle istituzioni europee e in parte dalla loro voglia di riscatto e di uguaglianza, cominciano a rivendicare i propri diritti attivando una serie di iniziative, proposte e progetti. Fausta Deshormes La Valle, Jacqueline Nonon, Ursula Hirschmann, Eliane Vogel-Polsky sono queste alcune delle protagoniste di quell’avventura che ha dell’incredibile e che parte dalle istituzioni europee, ma che finisce con l’incidere profondamente sulle stesse legislazioni nazionali. Tra alcuni dei momenti più eclatanti di quel percorso si possono citare: la battaglia per il riconoscimento della diretta applicabilità dell’art. 119 del Trattato Istitutivo delle Comunità Economiche Europee; le iniziative per le elezioni a suffragio universale del Parlamento europeo; la creazione di una Commissione ad hoc per i diritti delle donne (a cui fa seguito la Commissione d’inchiesta per i diritti della donna e la Commissione permanente per i diritti della donna); il lancio del primo Programma d’Azione per la Parità; la pubblicazione della rivista "Donne d’Europa" e la creazione della Lobby Europea delle Donne. Di tutto questo cammino fatto di collaborazione tra uomini e donne, di speranze, di ambizioni e di duro lavoro, Fausta Deshormes La Valle  rappresenta, in qualche modo, uno dei principali elementi catalizzatori. Dal suo piccolo ufficio per l’informazione alle donne, che ella stessa definisce un osservatorio privilegiato, lavora incessantemente per informarle (ma informa anche gli uomini), propone iniziative e sostiene la formazione di reti (seppur non goda di alcun potere politico e sia, al contrario, costretta a lavorare con pochi finanziamenti e ricevendo una subdola opposizione da parte della gerarchia).

Fausta Deshormes La Valle non ha alcun potere, nel senso classico del termine, ma sa – avendolo sperimentato durante gli anni di lavoro come caporedattrice di "Giovane Europa" – quanto l’informazione possa attivare un cambiamento sociale; ma anche quanto l’informazione debba sempre avere un fine formativo. L’informazione senza formazione rischia di scivolare facilmente nella propaganda e nel populismo e, di questo, lei è pienamente cosciente. Dirige con maestria, e poche risorse, il suo Ufficio Informazione Donne – tra mille peripezie e ostacoli – e soprattutto conserva. Conserva documenti di ogni genere e li dona qualche anno prima della sua morte agli Archivi Storici dell’Unione Europea a Firenze. Sa che dal tipo di informazione che viene conservata dipenderà la storia di domani, quel terreno su cui verranno poste le basi morali e civiche dei futuri cittadini e delle future cittadine. In quest’ottica si comprende anche l’incommensurabile dono fatto alle generazioni future tramite il reperimento e la catalogazione di documenti preziosi per la storia dell’integrazione europea. Se Fausta non avesse avuto la premura di conservare tutti i documenti che hanno segnato la propria vita – e che dimostrano al contempo l’impegno e la rilevanza che giovani e donne hanno avuto nel processo dell’integrazione europea – quella parte di storia sarebbe stata cancellata, facendo venir meno una parte del racconto della storia dell’integrazione europea “dal basso” e da un’altra “angolatura”.

Tutte le europee e tutti gli europei dovrebbero essere grati a questa grande donna che, con umiltà, è riuscita a rendere l’Unione Europea un posto un po' più a misura di cittadini e cittadine. E che, e soprattutto, lo ha fatto senza alcun personalismo e senza pensare di star facendo qualcosa di straordinario o di eccezionale. Tanto che in un’occasione ebbe a dire qualcosa del tipo: «Perché mi premiate? Semplicemente per aver fatto il mio lavoro?»

 

Traduzione francese

Marie-Thérèse Peri

Fausta (1927-2013) est née et a grandi dans une famille de journalistes. Elle étudie Droit à l'Université de Rome, mais elle a en mȇme temps développé une forte passion qui l’accompagnera toute sa vie: l’amour pour une information correcte, consciente de son influence sur la formation et par conséquent sur la responsabilisation des citoyens et des citoyennes et sur leur participation à la vie sociale et politique. En 1945, elle est déjà rédactrice de « L’Universitario » (une revue du groupe d’étudiants « L’interfaculté ») ; de 1946 à 1951, elle est secrétaire de rédaction de la Revue « Annali Ravasini » - mensuel dédié au secteur médical et, de 1951 à 1955, elle est rédactrice de la Revue « Ricerca », organe de la Fédération Universitaire Catholiques Italiens (FUCI). Ce sont justement les rencontres, les amitiés et les réseaux tressés de ces années-là qui sont décisifs et déterminants pour son avenir. Déjà en 1951, grȃce à Ivo Murgia, Fondateur de «  Ricerca » et Directeur responsable de la revue de 1945 à 1947, que commence, pour elle, une nouvelle aventure enthousiasmante. Elle est impliquée dans les activités du Secrétariat italien de la Campagne Européenne de la Jeunesse (CEG), organisation liée au Mouvement Européen, et dans la sensibilisation des jeunes sur les questions européennes ; de 1955 à 1958, elle est désignée chef rédactrice de la revue, organe de la campagne « Giovane Europa ». Une période brève mais qui, comme l’expérience de « Ricerca », la marque profondément. En effet, c’est justement durant ces années-là que la jeune Fausta affine ses capacités de journaliste et ces aptitudes et compétences qui lui sont utiles durant son travail dans la Commission Européenne. Elle imagine et planifie des événements qui peuvent toucher un public plus jeune (comme les concours et les séminaires), elle étend son réseau de contacts et trouve l’amour, Philippe Deshormes (Secrétaire de la Campagne Européenne de 1953 à 1959).

Mais Fausta, grȃce à la Campagne Européenne de la Jeunesse, ne trouve pas que l’amour. Après la naissance de ses deux enfants et la mutation à Bruxelles, elle veut revenir et, elle en est fermement convaincue, pour mettre ses propres énergies à disposition du Projet d’Intégration Européenne. Le premier janvier 1961, elle est  recrutée par le Directeur du Service Presse et Information des Communautés, Jacques-René Rabier, et commence à travailler pour la division Information-Universitaire-Jeunesse-Education populaire, dont le responsable est une vieille connaissance : Jean-Charles Moreau, ex secrétaire de la Campagne Européenne de la Jeunesse. On lui a offert ainsi la possibilité de tirer profit de son expérience acquise, en particulier au sein de la FUCI et durant son travail comme chef-rédactrice de « Giovane Europa », dans le domaine de l’éducation de la Jeunesse. Et ceci, jusqu’en 1974, année où elle est appelée à prendre service (jusqu’en décembre 1976) dans le cabinet du Vice-Président de la Commission, l’italien Carlo Scarascia Mugnozza. Dans ce cas, elle s’occupe en particulier de sauvegarde de l’environnement, de protection des consommateurs, de relations avec le Parlement Européen. De plus, ce sont les années où le débat sur les droits des femmes commence à devenir de plus en plus insistant et pressant. La mobilisation des Nations Unies, suivie de la Décennie de la Femme, atteint les portes des institutions européennes. La Commission Européenne prévoit donc un sondage dont les résultats seront discutés lors d’une grande conférence intitulée Les Femmes et la Communauté Européenne qui s’est tenue à Bruxelles, en Mars 1976 et qui a rassemblé environ 120  délégués. Et c’est exactement à la fin de cette conférence que les femmes présentent la proposition, et que la Commission Européenne approuvera, de créer deux unités pour les femmes : L’une, dirigée par Fausta Deshormes La Valle, sur l’information de la presse et des associations féminines et l’autre sur les problèmes concernant le travail des femmes dont la première dirigeante est Jacqueline Nonon. L’événement est bien raconté par Deshormes elle-mȇme, dans un essai publié dans un livre contenant quelques réflexions du groupe Donne per l’Europa (Femmes pour l’Europe), une organisation née d’une idée d’Ursula Hirschmann, épouse d’Altiero Spinelli, au milieu des années soixante-dix :

«Ce besoin d'information s'est manifesté notamment lors d'un entretien qui a réuni à Bruxelles, en mars 1976, cent vingt femmes qui représentaient les milieux politiques, sociaux et culturels des Neuf à un haut niveau. Le but de cet entretien - Les femmes et la Communauté européenne - était d'évaluer les résultats d'un sondage d'opinion réalisé dans les neuf pays de la Communauté européenne, en 1975, à l'occasion de l'Année internationale de la femme. Au cours des débats, la Commission des Communautés s'est investie de propositions concrètes, à la suite de quoi une cellule a été créée, au sein de la Direction générale de l'information, destinée à entretenir un dialogue permanent avec les associations de femmes, en les informant et en les documentant sur tous les aspects de l'intégration européenne, et en les aidant à échanger des informations d'une association à une autre et d'un pays à l'autre.»

Cet événement, et en particulier l’Année Internationale de la Femme, est destiné à changer à jamais le cours de l’histoire des femmes européennes et, dans un certain sens, de la démocratie elle-même. De 1975, année de la célèbre conférence de Mexico, jusqu’à la période convoquée par les Nations Unies pour les femmes (1976-1985) - connue sous le nom de Décennie pour les femmes: égalité, développement et paix - les femmes d'Europe, soutenues en partie par les institutions européennes et en partie par leur désir de rachat  et d'égalité, elles commencent à revendiquer leurs droits en activant une série d'initiatives, de propositions et de projets. Fausta Deshormes La Valle, Jacqueline Nonon, Ursula Hirschmann, Eliane Vogel-Polsky sont quelques-unes des protagonistes de cette incroyable aventure qui part des institutions européennes, mais qui finit par avoir un impact profond sur les législations nationales elles-mêmes. Parmi les moments les plus marquants de ce parcours, nous pouvons citer: la bataille pour la reconnaissance de l'applicabilité directe de l'art. 119 du traité instituant les Communautés économiques européennes; initiatives pour des élections au suffrage universel au Parlement européen; la création d'une commission ad hoc pour les droits des femmes (suivie de la commission d'enquête sur les droits des femmes et de la commission permanente des droits des femmes); le lancement du premier Programme d'Action pour l'Egalité; la publication de la revue "Femmes d'Europe" et la création du Lobby Européen des Femmes. De tout ce parcours fait de collaboration entre hommes et femmes, d'espoirs, d'ambitions et de travail acharné, Fausta Deshormes La Valle représente, en quelque sorte, l'un des principaux éléments catalyseurs. De son petit bureau d'information aux femmes, qu'elle définit elle-même comme un observatoire privilégié, elle travaille sans relâche pour les informer (mais informe aussi les hommes), propose des initiatives et soutient la formation de réseaux (ne bénéficiant d'aucun pouvoir politique et étant, au contraire, obligée de travailler avec peu de financement, elle reçoit une subtile opposition de sa hiérarchie).

Fausta Deshormes La Valle n'a aucun pouvoir, au sens classique du terme, mais elle sait - l'ayant vécu au cours des années de travail en tant que rédactrice en chef de "Giovane Europa" - combien d'informations peuvent activer le changement social; mais aussi combien d'informations doivent toujours avoir un but formatif. L'information sans formation risque de glisser facilement dans la propagande et le populisme, et elle en est pleinement consciente. Elle gère son Bureau d'Information aux Femmes, avec brio et peu de ressources – parmi mille péripéties et obstacles - et surtout elle conserve. Elle conserve des documents de toutes natures et en fait don, quelques années avant sa mort, aux Archives Historiques de l'Union Européenne à Florence. Elle sait que, du type d’information qui est conservée, dépendra l’histoire de demain, terrain sur lequel seront posés les fondements moraux et civiques des futurs citoyens et des futures citoyennes. Dans cette perspective, nous comprenons également le don incommensurable fait aux générations futures à travers la recherche et le catalogage de documents précieux pour l'histoire de l'intégration européenne. Si Fausta n'avait pas pris soin de conserver tous les documents qui ont marqué sa propre vie - et qui démontrent en même temps l'engagement et l’importance des jeunes et des femmes dans le processus d'intégration européenne - cette partie de l'histoire aurait été effacée, faisant disparaître une partie du récit de l'histoire de l'intégration européenne «par en bas» et sous un autre «angle».

Toutes les Européennes et tous les Européens devraient être reconnaissants envers cette grande femme qui, avec humilité, a réussi à faire de l'Union Européenne un lieu un peu plus adapté aux citoyens et aux citoyennes. Et, surtout, elle l'a fait sans aucun intérȇt personnel et sans penser qu'elle faisait quelque chose d'extraordinaire ou d'exceptionnel. À tel point qu'à une occasion elle a dit quelque chose comme: «Pourquoi me récompensez-vous? Simplement pour avoir fait mon travail?»

 

Traduzione inglese

Syd Stapleton

Fausta (1927-2013), was born and raised in a family of journalists, and studied law from the University of Rome. At the same time, she developed a powerful passion that accompanied her for the rest of her life - a love for accurate information, with the awareness of how much it can influence the development of citizens and consequently their participation in social and political life. In 1945 she was already editor of "L’Universitario" (the magazine of a student group); from 1946 to 1951 she was editorial secretary of the magazine "Annali Ravasini" - a monthly magazine dedicated to the medical sector - and from 1951 to 1955 she was editor of the magazine "Ricerca", an organ of the Italian Catholic University Federation (FUCI). The encounters, friendships and networks that were established in those years were decisive for her future. Already in 1951, thanks to Ivo Murgia, founder of "Ricerca" and editor-in-chief of the magazine from 1945 to 1947, a new exciting adventure began for her. She became involved in the activities of the Italian Secretariat of the European Youth Campaign (EYC), an organization linked to the European Movement, and in raising awareness of young people on European issues. From 1955 to 1958 she was appointed editor-in-chief of the magazine "Giovane Europa", the principal organ of the Campaign. A relatively short period but one which had a deep impact on her, like the experience at "Ricerca". It is exactly in those years that the young Fausta refines her skills as a journalist and those skills and competencies that were crucial during her work in the European Commission, initiating and planning events to reach younger audiences (such as competitions and seminars). She also expanded her network of contacts and even found love, with Philippe Deshormes (Secretary of the European Campaign from 1953 until 1959).

But Fausta, thanks to the European Youth Campaign, didn't just find love. After the birth of her two children and a move to Brussel, she eagerly decided to place her energies at the disposal of the project of European integration. On January 1, 1961 she was recruited by the director of the Press and Information Service of the Community, Jacques-René Rabier, and entered into work for the University Information - Youth - Popular Education division, whose manager was an old acquaintance of hers, Jean Charles Moreau. He was former secretary of the European Youth Campaign. Thus, she was offered the opportunity to make the most of the experience she had gained in the field of youth education, in particular in the FUCI and during her work as editor-in-chief of "Young Europe". This was her commitment until 1974. That year she was called to take up service (until December 1976) in the Cabinet of the Vice-President of the Commission, the Italian Carlo Scarascia Mugnozza. At that point her key responsibilities dealt with environmental protection, consumer protection, and relations with the European Parliament. Importantly, it was during those years that the debates on women's rights began to become more and more insistent and pressing. The mobilization of the United Nations, followed by the “Decade of the Woman”, reached the doors of the European institutions. The European Commission therefore planned a survey, the results of which were discussed at a major conference, entitled “Women and the European Community” held in Brussels in March 1976. That conference brought together about 120 delegates, and at its conclusion women put forward a proposal that the European Commission create two organizations for women. The proposal was subsequently approved by the Commission. One of the groups, on press information and women’s sssociations, was directed by Fausta Deshormes La Valle. The other concerned problems relating to women’s employment in and out of the home, and was directed by Jacqueline Nonon. The events are well described by Deshormes herself, in an essay published in the mid-seventies in a book containing reflections on the Women for Europe group, an organization born from an idea of ​​Ursula Hirschmann, wife of Altiero Spinelli. Deshormes wrote:

“This need for information was manifested in particular during a conference in Brussels, in March 1976, that brought together one hundred and twenty women who represented the political, social and cultural circles of the nine nations of the European Community at a high level. The purpose of this convocation - Women and the European Community - was to evaluate the results of an opinion poll carried out in the nine nations in 1975, on the occasion of the International Women's Year. During the debates, the Commission of the Community was presented with concrete proposals, following which a unit was created, within the Directorate General for Information, for the purpose of maintaining a permanent dialogue with women's associations, informing and documenting them on all aspects of European integration, and helping them to exchange information from one association to another and from country to country."

These events, and in particular the International Women's Year, forever changed the course of the history of European women and, in a certain sense, of democracy itself. It began in 1975, with the well-known conference in Mexico City, and continued through the entire period called by the United Nations (1976-1985) known as the “Decade of the Woman - Equality, Development and Peace”. The women of Europe, supported partly by the European institutions and partly by their desire for recognition and equality, began to claim their rights by activating a series of initiatives, proposals and projects. Fausta Deshormes La Valle, Jacqueline Nonon, Ursula Hirschmann, and Eliane Vogel-Polsky are some of the protagonists of that incredible adventure that started from European institutions, but which ended up having a profound impact on the legislation of individual nations. Among some of the most striking moments of that period we can mention: the battle for the recognition of the direct applicability of art. 119 of the Treaty establishing the European Economic Community; initiatives for universal suffrage for elections to the European Parliament; the creation of an ad hoc Commission for women's rights (followed by the Commission of Inquiry for Women's Rights and the Permanent Commission for Women's Rights); the launch of the first Action Program for Equality; the publication of the magazine "Women of Europe" and the creation of the European Women's Lobby. In all these steps, of hopes, ambitions and hard work, requiring the collaboration of men and women, Fausta Deshormes La Valle represents, in some way, one of the main catalysts. From her small office for information for women, which she herself defined as a privileged observatory, she worked tirelessly to inform women (but also men), to propose initiatives, and to support the formation of networks. All this despite the fact that she did not wield any political power and, on the contrary, was forced to work with little funding and in the face of subtle opposition from the hierarchy.

Fausta Deshormes La Valle had no formal power, in the classic sense of the term, but she knew how much information can stimulate social change - having experienced this during her years of work as editor-in-chief of "Young Europe". She also knew how important it was that information always have a transformative purpose. Information without that purpose risks slipping easily into propaganda and populism, and of that she was always fully conscious. She managed her Information Office with skill and few resources - amid a thousand ups and downs and obstacles. Above all she kept documents of all kinds and donated them, a few years before her death, to the Historical Archives of the European Union in Florence. She knew that the type of information that is kept will determine the history as viewed from later years - the ground on which the moral and civic foundations of future citizens will be laid. From this perspective, we can understand the immeasurable gift made to future generations by the finding and cataloging of documents precious to the history of European integration. If Fausta had not been careful to keep all the documents that marked her life - and which at the same time demonstrate the commitment and relevance that young people and women have had in the process of European integration - that part of history would have been erased, thus making part of the story of European integration "from below", and from another point of view, disappear.

All of European women and men should be grateful to this great woman who, with humility, managed to make the European Union a place a little more suitable for its citizens. And above all, she did it without any personal ambition and without thinking she was doing something extraordinary or exceptional. So much so that on one occasion she said something like: "Why are you rewarding me? Simply for doing my job?"

Margita Figuli

Laura Candiani


Grafica di Giada Ionà

Mi chiamo Margita, Margita Šustrová; sono nata nel nord della Slovacchia il 2 ottobre 1909. La mia era una famiglia umile, di contadini, ma a me piaceva studiare, quindi con un po' di sacrificio ho potuto frequentare un istituto tecnico commerciale fino al diploma. Però avevo un sogno: avrei tanto voluto specializzarmi nella pittura, magari nella città più bella del mondo (o almeno così la immaginavo): Praga. Evidentemente le mie doti erano modeste e non passai l'esame per ottenere la borsa di studio. Pazienza. Mi dedicai allora a un altro tipo di arte: la musica e frequentai corsi di pianoforte al conservatorio. Ormai avevo una ventina d'anni e i miei non potevano continuare a mantenermi: dovevo trovarmi un lavoro. C'era stata di mezzo anche la guerra e la situazione in Slovacchia -come ovunque in Europa- non era delle migliori. Riuscii a inventarmi un mestiere qualsiasi, non era il massimo e certo non corrispondeva alle mie ambizioni, ma mi dovetti accontentare. Mi trasferii nella nostra antica capitale Bratislava, dove mi occupavo di traduzioni commerciali dall'inglese in una banca. Poi finalmente arrivò una svolta. Eravamo nei primi anni Trenta e alcuni miei modesti scritti in prosa e in poesia cominciarono a essere pubblicati su riviste locali. Il sogno di lavorare con la penna piano piano si stava avverando. Decisi di dedicarmi sul serio alla scrittura. Mi sposai con Jozef Suster e mi trovai un nome d'arte: diventai Margita Figuli. Di lì a poco – nel 1936 e nel '37 – riuscii a pubblicare le mie prime opere che mi dettero un minimo di visibilità: Uzlík tepla (Una piccola borsa termica) e Pokušenie (Tentazione), raccolta di dieci novelle in cui inserii tematiche legate al mondo femminile.

Non era un periodo facile: in Europa si faceva avanti lo spettro lugubre di una nuova guerra, Stalin guidava il suo popolo con mano ferma (talvolta poi ho pensato che fosse un tiranno... ma non lo si poteva dire), mentre la Germania nazista si mostrava in tutta la sua aggressività. Nonostante questa situazione preoccupante, che pesava sui nostri animi ma anche sull'economia e la vita sociale, io scrivevo con rinnovato fervore. Fu così che uscì nel 1940 quello che probabilmente è rimasto il mio successo più bello: Tri gaštanové kone (Tre cavalli bai). Ci avevo messo tutto il mio impegno e la mia inventiva ed ero riuscita a introdurre nella trama elementi ispirati al folklore della mia terra e alle ballate tradizionali. Si tratta di una vicenda disseminata di ostacoli che mette in scena un triangolo amoroso composto di due uomini e una donna, con molti riferimenti biblici, un raffinato erotismo e un'atmosfera lirico-poetica. È una storia breve, di poco più di 100 pagine, in cui i protagonisti crescono e maturano spiritualmente attraverso eventi tragici per giungere al lieto fine. I tre cavalli del titolo sono simboli che vogliono rappresentare la bontà, la bellezza e la forza della natura, così come le tre stesse qualità umane sono conquistate grazie all'obbedienza al codice morale cristiano. La critica disse che era un racconto ricco di ritmo che riesce a mantenere con efficacia l'atmosfera del dramma in cui si fondono le dettagliate descrizioni delle foreste sui monti Tatra e l'ingenuo ottimismo della realtà contadina. Il libro fu assai apprezzato, tanto da essere ripubblicato sette volte nei sette anni successivi. Fu anche tradotto in varie lingue e mi ha fatto molto piacere sapere che dopo tanto tempo, agli inizi di questo 1995, è stato pubblicato in Italia da una casa editrice piccola ma (mi dicono) prestigiosa: la Sellerio di Palermo, a cura di Ida Bonetti che vorrei proprio ringraziare per aver pensato a me e al mio lavoro. È bello anche il titolo in italiano: Tre cavalli bai.

L'anno successivo lasciai per sempre il mio noioso lavoro in banca e scrissi un romanzo che mi procurò parecchi guai: Olovený vták ("L'uccello di piombo") perché trattava in chiave antimilitarista un tema di grande attualità, cioè la recente invasione della Polonia da parte delle truppe del Terzo Reich che di fatto aveva dato il via al conflitto; nel '42 uscì Tri noci a tri sny ("Tre notti e tre sogni"), ma riuscii anche a realizzare il dramma radiofonico "Sogno sulla vita o vita di Shelley. Eravamo travolti dalla guerra che alla fine era scoppiata e certo non c'erano né tempo né voglia di pensare alla letteratura e a scrivere con la preoccupazione della fame e della morte incombente. Per guadagnare qualcosa feci alcune traduzioni delle opere di scrittori cechi molto noti come Karel Čapek e Karel Jaromír Erben.

Finalmente la guerra finì: il nuovo ordine mondiale divise la nostra Europa in due, ed io rimasi al di qua (o al di là, secondo il punto di vista) della cosiddetta cortina di ferro. Mi dedicai allora a un'impresa veramente faticosa, articolata e lunga, che mi è costata molte ricerche: si tratta di un ampio romanzo storico, Babylon, suddiviso in 4 volumi, che vide la luce nel 1946 e che trae ispirazione dalla storia dell'Impero caldeo. Le complesse vicende e le informazioni sui personaggi reali e immaginari illustrano la crisi sociale e morale dell'epoca, dovuta al potere assoluto e all'estinzione dell'antico impero, con evidenti allusioni al presente. Ho voluto inserire come elemento centrale anche il conflitto tra il politeismo caldeo e il monoteismo ebraico, una tematica spirituale e religiosa che mi sta parecchio a cuore. Qualche anno dopo, nel '56, l'opera fu ripubblicata in una nuova versione, dal momento che la critica di regime lo aveva ritenuto un romanzo "puramente estetico". Comunque avevo ottenuto il "premio nazionale" grazie proprio a questo libro che risulta essere fra i miei più noti e più tradotti, soprattutto nelle lingue dell'Est europeo: russo, polacco, ceco, sloveno, ungherese, bulgaro.

Nel '64 ho avuto nel mio Paese il premio "artista meritevole" e nel '74 il premio "artista nazionale". Ma io sono una donna semplice e non mi sono mai montata la testa. Confesso però che mi sono divertita a utilizzare qualche volta, per confondere un po' la critica e il pubblico, un altro pseudonimo, molto carino a dire la verità: Ol'ga Morena, che ha un'aria vagamente esotica e mi può far scambiare per una spagnola o una russa. Chissà. Con questa nuova veste ho anche pubblicato libri per ragazzi e ragazze: nel '63 La mia prima lettera, nel '64 Ariadnina nit e nel 1980 Ballata di Juro Janosik (scritta in versi), mentre nel '56 era uscito il mio diario autobiografico romanzato: Gioventù. Il mondo della musica che ho tanto amato e frequentato mi ha offerto una bella occasione quando ho potuto comporre il libretto per un balletto di Simon Jurovsky, dal titolo Ballata dei cavalieri (1959). Qui ho inserito le mie varie passioni: la storia e le tradizioni del mio popolo, i miti, la fede, la rielaborazione fantastica.

La mia ultima opera è stato il romanzo Víchor v nás (Vento impetuoso in noi, 1974), in cui ho descritto il mondo femminile nella regione di Orava attraverso la drammatica vicenda di una madre che subisce violenza da parte di un brutale soldato nazista. Francamente le reazioni della critica non sono state molto positive: io avevo cercato di utilizzare come metodo di scrittura il realismo socialista, unendo il documento umano al mito, ma forse i tempi stavano mutando e non sono riuscita nell'intento di aggiornare la mia vena artistica. Da allora, anche un po' delusa, non ho più pubblicato nessun testo in prosa, e sono passati ormai vent'anni. Sono anziana e stanca. Il mondo è cambiato e non lo riconosco più: il muro di Berlino è stato abbattuto, l'Unione europea si è allargata, la vecchia Urss si è suddivisa in tanti Stati. Il mio Paese ha affrontato in questo XX secolo momenti molto difficili: dall'uccisione di Masaryk alla primavera di Praga con Dubček, in cui avevamo riposto tante speranze. Ma ora anche da noi c'è la democrazia e da due anni siamo indipendenti dalla repubblica ceca. Ed io, fiduciosa, assisto da Bratislava ai nuovi eventi.

 

Traduzione francese
Patricia Aubry e Michel Bedu

Je m’appelle Margita, Margita Sustrová; je suis née dans le nord de la Slovaquie le 2 octobre 1909. Ma famille était une famille humble, de paysans, mais j’aimais étudier, donc avec un peu de sacrifice j’ai pu fréquenter un institut technico-commercial jusqu’au diplôme. Mais j’avais un rêve; j’aurais tant voulu me spécialiser dans la peinture, peut-être dans la ville la plus belle du monde (du moins l’imaginais-je ainsi): Prague. Évidemment mes ressources étaient modestes et je n’ai pas reussi l’examen pour obtenir la bourse d’étude. Patience. Je me dédiais alors à un autre type d’art : la musique et suivait des cours de pianoforte au conservatoire. J’avais désormais une vingtaine d’années et les miens ne pouvaient continuer à subvenir à mes besoins : je devais me trouver un travail. Il y avait aussi la guerre et la situation en Slovaquie - comme partout en Europe - ce n’était pas le meilleur moment. J’ai réussi à prendre n’importe quel métier, ce n’était pas le meilleur et ne correspondait certainement pas à mes ambitions, mais je devais m’en contenter. J’ai déménagé dans notre ancienne capitale Bratislava, d’où je m’occupais de traductions anglaises dans une banque. Puis finalement, la chance tourna. Nous étions au début des années trente et certains de mes modestes écrits en prose et en poésie commencèrent à être publiés dans des magazines locaux. Le rêve de travailler de ma plume petit à petit se réalisait. J’ai décidé de me consacrer sérieusement à l’écriture. J’épousai Josef Susteret et me trouvais un nom d’artiste: je devins Margita Figuli. Un peu plus tard, en 1936 et 1937, je réussis à publier mes premiers travaux qui m’ont donné un minimum de visibilité : Uzlík tepla (Un petit sac isotherme) et Pokusenie (Tentations), recueil de dix nouvelles dans lequel j’insérai des thèmes relatifs au monde féminin.

Ce n’était pas une période facile : en Europe s’avançait le spectre lugubre d’une nouvelle guerre, Staline tenait son peuple d’une main ferme (parfois alors je pensais qu’il était un tyran...mais on ne pouvait pas le dire), tandis que l’Allemagne nazie se montrait dans toute son agressivité. Malgré cette situation préoccupante, qui pesait sur nos âmes mais aussi sur l’économie et la vie sociale, j’écrivais avec une ferveur renouvelée. Ce fut ainsi que sorti en 1940 celui qui est resté probablement mon succès le plus beau: Tri gastanové kone (Trois chevaux bai). J’y avais mis tous mes efforts et mon inventivité et avait réussi à introduire dans la trame des éléments inspirés du folklore de ma terre et des balades traditionnelles. Il s’agit d’une histoire parsemée d’obstacles qui mettent en scène un triangle amoureux composé de deux hommes et une femme, comprenant de nombreuses références bibliques, un erostisme raffiné et une atmosphère lyrico -poétique. C’est une histoire brève, d’un peu plus de 100 pages, dans laquelle les protagonistes grandissent et mûrissent spirituellement à travers des événements tragiques jusqu’à atteindre une fin heureuse. Les trois chevaux du titre sont les symboles qui veulent représenter la bonté, la beauté et la force de la nature, tout comme les mêmes qualités humaines sont obtenues grâce à l’obéissance au code moral chrétien. Les critiques ont dit que c’était une histoire pleine de rythme qui parvient à maintenir avec efficacité l’atmosphère du drame dans lequel les descriptions détaillées des forêts dans les montagnes du Tatra et l’optimisme naïf de la réalité rurale se confondent. Le livre a été tant apprécié qu’il fut publié sept fois durant sept ans. Il a été aussi traduit en différentes langues et j’étais très heureuse de savoir longtemps après, au début de 1995, qu’il a été publié en Italie par une petite maison d’édition mais (je me dit) prestigieuse: la Sellerio di Palermo, édité par Ida Bonetti que j’aimerais remercier pour avoir pensé à moi et à mon travail. Le titre est beau aussi en italien : Tre cavalli bai.

L’année suivante j’ai quitté mon travail ennuyeux à la banque et j’ai écrit un roman qui m’a causé beaucoup de problèmes : Oloveny vták (L’oiseau de tête) parce qu’il traitait d’un thème anti-militariste de grande actualité, c’est à dire la récente invasion de la Pologne par les troupes du Troisième Reich qui ce fait avait lancé le conflit ; en 42 sortit Tri noci a tri sny (Trois nuits et trois rêves), mais j’ai aussi pu réaliser le drame radiophonique Rêver de la vie ou de la vie de Shelley. Nous avons été submergés par la guerre qui a finalement éclaté et il n’y avait certainement plus ni le temps ni l’envie de penser à la littérature et d’écrire dans l’ombre de la faim et de la mort imminentes. Pour gagner un peu d’argent, je fis quelques traductions de travaux d’écrivains tchèques très connus comme Karel Capek et Karel Jaromír Erben.

Finalement la guerre a prit fin: le nouvel ordre mondial a divisé notre Europe en deux, et je suis resté du côté (ou de l’autre côté, suivant le point de vue) du soi-disant rideau de fer. Je me suis alors consacrée à une entreprise vraiment fatiguante, complexe et longue, qui m’a demandé beaucoup de recherches : il s’agit d’un long roman historique, Babylon, divisé en 4 volumes, qui a vu le jour en 1946 et qui puise son inspiration de l’histoire de l’Empire Chaldéen. Les événements complexes et les informations sur les personnages réels et imaginaires illustrent la crise sociale et morale de l’époque, due au pouvoir absolu et à l’extinction de l’ancien empire, avec d’évidentes allusions au présent. J’ai voulu aussi ajouter comme élément central le conflit entre le polythéisme chaldéen et le monothéisme juif, une thématique spirituelle et religieuse qui me tient à cœur. Quelques années plus tard, en 56, l’œuvre a été republiée dans une nouvelle version, dans la mesure où la critique du régime l’avait retenue comme un roman « purement esthétique». Cependant j’avais obtenu le « prix national » grâce à ce livre qui s’avère être l’un de mes plus connus et plus traduits, surtout dans les langues d’Europe de l’Est : russe, polonais, tchèque, slovène, hongrois, bulgare.

J’ai reçu en 64 dans mon pays, le prix «artiste méritante» et en 74 le prix «artiste nationale». Mais je suis une femme simple et cela ne m’est pas monté à la tête. Mais je confesse que quelques fois je me suis amusée à utiliser, pour tromper un peu la critique et le public, un autre pseudonyme, très charmant à dire vrai: Ol’ga Morena, qui a un air vaguement exotique et peut me faire passer pour une espagnole ou une russe. Qui sait. Sous cette nouvelle identité, j’ai publié des livres pour garçons et filles: en 63 La première lettre, en 64 Ariadnina et en 1980 Balade de Juro Janosik (écrite en vers), tandis qu’en 56, était sorti mon journal autobiographique romancé : Jeunesse Le monde de la musique que j’ai tant aimé et fréquentée m’a offert une belle occasion lorsque j’ai pu composer le livret pour un ballet de Simon Jurovsky, intitulé Balade des cavaliers (1959). Là, j’y ai inséré mes vraies passions: l’histoire et les traditions de mon peuple, les mythes, la foi, la résilience fantastique.

Ma dernière œuvre a été le roman Vichor v nás (Vent impétueux intérieur, 1974), dans lequel j’ai décrit le monde féminin dans la région d’Orava à travers l’histoire dramatique d’une mère qui subit la violence d’un soldat nazi. Franchement, les réactions de la critique n’ont pas été très positives : j’avais cherché à utiliser comme méthode d’écriture le réalisme socialiste, unissant le document humain au mythe, mais peut-être les temps étaient en train changer et je n’ai pas réussi à renouveler ma veine artistique. Dès lors, un peu désappointée, je n’ai plus publié aucun texte en prose, et vingt ans ce sont écoulés maintenant. Je suis âgée et fatiguée. Le monde a changé et je ne le reconnais plus: le mur de Berlin a été abattu, l’Union Européenne s’est élargie, la vieille URSS s’est scindée en plusieurs états. Mon pays a affronté durant ce XX siècle des moments très difficiles: de l’assassinat de Masaryk au printemps de Prague avec Dubcek, dans lequel nous avions placé tant d’espoirs. Mais maintenant nous sommes aussi en démocratie et depuis deux ans nous sommes indépendants de la République tchèque. Et moi, confiante, j’assiste aux nouveaux événements de Bratislava.

 

Traduzione inglese
Francesca Campanelli

My name is Margita, Margita Šustrová; I was born in the north of Slovakia on 2nd October, 1909. Mine was a humble family of peasants, but I liked studying, so with a little sacrifice I was able to attend a technical-commercial institute until I graduated. But I had a dream: I wanted so much to specialize in painting, perhaps in the most beautiful city in the world (or as I imagined it): Prague. Evidently my skills were modest, and I did not pass the exam to get the scholarship. Patience. I then devoted myself to another type of art: music and attended piano courses at the conservatory. I was about twenty years old at that time and my parents could not keep supporting me: I had to find a job. There was also war involved and the situation in Slovakia - as everywhere in Europe - was not the best. I managed to invent any profession, it was not the best and certainly did not correspond to my ambitions, but I had to be satisfied. I moved to our ancient capital Bratislava, where I was doing business translations from English in a bank. Then finally came a turning point. It was in the early 1930s and some of my modest prose and poetry writings began to appear in local magazines. The dream of working with the pen slowly was coming true. I decided to devote myself seriously to writing. I married Jozef Suster and I found a stage name: I became Margita Figuli. Shortly thereafter - in 1936 and in 1937 - I managed to publish my first works that gave me a minimum of visibility: Uzlík tepla (A small cooler) and Pokušenie (Temptation), a collection of ten short stories in which I inserted related themes to the female world.

It was not an easy period: in Europe the gloomy spectre of a new war was coming forward, Stalin led his people with a firm hand (sometimes I thought he was a tyrant ... but it could not be said), while Germany Nazi showed himself in all his aggression. Despite this worrying situation, which weighed on our souls but also on the economy and social life, I wrote with renewed fervour. So it was that in 1940 what probably remained my best success came out: Tri gaštanové kone (Three horses bai). I had put all my effort and inventiveness into the plot, and I was able to introduce elements inspired by the folklore of my land and traditional ballads into the plot. It is a story strewn with obstacles that stages a love triangle made up of two men and a woman, with many biblical references, a refined eroticism, and a lyrical-poetic atmosphere. It is a short story, just over 100 pages, in which the protagonists grow and mature spiritually through tragic events to reach the happy ending. The three horses of the title are symbols that want to represent the goodness, beauty and strength of nature, just as the three same human qualities are conquered thanks to obedience to the Christian moral code. The critics said it was a story full of rhythm that manages to effectively maintain the atmosphere of the drama in which the detailed descriptions of the forests in the Tatra mountains and the naive optimism of rural reality merge. The book was much appreciated, so much so that it was republished seven times in the following seven years. It was also translated into various languages and I was very pleased to know that after a long time, at the beginning of this 1995, it was published in Italy by a small but (they tell me) prestigious publishing house: the Sellerio of Palermo, edited by Ida Bonetti whom I would like to thank for thinking about me and my work. The title in Italian is also beautiful: Tre cavalli bai.

The following year I left my boring job in the bank forever and wrote a novel that caused me a lot of trouble: Olovený vták ("The lead bird") because it dealt with an anti-militarist theme of great relevance, namely the recent invasion of Poland by the troops of the Third Reich which in fact started the conflict; in '42 Tri Nuts a tri sny ("Three nights and three dreams") was released, but I also managed to make the radio drama "Dream about the life or life of Shelley. We were overwhelmed by the war that finally broke out and certainly not there it was neither time nor desire to think about literature and to write with the worry of hunger and impending death. To earn some money I made some translations of the works of well-known Czech writers such as Karel Čapek and Karel Jaromír Erben.

Finally the war ended: the new world order divided our Europe in two, and I remained on this side (or on the other side, according to the point of view) of the so-called Iron Curtain. I then devoted myself to a truly tiring, complex, and long undertaking, which cost me a lot of research: it is a large historical novel, Babylon, divided.

Mary Meilak

Laura Bertolotti


Grafica di Giada Ionà

La poeta Mary Meilak si staglia nel panorama letterario maltese della prima metà del Novecento come unica voce femminile. Nacque a Victoria, capoluogo di Gozo, un'isola dell'arcipelago, il 9 agosto 1905 e lì compì i suoi studi, lavorando poi in uffici governativi e diventando successivamente insegnante. Cominciò a scrivere poesie nel 1930 e pubblicò la prima raccolta nel 1945, A Pledge to Joy. I critici hanno rilevato nella sua poetica l'assenza di quell'ansia esistenziale tipica dei conterranei, lei usò invece un tocco leggero e tecnicamente interessante, rifacendosi alla metrica araba e ricorrendo all'utilizzo della rima, alle onomatopee e alle allitterazioni per produrre versi melodiosamente semplici e apparentemente infantili. I suoi temi più cari furono la natura e la religione, trasfigurati da una lente fantastica.

Si può affermare che, nell'ambito della letteratura maltese, Meilak occupi uno spazio interessante non solo perché fu la prima donna a pubblicare poesie, infrangendo il cliché sociale che vedeva la donna predestinata a essere moglie e madre, ma proprio per il suo stile. Grande fu la distanza dagli autori maltesi del tempo, come si è detto, anche perché i suoi versi sono completamente privi di pessimismo, trovò infatti motivo di riso persino nei momenti di tristezza. Nelle sue poesie si respirano felicità e ottimismo anche se la sua vita attraversò i difficili anni di guerra, nell'infanzia e nell'età adulta.

Una poesia di Mary Meilak. Vida Magazine.

In alcuni suoi scritti, ancora non pubblicati, emerge un forte elogio all'impero britannico, per la funzione che ebbe di baluardo nei confronti dei maltesi. Questo aspetto patriottico della sua scrittura si affianca a vere e proprie storie sui villaggi di Malta e Gozo, testi tuttora molto letti ai giorni nostri perché presenti nei libri scolastici per l'infanzia. Oltre alle poesie scrisse alcuni racconti, Let's Reason and Smile, e tre romanzi: Black Locks, St Nicolas of Venturi, The Twins of Vittoriosa. Collaborò per diversi anni con la rivista religiosa "The Voice of Thruth" e i suoi scritti a tema religioso furono raccolti in volume solo nel 2005. Mary Meilak non aveva timore di misurarsi in ambiti diversi e amava altresì mettersi in gioco nei concorsi letterari, dove sovente riuscì a qualificarsi ai primi posti. Si spense il 1° gennaio 1975 e, nel centenario della sua nascita, le fu dedicato un memoriale a Victoria. Come molte voci femminili non ha ancora trovato, nel nostro Paese, un suo spazio editoriale, ma l'auspicio è che venga infine tradotta così da apprezzarne il valore e restituirle la meritata visibilità.

La targa commemorativa per il centenario della nascita di Mary Meilak a Gozo, Malta.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

La poète Mary Meilak s'est démarquée dans le paysage littéraire maltais de la première moitié du XXe siècle comme la seule voix féminine. Elle est née à Victoria, la capitale de Gozo, une île de l'archipel, le 9 août 1905 et là, elle a terminé ses études, puis a travaillé dans les bureaux du gouvernement et est devenue plus tard une enseignante. Elle a commencé à écrire de la poésie en 1930 et a publié son premier recueil en 1945, A Pledge to Joy. Les critiques ont noté dans sa poétique l'absence de cette angoisse existentielle typique de ses compatriotes, elle a plutôt utilisé une touche légère et techniquement intéressante, se référant à la métrique arabe et recourant à l'utilisation de rimes, d'onomatopées et d'allitérations pour produire des vers mélodieux, simples et apparemment enfantins. Ses thèmes les plus chers étaient la nature et la religion, transfigurées par une loupe fantastique.

On peut dire que, dans le contexte de la littérature maltaise, Meilak occupe un espace intéressant non seulement parce qu'elle a été la première femme à publier de la poésie, brisant le cliché social qui voyait la femme prédestinée à être épouse et mère, mais plutôt par son style. La distance avec les auteurs maltais de l'époque était grande, comme déjà dit, aussi parce que ses vers sont complètement dépourvus de pessimisme, en fait, elle trouvait des raisons de rire même dans les moments de tristesse. Dans ses poèmes, vous pouvez respirer le bonheur et l'optimisme même si sa vie a traversé les années difficiles de la guerre, de l'enfance et à l'âge adulte.

Un poème de Mary Meilak. Vida Magazine.

Dans certains de ses écrits, encore inédits, il y a un grand éloge à l'Empire britannique, pour la fonction qu'il a eu comme protection pour les Maltais. Cet aspect patriotique de son écriture se conjugue à de vraies histoires sur les villages de Malte et de Gozo, textes encore largement lus aujourd'hui car ils sont présents dans les manuels scolaires pour enfants. En plus des poèmes, elle a écrit quelques nouvelles, Let's Reason and Smile, et trois romans: Black Locks, St Nicolas of Venturi, The Twins of Vittoriosa. Elle collabore pendant plusieurs années avec le magazine religieux "The Voice of Thruth" et ses écrits sur le thème religieux n'ont été rassemblés en volume qu'en 2005. Mary Meilak n'avait pas peur de se mesurer dans différents domaines et aimait également s'impliquer dans des concours littéraires, où elle réussissait souvent à se qualifier dans les premières places. Elle décède le 1er janvier 1975 et, pour le centenaire de sa naissance, un mémorial lui est dédié à Victoria. Comme beaucoup de voix féminines, elle n'a pas encore trouvé son propre espace éditorial dans notre pays, mais on espère qu'elle sera enfin traduite afin d'apprécier sa valeur et lui donner une visibilité méritée.

La plaque commémorative du centenaire de la naissance de Mary Meilak à Gozo, Malta.

 

Traduzione inglese
Cettina Callea

The poet Mary Meilak stood out as the only female voice in the Maltese literary landscape during the first half of the twentieth century. She was born August 9, 1905 in Victoria, the capital of Gozo, an island in the Maltese archipelago, and completed her studies there. She then worked in government offices, later becoming a teacher. She began writing poetry in 1930 and published her first collection, A Pledge to Joy in 1945. Critics have noted the absence of existential anxiety, typical of Maltese poets, in her poetry. She instead used a light and technically interesting touch, reflecting the Arabic metric and resorting to the use of rhyme, onomatopoeias and alliterations to produce melodious verses, both simple and even seemingly childish. Her most cherished themes were nature and religion, transfigured though a fantastic lens.

It can be said that, in the context of Maltese literature, Meilak occupies an interesting place not only because she was the first woman to publish poetry, breaking the social cliché that saw women as predestined to be a wife and mother, but precisely because of her style. Her distance from the Maltese authors of the time was also great because, as has been said, her verses are completely devoid of pessimism. In fact, she found reasons to laugh even in moments of sadness. You can sense happiness and optimism in her poems, even though her life included difficult years of war, in childhood and adulthood.

a poem by Mary Meilak. Vida Magazine.

In addition to poems she wrote some short stories, collected as Let's Reason and Smile, and three novels: Black Locks, St. Nicolas of Venturi, and The Twins of Vittoriosa. She collaborated for several years with the religious magazine The Voice of Truth. Her religious-themed writings were collected in a volume only in 2005. Mary Meilak was not afraid of competing in different environments, and also loved to get involved in literary competitions, where she often managed to qualify for the first places. She died on 1 January 1975 and, on the centenary of her birth, a memorial was dedicated to her in Victoria. As is true for so many female voices, she has still not found her own editorial space in our country. But the hope is that she will finally be translated, to make it possible to appreciate her value and to restore her deserved visibility.

The commemorative plaque for the centenary of Mary Meilak's birth in Gozo, Malta.

 Calendaria 2021

Sophia De Mello

Giovanna Nastasi


Grafica di Giada Ionà

Vi è mai venuta la curiosità di osservare una poeta quando scrive? Di solito i suoi versi li troviamo già stampati sui libri con un carattere ben definito, con una bella copertina e delle note biografiche che riguardano l’autrice. Io, invece, vorrei portarvi nella sorgente dell’anima lì dove le parole si raccolgono intatte e pure come conchiglie sulla spiaggia. Sophia De Mello è stata una delle più importanti autrici portoghesi, vincitrice del premio Camoes, ma questa potrebbe essere una semplice notizia che dice tutto o niente… in apparenza. Scrittori e scrittrici delle terre di confine, delle isole che hanno un contatto diretto con il mare hanno qualcosa che rende unico il loro rapporto con la poesia e con l’ambiente circostante.

Lisbona è la città che ti fa comprendere le ragioni del viaggio, dell’attesa, dell’introspezione e di una quiete intoccabile. Ho provato tutte queste sensazioni ritrovando nella mia memoria un viaggio di tanti anni fa in Portogallo e osservando una foto in bianco e nero di Sophia de Mello. C’è una finestra aperta e sul davanzale delle macchinine da corsa, il cielo è limpido, sul fondo degli alberi sfocati. Lei è lì, seduta davanti a un semplice tavolo, con una tazza di tè, un pacchetto di sigarette, un posacenere, un libro aperto, pochi fogli, una sigaretta accesa tra le dita della mano sinistra, che libera nell’aria riccioli di fumo, nella destra una bic per comporre parole. Un maglioncino con uno scollo a V le lascia scoperto il collo, immortalato nell’attimo in cui il respiro più profondo porta indietro la gola e si fonde con un’espressione dolce, serena e senza tempo. Quando accade questo, nell’anima della poeta è avvenuto il miracolo. È l’attimo del perfetto equilibrio tra sé e il mondo, l’attimo in cui si è testimoni di una rivelazione, l’attimo in cui il tempo smette di essere perché la penna ti ha messo a cospetto dell’eternità. Ecco perché nella poesia La conchiglia di Kos, la valva del mitile assume un valore simbolico, smette di essere il niveo ornamento depositato dal mare per diventare la perfetta sintesi di tutte le atmosfere che hanno nutrito e creato lo spirito poetico:

«Questa conchiglia non l’ho raccolta su nessuna spiaggia
Ma nella mediterranea notte blu e nera
La comprai a Kos in un negozio lungo il molo
Vicino agli alberi oscillanti delle barche

E mi sono portata con me il fragore delle burrasche
Ma non sento in essa né le mareggiate di Kos né quelle di Egina
Solo il canto della vasta e lunga spiaggia
Atlantica e sacra
Dove per sempre la mia anima fu creata»

Quante volte abbiamo fatto quell’istintivo gesto di portare la conchiglia all’orecchio per sentire il suono del mare, un suono che ci ricorda qualcosa di familiare, un suono che conforta, quasi contenesse l’archetipo del battito fetale, capace di ricondurci all’acqua, intesa come liquido amniotico, che ha visto il nostro essere indistinto, inesistente, trasformarsi in persona. Il mare nei versi della poeta diventa un sicuro e accogliente ventre materno; infatti non c’è lo spavento delle mareggiate o delle burrasche ma semplicemente il suono di un canto, simile a una ninna nanna dove l’anima ha preso forma per sempre. L’avverbio, in questo caso, non indica semplicemente la durata nel tempo ma ferma il tempo sigillando un patto, un legame indissolubile. Cosi nella poesia Le Onde, i flutti sembrano giocare nel loro moto e non sono mai fonte di sconvolgimenti ma diventano ballerine:

«Le onde s'infrangevano una a una
Io stavo sola con la sabbia e con la spuma
Del mare che cantava soltanto per me»

Lisbona ha, da questo punto di vista, un doppio legame con l’acqua, essendo attraversata dal Tago e affacciata sull’Atlantico. Quando si visita la Torre bianca di Belem ben si comprende la ragione che spinse il re lusitano Enrico il navigatore a finanziare le spedizioni atlantiche che portano, tra l’altro, Bartolomeo Diaz a circumnavigare l’Africa, doppiando il capo di Buona Speranza e aprire, così, una nuova rotta verso le Indie. Si avverte nella città di mare il desiderio di un altrove, di procedere verso una destinazione, di nascere, in sostanza. Se il mare è il luogo della nascita, la poesia sigilla e rende eterna la vita stessa della poeta:

«La poesia mi condurrà nel tempo
Quando non sarò più l’abitazione del tempo
E passerò solitaria Dentro le mani di chi legge.
La poesia qualcuno la dirà
Alle messi
Il suo passaggio si confonderà
Come il rumore del mare con il passare del vento

La poesia abiterà
Lo spazio più concreto e più attento
Nell’aria chiara nelle sere trasparenti
Le sue sillabe rotonde
(O antiche o lunghe Eterne sere lisce)
Anche se morirò la poesia incontrerà
Una spiaggia dove infrangere le sue onde
E fra quattro pareti dense
Di profonda e divorata solitudine
Qualcuno il suo proprio essere confonderà
Con la poesia nel tempo»

Quando De Mello afferma che la poesia «abiterà/lo spazio più concreto e più attento/nell’aria chiara nelle sere trasparenti», cosa ci vuole comunicare esattamente? È possibile che la poesia abiti luoghi che sono predisposti a essere occupati da mobili, oggetti e persone? Cosa potrebbe significare? Le parole si comportano come ostetriche, segnano momenti di rinascita, di epifania come se ci offrissero l’opportunità di osservare la medesima realtà con occhi nuovi. Potrebbe sembrare un passaggio semplice ma, in realtà, presuppone una disconnessione da sé stessi/e e una successiva riconnessione attraverso la quale si modifica il modo di osservare noi stesse/i e il mondo. In sostanza si tratta di un processo di evoluzione. Non ci può essere una vita ricca senza una ricchezza di parole che spieghino nel dettaglio persino un intarsio. Forse, è possibile possedere poche parole ed essere ugualmente ricchi/e, a condizione che esse abbiano radici profonde e siano complementari agli occhi, alle mani e ai sorrisi che sono la testimonianza della nostra apertura al mondo. A questo proposito la filosofa Luce Irigaray parla proprio del «linguaggio come strumento per costituire il mondo o appropriarsene, o come mezzo per incontrare soggetti.

Il linguaggio dovrebbe aiutarci a portare a termine ciò che un albero fa senza ricorrere alle parole: realizzare ciò che è trasformando le sue radici in fiori e frutti». Il riferimento a un linguaggio generativo lo fa De Mello stessa rivolgendosi, direttamente, a lettori e lettrici: «E passerò solitaria dentro le mani di chi legge». Non è, forse, un invito ad assumere il suo stesso sguardo affinché la poesia sia luogo di incontro e rinascita? Ci si chiede: come si esercita l’attenzione? Ce lo spiega il filosofo francese Frederic Lenoir: «L’attenzione è anzitutto ciò che permette di essere connessi ai nostri sensi. Molto spesso siamo presi da mille problemi e, con la mente, così sovraccarica, non facciamo attenzione a quello che viviamo. Solo quando siamo attenti, ci lasciamo abitare dai nostri sensi: ascoltiamo, sentiamo e contempliamo. Siamo immersi nell’hic et nuc». Dunque, l’aria chiara e le sere trasparenti, di cui si parla nei versi precedenti, non assumono più un valore utilitaristico:

è una bella serata, esco;
è una bella serata faccio qualcosa;
è una bella serata incontro gli amici, ma questa sera limpida è il luogo del qui ed ora e rappresenta l’occasione in cui io mi immergo con tutta me stessa/o assumendone la chiarezza e la trasparenza. Ne divento parte e godo di un’armonia cosmica di cui spesso non abbiamo alcuna percezione. Ecco che la poesia diventa un luogo da abitare poiché si è trasformata in un cantuccio di riposo di riconnessione e di salvezza.
Scrive ancora De Mello:

«Un giorno spezzerò tutti i ponti,
Che legano il mio essere, vivo e totale,
All’agitarsi del mondo dell’irreale,
E calma salirò alle fonti.

Andrò fino alle fonti dove dimora
La pienezza, il limpido splendore
Che mi fu promesso a ogni ora,
E nel volto incompleto dell’amore.

Andrò a bere la luce e del sole il sorgere,
Andrò a bere la voce della promessa
Che a volte come un volo mi attraversa,
E là compirò tutto il mio essere»

Si porta a compimento la dimensione di gioiosa comunione con la poesia che conduce alla sorgente della vita, in cui il cuore della poeta batte allo stesso ritmo del cosmo:

«Le mie mani mantengono stelle,
Afferro la mia anima perché non si spezzi
La melodia che va di fiore in fiore,
Strappo il mare dal mare e lo pongo in me
E il battere del mio cuore sostiene il ritmo delle cose»

Ritorniamo all’inizio del nostro viaggio nell’anima di Sophia De Mello poiché manca un ultimo tassello: Lisbona. Ciascuno/a di noi è senza dubbio figlio/a della terra in cui nasce, ne porta con sé i profumi, i paesaggi, le malinconie, gli improvvisi sprazzi di luce. Il luogo d’origine riguarda, forse, anche il destino di ogni essere umano, se con questa parola non intendiamo un percorso scritto e ineluttabile, ma una vocazione da scoprire e compiere. La città lusitana è così: è il desidero del viaggio e la nostalgia del ritorno che ha un nome ben preciso A Saudade portuguesa, cantata attraverso la musica del fado che ha proprio nel destino il suo significato più profondo. Tutto il percorso iniziato con la descrizione della poeta alla finestra non poteva avere il suo naturale compimento se non nella lirica dedicata proprio a Lisbona:

«Lisbona che oscilla come una grande chiatta
Lisbona crudelmente costruita lungo la sua stessa assenza
Dico il nome della città
- Dico per vedere.»

Dire un nome è creare qualcosa che non c’è, scrivere poesie è fissare nel tempo ogni rinascita.

Targa commemorativa Sophia De Mello a Lisbona.

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

Avez-vous déjà été curieux d'observer un poète lorsqu'il écrit? Habituellement, nous trouvons ses vers déjà imprimés sur des livres avec une police bien définie, avec une belle couverture et des notes biographiques concernant l'auteur. Moi, en revanche, je voudrais vous emmener à la source de l'âme où les mots se rassemblent intacts et purs comme des coquillages sur la plage. Sophia De Mello a été l'un des auteurs portugais les plus importants, lauréate du prix Camoes, mais cela pourrait être une simple nouvelle qui dit tout ou rien ... en surface. Les écrivaines et écrivains des terres frontalières, des îles qui ont un contact direct avec la mer, ont quelque chose qui rend leur relation avec la poésie et le milieu environnant unique.

Lisbonne est la ville qui vous fait comprendre les raisons du voyage, de l'attente, de l'introspection et d'un calme intouchable. J'ai ressenti toutes ces sensations en retrouvant dans ma mémoire un voyage au Portugal il y a de nombreuses années et en regardant une photo en noir et blanc de Sophia de Mello. Il y a une fenêtre ouverte et sur le rebord des petites voitures de course, le ciel est dégagé, en arrière-plan des arbres flous. Elle est là, assise devant une simple table, avec une tasse de thé, un paquet de cigarettes, un cendrier, un livre ouvert, quelques feuilles, une cigarette allumée entre les doigts de sa main gauche, libérant des boucles de fumée dans l'air, à droite un stylo Bic pour composer des mots. Un pull à col en V laisse son cou découvert, immortalisé au moment où la respiration la plus profonde porte en arrière la gorge et se fond dans une expression douce, sereine et intemporelle. Lorsque cela se produit, le miracle s'est produit dans l'âme du poète. C'est le moment de l'équilibre parfait entre soi et le monde, le moment où vous êtes témoins d'une révélation, le moment où le temps cesse d'exister parce que la plume vous a mis en présence de l'éternité. C'est pourquoi dans le poème La coquille de Kos, la valve de la moule prend une valeur symbolique, elle cesse d'être l'ornement blanc nacré déposé par la mer pour devenir la synthèse parfaite de toutes les atmosphères qui ont nourri et créé l'esprit poétique:

«Je n'ai ramassé ce coquillage sur aucune plage
Mais dans la nuit bleue et noire de la Méditerranée,
je l'ai acheté à Kos dans un magasin le long de la jetée
Près des arbres des bateaux qui se balancent

Et j'ai apporté avec moi le rugissement des tempêtes
Mais je n’y entends
Ni les tempêtes de Kos ni celles d'Egine
Seulement le chant de la vaste et longue plage
Atlantique et sacrée
Où pour toujours mon âme fut créée»

Combien de fois avons-nous fait ce geste instinctif d'amener la coquille à l'oreille pour entendre le son de la mer, un son qui nous rappelle quelque chose de familier, un son qui réconforte, comme s'il contenait l'archétype du battement fœtal, capable de nous ramener à l'eau, sous-entendu comme liquide amniotique, qui a vu notre être indistinct, inexistant se transformer en une personne. La mer dans les vers du poète devient un sein maternel sûr et accueillant; en fait il n'y a pas la peur des tempêtes ou des bourrasques mais simplement le son d'une chanson, semblable à une berceuse où l'âme a pris forme pour toujours. L'adverbe, dans ce cas, n'indique pas simplement la durée dans le temps mais arrête le temps en scellant un pacte, un lien indissoluble. Ainsi dans le poème Les Ondes les vagues semblent jouer dans leur mouvement et ne sont jamais une source de bouleversement mais deviennent des danseuses:

"Les vagues se brisaient une à une
J'étais seule avec le sable et l'écume
De la mer chantant seulement pour moi”

Lisbonne a, de ce point de vue, un double lien avec l'eau, étant traversée par le Tage et face à l'Atlantique. Lorsque vous visitez la Tour Blanche de Belem, vous comprenez la raison qui a conduit le roi lusitanien Henri le navigateur à financer les expéditions atlantiques qui conduisent, entre autres, Bartolomeo Diaz à faire le tour de l'Afrique, contournant le cap de Bonne-Espérance et ouvrant ainsi un nouvelle route vers les Indes. Dans la ville maritime, on ressent l'envie d'un ailleurs, de se diriger vers une destination, de naître, par essence. Si la mer est le lieu de naissance, le poème scelle et rend éternelle la vie même du poète:

«La poésie me conduira à travers le temps
Quand je ne serai plus le foyer du temps
Et je passerai solitaire Entre les mains du lecteur.
Quelqu'un dira le poème aux récoltes
Son passage se confondra
Comme le bruit de la mer avec le passage du vent


La poésie habitera
L'espace le plus concret et le plus attentif
Dans l'air clair des soirées transparentes
Ses syllabes rondes
(Ô anciennes ou longues douces Éternelles soirées )
Même si je meurs la poésie rencontrera
Une plage où les vagues se brisent
Et entre quatre murs denses
De profonde et dévorée solitude
Quelqu'un confondra son être avec la poésie au fil du temps»

Quand De Mello déclare que la poésie «habitera /l'espace le plus concret et le plus attentif / à l'air pur dans des soirées transparentes», que veut-elle nous communiquer exactement? Est-il possible que la poésie habite des lieux prédisposés à être occupés par des meubles, des objets et des personnes? Qu’est-ce cela peut signifier? Les mots se comportent comme des sages-femmes, ils marquent des moments de renaissance, d'épiphanie comme s'ils nous offraient l'opportunité d'observer la même réalité avec des yeux nouveaux. Cela peut sembler une étape simple mais, en réalité, cela suppose une déconnexion de soi et une reconnexion ultérieure à travers laquelle se modifie la façon de nous observer et d'observer le monde . C'est essentiellement un processus d'évolution. Il ne peut y avoir de vie riche sans une richesse de mots qui expliquent en détail même un intarsia. Peut-être il est possible d'avoir peu de mots et d'être également riche, à condition qu'ils aient des racines profondes et soient complémentaires des yeux, des mains et des sourires qui témoignent de notre ouverture sur le monde. A ce propos, la philosophe Luce Irigaray parle justement de «la langue comme outil de constitution du monde ou de son appropriation, ou comme moyen de rencontre des sujets. Le langage doit nous aider à compléter ce que fait un arbre sans recourir aux mots: réaliser ce qu'il est en transformant ses racines en fleurs et en fruits ».

La référence à un langage génératif est faite par De Mello elle-même, s'adressant directement aux lecteurs: "Et je passerai solitaire entre les mains du lecteur". N'est-ce pas, peut-être, une invitation à prendre son regard à elle pour que la poésie soit un lieu de rencontre et de renaissance? On se demande: comment l'attention s'exerce-t-elle? Le philosophe français Frédéric Lenoir nous l'explique: «L'attention est avant tout ce qui nous permet d'être connecté à nos sens. Très souvent, nous sommes pris par mille problèmes et, l'esprit surchargé, nous ne prêtons pas attention à ce que nous vivons. Ce n'est que lorsque nous sommes attentifs que nous nous laissons habiter par nos sens: nous écoutons, ressentons et contemplons. Nous sommes plongés dans le hic et nuc “. Par conséquent, l'air pur et les soirées transparentes, évoquées dans les versets précédents, ne prennent plus une valeur utilitaire:

La référence à un langage génératif est faite par De Mello elle-même, s'adressant directement aux lecteurs: "Et je passerai solitaire entre les mains du lecteur". N'est-ce pas, peut-être, une invitation à prendre son regard à elle pour que la poésie soit un lieu de rencontre et de renaissance? On se demande: comment l'attention s'exerce-t-elle? Le philosophe français Frédéric Lenoir nous l'explique: «L'attention est avant tout ce qui nous permet d'être connecté à nos sens. Très souvent, nous sommes pris par mille problèmes et, l'esprit surchargé, nous ne prêtons pas attention à ce que nous vivons. Ce n'est que lorsque nous sommes attentifs que nous nous laissons habiter par nos sens: nous écoutons, ressentons et contemplons. Nous sommes plongés dans le hic et nuc “. Par conséquent, l'air pur et les soirées transparentes, évoquées dans les versets précédents, ne prennent plus une valeur utilitaire:

c'est une belle soirée, je sors;
c'est une belle soirée je fais quelque chose;
c'est une belle soirée je retrouve les amis, mais cette soirée claire est le lieu de l'ici et maintenant et représente l'occasion dans laquelle je me plonge complètement en assumant sa clarté et sa transparence. J'en fais partie et j’apprécie une harmonie cosmique dont nous n'avons souvent aucune perception. Ici, la poésie devient un lieu de vie car elle s'est transformée en un coin de repos, de reconnexion et de salut.
De Mello écrit à nouveau:

«Un jour, je briserai tous les ponts, Qui lient mon être, vivant et total, À l'agitation du monde de l'irréel, Et calmement je remonterai aux sources. J'irai jusqu’aux sources où habite La plénitude, la splendeur limpide Qui m'a été promise à chaque instant , Et dans le visage incomplet de l'amour. J’irai boire la lumière et du soleil le lever, J’irai boire la voix de la promesse Qui parfois comme un vol me traverse, Et là j’accomplirai tout mon être»

La dimension de la communion joyeuse s'achève avec une poésie qui mène à la source de la vie, dans laquelle le cœur du poète bat au même rythme que le cosmos:

«Mes mains tiennent des étoiles,
Je saisis mon âme pour qu'elle ne se brise pas
La mélodie qui va de fleur en fleur,
Je déchire la mer de la mer et la place en moi
Et le battement de mon cœur soutient le rythme des choses»

Nous revenons au début de notre voyage dans l'âme de Sophia De Mello car il manque une dernière pièce: Lisbonne. Chacun/e de nous est sans aucun doute le fils / fille du pays dans lequel il est né/e, il apporte avec lui les senteurs, les paysages, la mélancolie, les éclairs soudains de lumière. Peut-être le lieu d'origine concerne aussi le destin de chaque être humain, si par ce mot nous ne voulons pas dire un chemin écrit et inéluctable, mais une vocation à découvrir et à réaliser. La ville lusitanienne est ainsi: c'est le désir de voyager et la nostalgie du retour qui a un nom très spécifique A Saudade portuguesa, chantée à travers la musique du fado qui a son sens le plus profond dans le destin. Tout le chemin qui a commencé avec la description de la poétesse à la fenêtre ne pouvait avoir son accomplissement naturel que dans les paroles consacrées à Lisbonne:

«Lisbonne se balance comme une grosse barge
Lisbonne cruellement bâtie le long de son absence
Je dis le nom de la ville
- Je dis pour voir.»

Dire un nom, c'est créer quelque chose qui n'existe pas, écrire de la poésie, c'est fixer chaque renaissance dans le temps.

Plaque commémorative Sophia de Mello à Lisbonne.

 

Traduzione inglese
Piera Negri

Have you ever been curious to observe a female poet when she writes? Usually, we find her verses already printed on books with a well-defined font, with a beautiful cover and biographical notes concerning the author. I, on the contrary, would like to take you to the source of the soul where the words gather intact and pure like shells on the beach. Sophia De Mello was one of the most important Portuguese authors, winner of the Camoes award, but this could be a simple news that says all or nothing ... on the surface. Male and female writers of border lands, of islands that are in direct contact with the sea have something that makes their relationship with poetry and the surrounding environment unique.

Lisbon is the city that let you understand the reasons for traveling, waiting, of introspection and an untouchable quiet. I felt all these sensations finding in my memory a trip to Portugal many years ago and looking at a black and white photo of Sophia de Mello. There is an open window and racing cars are on the sill, the sky is clear, and blurred trees are on the bottom. She is there, sitting in front of a simple table, with a cup of tea, a pack of cigarettes, an ashtray, an open book, a few sheets, a lit cigarette between the fingers of her left hand, releasing curls of smoke into the air, on the right hand a pen to compose words. A sweater with a V-neck leaves her neck uncovered, immortalized at the moment when the deepest breath brings back the throat and merges with a sweet, serene and timeless expression. When this happens, the miracle happened in the poet’s soul. It is the moment of the perfect balance between herself and the world, the moment you are witness to a revelation, the moment time stops being because the pen has put you in front of eternity. That's why in the poem The shell of Kos, the mussel valve takes a symbolic value, it stops being the niveo ornament settled by the sea to become the perfect synthesis of all the atmospheres that nourished and created the poetic spirit:

«I did not collect this shell on any beach
But in the blue and black Mediterranean night
I bought it in Kos in a shop along the pier
Near the swinging masts of the boats
And I took the roar of the storms with me

But I don't feel in it
Neither the storms of Kos nor those of Aegina
Only the song of the vast and long beach
Atlantic and sacred
Where forever my soul was created»

How many times we made that instinctive gesture of bringing the shell to the ear to hear the sound of the sea, a sound reminding us something familiar, a comforting sound, as if it contains the archetype of the fetal beat, able to bring us back to water, seen as amniotic fluid, which has seen our indistinct, non-existent being transform into a person. The sea in the poet's verses becomes a safe and welcoming maternal womb; in fact there is no fear of sea storm or surges but simply the sound of a song, similar to a lullaby where the soul has taken shape forever. The adverb, in this case, does not simply indicate lasting in time but it stops the time by sealing a pact, an indissoluble bond. So in the poem The Waves, the waves look like playing in their motion and are never a upsets source but become female dancers:

«The waves were breaking one by one
I was alone with the sand and the foam
Of the sea that sang only for me»

Lisbon has, from this point of view, a double bond with water, being crossed by the Tagus and overlooking the Atlantic. When visiting the White Tower of Belem, you easily understand the reason why Lusitanian king Henry the navigator, financed the Atlantic expeditions that lead, among other things, Bartolomeo Diaz to circumnavigate Africa, rounding the Cape of Good Hope and opening, thus, a new route to the Indies. In the seaside city one feels the desire for an elsewhere, to proceed towards a destination, to be born, in essence. If the sea is the place of birth, the poem seals and makes eternal the very life of the poet:

«Poetry will take me through time
When I will no longer be the home of time
And I will pass lonely
Inside the hands of the reader.
Someone will tell the poem to harvest
Its passage will get confused
Like the sound of the sea with the winds passing.

Poetry will inhabit
The most concrete and most attentive space
In the clear air in transparent evenings
Its round syllables
(Or ancient or long Eternal smooth evenings)
Even if I die poetry will meet
A beach to break its waves
And between four dense walls
Of deep and devoured solitude
Someone will confuse his own being
With poetry over time»

When De Mello says that poetry "will inhabit / the most concrete and most attentive space / in clear air in transparent evenings", what exactly does she want to tell us? Is it possible that poetry inhabits places arranged to be occupied by furniture, objects and people? What could it mean? Words behave like midwives, they mark moments of rebirth, of epiphany such as if they offered us the opportunity to observe the same reality with new eyes. It might look like a simple step but, actually, it assumes a disconnection from oneself and a subsequent reconnection through which the way we observe ourselves and the world changes. In essence it is an evolution process. There can be no rich life without a wealth of words that explain in detail even an inlay. Perhaps, it is possible to have a few words and be equally rich, and provided that they have deep roots and are complementary to the eyes, hands and smiles that are the witness of our opening to the world. In this regard, the philosopher Luce Irigaray talks of the language as a tool to constitute the world or to appropriate it, or as a means to meet subjects.

Language should help us to complete what a tree does without using words: to realize what it is by transforming its roots into flowers and fruit». The reference to a generative language is made by De Mello, addressing herself directly to readers: «And I will pass lonely in the hands of the reader». Isn’t it, perhaps, an invitation to assume her own glance so that poetry may be a of meeting and rebirth place? We wonder: how is attention exercised? The French philosopher Frederic Lenoir explains it to us: "Attention is above all what enables us to be connected to our senses. We are often taken by a thousand problems and, with such an overloaded mind, we do not pay attention to what we live. Only when we are attentive, we allow ourselves be inhabited by our senses: we listen, feel and contemplate. We are plunged in the hic et nuc". So, the clear air and the transparent evenings, as mentioned in the previous verses, don’t have any more a utilitarian value:

it's a nice evening, I go out;
it's a nice evening I do something;
it's a nice evening I meet friends, but this clear evening is the place of here and now and represents the moment in which I immerse myself with all of myself/or assuming its clarity and transparency. I become part of it and enjoy a cosmic harmony of which we often have no perception. Here poetry becomes a place to live as it has been transformed into a corner of rest, reconnection and salvation.
Again, De Mello writes:

«One day I'll break all bridges,
That bind my being, alive and total,
at the agitation of the dream world,
And calm, I will go up to the sources.

I will go to the sources where it dwells
The fullness, the limpid splendor
That was promised to me at any time,
And in the incomplete face of love.

I'll go drink the light and the sun rise,
I'll go drink the voice of the promise
That sometimes like a flight passes through me,
And there I will fulfil my whole being»

The dimension of joyful communion with poetry is brought to completion leading to the source of life, in which the poet's heart beats at the same rhythm as the cosmos:

«My hands hold stars,
I grab my soul so it doesn't break
The melody that goes from flower to flower,
I tear the sea from the sea and place it in me
And beating of my heart sustains the rhythm of things»

We return to the beginning of our journey into the soul of Sophia De Mello because one last piece is missing: Lisbon. Each of us is undoubtedly the son/daughter of the land in which he/she is born, brings with him/her the scents, the landscapes, the melancholy, the sudden flashes of light. Perhaps the place of origin also concerns the destiny of every human being, if with this word we do not mean a written and ineluctable path, but a vocation to be discovered and fulfilled. The Lusitanian city is like this: it is the desire for travel and the nostalgia for return that has a very specific name A Saudade portuguesa, sung through the music of fado which has its deepest meaning in destiny. The whole path that began with the description of the poet at the window could not have its natural fulfilment except in the lyric dedicated to Lisbon:

«Lisbon swinging like a big barge
Lisbon cruelly built along its same absence
I say the name of the city
- I say to see.»

To say a name is to create something that does not exist, to write poetry is to fix every rebirth in time.

Commemorative plaque Sophia De Mello in Lisbon.

 

Traduzione portoghese
Filipa Ramalho, Barbora Břenková, Susana Soares, Maria João Ferro, Mariana Lebefer

Alguma vez sentiram curiosidade em observar uma poeta enquanto escreve? Geralmente, encontramos os seus versos já impressos em livros de caráter bem definido, com uma bela capa e notas biográficas referentes à autora. Eu, pelo contrário, desejo levar-vos à fonte da alma, onde se colhem palavras intactas e puras, como conchas na praia. Sophia de Mello Breyner foi, e ainda é, uma das autoras portuguesas mais importantes, vencedora do Prémio Camões, mas esta poderia ser apenas outra notícia, que tudo ou nada diz… aparentemente. Os escritores e as escritoras de terras fronteiriças, de ilhas que os unem diretamente ao mar, têm algo que tornam únicas as suas relações com a poesia e com o ambiente que os rodeia.

Lisboa é a cidade que nos faz compreender as razões da nossa viagem, da antecipação, da introspeção e de uma quietude intocável. Experimentei todas estas sensações, reencontrando nas minhas memórias uma viagem que fiz a Portugal há muitos anos, quando vi uma fotografia a preto e branco de Sophia de Mello Breyner. Há uma janela aberta em cujo parapeito se encontram carrinhos de brincar, o céu está límpido e, ao fundo, vêem-se árvores desfocadas. Ali está ela, sentada em frente a uma simples mesa, com uma chávena de chá, um maço de cigarros, um cinzeiro, um livro aberto, algumas folhas, um cigarro aceso entre os dedos da mão esquerda, que deixa no ar argolas de fumo, e, na mão direita, uma caneta para compor palavras. Uma camisola com decote em V deixa-lhe o peito descoberto, imortalizado no instante em que a respiração profunda retrai o pescoço e se funde com uma expressão doce, serena e intemporal. Quando isto acontece, dá-se o milagre na alma da poeta. É o instante do perfeito equilíbrio entre si e o mundo, o instante em que se é testemunha de uma revelação, o instante em que o tempo deixa de o ser porque a caneta nos colocou diante da eternidade. É por isso que, no poema «O Búzio de Cós», a concha do búzio assume um valor simbólico, deixando de ser o ornamento níveo depositado pelo mar, e se transforma numa perfeita síntese de todas as atmosferas que nutriram e criaram o espírito poético:

«Este búzio não o encontrei eu própria numa praia
Mas na mediterrânica noite azul e preta
Comprei-o em Cós numa venda junto ao cais
Rente aos mastros baloiçantes dos navios
E comigo trouxe ressoar dos temporais

Porém nele não oiço
Nem o marulho de Cós nem o de Egina
Mas sim o cântico da longa vasta praia
Atlântica e sagrada
Onde para sempre a minha alma foi criada»

Quantas vezes repetimos o gesto instintivo de levar a concha ao ouvido para escutar o som do mar, um som que nos recorda algo familiar, um som que reconforta, como se contivesse o arquétipo do batimento fetal, capaz de reconduzir-nos à água, entendida como líquido amniótico, que viu o nosso ser indistinto, inexistente, transformar-se em pessoa. O mar, nos versos da poeta, torna-se um seguro e acolhedor ventre materno; na verdade, não existe o medo do marulho ou dos temporais, mas simplesmente o som de um canto, semelhante a uma canção de embalar, na qual a alma encontrou a sua forma para sempre. Neste caso, o advérbio não indica simplesmente a duração no tempo, mas para o tempo, selando um pacto, um vínculo indissolúvel. Também no poema «As Ondas», estas parecem brincar no seu movimento e nunca representam uma fonte de agitação, transformando-se em bailarinas:

«As ondas quebravam uma a uma Eu estava só com a areia e com a espuma Do mar que cantava só para mim»

Lisboa tem, deste ponto de vista, uma dupla ligação à água, sendo atravessada pelo Tejo e debruçando-se sobre o Atlântico. Quando se visita a Torre de Belém, compreende-se bem o motivo que levou o Infante D. Henrique, o Navegador, a financiar as expedições atlânticas que conduziram, entre outros, Bartolomeu Dias a circum-navegar África, passando pelo cabo da Boa Esperança e criando, assim, uma nova Rota das Índias. Sente-se na cidade do mar o desejo de outro lugar, de avançar para qualquer destino, de nascer. Se o mar é o lugar do nascimento, a poesia sela e eterniza a vida da poeta:

«O poema me levará no tempo Quando eu já não for a habitação do tempo E passarei sozinha Entre as mãos de quem lê O poema alguém o dirá Às searas Sua passagem se confundirá Como o rumor do mar com o passar do vento

O poema habitará O espaço mais concreto e mais atento No ar claro nas tardes transparentes Suas sílabas redondas (Ó antigas ó longas Eternas tardes lisas) Mesmo que eu morra o poema encontrará Uma praia onde quebrar as suas ondas E entre quatro paredes densas De funda e devorada solidão Alguém seu próprio ser confundirá Com o poema no tempo»

Quando Sophia de Mello Breyner afirma que o poema «habitará / o espaço mais concreto e mais atento / no ar claro nas tardes transparentes», o que quer exatamente transmitir? É possível que a poesia habite lugares predispostos a serem ocupados por móveis, objetos e pessoas? O que poderá significar? As palavras comportam-se como parteiras, assinalam momentos de renascimento, de epifania, como se oferecessem a oportunidade de observar a mesma realidade por outros olhos. Poderia parecer uma passagem simples, mas, na realidade, pressupõe uma desconexão de si mesma e uma consequente reconexão através da qual se altera o modo de se observar a si e ao mundo. Trata-se, essencialmente, de um processo de evolução. Não se pode ter uma vida rica sem uma abundância de palavras que expliquem pormenorizadamente até mesmo um desenho embutido. Talvez seja possível possuir poucas palavras e ser-se igualmente rico, desde que essas palavras tenham raízes profundas e sejam complementares aos olhos, às mãos e aos sorrisos, que são o testemunho da nossa abertura ao mundo. Neste sentido, a filósofa Luce Irigaray fala mesmo da «linguagem como instrumento para construir o mundo ou apropriar-se dele, ou como meio para encontrar sujeitos.

A linguagem deveria ajudar-nos a levar a cabo aquilo que uma árvore faz sem recorrer às palavras: realizar aquilo que é, transformando as suas raízes em flores e frutos.» A referência a uma linguagem generativa é feita pela própria Sophia de Mello Breyner, que se dirige diretamente aos leitores e às leitoras: «E passarei sozinha dentro das mãos de quem lê». Não será, talvez, um convite para assumir o seu próprio olhar até a poesia se tornar um local de encontro e renascimento? Pergunta-se: como se treina a atenção? Isso explica-nos o filósofo francês Frederic Lenoir: «A atenção é, antes de mais, aquilo que nos permite estar ligados aos nossos sentidos. Muitas vezes, deparamo-nos com mil problemas e, com a mente tão sobrecarregada, não prestamos atenção àquilo que vivemos. Só quando estamos atentos é que nos permitimos ser habitados pelos nossos sentidos: ouvimos, sentimos e contemplamos. Ficamos imersos no aqui e agora.» Por isso, o ar claro e as tardes transparentes, dos quais se fala nos versos precedentes, não assumem um valor utilitarista:

Está uma tarde bonita, saio; Está uma tarde bonita, faço alguma coisa; Está uma tarde bonita, encontro-me com amigos, mas esta tarde límpida é o lugar do aqui e do agora e representa a ocasião em que mergulho nela com todo o meu ser, assumindo a minha clareza e transparência. Torno-me parte dela e desfruto de uma harmonia cósmica da qual, muitas vezes, não nos apercebemos. Eis que a poesia se torna um lugar para habitar já que se transformou num cantinho de repouso, de reconexão e salvação. ​Escreve ainda Sophia de Mello Breyner:

«Um dia quebrarei todas as pontes
Que ligam o meu ser, vivo e total,
À agitação do mundo do irreal,
E calma subirei até às fontes.

Irei até às fontes onde mora
A plenitude, o límpido esplendor
Que me foi prometido em cada hora,
E na face incompleta do amor.

Irei beber a luz e o amanhecer,
Irei beber a voz dessa promessa
Que às vezes como um voo me atravessa,
E nela cumprirei todo o meu ser»

É concretizada a dimensão de alegre comunhão com a poesia que conduz à nascente da vida, na qual o coração da poeta bate em uníssono com o do cosmos:

«As minhas mãos mantêm as estrelas,
Seguro a minha alma para que se não quebre
A melodia que vai de flor em flor,
Arranco o mar do mar e ponho-o em mim
E o bater do meu coração sustenta o ritmo das coisas»

Regressamos ao início da nossa viagem à alma de Sophia de Mello Breyner porque nos falta a última peça: Lisboa. Cada um(a) de nós é, sem dúvida, filho(a) da terra em que nasceu, carregando consigo os cheiros, as paisagens, a melancolia, os súbitos flashes de luz. O local de origem talvez esteja também relacionado com o destino de cada ser humano, se, com esta palavra, não entendermos um caminho escrito e inelutável, mas, sim, uma vocação que deve ser descoberta e concretizada. A cidade lusitana é isso mesmo: é o desejo da viagem e a nostalgia do regresso que tem um nome bem preciso A Saudade Portuguesa, cantada nas melodias do fado, que tem precisamente no destino o seu significado mais profundo. Todo o percurso iniciado com a descrição da poeta à janela não poderia ter a sua conclusão natural se não na lírica dedicada exatamente a Lisboa:

«Lisboa oscilando como uma grande barca
Lisboa cruelmente construída ao longo da sua própria ausência
Digo o nome da cidade
- Digo para ver.»

Dizer um nome é criar algo que não existia, escrever poesia é fixar no tempo cada renascimento.

Placa comemorativa Sophia De Mello em Lisboa.

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