Cristina di Svezia

Antonella Traverso


Viola Gesmundo

Nata a Stoccolma l'8 dicembre del 1626, in assenza di eredi maschi, Cristina divenne regina di Svezia a sei anni, alla morte in battaglia del padre Gustavo II Adolfo il Grande, grazie ad un provvedimento che questi era riuscito a strappare anni prima al Parlamento. Il suo era un mondo maschile, dominato dalla guerra, in cui le donne, anche quelle della sua famiglia, avevano scarso potere ed un unico fine, quello di sposarsi e generare il maggior numero possibile di figli. Cristina si pose come figura di rottura con la tradizione sotto tutti i punti di vista: le sue scelte audaci e irremovibili, indice di personalità volitiva e travolgente, l'hanno spinta a vivere un'esistenza libera da pressioni e condizionamenti come solo un uomo potente poteva permettersi di fare. Il suo originalissimo modo di condurre sé stessa, gli affari personali e di Stato fu profondamente influenzato fin da subito dall'educazione ricevuta, solitamente destinata a un principe maschio erede al trono, che comprendeva studi umanistici, strategie politiche e molto esercizio fisico. Cristina rivelò uno spiccato intuito e un'autentica avidità per ogni genere di nozioni e stimoli. Coraggiosa e vivace qual era, amava anche tutto ciò che fosse militare, la vita all'aria aperta, gli animali, la caccia, le corse e il galoppo sfrenato a cavallo. Viceversa detestava tutto ciò che fosse appannaggio del sesso femminile compresi abiti, ornamenti, maniere e stile di vita che giudicava inutilmente ingombranti o sostanzialmente noiosi. Dotata di determinazione, al compimento dei 18 anni prese nelle sue mani il governo del Paese, adoperandosi tra l'altro per la conclusione della Guerra dei Trent' Anni. Promosse il commercio estero e l'attività di estrazione mineraria e fece di Stoccolma una delle città più colte d'Europa, il che le donò il soprannome di Minerva del Nord. Invitò a corte i più celebri letterati, filosofi e scienziati; intrattenne una fitta corrispondenza personale con Pascal che le donò una sua "pascalina", antenata della moderna calcolatrice, e con Cartesio che, ospite a palazzo, le diede lezioni private di filosofia e religione per alcuni mesi. Inviò emissari all'estero in cerca di libri e opere d'arte e raccolse preziose collezioni come quella proveniente da Praga che inglobava molti capolavori italiani e che incrementò la sua attrazione fatale per la cultura di Roma.

Cristina parlava correntemente svedese, tedesco, francese ma anche un po' di italiano, sapeva leggere e commentare i testi latini, conosceva le opere degli antichi greci, e aveva studiato matematica, fisica e astronomia. Adorava disquisire di scienze e filosofia. Quasi ogni ramo del sapere la incuriosiva, persino l'arabo, l'ebraico e l'alchimia. Amava il teatro e la danza e lei stessa si dilettava a danzare e recitare. Le furono dedicate diverse opere teatrali e in una di queste interpretò entusiasta la parte della dea Diana che tanto le somigliava per carattere, fiero irascibile audace e volitivo, e per lo stile di vita dinamico e intraprendente. Ma Cristina era soprattutto una donna anticonformista e insofferente ai vincoli ed il suo amore per la libertà la portò a scelte dirompenti col suo ruolo di monarca: l'abiura della religione luterana e la conversione al cattolicesimo; una vita sentimentale fuori dagli schemi e il rifiuto del matrimonio; la scelta di un successore e l'abdicazione a suo favore; l'abbandono della propria terra per la libertà intellettuale di Roma. Benchè la pratica del cattolicesimo fosse vietata, Cristina si sentiva tollerante ed avviò colloqui segreti con sacerdoti gesuiti che la conquistarono con la loro sapienza e la loro forza d'animo tanto da indurla a convertirsi. Del resto Lutero aveva affermato che il destino di una donna era quello di generare figli fino alla morte e lei non aveva nessuna intenzione di concepire un figlio né di generarlo. Nonostante le pressioni cui era soggetta ed il lungo corteggiamento di uomini illustri e di prìncipi, Cristina non si rassegnò mai all'idea di cedere il proprio ruolo di comando a un uomo per il solo fatto di averlo sposato, né di sottostare alle conseguenti soggezioni. Al fine di garantire la successione, preferì nominare direttamente un principe ereditario e lo scelse nella persona del suo più assiduo pretendente, il cugino Carlo Gustavo, cui era stata legata da un idillio infantile. Ma non le bastava. Per evadere dal suo mondo doveva dare una svolta decisiva alla propria vita, rinunciando definitivamente al trono, ma voleva farlo da regina, unica e indiscussa. Così nel 1650, all'età di 24 anni, al fine di ristabilire l'autorità personale che era stata ridimensionata dalla nomina del successore, organizzò la cerimonia ufficiale dell'incoronazione a regina e la trasformò in un evento epocale con addobbi sfarzosi, cortei chilometrici, fuochi d'artificio, balli, banchetti e mascherate allegoriche che si protrassero per settimane. Quando poi comunicò al Senato la decisione di abdicare, si trovò a fronteggiare il parere contrario di tutti e fu costretta a soprassedere finché, dopo altri quattro anni di regno, depose la corona, impaziente di partire per Roma, ove anelava di raggiungere intelletti simili al proprio. Non senza aver prima negoziato un appannaggio per gli anni a venire con un accordo che continuava a riconoscerle il titolo di regina.

Ansiosa di lasciare la Svezia prima che qualcuno potesse ostacolarla si precipitò a rotta di collo fino al confine con la Danimarca dove ebbe luogo la sua metamorfosi: si liberò delle voluminose vesti femminili e dei tacchi, che le impacciavano i movimenti, per sostituirli coi più comodi stivali e pantaloni, si fece tagliare i capelli all'altezza delle spalle, e cinse la spada come un qualsiasi cavaliere per viaggiare in incognito e per assecondare la propria personalità ribelle. Finalmente libera dal protocollo di corte, da questo momento mostrerà di apprezzare cravatte giacche scarpe e parrucche da uomo, ma anche posizioni e atteggiamenti tipici maschili, come allargare le braccia in posizione rilassata e accavallare le gambe (allora rigorosamente proibito ad una donna che non fosse di facili costumi), togliersi il cappello piumato in presenza di papi e principi, usare un linguaggio più rude e abitudini più rozze. Giunta a Roma Cristina fu ospitata per alcuni giorni dal Papa Alessandro VII all'interno delle mura del Vaticano, benché fosse allora vietato alle donne. Nelle lussuose residenze romane che le vennero poi assegnate avviò un'intensa attività accademica per coltivare la musica, il teatro, la letteratura e le lingue, radunando intorno a sé, come già aveva fatto a Stoccolma, artisti, musicisti, letterati e poeti che formeranno il nucleo dell'Accademia dell'Arcadia, costituita un anno dopo la sua morte. La sua preziosa pinacoteca privata comprendeva, tra le altre, opere di Rubens, Van Dick, Tiziano, Raffaello e Tintoretto; la sua biblioteca personale contava ben 2.000 manoscritti, oggi proprietà della Biblioteca Vaticana; la sua collezione di sculture antiche da lei personalmente selezionate è oggi esposta al Prado di Madrid. Col consenso del Papa Clemente IX promosse la costruzione del primo teatro romano per le rappresentazioni operistiche pubbliche che divenne molto popolare. Coinvolse compositori come Stradella, Corelli e Scarlatti mettendo a loro disposizione orchestre fino a 150 musicisti. Ammiratrice di Molière, ne intuì la grandezza prima degli altri e ne favorì in ogni modo l'ascesa. Strinse profonda amicizia col grande scultore Bernini, che decorò in suo onore la Porta del Popolo, le dedicò alcune delle sue opere e disse di lei: «Conosce la scultura meglio di me». Il suo spirito politico e ribelle la indusse a ritenersi regina regnante per tutta la vita e a comportarsi come tale, facendosi paladina di donne allora considerate di condotta discutibile come le teatranti, le intellettuali e le ragazze in fuga da matrimoni indesiderati o dal convento. Quando si resero vacanti il trono napoletano e quello polacco si propose come monarca tessendo accordi diplomatici, ma giochi politici più grandi ne impedirono l'effetto desiderato. Mentre gli Ottomani assediavano Creta in quello slancio che sarebbe arrivato alle porte di Vienna, Cristina si attivò nel tentativo di creare una lega di potenze cristiane per combattere i Turchi e ciò fu molto apprezzato dal Papa.

Nonostante la sua posizione al vertice della società, la sua spregiudicata vita sentimentale fu spesso oggetto di pettegolezzi e scandali che la lasciavano del tutto indifferente: le sue infatuazioni, più o meno profonde e corrisposte, ebbero ad oggetto sia uomini che donne del suo entourage, aristocratici e non, persone di grande cultura e rettitudine morale ma anche soggetti opportunisti e poco eruditi. Tra i tanti spicca l'interesse a lungo manifestato per la bellissima dama di corte svedese Ebba Spare e l'indissolubile intesa che la legò a Roma al cardinale Decio Azzolino. Questi condivideva con lei una personalità provocatoria e imprevedibile e una profonda cultura. Lei riscoprì gli abiti femminili, lui le regalò la sua preziosa intercessione presso il Papa e ne fece la protettrice regale del suo Squadrone Volante creato per rendere il Papato indipendente dai grandi Stati cattolici. Entrambi passionali e attratti dagli intrighi di palazzo, finirono per innamorarsi e imbastire una reciproca e duratura devozione, spalleggiandosi continuamente, anche in politica, fino alla morte. Cristina morì di polmonite il 19 aprile del 1689. Il cardinale rimase al suo capezzale fino alla morte e ne divenne erede universale ma le sopravvisse, afflitto dal dolore, per meno di due mesi. I funerali della regina che aveva rinunciato al trono per il cattolicesimo dovevano essere fastosi e altrettanto straordinaria la sua sepoltura. Così Cristina di Svezia, simbolo della libertà intellettuale femminile in piena Controriforma, riposa in San Pietro, nelle Grotte Vaticane, accanto ai papi.

Traduzione francese
Joelle Rampacci

Née à Stockholm le 8 décembre 1626, en l'absence d'héritiers mâles, Christine devient reine de Suède à l'âge de six ans, à la mort au combat de son père Gustave II Adolphe le Grand, grâce à une disposition qu'il a réussi à arracher des années plus tôt au Parlement. Son monde est masculin, dominé par la guerre, dans lequel les femmes, même celles de sa famille, ont peu de pouvoir et un seul but, celui de se marier et d'avoir autant d'enfants que possible. Christine se dévoile comme une figure de rupture avec la tradition à tous points de vue: ses choix audacieux et inébranlables, indice d’une personnalité forte et débordante, l’amène à vivre une existence libre de pressions et de conditionnements comme seulement un homme puissant pouvait se permettre de faire. Sa manière très originale de se conduire, de conduire ses affaires personnelles et les affaires d’État est profondément influencée dès le début par l'éducation qu'elle reçoit, généralement destinée à un prince héritier du trône, qui comprenait l’étude des sciences humaines, des stratégies politiques et beaucoup d’exercice physique. Christine révèle une intuition vive et une véritable avidité pour toutes sortes de notions et de stimuli. Courageuse et vivante comme elle est, elle aime aussi tout ce qui est militaire, la vie en plein air, les animaux, la chasse, la course et le galop débridé à cheval. À l'inverse, elle déteste tout ce qui est l'apanage du sexe féminin, y compris les vêtements, les ornements, les manières et le style de vie qu’elle trouve inutilement encombrants ou essentiellement ennuyeux. Dotée de détermination, à l'âge de 18 ans, elle prend en main le gouvernement du pays, œuvrant entre autres à la conclusion de la guerre de trente ans. Elle promeut le commerce extérieur et l'exploitation minière et fait de Stockholm l'une des villes les plus cultivées d'Europe, ce qui lui donne le surnom de Minerve du Nord. Elle invite les écrivains, les philosophes et les scientifiques les plus célèbres à la cour; elle entretient une correspondance personnelle étroite avec Pascal qui lui donne une "pascaline", ancêtre de la calculatrice moderne, et avec Descartes qui, invité au palais, lui donne des cours particuliers de philosophie et de religion pendant quelques mois. Elle envoie des émissaires à l'étranger à la recherche de livres et d'œuvres d'art et recueille de précieuses collections comme celle de Prague qui contient de nombreux chefs-d'œuvre italiens et qui augmente son attrait fatal pour la culture de Rome.

Christine parle couramment le suédois, l'allemand, le français mais aussi un peu l'italien, elle sait lire et commenter des textes latins, elle connaît les œuvres classiques grecques et a étudié les mathématiques, la physique et l’astronomie. Elle adore parler de science et de philosophie. Presque toutes les branches du savoir excitent sa curiosité, même l'arabe, l'hébreu et l'alchimie. Elle aime le théâtre et la danse et elle-même se délecte à danser et à se mesurer comme actrice. Plusieurs pièces de théâtre lui sont dédiées et dans l'une d'entre elles, elle joue avec enthousiasme le rôle de la déesse Diane qui lui ressemble tant pour son caractère, fière, irascible, audacieuse et volontaire, que pour son style de vie dynamique et entreprenant. Mais Christine est avant tout une femme anticonformiste et intolérante aux contraintes et son amour pour la liberté la conduit à des choix disruptifs avec son rôle de monarque: l'abjuration de la religion luthérienne et la conversion au catholicisme; une vie amoureuse hors des sentiers battus et le rejet du mariage; le choix d'un successeur et l'abdication en sa faveur; l'abandon de sa propre terre pour la liberté intellectuelle de Rome. Bien que la pratique du catholicisme est interdite, Christine se sent tolérante et s'engage dans des entretiens secrets avec des prêtres jésuites qui la conquièrent par leur sagesse et leur courage jusqu'à l'amener à se convertir. Après tout, Luther affirme que le destin d'une femme est d'avoir des enfants jusqu'à la mort et elle, elle n’a aucune intention de concevoir un enfant ou de l'engendrer. Malgré les pressions auxquelles elle est soumise et la longue cour faite par des hommes et des princes illustres, Christine ne se résigne pas à l'idée de céder son rôle de pouvoir à un homme par le seul fait de l'avoir épousé, ni de se soumettre à l'assujettissement qui en découle. Pour garantir la succession, elle préfère nommer directement un prince héritier et le choisit en la personne de son plus assidu prétendant, son cousin Charles Gustave, auquel elle a été liée par une idylle d'enfance. Mais cela ne lui suffit pas. Pour échapper à son monde, elle doit opérer un changement décisif dans sa vie, renoncer définitivement au trône, mais elle veut le faire en tant que reine, unique et incontestée. Ainsi en 1650, à l'âge de 24 ans, afin de rétablir l'autorité personnelle amoindrie par la nomination du successeur, elle organise la cérémonie officielle du sacre en tant que reine et la transforme en un événement mémorable aux somptueuses décorations, processions kilométriques, feux d'artifice, danses, banquets et mascarades allégoriques qui durent des semaines. Lorsqu'elle communique au Sénat sa décision d'abdiquer, elle se trouve face à l'opinion contraire de tous et est forcée de reporter son dessein jusqu'à ce que, après encore quatre ans de règne, elle dépose la couronne, impatiente de partir pour Rome, où elle aspire à rejoindre des esprits semblables au sien. Non sans avoir d'abord négocié une prérogative pour les années à venir avec un accord qui continue à lui reconnaître le titre de reine.

Désireuse de quitter la Suède avant que quiconque ne puisse l'entraver, elle se précipite avec grande célérité jusqu'à la frontière avec le Danemark où s’opère sa métamorphose: elle se débarrasse des volumineuses robes féminines et des talons, qui gênent ses mouvements, pour les remplacer par des bottes et des pantalons plus confortables, on lui coupe les cheveux à hauteur des épaules, et ceint son épée comme un quelconque chevalier pour voyager sous couvert et se réconcilier ainsi avec sa vraie personnalité rebelle. Enfin libre du protocole de la cour, à partir de ce moment, elle montrera qu'elle apprécie les cravates, les vestes, les chaussures et les perruques pour hommes, mais aussi les positions et attitudes typiquement masculines, comme écarter les bras dans une position détendue et croiser les jambes (jusqu’alors strictement interdit à une femme qui n'était pas de petite vertu), enlever le chapeau à plumes en présence des papes et des princes, utiliser un langage plus rude et des habitudes plus grossières. Une fois à Rome, Christine est accueillie par le pape Alexandre VII pendant quelques jours à l'intérieur des murs du Vatican, bien qu’alors cela soit interdit aux femmes. Dans les luxueuses résidences romaines qui lui seront ensuite assignées, elle entame une intense activité académique pour cultiver la musique, le théâtre, la littérature et les langues, rassemblant autour d'elle, comme elle l’a déjà fait à Stockholm, des artistes, des musiciens, des écrivains et des poètes qui formeront le noyau de l'Académie d'Arcadie, constituée un an après sa mort. Sa précieuse galerie d'art privé comprend, entre autres, des œuvres de Rubens, Van Dick, Titien, Raphael et Tintoret; sa bibliothèque personnelle contient 2 000 manuscrits, à l'heure actuelle propriété de la Bibliothèque du Vatican; sa collection de sculptures antiques qu'elle a personnellement sélectionnées est maintenant exposée au Prado de Madrid. Avec le consentement du pape Clément IX, elle lance la construction du premier théâtre romain pour les représentations d'opéra publiques qui devient très populaire. Elle fait venir des compositeurs tels que Stradella, Corelli et Scarlatti en leur fournissant des orchestres pouvant compter jusqu'à 150 musiciens. Admiratrice de Molière, elle a senti sa grandeur avant les autres et favorise son ascension en tous points. Elle se lie d'amitié avec le grand sculpteur Bernini, qui a décoré la “ Porta del Popolo” en son honneur, lui a dédié certaines de ses œuvres et dit d’elle: «Elle connaît la sculpture mieux que moi». Son esprit politique et rebelle l'a amenée à se considérer comme une reine régnante durant toute sa vie et à se comporter comme telle, devenant la championne des femmes alors considérées de conduite douteuse telles que les actrices, les intellectuelles et les filles fuyant les mariages non désirés ou le couvent. Lorsque le trône napolitain et le trône polonais sont devenus vacants, elle se propose comme monarque en tissant des accords diplomatiques, mais de plus grands jeux politiques empêchent le résultat désiré. Alors que les Ottomans assiégent Crète dans un élan qui arriverait jusqu’aux portes de Vienne, Christine s’active dans une tentative de créer une ligue de puissances chrétiennes pour combattre les Turcs et cela est très apprécié par le pape.

Malgré sa position au sommet de la société, sa vie amoureuse sans scrupules est souvent l'objet de ragots et de scandales qui la laisse complètement indifférente: ses engouements, plus ou moins profonds et réciproques ont pour objet les hommes comme les femmes de son entourage, des aristocrates et non, des gens de grande culture et de rectitude morale mais aussi des sujets opportunistes et peu érudits. Parmi les nombreuses amitiés, se font remarquer l'intérêt longtemps manifesté pour la belle dame de la cour suédoise Ebba Spare et l’entente indissoluble qui la lie à Rome au cardinal Decio Azzolino. Il partage avec elle une personnalité provocante et imprévisible et une culture profonde. Elle redécouvre les vêtements féminins, il lui donne sa précieuse intercession auprès du Pape et en fait la protectrice royale de son Escadron Volant créé pour rendre la papauté indépendante des grands États catholiques. A la fois passionnés et attirés par les intrigues du palais, ils finissent par tomber amoureux et instaurer entre-eux une dévotion mutuelle et durable, se soutenant continuellement, même en politique, jusqu'à leur mort. Cristina meurt d'une pneumonie le 19 avril 1689. Le cardinal reste à son chevet jusqu'à sa fin et devient son héritier universel, mais il lui survit, affligé de douleur, moins de deux mois. Les funérailles de la reine qui a renoncé au trône pour le catholicisme devait être somptueuses et son enterrement tout aussi extraordinaire. Ainsi Christine de Suède, symbole de la liberté intellectuelle féminine en pleine Contre-Réforme, repose à Saint-Pierre, dans les grottes du Vatican, à côté des papes.

Traduzione inglese
Syd Stapleton

Born in Stockholm in 1626, Cristina became Queen of Sweden at the age of six, when her father died in battle without any male heirs. It was only possible for her, as a female, to rise to this position because of a provision that her father, Gustav II Adolfo the Great, had managed to extract from the Swedish Parliament years before his death. At her time, it was a world dominated by males, and by war. A world in which women, even those in a royal family, had little power and were allowed only one goal - that of marrying and producing as many children as possible. Cristina became a tradition-shattering figure from all points of view. Her bold and unshakable choices, reflections of her strong will and powerful personality, enabled her to live an existence free from pressure and domination, as usually only a powerful man could do. Her very original way of conducting herself, her personal affairs and her state responsibilities, was profoundly influenced, right from the start, by the education she had received, usually intended for a male heir to the throne. That education included humanities, political strategies and a lot of exercise. Cristina revealed a keen intuition and a genuine hunger for all kinds of notions and stimuli. Brave and lively as she was, she also loved everything military, life in the open air, animals, hunting, racing and full-out galloping on horseback. Conversely, she hated everything that reflected the typical condition of the female sex, including unnecessarily bulky clothing, ornamentation, and the manner and style of a life that she found essentially boring. Endowed with great determination, she took over the government of the country at the age of 18, immediately working, among other things, for the conclusion of the Thirty Years' War. She promoted foreign trade and mining and made Stockholm one of the most cultured cities in Europe, which produced her nickname, “Minerva of the North” (after the Roman goddess). She invited famous writers, philosophers and scientists to the court, and she maintained a close personal correspondence with Pascal who gave her a "pascalina" (a mechanical ancestor of the modern calculator). Also among her guests was Renè Descartes, who gave her private lessons in philosophy and religion for a some months. She sent emissaries abroad in search of books and works of art and assembled precious collections, including one from Prague which incorporated many Italian masterpieces and which increased her deep attraction to the culture of Rome.

Cristina was fluent in Swedish, German, and French but had also learned a little Italian. She could read and comment on Latin texts, knew the works of the ancient Greeks, and had studied mathematics, physics and astronomy. She loved to discuss science and philosophy. Almost every branch of knowledge intrigued her, even Arabic, Hebrew and alchemy. She loved theater and dance and she herself delighted in dancing and acting. Several plays were dedicated to her and in one of these she enthusiastically played the part of the goddess Diana - who so much resembled her in character, proud irascible, bold and strong-willed, and for her dynamic and enterprising lifestyle. But Cristina was, above all, a nonconformist woman, and intolerant of constraints. Her love for freedom led her to choices that eventually clashed with her role as monarch - the abjuration of the Lutheran religion and conversion to Catholicism; a love life outside the box and the rejection of marriage; the choice of a successor and the abdication in his favor; the abandonment of Sweden for the intellectual freedom of Rome. Although the practice of Catholicism was forbidden in Sweden, Cristina felt an interest and entered into secret talks with Jesuit priests. She was persuaded by their wisdom and their fortitude, and thus induced to convert. After all, Luther had affirmed that the destiny of a woman was to have children until death and she had no intention of conceiving or giving birth to a child. Despite the pressures to which she was subjected and the long line of courtships by illustrious men and princes, Cristina never resigned herself to the idea of giving up her leadership role to a man for the mere fact of having married him, nor of submitting to the consequent subjugation. In order to guarantee succession, she preferred to directly appoint a crown prince. For that role, she chose her most assiduous suitor, her cousin Carlo Gustavo, to whom she was linked by a childhood romance. But that wasn't enough to escape from her restricted world. She had to make a decisive change in her life, definitively renouncing the throne, but she wanted to do it as a Queen, unique and undisputed. So in 1650, at the age of 24, in order to re-establish the personal authority that had been reduced by the appointment of her successor, she organized an official ceremony of coronation as Queen and transformed it into an epochal event with sumptuous decorations, kilometer-long processions , fireworks, dances, banquets and allegorical masquerades that lasted for weeks. When she then communicated her decision to abdicate to the Senate, she found herself facing the contrary opinion of all and was forced to postpone her departure for another four years. After the passage of that time, she renounced the crown, impatient to leave for Rome, where she yearned to interact with intellects similar to her own. But she didn’t depart before first negotiating an agreement that continued to recognize her title as Queen.

Eager to leave Sweden before anyone could obstruct her, she rushed at breakneck speed to the Danish border where a metamorphosis took place. She got rid of the voluminous female robes and heels that hindered her movements, and replaced them with more comfortable clothing, boots and trousers. She had her hair cut to shoulder length, and, to travel undercover and to indulge her own rebellious personality, she wore a sword - like any other knight. Finally free from court protocol, from this moment on she showed that she appreciated ties, jackets, shoes and wigs for men. She also adopted typical male positions and attitudes, such as spreading her arms in a relaxed position and crossing her legs (then strictly forbidden to a woman who was not of “easy virtue”), took off her feathered hat in the presence of popes and princes, and used rougher language and rougher habits. When she arrived in Rome, Cristina was hosted for a few days by Pope Alexander VII within the walls of the Vatican, although it was then forbidden to women. In the luxurious Roman residences that were subsequently assigned to her, she began an intense period of academic activity focused on music, theater, literature and languages. She gathered around her, as she had already done in Stockholm, artists, musicians, writers and poets who then formed the nucleus of the Academy of Arcadia, established a year after her death. The Academy’s precious private art gallery included, among others, works by Rubens, Van Dyck, Titian, Raphael and Tintoretto; her personal library contained 2,000 manuscripts, now owned by the Vatican Library and her personally selected collection of antique sculptures is now on display at the Prado in Madrid. With the consent of Pope Clement IX, she promoted the construction of the first Roman theater for public opera performances, which became very popular. She attracted composers such as Stradella, Corelli and Scarlatti by providing them with orchestras of up to 150 musicians. An admirer of Molière, she sensed his greatness before others and supported his rise in every possible way. She became close friends with the great sculptor Bernini, who decorated the Porta del Popolo in her honor, dedicated some of his works to her, and said of her, “She knows sculpture better than I.” Her political and rebellious spirit led her to consider herself a reigning Queen for life, and to behave as such. She became the champion of women then considered of questionable conduct, such as actresses, intellectuals and young women fleeing unwanted marriages or convents. When the Neapolitan and Polish thrones became vacant, she proposed herself as monarch by concluding diplomatic agreements, but larger political games prevented the desired effect. When the Ottomans besieged Crete as part of the momentum that would take them to the gates of Vienna, Cristina took action in an attempt to create a league of Christian powers to fight the Turks, and this was much appreciated by the Pope.

Despite her position at the top of society, her tumultuous love life was often the subject of gossip and scandals that left her completely indifferent. Her infatuations, some more and some less deep and engaging, had as their objects both men and women of her entourage, aristocrats and not, people of great culture and moral rectitude but also opportunistic and not very erudite subjects. Among her many affairs of the heart, two stand out - her interest over a long period of time in the beautiful Swedish court lady Ebba Spare, and her indissoluble understanding with Cardinal Decio Azzolino that bound her to Rome. He shared with her a provocative and unpredictable personality and a profound culture. She rediscovered women's clothes, he gave her his precious intercession with the Pope and made her the royal protector of his Flying Squadron - created to make the Papacy independent from the great Catholic States. Both of them passionate and attracted by the intrigues of the palace, they ended up falling in love and establishing a mutual and lasting devotion, supporting each other continuously, even in politics, until their death. Cristina died of pneumonia on April 19, 1689. Cardinal Azzolino remained at her bedside until her death. He became her universal heir, but he survived her, afflicted with pain, for less than two months. The funeral of the Queen who had renounced the throne for Catholicism was, as expected, sumptuous and her burial equally extraordinary. At its conclusion, Cristina of Sweden, symbol of female intellectual freedom during the Counter-Reformation, was laid to rest in St. Peter's, in the Vatican Grottoes, next to the popes.

Clara Campoamor

Ina Macina


Viola Gesmundo

Il nome di Clara Campoamor è indissolubilmente legato all’estensione del voto alle donne in Spagna, sancita nel 1931. Le fortissime resistenze contro il suffragio femminile non provenivano solamente dalla ben radicata mentalità maschilista, ma anche dall’interno delle correnti repubblicane cui Clara aderiva e dal movimento femminista stesso che vedevano nella diffusa ignoranza delle donne un pericolo per la repubblica. In buona sostanza, essendo state tenute in uno stato di arretratezza culturale, venivano viste come pericolosamente manipolabili dalle frange più conservatrici o dagli ambienti vicini ad essi. Clara dovette confrontarsi con oppositori esterni e facilmente riconoscibili, ma anche con quelli interni al suo stesso partito, oltre che con quella parte femminismo non solidale su questo punto. La sua convinzione che fosse inaccettabile legiferare includendo le donne come soggetti passivi di cittadinanza la farà distinguere per tenacia, anche se non senza sofferenze, tanto che nel 1935 scriverà le sue memorie circa la questione del voto in un libro significativamente intitolato Il voto delle donne e io: il mio peccato mortale. Tuttavia, sembra giusto ricordare quanto la portata del suo fervente impegno sia andata molto più in là della spinosa (e poi vinta) questione del voto. Sebbene il suffragio universale sia stata la meta più ambita, l’avvocata e deputata spagnola – ferma riformista, statalista e repubblicana – era cosciente del fatto che il raggiungimento di questo diritto andasse supportato da una robusta intelaiatura legale, e in tale direzione indirizzò la sua opera. Fino al fatidico 1931 la condizione giuridica delle donne era sbilanciata a loro sfavore rispetto agli uomini (padri o mariti ne detenevano tutela e averi) o a dir poco contraddittoria: basti pensare che le donne erano eleggibili ma non potevano votare, e Clara stessa non mancò di commentare ironicamente l’articolo 23 che sanciva l’uguaglianza di tutti i cittadini rispetto a classe, posizioni politiche e credo ma omettendo il riferimento al sesso.

In quanto a cultura, l’istruzione di base era prevista per bambini e bambine ma senza troppa promozione per queste ultime che comunque ricevevano una formazione molto più ridotta in contenuti. L’intento di Clara era tutto volto a sanare il passo zoppicante della legge e dunque della società, collocando la propria azione ‘dall’interno’, prima acquisendo gli strumenti necessari – cioè studiando – e poi inanellando una serie di primati prestigiosi: fu la prima a esercitare attivamente l’avvocatura, difendendo in tribunale; la prima delle deputate spagnole; la prima a varcare le soglie del Tribunale Supremo; la prima a far parte del direttivo dell’Ateneo di Madrid; aprendo così la strada a tante, avendo a cuore tutte ma in particolare le più vulnerabili. Proveniente da una famiglia della classe media lavoratrice, nata a Madrid nel 1888, Clara deve molto alla lungimiranza di entrambi i genitori che le inculcarono il senso di giustizia e la dedizione al lavoro. Il padre, un repubblicano che aveva lavorato presso un giornale (come farà la figlia), muore quando la futura attivista è appena adolescente; la madre lavorerà incessantemente come sarta per garantire una vita dignitosa e l’istruzione a Clara e al fratello, coadiuvata dalla giovane. Clara persegue prima di tutto l’indipendenza economica, e la ottiene. La sua sete di sapere e di riscatto, unita all’influenza benefica di amiche e colleghe unite nel raggiungimento dell’emancipazione femminile, la porta a seguire gli studi in legge mentre si mantiene con numerosi lavori: maestra, dattilografa, insegnante per adulti, segretaria di un giornale. Impara da autodidatta il francese e diventa una fine traduttrice per la casa editrice Calpe. E, a 36 anni, si laurea in giurisprudenza. Le sue idee sono state la sua vita, si può dire senza remore che ciò che pensava e professava era riflesso e nutrimento della sua condotta, andando anche oltre l’intento; non solo credeva che l’istruzione fosse fondamentale per essere cittadine e cittadini consapevoli, infatti esercitò come maestra. Non solo voleva godere di diritti e leggi ma divenne deputata, avvocata e legislatrice. Rifiutò l’istituzione del matrimonio per sé mentre regolava in senso più rispettoso e veramente legale i diritti della moglie e della madre (sposata e non). Si mosse per la Spagna per lavoro e per studio; frequenterà anche eventi all’estero in seno al femminismo e al diritto infantile.

Clara Campoamor, una vita di lotta per i diritti delle donne.

Con una forte visione di classe, mai pietistica ma vigorosa e razionale, si vota alla causa femminista e pacifista in una Spagna sulla quale già si ammassavano nuvole di storia nera. Assume una posizione pacifista in merito alla guerra del Rif, alla quale erano inviati giovani spagnoli poveri, dato che i ricchi potevano pagare l’esenzione dal servizio militare. L’adulta Campoamor intesse rapporti internazionali, segue le orme delle donne ispiratrici che l’hanno preceduta, supporta e indica la strada ad altre; sul finire degli anni Venti presenta la proposta di erigere una statua in memoria di una delle sue guide, Concepción Arenal, che effettivamente verrà eretta solo nel 1934 a Madrid. Con una mentalità che potremmo definire moderna attua il concetto di ‘rete’ di collaborazioni, e istituisce a Parigi nel 1929 la Federezione internazionale delle donne giuriste, stabilendo contatti internazionali e creando instancabilmente centri o associazioni di scambio culturale. Nonostante il suo eccelso contributo e una vita esemplare, compromessa la possibilità di rientrare attivamente nella vita politica (Sinistra repubblicana rifiuterà la sua richiesta di militanza nel partito), accusata falsamente prima di agire contro gli ideali repubblicani e poi di appartenere a una loggia massonica, infine, naturalmente malvista dal franchismo, vivrà l’esilio prima in Svizzera, poi in Argentina e nuovamente in Svizzera, dove muore nel 1972, non senza aver cercato di rientrare in Spagna. Durante l’esilio, si dedica all’attività di scrittura.

Traduzione francese
Giuliana Gaudenzi

Le nom de Clara Campoamor est indissolublement lié à l’extension du vote aux femmes en Espagne, consacrée en 1931. Le très fortes résistances contre le suffrage féminin n’émanaient pas seulement de la bien enracinée mentalité machiste, mais elles étaient aussi présentes au sein des courants républicains auxquels Clara adhérait et du mouvement féministe même, qui voyaient dans l’ignorance généralisée des femmes un danger pour la République. En substance les femmes, ayant été tenues dans un état d’arriération culturelle, étaient considérées dangereusement manipulables par les parties les plus conservatrices ou par les milieux proches d’elles. Clara a du se confronter avec des opposants externes et aisément reconnaissables, mais aussi avec ceux à l’intérieur de son propre parti et avec ceux, faisant partie du féminisme, non solidaires avec cet argument. Elle était farouchement convaincue qu’il était inacceptable de légiférer en considérant les femmes comme des sujets passifs de citoyenneté. En 1935 elle écrira un livre de mémoires, concernant le sujet du suffrage, intitulé « Le suffrage des femmes et moi : mon péché mortel ». Toutefois, il faut rappeler que son engagement fervent est allé au-delà de l’épineuse (et ensuite gagnée) question du suffrage, son but majeur : cette avocate et députée espagnole – fervente réformiste, étatiste et républicaine – était consciente du fait que pour atteindre ce but il était nécessaire que ce dernier soit soutenu par une solide structure juridique et elle a agi dans ce sens. Jusqu’au fatidique 1931 le statut juridique des femmes était déséquilibré en faveur des hommes (pères et maris en avaient la tutelle et les biens ) ou pour le moins contradictoire : les femmes étaient éligibles mais elle ne pouvaient pas voter et Clara a commenté d’une façon ironique l’article 23, qui consacrait l’égalité de tous les citoyens par rapport à la classe sociale, aux positions politiques, à la confession de foi, mais en omettant le sexe.

Pour ce qui concerne la culture, la formation de base était prévue pour garçons et filles, mais celle de ces dernières était peu encouragée et beaucoup plus dépourvue d’éléments. L’intention de Clara visait à améliorer la loi - et par conséquent la société - en agissant « de l’intérieur », en apprenant d’abord pour obtenir ensuite une série de prestigieux records : elle a été la première à exercer activement la profession d’avocate de la défense, la première députée espagnole, la première à franchir le seuil de la Cour Suprême, la première à faire partie de la direction de l’Université de Madrid. Elle a ainsi ouvert la voie à beaucoup de femmes, en ayant à cœur toutes mais en particulier les plus vulnérables. Issue d’une famille de travailleurs de la classe moyenne, née à Madrid en 1988, Clara a beaucoup du à la clairvoyance de ses deux parents qui lui ont inculqué le sentiment de justice et le dévouement au travail. Son père, un républicain qui avait – comme le fera sa fille – travaillé dans un quotidien, est mort quand la future activiste était adolescente ; sa mère a travaillé sans relâche en tant que couturière, aidée par Clara, pour donner une vie décente et l’instruction à elle et à son frère. Avant tout, Clara a cherché et obtenu l’indépendance économique. Sa soif de savoir et de rédemption, étant côtoyée d’amies et collègues féministes, l’a amenée à étudier le droit tout en travaillant comme institutrice, dactylo, professeur pour adultes, secrétaire dans un journal. Autodidacte, elle a appris le français et elle est devenue traductrice pour la maison d’édition Calpe. A 36 ans elle a obtenu son diplôme de droit. Ses idées étaient sa vie, on peut affirmer sans hésitation que sa pensée et son engagement se reflétaient sur son comportement et plus encore ; en estimant que l’instruction était fondamentale pour des citoyens et des citoyennes conscients elle a été institutrice. Ne voulant pas seulement bénéficier des lois et des droits, elle est devenue députée, avocate et législatrice. En refusant l’institution du mariage pour soi même, elle s’est occupée des droits des épouses et des mères (mariées ou non). Elle a voyagé en Espagne pour travailler et apprendre. Elle a aussi fréquenté à l’étranger des événements concernant le féminisme et le droit des enfants.

Clara Campoamor, pour une vie de lutte pour les droits des femmes.

Avec une forte vision de classe, jamais piétiste mais vigoureuse et rationnelle, elle s’est dévouée à la cause féministe et pacifiste, alors que l’histoire d’Espagne s’assombrissait dramatiquement. Elle a tenu des propos pacifistes pendant la guerre du Rif, à laquelle on avait envoyé des jeunes espagnols pauvres, puisque les riches pouvaient se payer l’exemption du service militaire. En âge adulte, Campoamor a tissé des liens internationaux, a suivi les traces des femmes qui l’avaient précédée et inspirée, a supporté et montré le chemin à d’autres. Vers la fin des années vingt elle a proposé d’ériger une statue à la mémoire d’une de ses guides, Concepciòn Arenal, qui sera ensuite érigée à Madrid en 1934. Clara avait une mentalité qu’on peut définir moderne : elle a mis en œuvre la notion de « réseau » de collaborations et a créé à Paris en 1929 la Fédération internationale des femmes juristes, en nouant des contacts internationaux et en créant inlassablement des centres ou des associations d’échanges culturels. Malgré son grand engagement et sa vie exemplaire, elle a vu compromise la possibilité de rentrer dans la vie politique active (la Gauche républicaine refusera sa demande de militer pour ce parti), elle a été faussement accusée d’agir contre les idéaux républicains d’abord, d’appartenir à une loge maçonnique ensuite. Enfin, évidemment impopulaire auprès du régime franquiste, elle a vécu l’exile en Suisse, puis en Argentine et à nouveau en Suisse, en se consacrant à l’écriture. Elle est morte en 1972, après avoir en vain essayé de rentrer en Espagne.

Traduzione inglese
Emiliana Russo

Clara Campoamor’s name is inextricably linked to the recognition of the women’s right to vote in Spain in 1931. At the beginning of the 20th century, vehement opposition to the women’s suffrage in Spain came not only from a deep-rooted male chauvinist mentality but also from within the republican factions to which Clara belonged, and the feminist movement itself, which considered the widespread ignorance of women as a danger for the republic. In essence, having been kept in a state of cultural narrowmindedness, women were regarded as dangerously manipulable by the more conservative fringes and close environments. Therefore, Clara had to face external and easily recognizable opponents but also those within her own party, as well as that part of the feminist movement in disagreement with her. Her conviction that it was unacceptable to legislate by including women as passive subjects of citizenship would result in her tenacity standing out - though not without any suffering - to the point that in 1935 she wrote her memoirs on the voting issue meaningfully entitled “Women’s right to vote and I: my mortal sin”. However, it seems only fair to stress that her fervent efforts were not limited to the thorny (and then resolved) voting issue. Although universal suffrage was her principal goal, the Spanish lawyer and Member of Parliament – a firm reformist, statist and republican – was aware that such an achievement needed a strong legal framework and worked to that end. Until the decisive year 1931, the legal status of women was unfavourable to them privileging men (fathers or husbands held women’s protection and their possessions), and even contradictory. Suffice it to say that women were eligible but could not vote, and Clara did not fail to ironically comment on Article 23, which established the equalness of all citizens with respect to class, political views and beliefs but omitted sex.

With reference to culture, basic education was provided to both boys and girls but without too much promotion for the latter, whose school training was then lacking in terms of content. Thus, Clara’s primary aim was to heal the limping law and, as a result, society acting directly from within: first by acquiring the necessary tools – that is by studying – and then by setting a series of records. In fact, she was the first female to actively practise law, defending in court; she was the first female MP; she was the first female to cross the threshold of a Supreme Court. And she was the first female member of the board of the University of Madrid, thereby paving the way for other women and caring for all of them but especially the more vulnerable ones. Born in Madrid in 1888 and raised in a middle-class family, Clara owed to the foresight of both her parents, who instilled in her a sense of justice and devotion to work. Her father, a republican that worked for a newspaper (which Clara would do as well), died when the future activist was barely an adolescent; and her mother worked tirelessly as a seamstress to ensure a decent life and basic education to both Clara and her brother, assisted by the young girl. Clara always prioritized financial independence and obtained it. Her thirst for knowledge and redemption, combined with the beneficial influence of her female friends and colleagues who were united in the pursuit of women’s emancipation, led her to study law while she was working several jobs to earn her living: teacher, typist, instructor for adults, secretary of a newspaper. She learned French as an autodidact and became a fine translator for the Calpe publishing house. At 36 she gained her Law degree. Her ideas were her life. It can be said without hesitation that what she thought and professed was a reflection of nourishment of her conduct, going even beyond intent. Not only did she believe that education was essential for being aware citizens, she also practiced as a teacher. Not only did she want to enjoy rights and laws, but she also became a Member of Parliament, lawyer and legislator. She rejected the institution of marriage for herself, while she regulated the rights of wives and mothers - married or unmarried - more respectfully and truly legally. She travelled around Spain for work and her studies; she also attended events abroad pertaining to feminism and child law.

Clara Campoamor, a life to fight for women's rights.

With a strong vision of class, never pietistic but vigorous and rational, she devoted herself to the feminist and pacifist cause in a Spain on which clouds of history were already heaping up. She adopted a pacifist stance towards the Rif War, to which poor young Spaniards were sent, since the rich could afford the exemption fee for military service. Campoamor interweaved international relations, followed in the footsteps of inspiring women who preceded her, supported and showed the way to others; towards the end of the 1920s she put forward a proposal for the erection of a statue in memory of one of her guides, Concepción Arenal, which would only be built in 1934 in Madrid. With a mentality which can be labelled as modern, she implemented the concept of a “network” of collaborations, in 1929 set up in Paris the international Federation of Women jurists establishing international contacts, and created centres or associations for cultural exchange. Yet, in spite of her excellent contribution and exemplary life, Clara was eventually denied the possibility of actively re-entering political life (the Republican left would reject her request for militancy in the party). Falsely accused first of acting against republican ideals and then of belonging to a Masonic lodge and unpopular with the Franco regime, she would spend the years of her exile years in Switzerland, Argentina and then again in Switzerland, where she died in 1971 but not without trying to return to Spain. During her exile, she devoted herself to writing.

Eleonora d'Arborea

Stefania Carletti e Momo Zucca


Viola Gesmundo

Agli inizi dell’ XI secolo, dopo la dominazione bizantina, la Sardegna era divisa in quattro Giudicati o Regni autonomi: Torres, Arborea, Gallura e Cagliari. Ciascuno di essi era retto da proprie leggi e da un “Giudice” la cui figura era simile a quella di un sovrano dell’alto Medioevo. Una volta vinti i Saraceni, i Giudicati si trovarono inseriti nelle politiche delle città marinare di Pisa e Genova. Dopo anni di lotte tra Genova e Pisa e tra gli stessi Giudicati rimase in piedi solo il Regno d’Arborea, governato dalla dinastia dei Lacon-Serra, visconti di Bas, legati fortemente al regno d’Aragona. Correva l’anno 1347, quando Timbora di Roccabertì, catalana, diede alla luce a Molins de Rei in Catalogna una bambina di nome Eleonora, figlia del famoso giudice Mariano IV, sovrano illuminato del Giudicato d’Arborea, noto per il suo sogno di una Sardegna unita e libera. Eleonora aveva un fratello, Ugone III, e una sorella, Beatrice, con i quali, durante una serata d’estate, in tenera età, partì dal porto di Barcellona alla volta della Sardegna accompagnata dai genitori. Arrivarono al castello giudicale di Oristano e ad accogliere con grandi onori Mariano e la sua famiglia trovarono tutta la Corte. Eleonora è felice. Mossa da curiosità giovanile, attendeva di conoscere quella nuova isola e il Regno d’Arborea, terra di cui suo padre le aveva raccontato la storia e le vicende di un popolo coraggioso e orgoglioso, alleato con la Corona d’Aragona ma anche timoroso delle velleità del dominio catalano. Intorno al 1362, Eleonora ha 15 anni e talvolta la notte si sveglia all’improvviso, impaurita dalle campane di Santa Chiara che suonano a morto. I loro rintocchi si confondono con quelli provenienti da San Francesco e dalla Cattedrale di Santa Maria dove i morti e i moribondi arrivano a centinaia: ancora una volta la peste, la “morte nera” è tornata ad Oristano. Fortunatamente l’ombra oscura non varca la soglia del palazzo di Porta Mari dove l’adolescente Eleonora vive. Nel Regno di Arborea intanto la vita procede tranquilla per Eleonora e la sorella, protette dai genitori dentro le mura cittadine. Le merci locali (orzo, grano, formaggio, carne) raggiungevano i mercati lontani ed Eleonora e il padre Mariano erano amministratori previdenti, sapevano che il denaro avrebbe permesso loro di sostenere una lunga guerra contro gli Aragonesi, un tempo alleati. Mariano e il figlio Ugone rientravano dalle battaglie coperti di polvere e sangue, per abbracciare i loro affetti più cari. Ma tanti successi furono avvelenati da una profonda tragedia, la morte di Timbora, mamma di Eleonora e moglie di Mariano, che quasi rifiutava di tornare alle abitudini della vita quotidiana ora che non c’era più l’amata moglie.

La piena giovinezza di Eleonora trascorre in un’atmosfera di guerra. Il Giudicato d’Arborea ha conquistato tutta la Sardegna tranne Cagliari e Alghero, le due roccaforti aragonesi. Nel frattempo Mariano ha necessità di allearsi ai Doria di Genova e favorisce il legame che si tradurrà in matrimonio tra Eleonora e Brancaleone. L’unione tra i due è chiaramente l’esito di una volontà di alleanza politica. Mariano intanto è attratto da una forte religiosità e si impegna con fra Jacopo da Piacenza a partire di persona per le crociate in Terrasanta con un esercito per 10 anni. Mariano arriva a Cagliari e assedia la città poco prima di partire per la Terrasanta, ma viene colpito e trasportato ad Oristano in fin di vita. Morirà da grande re col suo sogno di indipendenza lasciando la città in una coltre di desolazione e tristezza. Ugone succedette al padre e, come era naturale, Eleonora si sposò nel 1376 con Brancaleone Doria. La nobildonna in Sardegna si divide tra Castelgenovese, Casteldoria e la rocca di Monteleone, ma è ben informata su ciò che accade in Italia, in particolare riguardo alla guerra tra Genova e Venezia, e in Europa. Trepida Eleonora, teme suo fratello Ugone che, privo del carisma paterno, è troppo severo con le sue leggi, troppo accentratore e poco propenso al contatto cordiale col popolo. Nel frattempo continua la sua amicizia con Sibilla, la regina sposa del re d’Aragona Pietro IV, tanto da essere invitata alla sua cerimonia di incoronazione nel 1381. Eleonora non è la semplice moglie di un nobilotto di provincia ma dimostra una personalità di grande prestigio; è lei nella coppia l’elemento di maggiore rilevanza politica, tanto che le viene concesso di risiedere anche a Genova, libera da oneri e imposte. A dimostrazione della fama e dell'autorevolezza di Eleonora, vi è la notizia che è lei a far fidanzare il figlio Federico, ancora infante, con l’ultima figlia del doge Nicolò Blanchina. Ugone intanto continua ad amministrare il Giudicato con crudeltà ed è avido di denaro. È il 1383, Eleonora vive ora a Genova con suo figlio Federico, è notte e teme l’arrivo di una nave amica con i messaggeri di suo marito Brancaleone, ombre scure appaiono nella sua stanza. Perché Brancaleone ha fatto partire la nave con questa tempesta? La risposta giunge la notte stessa, due messaggeri da Oristano vestiti a lutto la informano che suo fratello Ugone e la figlia Benedetta sono stati assassinati da mani ignote. Senza esitare, Eleonora si fa preparare una imbarcazione robusta e quella notte stessa di bufera, con suo figlio, parte alla volta della Sardegna. Senza più discendenza da parte di Ugone, è Federico, suo figlio, a ereditare il regno di Arborea. Sbarcano in porto di primo mattino, si distinguono la macchia mediterranea, i suoni, i profumi della sua terra. La nave genovese è arrivata a destinazione ma ad accogliere la nuova sovrana vi è solo il suo amministratore: Franceschini Delbarbo. Questi racconta alla sua Signora di una Sardegna in cui regna una calma apparente, vige infatti l’anarchia e alcuni centri sono in mano alle fazioni locali.

Monumento ad Eleonora d'Arborea, Museo di Oristano. Eleonora d'Arborea Storia di una regina guerriera.

 

Nel frattempo Brancaleone parte per la Catalogna a riferire al re Pietro IV della situazione in Sardegna ed a rinnovare la sua fedeltà di vassallo, ma dovrà restare prigioniero sette lunghi anni prima di riabbracciare la moglie. In Sardegna Eleonora inizia a compiere atti da sovrana: il fidanzamento di suo figlio con la figlia del doge evidenzia una potenziale alleanza con Genova e rende difficile la posizione di Brancadoria. Eleonora invia due lettere: la prima diretta al re Pietro IV, in cui si firma Eleonora iudicissa Arboree, lamentando la ribellione di alcuni sardi “traditori” per i quali ha percorso a cavallo l’isola, sottomettendo e impadronendosi di tutto il territorio: terre e castelli già appartenuti al fratello, come le spettava per diritto ereditario. La seconda diretta alla moglie del sovrano, Sibilla, in cui la implora di intercedere col re per riportare la pace in Sardegna. Eleonora blocca la circolazione dei cittadini sardi e catalani, vuole il possesso dei tre porti di Oristano, Bosa e Castelgenovese. È un braccio di ferro con la Catalogna ma Eleonora sa che il suo esercito è molto più potente; non pare aver bisogno del consiglio del marito, si muove libera e autodeterminata; rientra poi ad Oristano nel suo palazzo giudicale. Elenora alterna il compimento di azioni guerresche, spogliandosi degli abiti femminili e indossando corazza e schinieri, galoppando di terra in terra, per costringere le popolazioni ribelli sarde e aragonesi a sottomettersi, al compimento di azioni diplomatiche, trattando con i capitani dei vari eserciti e con i castellani. In tal modo il governo provvisorio di Oristano cedette, le aprì le porte ed elesse Federico Doria nuovo giudice. Brancaleone volle condurre Eleonora a trattare e in accordo col re avrebbe voluto essere mandato in Sardegna, ma non ad Oristano bensì a Cagliari, territorio aragonese. Finalmente nel 1384 a Brancaleone viene concesso di partire per la Sardegna come ostaggio, così vuole il re Pietro, da scambiare con il molto più prezioso Federico, piccolo giudice d’Arborea. Eleonora tuttavia rifiutò: aveva solo Federico, simbolo dell’indipendenza della “nacion sardesca” e non intendeva cederlo al re d’Aragona; inviò allora due messi in Catalogna con una proposta di pace che prevedeva, oltre al rilascio del marito, il predominio degli Arborea sull’isola ma la rinuncia a tutto ciò che in 30 anni di guerra vittoriosa gli Arborensi avevano strappato al nemico. In realtà l’assenza prolungata di Brancaleone anziché indebolire Eleonora, l'aveva rafforzata. Il re Pietro IV morirà e ogni legame tra gli Aragona e gli Arborea si spezzerà; gli succederà re Joan, la pace non sarà firmata e la prigionia di Brancadoria sarà molto dura. Ma Eleonora vuole la pace ed infine la pace viene firmata dai rappresentanti del popolo sardo (Eleonora e il giovane Federico) e dai Catalani, davanti ai giurati nella chiesa di San Francesco d’Oristano nel 1388. I Catalani attesero la consegna di tutte le terre conquistate da Mariano e l’umiliazione della consegna degli ostaggi prima di liberare nel 1390 Brancaleone Doria, il quale riuscì a far ritornare in mano arborense quasi tutti i territori ceduti da Eleonora col Trattato del 1388. Eleonora rinnovò la Carta del regno d’Arborea, già redatta ai tempi di Mariano IV; scelse per la scrittura della Carta de Logu il volgare arborense, come aveva già fatto il padre. Con questo testo la giudicessa fu all’avanguardia con i tempi in difesa dei diritti delle donne, dei bambini e delle bambine. Centosessantatre articoli in cui, con dovizia di particolari ma soprattutto con la diligenza tipica della “buona madre di famiglia”, Eleonora pensa al suo popolo e, nel disciplinarne gli aspetti della vita quotidiana, lo tutela: disciplina l’agricoltura, la pastorizia, il commercio delle pelli animali, il commercio dei cavalli, la caccia e la gestione della selvaggina, la caccia con il falcone. Regola inoltre le offese e le ingiurie, i gesti sconvenienti prevedendo le relative sanzioni.

Siamo nel 1392, Eleonora tutela tutti e tutte, non è crudele come suo fratello Ugone, non discrimina alcuna persona, protegge i deboli, le donne, bambini/e. Tra i maleficios erano previsti, tra gli altri, lo stupro, l’adulterio e il concubinaggio. Eleonora predispose che, per il reato di adulterio, se il marito lo tollerava, la donna sposata poteva andare a convivere con un altro senza essere perseguita d’ufficio. Per lo stupro, l’articolo 21 stabiliva due principi straordinariamente avanzati anche rispetto alla nostra legislazione moderna. Il primo afferma che «il matrimonio viene considerato riparatore solo se è di gradimento della donna offesa» e comunque non estingue completamente il reato perché il colpevole deve ugualmente pagare allo Stato una multa di 200 lire (pari a 20 cavalli da battaglia), oppure subire il taglio di un piede. Se invece la donna non lo gradisce come marito, lo stupratore deve provvedere al suo futuro, facendola sposare ad un altro che le piaccia, il che comunque non gli evita il taglio del piede che in una comunità a vocazione agricola significava non essere più abile al lavoro, invalido per sempre. Le donne decidevano personalmente il proprio destino. Il secondo principio riguarda la verginità femminile cui non si attribuisce un’importanza fondamentale. Infatti la pena è identica sia che il colpevole abbia preso con la forza una nubile, una zitella o una fidanzata. Lo stupro di una donna maritata costava ben 500 lire di multa o il taglio del piede. Per il reato di omicidio di un suddito qualsiasi la Carta prevede la pena di morte e non potrà essere evitata pagando una somma. Pena di morte che è contemplata anche per il reato di lesa maestà e danneggiamento del giudice o dei suoi familiari. L’Europa, in questo scorcio di secolo XIV, venne illuminata da una grande donna, sovrana d’Arborea, una giudicessa che riunì sotto un'unica bandiera le diverse popolazioni sarde che si riconobbero come nazione lottando contro il dominio aragonese. Il suo codice di leggi rimase in vigore per 435 anni fino al 1827.

Traduzione francese
Joelle Rampacci

Au début du XIe siècle, après la domination byzantine, la Sardaigne est divisée en quatre Judicats ou royaumes autonomes: Torres, Arborea, Gallura et Cagliari. Chacun d'eux est régi par ses propres lois et par un «juge» dont la figure ressemble à celle d'un souverain du début du Moyen Âge. Une fois les Sarrasins vaincus, les Judicats se retrouvent insérés dans la politique des Républiques maritimes de Pise et de Gênes. Après des années de lutte entre Gênes et Pise et entre les Judicats, seul le Royaume d'Arborée reste debout, gouverné par la dynastie Lacon-Serra, vicomtes de Bas, fortement lié au royaume d'Aragon. En 1347, lorsque Timbora di Roccabertì, catalane, donne naissance à Molins de Rei en Catalogne, une fille nommée Éléonore fille du célèbre juge Mariano IV, souverain éclairé du Judicat d'Arborée, connu pour son rêve d'une Sardaigne unie et libre. Éléonore a un frère, Ugone III, et une sœur, Béatrice, avec qui, lors d'une soirée d'été, encore enfant, elle quitte le port de Barcelone pour la Sardaigne accompagnée de ses parents. Ils arrivent au château du Judicat d'Oristano et pour accueillir Mariano et sa famille avec les plus grands honneurs, ils y trouvent toute la Cour. Éléonore est heureuse. Poussée par la curiosité juvénile, elle attend de connaître cette nouvelle île et le royaume d'Arborée, une terre dont son père lui a raconté l'histoire et les événements d'un peuple courageux et fier, allié à la Couronne d'Aragon mais aussi effrayé des ambitions de la domination catalane. Vers 1362, Éléonore a 15 ans et parfois elle se réveille soudainement la nuit, apeurée les cloches de Santa Chiara qui sonnent le glas. Le son des cloches se mêle à ceux venant de San Francesco et de la cathédrale de Santa Maria où les morts et les mourants arrivent par centaines: une fois de plus la peste, la «mort noire» est revenue à Oristano. Heureusement, l'ombre sombre ne franchit pas le seuil du palais Porta Mari où habite l'adolescente Éléonore. Pendant ce temps, dans le royaume d'Arborea, la vie se déroule tranquillement pour Éléonore et sa sœur, protégées par leurs parents dans les remparts de la ville. Les produits locaux (orge, blé, fromage, viande) atteignent des marchés lointains et Éléonore et son père Mariano sont des administrateurs prévoyants, ils savent que l'argent leur permettra de soutenir une longue guerre contre les Aragonais, autrefois alliés. Mariano et son fils Ugone reviennent des batailles couverts de poussière et de sang, pour embrasser leurs proches. Mais leurs nombreux succès sont empoisonnés par une tragédie profonde, la mort de Timbora, la mère d'Éléonore et la femme de Mariano, ce dernier se refuse presque de revenir aux habitudes de la vie quotidienne maintenant que sa femme bien-aimée n’est plus.

Éléonore passera sa jeunesse dans une atmosphère de guerre. Le Judicat d’Arborée a conquis toute la Sardaigne à l’exception de Cagliari et d’Alghero, les deux bastions aragonais. Pendant ce temps, Mariano doit s'allier avec les Doria de Gênes et favorise le lien qui aboutira un mariage, celui entre Éléonore et Brancaleone. L'union entre les deux est clairement le résultat d'une volonté d'alliance politique. Pendant ce temps, Mariano est attiré par une forte religiosité et s'engage avec fra Jacopo da Piacenza à partir, en personne, pour les croisades en Terre Sainte avec une armée pendant 10 ans. Mariano arrive à Cagliari et assiège la ville peu de temps avant de partir pour la Terre Sainte, mais il est blessé et transporté à Oristano mourant. Il meurt comme un grand roi avec son rêve d'indépendance laissant la ville dans une sentiment de désolation et de tristesse. Ugone succéde naturellement à son père et Éléonore se marie en 1376 avec Brancaleone Doria. La noble dame de Sardaigne est partagée entre Castelgenovese, Casteldoria et la forteresse de Monteleone, mais elle est bien informée sur ce qui se passe en Italie, en particulier en ce qui concerne la guerre entre Gênes et Venise, et en Europe. Éléonore anxieuse, craint pour son frère Ugone qui, dépourvu du charisme paternel, est trop sévère avec ses lois, trop centralisateur et peu disposé à entrer en un contact chaleureux avec le peuple. En attendant, son amitié avec Sibylle se poursuit, la reine épouse du roi d'Aragon Pierre IV, à tel point qu'elle est invitée à sa cérémonie de couronnement en 1381. Éléonore n'est pas la simple épouse d'un noble de province mais fait preuve d'une personnalité de grand prestige; c’est elle l’élément politique plus grand et plus important du couple, à tel point qu'elle est également autorisée à résider à Gênes, sans charges ni impôts. Preuve de la renommée et de l'autorité d'Éléonore, on dit que c’est elle qui oeuvre pour les fiançailles de son fils Federico, encore enfant, avec la dernière fille du Doge Nicolò Blanchina. Pendant ce temps, Ugone continue d'administrer le Judicat avec cruauté et se démontre avide d’argent. Nous sommes en 1383, Éléonore vit maintenant à Gênes avec son fils Federico, il fait nuit et elle craint l'arrivée d'un navire ami avec les messagers de son mari Brancaleone, des ombres sombres apparaissent dans sa chambre. Pourquoi Brancaleone a-t-il fait partir le navire avec cette tempête? La réponse arrive le soir même, deux messagers d'Oristano vêtus de deuil l'informent que son frère Ugone et sa fille Benedetta ont été assassinés par des mains inconnues. Sans hésitation, Éléonore prépare un bateau robuste et durant cette même nuit orageuse, avec son fils, part pour la Sardaigne. N'ayant plus de descendants d'Ugone, Federico, son fils, hérite du royaume d'Arborea. Ils débarquent dans le port au petit matin et elle revoit le maquis méditerranéen, les bruits, les senteurs de sa terre. Le navire génois est arrivé à destination mais seul son administrateur, Franceschini Delbarbo, accueille le nouveau souverain. Il raconte à sa Dame d’une Sardaigne où règne un calme apparent, en réalité l'anarchie prévaut et certaines cités sont aux mains de factions locales.

Monument à Eleonora d'Arborea, Musée d'Oristano. Eleonora d'Arborea Histoire d'une reine guerrière.

 

Entre-temps, Brancaleone part en Catalogne pour rapporter la situation de la Sardaigne au roi Pierre IV et renouveler sa loyauté de vassal, mais il devra rester prisonnier pendant sept longues années avant de serrer à nouveau sa femme dans ses bras. En Sardaigne, Éléonore commence à accomplir des actes de souveraine: l'engagement de son fils avec la fille du doge met en évidence une alliance potentielle avec Gênes et rend la position de Brancadoria difficile. Éléonore envoie deux lettres: la première adressée au roi Pierre IV, dans laquelle Eleonora iudicissa Arboree est signée, déplorant la rébellion de certains «traîtres» sardes pour lesquels elle a parcouru l'île à cheval, soumettant et prenant possession de tout le territoire: des terres et des châteaux appartenant déjà à son frère, lui revenant donc par droit héréditaire. La seconde s'adressait à l'épouse du souverain, Sibylle, dans laquelle elle la supplie d'intercéder auprès du roi pour rétablir la paix en Sardaigne. Éléonore bloque la circulation des citoyens sardes et catalans, elle veut la possession des trois ports d'Oristano, Bosa et Castelgenovese. C'est un bras de fer avec la Catalogne mais Eleonora sait que son armée est beaucoup plus puissante; elle ne semble pas avoir besoin des conseils de son mari, elle se déplace libre et autodéterminée; elle retourne ensuite à Oristano dans son palais du Judicat. Éléonore alterne la conduite d'actions guerrières, se déshabillant des habits féminins et portant l’armure et des cretons, galopant de terre en terre, pour forcer les populations rebelles sardes et aragonaises à se soumettre, à l'accomplissement d’actions diplomatiques, en négociant avec les capitaines des différentes armées et avec les châtelains. À tel point que le gouvernement provisoire d'Oristano cède, ouvre ses portes et élit Federico Doria comme nouveau juge. Brancaleone veut amener Éléonore à négocier et en accord avec le roi, il aimerait être envoyé en Sardaigne, non pas à Oristano mais à Cagliari, un territoire aragonais. Enfin, en 1384, Brancaleone est autorisé à partir pour la Sardaigne en otage, comme le veut le roi Pierre, pour être échangé avec le beaucoup plus précieux Federico, le petit juge d’Arborée. Mais Éléonore refuse: elle n'a que Federico, symbole de l'indépendance de la «nacion sardesca» et n'entend pas le vendre au roi d'Aragon; alors elle envoie deux messagers en Catalogne avec une proposition de paix qui comprend, en plus de la libération de son mari, la domination de l'Arborée sur l'île mais aussi le renoncement à tout ce qu'en 30 ans de guerre victorieuse les Arboréens avaient arraché à l'ennemi. En réalité, l'absence prolongée de Brancaleone, plutôt qu’affaiblir Éléonore la renforce. Le roi Pietro IV meurt et tout lien entre l'Aragon et l'Arborée est rompu; Le roi Joan lui succédera, la paix ne sera pas signée et l'emprisonnement de Brancadoria sera très dur. Mais Éléonore veut la paix et enfin la paix est signée par les représentants du peuple sarde (Éléonore et le jeune Federico) et par les Catalans, devant les jurés de l'église de San Francesco d'Oristano en 1388. Les Catalans attendent la remise de toutes les terres conquises par Mariano et l'humiliation de la livraison des otages avant de libérer Brancaleone Doria en 1390, qui réussira à reprendre presque tous les territoires cédés par Éléonore avec le traité de 1388 pour les Arboréens. Éléonore renouvelle la Charte du royaume d'Arborea déjà rédigé à l'époque de Marian IV; elle choisit la langue autochtone d’Arborée pour écrire la Carta de Logu, comme son père l'avait déjà fait. Avec ce texte, la Juge est à l'avant-garde sur les temps pour la défense des droits des femmes, des enfants. Cent soixante-trois articles dans lesquels, avec beaucoup de détails mais surtout avec le zèle typique d’une «bonne mère de famille», Éléonore pense à son peuple et, en discipline les aspects de la vie quotidienne, le protège: elle discipline l'agriculture, l'élevage, le commerce de peaux d'animaux, le commerce des chevaux, la chasse et la gestion du gibier, la chasse aux faucons. Elle réglemente également les offenses et les outrages, les gestes inappropriés en prévoyant les sanctions relatives.

Nous sommes en 1392, Éléonore protège tous et toutes, elle n'est pas cruelle comme son frère Ugone, elle ne discrimine personne, elle protège les faibles, les femmes, les enfants. Parmi les maleficios, étaient prévus, entre autres, le viol, l'adultère et le concubinage. Éléonore a fait en sorte que, pour le crime d'adultère, si son mari le tolére, l'épouse puisse aller vivre avec un autre sans être poursuivie d'office. Pour le viol, l'article 21 établit deux principes extraordinairement avancés, même en ce qui concerne notre législation moderne. La première stipule que “le mariage n'est considéré comme réparateur que si la femme offensée le consent ” et toutefois, le crime ne s’éteint pas complètement car le coupable doit également payer à l'État une amende de 200 lires (soit 20 chevaux de bataille), ou subir la coupe d'un pied. Si, au contraire, la femme ne l’accepte pas comme mari, le violeur doit pourvoir à son avenir, l’aider à épouser quelqu'un d'autre qu'elle approuve, ce qui n’empêche pas, en aucun cas, la coupe du pied, ce qui dans une communauté agricole signifie ne plus pouvoir travailler, invalide pour toujours. Les femmes décident elles-mêmes de leur propre sort. Le deuxième principe concerne la virginité féminine à laquelle on n’attribue pas vraiment une importance fondamentale. En fait, la punition est la même que le coupable ait pris par la force une jeune fille vierge, une femme mariée ou pas. Le viol d'une femme mariée coûte 500 lires d'amende ou la coupure du pied. Pour le crime d'assassiner un sujet quelconque, la Charte prévoit la peine de mort et ne peut être évitée en payant une somme. Peine de mort qui est également envisagée pour le crime de trahison et de préjudice au juge ou à sa famille. L'Europe, en cette fin du XIVe siècle, est illuminée par une grande femme, la souveraine d'Arborée, juge qui réunit sous un même drapeau les différentes populations sardes qui se reconnaissent comme une nation luttant contre la domination aragonaise. Son code de lois est resté en vigueur pendant 435 ans jusqu'en 1827.

Traduzione inglese
Syd Stapleton

At the beginning of the 11th century, after the Byzantine domination, Sardinia was divided into four Giudicati or autonomous juridictions: Torres, Arborea, Gallura and Cagliari. Each of them was governed by its own laws and by a "Judge" whose powers were similar to those of a ruler in the early Middle Ages. Once the Saracens were defeated, the Giudicati found themselves enmeshed in the politics of the maritime cities of Pisa and Genoa. After years of struggles between Genoa and Pisa and among the Giudicati, only the Kingdom of Arborea remained standing, governed by the Lacon-Serra dynasty, viscounts of Bas, strongly linked to the kingdom of Aragon. It was the year 1347 in Molins de Rei in Catalonia when Timbora di Roccabertì, a Catalan, gave birth to a girl named Eleonora, daughter of the famous Judge Mariano IV. He was the enlightened ruler of the Giudicato of Arborea, known for his dream of a free and united Sardinia. Eleonora had a brother, Ugone III, and a sister, Beatrice. She was at an early age when, one summer evening, she left the port of Barcelona for Sardinia, accompanied by her parents and her siblings. When they arrived at the Giudicale castle of Oristano they found the entire court turned out to welcome Mariano and his family with great honors. Eleonora was delighted. Moved by youthful curiosity, she was anxious to get to know the new island and the Kingdom of Arborea. Her father had told her many stories about the courageous and proud people, allied with the Crown of Aragon, but who were also fearful of the ambitions of the Aragonese reign. In 1362, when Eleonora was 15 years old, she sometimes suddenly woke up at night, frightened by the tolling of the bells of Santa Chiara. Their ringing mingled with the sounds of bells in San Francesco and the Cathedral of Santa Maria where the dead and dying were arriving by the hundreds. The bubonic plague, the "black death", had returned to Oristano. Fortunately, the dark shadow does not cross the threshold of the Porta Mari building where the teenage Eleonora lived. Life proceeded quietly in the Kingdom of Arborea for Eleonora and her sister, protected by their parents within the city walls. Local goods (barley, wheat, cheese, and meat) reached distant markets and Eleonora and her father Mariano were capable administrators. They knew that money would allow them to sustain a long war against the Aragonese, who once had been allies. Mariano and his son Ugone returned from battles covered in dust and blood, to embrace their beloved family. But their many successes were poisoned by a profound tragedy, the death of Timbora, Eleonora's mother and Mariano's wife. Mariano almost refused to return to the habits of daily life now that his beloved wife was gone.

Eleonora's entire youth passed in an atmosphere of war. The Giudicato d’Arborea conquered all of Sardinia except Cagliari and Alghero, the two Aragonese strongholds. Meanwhile Mariano allied himself with the Dorias of Genoa and fostered the bond that resulted in the marriage between Eleonora and Brancaleone. The union between the two was clearly the result of a desire for political alliance. Meanwhile, Mariano was motivated by a strong religiosity, to commit himself, with Fra Jacopo da Piacenza, to leave with an army for the crusades in the Holy Land for 10 years. Mariano arrived in Cagliari and besieged the city shortly before he intended to leave for the Holy Land, but he was wounded and transported to Oristano dying. He died as a great king, with his dream of independence, and left the city in a miasma of desolation and sadness. Ugone succeeded his father and, as was natural in that time, Eleonora married in 1376, to Brancaleone Doria. As a noblewoman in Sardinia, she was divided between Castelgenovese, Casteldoria and the fortress of Monteleone, but she was also well informed about what was happening in Italy, in particular regarding the war between Genoa and Venice, and in Europe. Eleonora anxiously feared that her brother Ugone who, lacking the paternal charisma, was too severe with his laws, too centralizing and unwilling to maintain cordial contact with the people. In the meantime, her friendship with Sibyl, the queen wife of the King of Aragon, Pedro IV, continued - so much so that she was invited to his coronation ceremony in 1381. Eleonora was not the simple wife of a provincial noble but demonstrated a personality of great force. In her marriage, she was the element of greatest political importance, so much so that she was also allowed to reside in Genoa, free from burdens and taxes. As evidence of Eleonora's fame and authority, there was also the fact that she was the one to arrange for her son Federico, still an infant, to be engaged to the last daughter of Doge Nicolò Blanchina. Meanwhile, Ugone continued to administer the Giudicato with cruelty and monetary greed. In 1383, Eleonora lived in Genoa with her son Federico. One night she was frightened by the arrival of a friendly ship with her husband Brancaleone's messengers, and dark shadows appeared in her room. Why had Brancaleone sent the ship in that storm? The answer came that night. Two messengers from Oristano dressed in mourning informed her that her brother Ugone and his daughter Benedetta had been murdered by unknown hands. Without hesitation, Eleonora got a sturdy boat prepared, and that same stormy night, with her son, left for Sardinia. With no surviving descendants of Ugone, it was left for Federico, her son, to inherit the kingdom of Arborea. As they disembarked in the port in the early morning, the Mediterranean scrub, the sounds, the scents of its land stood out. The Genoese ship arrived at its destination but only an administrator, Franceschini Delbarbo, was there to welcome the new sovereign. He told his apparently calm Lady of a Sardinia that anarchy had broken out and some centers were in the hands of local factions.

Monumento ad Eleonora d'Arborea, Museo di Oristano. Eleonora d'Arborea Storia di una regina guerriera.

 

In the meantime, Brancaleone left for Catalonia to report the situation in Sardinia to King Pedro IV and to renew his loyalty as a vassal. But he was forced to remain a prisoner for seven long years before able to hug his wife again. In Sardinia Eleonora began to perform acts as a sovereign. The engagement of her son with the doge's daughter pointed to a potential alliance with Genoa and made Brancadoria's position difficult. Eleonora sent two letters. The first, addressed to King Pedro IV, was signed by Eleonora Giudicissa Arboree, lamenting the rebellion of some Sardinian "traitors", because of whom she had had to travel the island on horseback, subduing and retaking the entire territory. The lands and castles had already belonged to her brother, and were due to her by hereditary right. The second letter was directed to the king's wife, Sibilla, in which she begged her to intercede with the king to restore peace to Sardinia. Eleonora blocked the movement of Sardinian and Catalan citizens, and she wanted the possession of the three ports of Oristano, Bosa and Castelgenovese. It was a power struggle with Catalonia but Eleonora knew that her army was much more powerful. She did not seem to need the advice of her husband, she moved freely and self-determinedly. She returned to Oristano, entering in her Giudicale palace. Elenora alternated her roles, continuing to carry out of warlike actions, stripping off women's clothes and wearing armor and greaves, galloping from region to region, forcing the rebel Sardinian and Aragonese populations to submit, carrying out diplomatic actions, and negotiating with the captains of the various armies and with the local lords. In this way the provisional government of Oristano yielded, opened its doors and elected Federico Doria as new Judge. Brancaleone wanted to lead Eleonora to negotiate. In agreement with the king he wanted to be sent to Sardinia - not to Oristano but to Cagliari, an Aragonese territory. Finally, in 1384, Brancaleone was allowed to leave for Sardinia as a hostage, as King Peter wanted, to be exchanged with the much more precious Federico, the little judge of Arborea. Eleonora, however, refused. She had only Federico, the symbol of the independence of the "Sardinian nation" and did not intend to cede him to the King of Aragon. She then sent two envoys to Catalonia with a peace proposal which included, in addition to the release of her husband, the dominance of the Arborea on the island. But the proposal also required renunciation of everything that in 30 years of victorious war the Arboreans had snatched from the enemy. In fact, the prolonged absence of Brancaleone, rather than weaken Eleonora, had strengthened her. King Pedro IV then died and the links between Aragon and Arborea began to break. Pedro’s son succeeded him and became King John I. Peace was not signed and Brancadoria's imprisonment became very hard. But Eleonora wanted peace and finally peace was signed in 1388 by the representatives of the Sardinian people (Eleonora and the young Federico) and by the Catalans, before the jurors in the church of San Francesco d'Oristano. The Catalans delayed the handover of all the lands conquered by Mariano and humiliatingly held off on the delivery of hostages before finally freeing Brancaleone Doria in 1390. But Doria managed to return with almost all the territories cited by Eleonora in the Treaty of 1388 in Arborean hands. Eleonora renewed the Charter of the Kingdom of Arborea, already drawn up at the time of Mariano IV. She chose to write the Charter of Logu in common Arborean language, as did her father. With this text, the Giudicessa Eleonora was ahead of the times regarding the defense of the rights of women and children. The Charter included one hundred and sixty-three articles in which, with great attention to detail, but above all with the diligence typical of the "good mother of a family", Eleonora thought of her people and, in regard to the aspects of daily life, protected them. She prescribed rules for agriculture, farming, trade in animal skins, trade in horses, hunting and game management, and falcon hunting. The Charter also regulated offenses, insults and improper gestures by providing for sanctions.

In 1392, Eleonora protected everyone and everything. She was not cruel like her brother Ugone, she did not discriminate against any person, she protected the weak, women, and children. Among the acts specified as crimes were, among others, rape, adultery and concubinage. Eleonora arranged that, for the crime of adultery, if her husband was guilty of it, the married woman could go and live with another without being prosecuted. For rape, Article 21 established two extraordinarily advanced principles even compared to our modern legislation. The first states that "marriage is considered remedial only if it is to the liking of the offended woman" and in any case does not completely extinguish the crime because the guilty party must also pay the State a fine of 200 lire (equal to 20 battle horses), or suffer the amputation of a foot. If, on the other hand, the woman does not want the accused rapist as a husband, the rapist has to provide for her future, make it possible for her to marry someone else she likes, which in any case does not protect him from amputation of his foot - which in an agricultural economy meant no longer being able to work. Women personally decided their own fate. The second principle concerns female virginity to which fundamental importance is not attributed. In fact, the punishment for rape was to be the same whether the guilty party has victimized a maiden, a spinster or a fiancée by force. The rape of a married woman imposed a fine 500 lire or the amputation of a foot. For the crime of murdering any subject, the Charter provided for the death penalty, which could not be avoided by paying of a sum of money. The death penalty was also to be imposed for the crime of treason and for damage to the Judge or the Judge’s family. Europe, at the end of the fourteenth century, was illuminated by a great woman, the ruler of Arborea, a Judge who united under a single flag the different Sardinian populations, who recognized themselves as a nation in the process of fighting against the Aragonese domination. Her code of laws remained in effect for 435 years, until 1827.

Olympe de Gouges

Graziella Priulla


Viola Gesmundo

Si chiamava Marie Gouze ma volle cambiare il proprio nome in Olympe de Gouges, a sottolineare un’identità autodeterminata e non imposta. Visse solo 45 anni: fu la seconda donna a venir ghigliottinata durante la rivoluzione francese, dopo la regina. Il Feuille de salut public, giornale semi-ufficiale, così si compiacque della sua esecuzione: «Sembra proprio che la legge abbia punito questa cospiratrice per aver dimenticato le virtù che si addicono al suo sesso». Maria Rosa Cutrufelli ne narra la storia nel romanzo La donna che visse per un sogno. Nata in una famiglia modesta, non aveva ricevuto un’educazione formale ma firmò saggi e romanzi, pièces teatrali, opuscoli e articoli e frequentò salotti illuminati, intellettuali famosi, politici rivoluzionari. Nutrì due grandi illusioni: la prima fu quella di credere che dicendo “diritti di tutti” si intendesse tutte e tutti. La seconda che la conquistata Liberté comprendesse la possibilità di esternare le proprie idee (compresa la condanna del bagno di sangue del Terrore). Denunciò la schiavitù e la pena di morte, la monacazione e i matrimoni forzati; sostenne il divorzio, i diritti degli/delle orfani/e e delle madri nubili; propose alla Convenzione una specie di welfare ante litteram … e così facendo “si immischiò nelle cose della Repubblica”. Questa condotta “scandalosa” culminò nel 1791 con la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, nella quale affermava la necessità dell'uguaglianza tra i due sessi dei diritti civili e politici, sottratti alle donne solo in forza di un arcaico pregiudizio. Svelò così il falso universale insito nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789: quel falso che è arrivato intatto - nella storia, nel diritto, nelle consuetudini linguistiche - fino ai giorni nostri. Non solo. Olympe si rivelò modernissima, precorritrice autentica del femminismo, negando la separazione tra sfera pubblica e sfera privata e affermando l’artificialità di un’antitesi tra la “natura” maschile - vista come sociale e politica - e la “natura” femminile - relegata nella sfera intima dei sentimenti e della cura.Pretese inaudite, parole destabilizzanti da punire con la morte: questa era la convinzione comune tra gli uomini del ‘700, e ben lo sapeva la nostra protagonista. L’articolo X della sua Dichiarazione esprimeva drammaticamente un’intuizione sul destino cui sarebbe andata incontro: «Se la donna ha il diritto di salire sul patibolo, ella dovrà avere egualmente quello di salire sulla tribuna».

Une demi-révolution est une révolution ratée.

La Convenzione escluse le donne dai diritti politici e negò loro il diritto di associazione, Robespierre proibì i club femminili e chiuse i loro giornali. Il Comitato di salute pubblica nel 1793 si pronunciava così: «Le donne sono poco capaci di concezioni elevate, di meditazioni serie, e la loro naturale esaltazione sacrificherebbe sempre gli interessi dello Stato a tutto ciò che di disordinato può produrre la vivacità delle passioni». La Dichiarazione fu pubblicata in sole cinque copie, nonostante il clamore suscitato. Alcuni estratti comparvero nel 1840, la prima versione completa uscì in Francia solo nel 1986. Nel prosieguo fu chiaro quanto Olympe avesse visto giusto, e quanto la Rivoluzione avesse tradito le sue promesse per metà della popolazione (l’articolo XVI della Dichiarazione ribadiva che «La Costituzione è nulla se la maggioranza degli individui che compongono la Nazione non ha collaborato alla sua elaborazione»). Olympe era morta da otto anni quando Sylvain Maréchal, scrittore e avvocato parigino, fervente rivoluzionario vicino a Gracco Babeuf, pubblicò un Progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere. Eccone un brano: «La donna perde in avvenenza e in verecondia nella misura in cui accresce la sua cultura e il suo talento. Nella vita domestica regnano scandalo e discordia quando la moglie ne sa quanto o più del marito. Quanto deve essere faticosa la vita domestica per una donna che scrive libri, accanto a un uomo che non li sa scrivere … quanto è ridicolo e rivoltante vedere una ragazza da marito, una donna di casa o una madre di famiglia che infilano rime, imbastiscono parole e si macerano sui libri, mentre la sporcizia, il disordine e la privazione regnano in tutta la casa». D’altronde trent’anni prima Jean Jacques Rousseau, il grande filosofo che avrebbe fortemente influenzato la pedagogia del secolo a venire, aveva scritto che i doveri delle donne, da coltivare nella loro educazione fin dall’infanzia, consistono nel «piacere agli uomini ed essere loro utili, farsi amare e stimare da loro, educarli da giovani, assisterli da grandi, consigliarli, confortarli, render loro piacevole la vita». Ancor oggi le donne, che pure le devono tanto, per la maggior parte la ignorano. Al liceo e all’università io sentii magnificare Rousseau; mai udii menzionare il nome di Olympe de Gouges. A distanza di decenni ora c’è per lei qualche risicato riconoscimento nei piccoli riquadri a fondo pagina dei libri di storia, quelli intitolati alla “questione femminile”. Quelli che tanto all’esame non ti chiedono mai.

 

Traduzione francese
Marie Thérèse Peri

Elle s'appelait Marie Gouze mais a voulu changer son nom en Olympe de Gouges, pour souligner une identité autodéterminée et non imposée. Elle ne vécut que 45 ans: elle fut la deuxième femme guillotinée pendant la Révolution française, après la reine. La Feuille de salut public, journal semi-officiel, se réjouit ainsi de son exécution: "Il semble que la loi ait puni cette conspiratrice pour avoir oublié les vertus qui conviennent à son sexe." Maria Rosa Cutrufelli en raconte l'histoire dans le roman La femme qui a vécu pour un rêve. Née dans une famille modeste, elle n'avait pas reçu une éducation formelle mais signait des essais et des romans, des pièces de théâtre, des brochures et des articles et fréquentait les salons éclairés, des intellectuels célèbres, des politiciens révolutionnaires. Elle nourrissait deux grandes illusions: la première était celle de croire qu'en disant «droits de tous», nous entendions de tout le monde. La seconde était que la Liberté conquise incluait la possibilité d'extérioriser ses idées (y compris la condamnation du bain de sang de la Terreur). Elle a dénoncé l'esclavage et la peine de mort, la cérémonie de prise de voile et les mariages forcés; elle a soutenu le divorce, les droits des orphelins et des mères célibataires ; elle a proposé à la Convention une sorte d’aide sociale ante litteram… ​​et, ce faisant, «elle s'engagea dans les affaires de la République». Cette conduite «scandaleuse» culmina en 1791 avec la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne , dans laquelle elle affirmait la nécessité d'une égalité entre les deux sexes des droits civils et politiques, volés aux femmes uniquement en vertu d'un préjugé archaïque. Elle a ainsi révélé le mensonge universel inhérent à la Déclaration des droits de l'homme de 1789: ce mensonge qui est arrivé intact - dans l'histoire, dans le droit, dans les coutumes linguistiques - jusqu'à nos jours . Pas seulement. Olympe s'est avérée très moderne, un authentique précurseur du féminisme, niant la séparation entre les sphères publique et privée et comme sociale et politique - et la «nature» féminine - reléguée au domaine intime des sentiments et des soins. Des prétentions inouïes, des paroles déstabilisantes pour être puni de mort: telle était la croyance commune parmi les hommes du XVIIIe siècle, et notre protagoniste le savait bien. L'article X de sa déclaration exprimait de façon dramatique une intuition sur le sort qu'elle allait rencontrer: «Si une femme a le droit de monter à l’échafaud, elle doit aussi avoir le droit de monter à la tribune».

Une demi-révolution est une révolution ratée.

La Convention a exclu les femmes des droits politiques et leur a refusé le droit d'association, Robespierre a interdit les clubs de femmes et a fermé leurs journaux. Le Comité de santé publique en 1793 se prononça ainsi: "Les femmes sont peu capables de hautes conceptions, de méditations sérieuses, et leur exaltation naturelle sacrifierait toujours les intérêts de l'Etat à tout ce que la vivacité désordonnée des passions peut produire". La Déclaration n'a été publiée qu'en cinq exemplaires, malgré le battage médiatique. Certains extraits ont paru en 1840, la première version complète n’est sortie en France qu'en 1986. Il apparut plus tard à quel point Olympe avait vu juste, et combien la Révolution avait trahi ses promesses pour la moitié de la population (l'article XVI de la Déclaration réitère que "La Constitution est nulle si la majorité des individus qui composent la Nation n'a pas collaboré à son élaboration"). Olympe était morte depuis huit ans lorsque Sylvain Maréchal, écrivain et avocat parisien, fervent révolutionnaire proche de Gracco Babeuf, a publié un projet de loi interdisant aux femmes d'apprendre à lire. Voici un passage: «La femme perd en attractivité et en impudence dans la mesure où elle augmente sa culture et son talent. Dans la vie domestique, le scandale et la discorde règnent lorsque la femme en sait autant ou plus que son mari. Comme la vie à la maison doit être fatigante pour une femme qui écrit des livres, à côté d'un homme qui ne sait pas les écrire ... comme il est ridicule et révoltant de voir une future épouse, une femme au foyer ou une mère de famille qui enfilent des rimes, faufilent des mots et se consument sur les livres, tandis que la saleté, le désordre et la privation règnent dans toute la maison». En revanche, trente ans plus tôt Jean-Jacques Rousseau, le grand philosophe qui aurait fortement influencé la pédagogie du siècle à venir, avait écrit que les devoirs des femmes, à cultiver dans leur éducation dès l'enfance, consistent à «plaire aux hommes et leur être utiles, être aimées et estimées par eux, les éduquer comme jeunes, les aider comme adultes, les conseiller, les réconforter, leur rendre la vie agréable». Même aujourd'hui, les femmes, qui lui doivent aussi beaucoup, l'ignorent pour la plupart. Au lycée et à l'université, j'ai entendu Rousseau magnifié; Je n'ai jamais entendu parler du nom d'Olympe de Gouges. Après des décennies, il y a maintenant une certaine reconnaissance pour elle dans les petites cases au bas des livres d'histoire, ceux qui ont droit à la «question féminine». Donc, ceux qu’on ne vous demande jamais à l'examen.

Traduzione inglese
Maria Grazia Sacco

Her name was Marie Gouze, but she decided to be named Olympe de Gouges just to underline a determined and not planned identity. She died at the age of 45: After the queen, she was the second woman to be guillo-tined during the French Revolution . The " Feuille de salut public ", a semiofficial newspaper, was pleased with her execution. It seems that the law has punished such conspirator to have forgotten the virtues to be a woman. Maria Rosa Cutrufelli tells her story in the novel "La donna che visse per un sogno". She was born into a bourgeois family. She did not receive a formal education but she signed essays, novels, theatrical pieces, pamplets, and she frequented literary lounges, famous intellectuals and revolutionary politics. She had two big illusions: the first was to believe that saying "rights for everyone " meant every woman and every man. The second illusion was to believe that the attained "Libertè" meant to have the possibility to say the own ideas. She denounced the slavery and the death penalty, becoming a nun, and the forced marriage; supported the divorce, the rights of orphans and the single mothers; she proposed a kind of welfare to the convention ante litteram and in such a way she got involved in the things of the Republic. This scandalous conduct finished in 1791 with "the Declaration of the Rights of Woman and the Female Citizen", where she required equality between the civil and political rights of the two sexes, stolen from women for an archaic prejudice. So she revealed that universal fake inherent in the "Declaration of the Rights of the man" in 1789. That fake arrived in the history, in the law, in the linguistic customs up to the present day. Olympe turned out to be very modern, forerunner of femminism, denjing separation between the public and the private spheres and affirming craftmanship of an antithesis between the man and the female nature. She pretended unheard destabilizing words to be punished with death. This was the idea of the men of 700s and and our protagonist knew that. The article X of her "Declaration" expressed dramatically an intuition about the fate she would go to be meet. If the woman has the right to get on the gallows, she will have the same right to get on the tribune.

A revolution in the middle is a missed revolution.

The convention excluded women from political rights and denjed them the right of association. Robespierre forbid women's clubs and closed the newspapers. In 1793 the public health committee said: Women are not very capable about high conception and real meditations and their natural exaltation would always sacrifice the interests of the State for everything may be produced by the liveliness of passions. The "Declaration" was published only in 5 copies despite the uproar aroused. Some extracts appeared in1840. The first full version was published in France only in 1986. It was clear how Olympe was right and how the Revolution failed her promises. Olympe had been dead for 8 years when Sylvain Marèchal, a french writer and lawyer, a fervent revolutionary, close to Gracco Babeuf, published a "Bill to prohibit women for learning to read". Woman loses in attractiveness and in modesty when she improves her culture and her talent. When the wife knows more than her husband, there will be scandal and discord. The domestic life will be very tiresome when a wife writes books and her husband doesn't. However 30 years before Jean Jacques Roussean said that the duties of women are to please men, make themselves loved, educate them as young people, assist them when they are old, advise them, confort them, make life enjoyable. When I attended the University I felt magnified Rousseau; I never heard mention Olympe de Gouges. Now there is some mention for her at the bottom of the page of books of history, but those ones dealing with women's issues.

Kaiti Paparriga Kostavara

Chiara Ryan


Viola Gesmundo

Avvocata, femminista, sociologa e scrittrice, Katy Paparriga Kostavara (1930-2015) è stata una figura di spicco all’interno dei movimenti per la promozione della parità di genere, della dignità individuale, della giustizia sociale e dei diritti umani. Ha partecipato alla formazione dell’attuale realtà sociale greca ed europea. Estremamente attiva negli ambiti sociali e politici, era una donna dai molteplici talenti, dinamica e vivace, un’intellettuale con una forte bussola morale e un radicato senso del dovere, con uno sguardo stoico e vigoroso di fronte alle sofferenze, alle sfide e alle difficoltà che ha dovuto affrontare. Katy Paparriga Kostavara ha vissuto una vita piena. Lasciò la città in cui era cresciuta, Volos — nella Grecia centrale — all’età di 17 anni per andare a studiare Giurisprudenza all’Università di Atene e poi continuare gli studi di specializzazione in Diritto comparato e penale presso l’Istituto di Studi Europei di Torino e successivamente, all’Università di Jussieu a Parigi, dove ha conseguito un dottorato in Sociologia. Una volta tornata e stabilitasi, ad Atene, iniziò a lavorare con suo marito, Theodoros Kostavaras anche lui avvocato, nonché forte sostenitore del suo lavoro. Ben presto, rispetto agli standard stereotipici greci dell’epoca, iniziò a mettere in pratica tutto ciò che sosteneva, riuscendo a combinare la sua attività professionale con i propri ideali politici e sociali e al contempo, mettendo su famiglia. Come avvocata, dal 1953 fino alla fine degli anni ’90, è stata una risoluta sostenitrice del movimento delle donne, un movimento, da lei considerato rivoluzionario. Con una fama internazionale da pioniera e da radicale, Katy Paparriga Kostavara è stata un personaggio di spicco, sia nell’ambito delle rivendicazioni di parità di genere, sia in quello della giustizia sociale, in Grecia come in Europa. Concentrando i suoi sforzi nella battaglia contro le violenze di genere in tutti i suoi aspetti, qualunque essi fossero: stupro, molestie sessuali o traffico umano. Al cuore del suo femminismo scientifico vi erano le idee di “companionship” e del rispetto del genere altrui. «Noi donne» era solita dire «non siamo una categoria, siamo l’altra metà della popolazione…». Nel 1974, all’indomani della caduta della Dittatura dei Colonnelli — durata sette anni — ricoprì un ruolo decisivo per la formazione del movimento femminista, il quale, in quel periodo, dovette affrontare innumerevoli dilemmi relativi al ruolo da svolgere all’interno degli sviluppi sociali, al rapporto con la Sinistra e gli altri partiti politici. Se è vero che il movimento femminista, da un lato, dimostrava il legame tra la vita privata e quella politica, dall’altro metteva sotto i riflettori le contraddizioni tra vita pratica e teoria politica, infatti il movimento sottolineava le incoerenze tra le scelte che le femministe prendevano in ambito famigliare e l’azione collettiva delle donne. A tal riguardo Maria Stratigaki — l’intellettuale ed ex Segretaria Generale per l’uguaglianza presso il Ministero degli interni Ellenico, nonché Vice sindaca di Atene — ha affermato che Katy Paparriga Kostavara da presidente dell’ONG Movimento delle Donne Democratiche, pur mantenendo la sua autonomia di pensiero, «è andata oltre le divisioni, arrivando al cuore della questione utilizzando tutte le potenzialità delle istituzioni nazionali ed europee, adottando soluzioni globali che hanno formato gli atteggiamenti femministi e gli obiettivi personali […] La scelta della violenza di genere come oggetto primario del lavoro accademico, di ricerca e politico di Katy Paparriga Kostavara è dovuta al modo in cui si è adattata ai suoi obiettivi e alla sua pratica professionale; un adattamento che è riuscita a raggiungere con grande abilità. La violenza di genere è un aspetto fondamentale del patriarcato, nonché un ambito politico che necessitava, da decenni, un quadro legislativo adeguato. Ambito nel quale la Grecia è rimasta in ritardo rispetto ad altri paesi».

Parità inter-famigliare tra donna e uomo:

La legge 1329/1983, la quale prevedeva l’uguaglianza tra donne e uomini all’interno del nucleo famigliare e che ha comportato un radicale cambiamento dell’attitudine del Codice civile greco rispetto alle questioni familiari, è frutto del lavoro di Katy Paparriga Kostavara. La quale, grazie alle sue competenze legali, ha partecipato ai comitati di redazione legislativa sulla lotta alla violenza contro le donne (2000-2004) e su quelli sulla violenza di genere (2010-2012). Nel periodo tra il 1985 e il 1986 è stata membro del Comitato interministeriale per la preparazione e la redazione della legge sulla depenalizzazione dell’aborto. Tutti i principi, oggi considerati un diritto acquisito da parte delle giovani generazioni, hanno richiesto il duro lavoro di persone come Katy Paparriga Kostavara. Si noti, per esempio, come con la legge 1329/1983 l’uomo è passato a non essere più considerato il capofamiglia, ma i due coniugi hanno iniziato a essere considerati alla pari in termini di condivisione degli incarichi familiari, cure parentali, gestione dei beni, adulterio e divorzio. Le doti sono state abolite, i figli nati dentro e fuori il matrimonio per legge devono essere trattati in maniera equivalente e le mogli hanno mantengono il proprio cognome dopo l’unione matrimoniale. In tutti i processi più importanti di stupro avvenuti in Grecia tra il 1975 al 1999, Katy Paparriga Kostavara è stata a fianco delle vittime, lavorando pro bono come avvocato difensore. A riguardo di ciò dichiarò: «Solo nei processi di stupro la vittima ha bisogno di essere difesa per far condannare il suo stupratore. Negli altri procedimenti penali, sono solo gli imputati che devono difendersi». Katy Paparriga Kostavara è stata un membro fondante dell’Associazione greca delle donne giuriste, della Rete greca per combattere la violenza maschile contro le donne e socia dell’Associazione delle donne scientifiche greche. Era anche a capo dell’Osservatorio nazionale greco contro la violenza sulle donne e ha redatto il primo rapporto nazionale su tale argomento. Altrettanto importanti sono state le sue attività europee. È stata membro fondatore della European Women’s Lobby (EWL) con sede a Bruxelles, membro del Consiglio di Amministrazione (1990-2005) e Presidente della sezione greca, negli anni 90’ è diventata socia della sezione greca del Forum Europeo delle Femministe Socialiste. Ha lavorato presso il Consiglio d’Europa per diversi anni in qualità di esperta nazionale sulla violenza contro le donne e al contempo, ha partecipato al Comitato di ricerca dell’Unione Europea sulle molestie sessuali sul posto di lavoro. Ha redatto una serie di articoli in pubblicazioni collettive, tra cui Politiche di uguaglianza di genere (2008), La globalizzazione e il suo impatto sulle donne (2002), Violenza contro le donne — tolleranza zero (1999). Ha scritto anche per riviste, così come per la stampa greca e quella straniera, su temi di uguaglianza delle donne e su questioni giuridiche e sociali. Nel 2007 è uscito il suo libro Stupro. Il crimine, il processo e le percezioni sociali, frutto delle sue esperienze acquisite in qualità di avvocata, femminista e scrittrice. Tutti aspetti della sua vita che sono confluiti gli uni negli altri. A riguardo, l’accademica Niki Kaltsogia Tournaviti, si è espressa dicendo «Il libro di Katy Paparriga Kostavara è un importante contributo alla teoria femminista sulla posizione delle donne, perché mette in evidenza in modo specifico quei valori presenti nella nostra cultura che perpetuano il dominio aggressivo degli uomini sulle donne, la cui forma più estrema e ripugnante è lo stupro. Attraverso un’analisi approfondita degli attori coinvolti in quattro processi emblematici di stupro (che sono stati processati davanti a tribunali greci), Katy Paparriga Kostavara sfata i miti che esprimono i valori e le istituzioni della nostra cultura; miti che sono al servizio della conservazione e della riproduzione dell’ideologia sociale, su cui poggia anche l’ideologia dello stupro. Tuttavia, si tratta di valori che le donne hanno interiorizzato attraverso i fattori di socializzazione: famiglia, scuola assieme ad altri. Lei rovescia il mito della virilità che include la violenza maschile; il mito della femminilità, il quale è usato per giustificare e perpetuare lo status sociale e psicologico delle donne in una posizione inferiore, e infine il mito della sessualità, che ha sviluppato un codice etico a doppio taglio, permettendo agli uomini di fare ciò che alle donne è vietato»

Katy Paparriga Kostavara fondamentalmente credeva che la società potesse essere cambiata e trasformata tramite l’educazione. Con questa finalità ha organizzato numerosi corsi, insegnando alla Scuola Nazionale di Amministrazione Pubblica per formare professionisti, così da dare loro gli strumenti necessari per occuparsi delle vittime di violenza. Tra i suoi studenti si annoverano avvocati, ufficiali pubblici, giudici, pubblici ministeri, poliziotti, psicologi, dottori e proprietari di piccole e medie imprese, in relazione al ruolo della paternità nel contesto del “miglioramento della qualità della vita” attraverso la “cooperazione di genere in ambiti famigliari lavorativi”. Persona straordinariamente modesta, lavorò instancabilmente con grande vitalità, dinamismo e determinazione con l’intento di liberare le donne. Era questa la sua unica ambizione. Non ha mai utilizzato l’immensa quantità di lavoro svolto per cercare posizioni di potere o di ricchezza, ha sempre rifiutato di entrare in politica, anche se veniva corteggiata da un cospicuo numero di partiti politici. Diceva «se entri in un partito devi seguire la sua linea» e lei preferiva essere indipendente. È sempre stata una combattente. Durante l’occupazione nazista greca, la giovane Katy superava le linee nemiche nascondendo bombe dentro al suo cesto di vimini, e messaggi segreti per i partigiani, scritti sulla carta delle sigarette, che nascondeva tra i suoi ricci. «Non ho mai provato paura». Era questa la frase che la caratterizzava, anche quando le fu diagnosticato nel 1974, la prima delle quattro volte, un tumore. «Può aspettare» disse «Ho tre figli da crescere… Ho molto da fare».

Al momento della sua morte, se pur afflitta da straziante dolore, era in pieno possesso delle sue facoltà cognitive ed era sempre aggiornata sugli sviluppi politici e sociali del suo paese ed esteri. Con il suo sorriso, la sua cortesia, il suo grande cuore — e leggendo fino all’ultimo suo minuto — ha lasciato in eredità a tutti noi le sue ultime parole: «Non so come rinunciare».

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

L'avocate, féministe, sociologue et écrivaine Katy Paparriga -Kostavara (1930 - 2015) était une figure de proue des mouvements pour la promotion de l'égalité des sexes, de la dignité individuelle, de la justice sociale et des droits de l'homme. Elle a participé à la formation de la réalité sociale actuelle grecque et européenne. Extrêmement active dans les sphères sociales et politiques, elle était une femme aux multiples talents, dynamique et vivante, une intellectuelle avec une forte boussole morale et un sens du devoir profondément enraciné, avec un regard stoïque et vigoureux face à la souffrance, aux défis et difficultés auxquelles elle a dû faire face. Katy Paparriga - Kostavara a vécu une vie bien remplie. Elle a quitté la ville où elle avait grandi, Volos - dans le centre de la Grèce - à l'âge de 17 ans pour aller étudier le droit à l'Université d'Athènes puis poursuivre ses études de troisième cycle en droit comparé et pénal à l'Institut d'études européennes de Turin. et plus tard, à l'Université de Jussieu à Paris, où elle a obtenu un doctorat en sociologie. Une fois revenue et installée à Athènes, elle a commencé à travailler avec son mari, Theodoros Kostavaras, qui était également avocat et un fervent défenseur de son travail. Bientôt, par rapport aux normes grecques stéréotypées de l’époque, elle a commencé à mettre en pratique tout ce qu'elle soutenait, parvenant à combiner son activité professionnelle avec ses propres idéaux politiques et sociaux et en même temps à fonder une famille. Comme avocate, de 1953 à la fin des années 90, elle a été une ardente partisane du mouvement des femmes, un mouvement qu'elle considérait comme révolutionnaire. Avec une réputation internationale de pionnière et de radicale, Katy Paparriga Kostavara a été une figure de proue, tant dans le domaine des revendications d'égalité hommes-femmes que dans celui de la justice sociale, en Grèce comme en Europe. En focalisant ses efforts sur la lutte contre la violence fondée sur le genre sous tous ses aspects, quels qu'ils soient: viol, harcèlement sexuel ou traite des êtres humains. Au cœur de son féminisme scientifique se trouvaient les idées de “companionship”(camaraderie) et de respect du genre d’autrui. "Nous [les femmes]”, disait-elle souvent "nous ne sommes pas une catégorie, nous sommes l'autre moitié de la population ...". En 1974, au lendemain de la chute de la dictature des colonels - qui dura sept ans - elle joua un rôle décisif dans la formation du mouvement féministe qui, à cette époque, dût faire face à d'innombrables dilemmes liés au rôle à jouer dans les développements sociaux, à la relation avec la gauche et les autres partis politiques. S'il est vrai que le mouvement féministe, d'une part, a démontré le lien entre vie privée et politique, d'autre part il a mis en évidence les contradictions entre vie pratique et théorie politique, en fait le mouvement a mis l'accent sur les incohérences entre les choix que les féministes prenaient dans leur vie familiale et l'action collective des femmes. À cet égard, Maria Stratigaki, - l'intellectuelle et exsecrétaire générale pour l'égalité au ministère hellénique de l'intérieur, ainsi que l'adjointe au maire d'Athènes -, a déclaré que Katy Paparriga-Kostavara en tant que présidente de l'ONG Mouvement des femmes démocrates, tout en conservant son autonomie de pensée, "est allée au-delà des divisions, allant au cœur de la question en utilisant tout le potentiel des institutions nationales et européennes, en adoptant des solutions globales qui ont façonné les attitudes féministes et les objectifs personnels [...] Le choix de la violence fondée sur le genre comme objet principal de son travail universitaire, de recherche et politique de Katy Paparriga-Kostavara est dû à la façon dont elle s'est adaptée à ses objectifs et à sa pratique professionnelle; une adaptation qu'elle a réussi à réaliser avec une grande habileté. La violence sexiste ... est un aspect fondamental du patriarcat, ainsi qu'une sphère politique qui avait besoin, pendant des décennies, d'un cadre législatif adéquat. Domaine dans lequel la Grèce a pris du retard par rapport aux autres pays.“

Égalité intra-familiale entre les femmes et les hommes:

La loi 1329/1983, qui prévoyait l'égalité entre les femmes et les hommes au sein du noyau familial et qui a conduit à un changement radical d'attitude du Code civil grec à l'égard des questions familiales, est le fruit du travail de Katy Paparriga - Kostavara. Grâce à ses compétences juridiques, elle a participé à des comités de rédaction législative sur la lutte contre la violence à l'égard des femmes (2000 - 2004) et sur ceux sur la violence de genre (2010-2012). Entre 1985 et 1986, elle a été membre du Comité interministériel pour la préparation et la rédaction de la loi sur la dépénalisation de l'avortement. Tous les principes, désormais considérés comme un droit acquis par la jeune génération, ont nécessité le travail acharné de personnes comme Katy Paparriga - Kostavara. Il convient de noter, par exemple, comment avec la loi 1329/1983 l'homme est passé pour ne plus être considéré comme le chef de famille, mais les deux époux ont commencé à être considérés comme égaux en termes de partage des tâches familiales, de soins parentaux, de gestion des biens, adultère et divorce. La dot a été abolie, les enfants nés dans et hors du mariage doivent être traités de manière équivalente par la loi et les épouses conservent leur propre nom après le mariage. Dans tous les grands procès pour viol qui ont eu lieu en Grèce entre 1975 et 1999, Katy Paparriga-Kostavara s'est tenue aux côtés des victimes, bénévolement en tant qu'avocate de la défense. À ce propos, elle a déclaré: «Ce n'est que dans les procès pour viol que la victime doit être défendue pour faire condamner son violeur. Dans les autres procédures pénales, seul l'accusé doit se défendre ». Katy Paparriga -Kostavara était membre fondateur de l'Association grecque des femmes juristes, du Réseau grec pour la lutte contre la violence masculine à l'égard des femmes et membre de l'Association des femmes scientifiques grecques. Elle a également dirigé l'Observatoire national grec contre la violence à l'égard des femmes et a rédigé le premier rapport national sur ce sujet. Ses activités européennes ont été tout aussi importantes. Elle a été membre fondatrice du European Women's Lobby (EWL) ( Lobby européen des femmes (LEF) ) basé à Bruxelles, membre du conseil d'administration (1990-2005) et présidente de la section grecque, dans les années 90, elle est devenue membre de la section grecque du Forum européen des féministes socialistes. Elle a travaillé au Conseil de l'Europe pendant plusieurs années en tant qu'experte nationale sur la violence à l'égard des femmes et en même temps, elle a participé au comité de recherche de l'Union européenne sur le harcèlement sexuel sur le lieu de travail. Elle a écrit un certain nombre d'articles dans des publications collectives, notamment «la politique sur l’égalité des sexes» (2008), «la globalisation et l’impact sur les femmes» (2002), «La violence contre les femmes - Tolérance Zéro» (1999). Elle a également écrit pour des magazines, ainsi que pour la presse grecque et étrangère, sur des questions d'égalité des femmes et sur des questions juridiques et sociales. En 2007, son livre «Viol. Le crime, le procès et les perceptions sociales », fruit de ses expériences en tant qu'avocate, féministe et écrivaine. Toutes étant des aspects de sa vie qui se sont enchainés les uns aux autres. À cet égard, l’universitaire Niki Kaltsogia - Tournaviti, s’est exprimée en disant: «Le livre de Katy Paparriga - Kostavara est une contribution importante à la théorie féministe sur la position des femmes, car il met spécifiquement en évidence les valeurs présentes dans notre culture qui perpétuent la domination agressive des hommes sur les femmes, dont la forme la plus extrême et la plus répugnante est le viol. À travers une analyse approfondie des acteurs impliqués dans quatre procès emblématiques pour viol (qui ont été jugés devant les tribunaux grecs), Katy Paparriga - Kostavara dissipe les mythes qui expriment les valeurs et les institutions de notre culture; mythes qui sont au service de la préservation et de la reproduction de l'idéologie sociale, sur laquelle se fonde également l'idéologie du viol. Cependant, ce sont des valeurs que les femmes ont intériorisées à travers les facteurs de socialisation: la famille, l'école et d’autres encore. Elle [Katy Paparriga - Kostavara] renverse le mythe de la virilité qui inclut la violence masculine; le mythe de la féminité, qui sert à justifier et perpétuer le statut social et psychologique des femmes en position inférieure, et enfin le mythe de la sexualité, qui a développé un code d'éthique à double tranchant, permettant aux hommes de faire ce qui est interdit aux femmes».

Katy Paparriga - Kostavara croyait fondamentalement que la société pouvait être changée et transformée grâce à l'éducation. Dans ce but, elle a organisé de nombreux cours, enseignant à l’École Nationale d'Administration Publique pour former des professionnels, afin de leur donner les outils nécessaires pour faire face aux victimes de violence. Ses étudiants comprenaient des avocats, des fonctionnaires, des juges, des procureurs, des policiers, des psychologues, des médecins et des propriétaires de petites et moyennes entreprises, en relation avec le rôle de la paternité dans le contexte de ”l’amélioration de la qualité de vie" grâce à la “coopération des genres dans dans le travail familial". Personne extraordinairement modeste, elle a travaillé sans relâche avec une grande vitalité, dynamisme et détermination dans le but de libérer les femmes. C'était sa seule ambition. Elle n'a jamais utilisés immense travail accompli pour accéder à des postes de pouvoir ou de richesse, elle a toujours refusé d'entrer en politique, même si elle a été courtisée par un grand nombre de partis politiques. Elle a dit "si vous vous joignez à un parti, vous devez suivre sa ligne" et elle a préféré être indépendante. Elle a toujours été une combattante. Pendant l'occupation nazie grecque, la jeune Katy Paparriga - Kostavara a franchi les lignes ennemies en cachant des bombes dans son panier en osier, et des messages secrets pour les partisans, écrits sur du papier à cigarette, qu'elle cachait dans ses boucles. «Je n'ai jamais eu peur». C'était la phrase qui la caractérisait, même lorsqu'elle a reçu un diagnostic de cancer en 1974, la première des quatre fois. "Cela peut attendre", a-t-elle dit. "J'ai trois enfants à élever ... J'ai beaucoup à faire.”

Au moment de sa mort, bien qu'affligée d'une douleur atroce, elle était en pleine possession de ses facultés cognitives et était toujours au courant des développements politiques et sociaux de son pays et à l'étranger. Avec son sourire, sa courtoisie, son grand cœur - et sa lecture jusqu'à sa dernière minute - elle nous a légué à tous ses derniers mots: "Je ne sais pas comment abandonner".

Traduzione inglese
John O’ Shea

Feminist lawyer, sociologist and writer Katy Paparriga -Kostavara (1930 - 2015) was a leading figure in the movement for the promotion of gender equality, individual dignity, social justice and human rights. She helped shape the current social reality of both Greece and Europe. A woman of diverse talents, extremely active in social and political terms, dynamic, effusive, intellectual, with a strong moral compass and deeply ingrained sense of duty, a stoic outlook and vigour in the face of the suffering, trials and tribulations she endured, she lived a full life in every sense. Having grown up in the city of Volos in Central Greece, she left at the age of 17 to go to study law at the University of Athens. She continued her postgraduate studies in comparative and criminal law at the Institute of European Studies in Turin and received her doctorate in sociology from the University of Jussieu, Paris. She then settled in Athens and worked with her husband Theodoros Kostavaras, also a lawyer, who was a staunch supporter of her work. Very early on by Greek standards of that age, she moved beyond divisive stereotypes and began putting into practice everything she was advocating, combining her professional, political and social activities while also starting a family. As a trial lawyer from 1953 to the end of the 1990s, she was a firm supporter of the women's movement; a movement she considered to be revolutionary. A radical and pioneer of international repute, she was a leading figure in demanding equality for women and social justice in Greece and Europe; one of her key focuses was combating gender violence in all its aspects, be it rape, sexual harassment, domestic violence, or human trafficking. At the heart of Katy Paparriga - Kostavara’s scientific feminism lies the idea of companionship and of one gender respecting the other. She would often use the phrase, “We [women] are not a category. We’re half the population...”. After the fall of the seven-year dictatorship of the Colonels in 1974 in Greece, she played a decisive role in the development of the feminist movement. It had to face numerous dilemmas about what role it was to play in social developments, its relationship with the Left and with political parties. While the movement, on the one hand, highlighted the unity between the political and the personal, it often exacerbated the contradictions between theory and practice, intensifying the contradictions between the family choices made by feminists and collective action/awareness raising among women. Maria Stratigaki, academic, former General Secretary for Equality and Deputy Mayor of Athens, pointed out that, in response to all that, as president of the autonomous NGO, the Movement of Democratic Women, for a number of years, Katy Paparriga-Kostavara, while retaining her autonomy of thinking, “went beyond the divisions, got to the heart of the issue, utilised all the potential of national and European institutions, adopting comprehensive solutions which shape feminist attitudes and personal goals”. She added: “The choice of gender-based violence as the primary object of Katy Paparriga-Kostavara’s scientific, research and political work is due to how it fitted into her own objectives and professional practice; a fit she managed to achieve with great skill. Gender violence...is a flagship feature of the patriarchy, as well as a policy area in which the appropriate legislative framework had been long overdue for decades, and Greece lagged far behind other countries".

Women and men equal within the family:

The radical amendment to how the Greek Civil Code regulated family matters brought about by Law 1329/1983, which provided for equality between women and men within the family, bears the hallmark of Katy Paparriga - Kostavara. As an expert she also participated in the legislative drafting committees on combating violence against women (2000 - 2004) and gender violence (2010 -2012). She was also a member of the Interministerial Committee for the preparation and drafting of the law on the decriminalisation of abortion (1985-1986). Everything that is now considered an acquired right by younger generations of women took the hard work of people like Katy Paparriga - Kostavara to ensure it became something self-evident. Note that, among other things, under Law 1329/1983 the man ceased to be considered to be the head of the family, the two spouses were considered to be equal and on a par in terms of sharing family burdens, parental care, managing assets, adultery and divorce. Dowries were abolished. Children born inside and outside of wedlock were treated as equivalent and the wife got to keep her own surname after marriage. Katy Paparriga -Kostavara served pro bono as defence counsel in all important rape trials in Greece from 1975 to 1999, at the side of the women victims. When no one was undertaking to defend them, she said, “Only in rape trials does the victim needs to be defended so that she can get her rapist convicted. In other criminal proceedings, it is only the defendants who need to defend themselves”. She was a founding member of the Greek Women Jurists Association, a member of the Greek Women Scientists Association, a founding member of the Greek Network to Combat Male Violence against Women. She also headed the Greek National Observatory on combating violence against women and drafted the first national report on the same topic. Equally important were her European activities. She was a founding member of the European Women’s Lobby (EWL) based in Brussels, a member of the Board of Directors (1990-2005) and president of its Greek chapter, and a member of the Greek chapter of the European Forum of Socialist Feminists in the 1990s. She served as a national expert on violence against women at the Council of Europe for several years, and participated in the European Union's Committee for research on sexual harassment in the workplace. She wrote a number of articles in collective works including “Gender Equality Policies" (2008), “Globalisation and its Impact on Women” (2002), “Violence against Women - Zero Tolerance” (1999) and in journals, as well as in the Greek and foreign Press on women's equality, as well as legal and social issues. She also wrote the book “Rape. The crime, the trial and social perceptions” (2007), as a result of her experiences gained as a practising trial lawyer, feminist and writer, which all fed into each other. As the academic Niki Kaltsogia - Tournaviti mentioned at the book launch, “Katy Paparriga - Kostavara’s book is an important contribution to feminist theory about the position of women, because it specifically highlights those values in our culture that perpetuate the aggressive dominance of men over women, one expression of which is rape, which is the most extreme and abhorrent form of violence against women. Through a thorough analysis of the players involved in four representative rape trials (which were tried before the Greek courts), ......, she dispels the myths that express the values and institutions of our culture; myths that are in the service of preserving and reproducing the social ideology, on which the ideology of rape also rests. However, these are values that women have come to internalise through the factors of socialisation: family, school and others. She overturns the myth of manhood, which includes male violence; the myth of femininity, which is used to justify and perpetuate the social and psychological status of women in an inferior position; and the myth of sexuality, which has developed a code of double - edged ethics, allowing men to do what is forbidden to women”.

Katy Paparriga - Kostavara believed that through education society could be changed and transformed. With that in mind she organised numerous courses, teaching at the National School of Public Administration to train professionals in dealing with victims of violence. This included training for lawyers and public officials, judges, prosecutors, police officers, psychologists, doctors and owners of small and medium-sized enterprises, in relation to the role of paternity in the context of “improving the quality of life” through “gender cooperation in the family and at work”. A particularly modest person, she worked tirelessly with a great deal of vitality, dynamism and determination to set women free. That was her only ambition. She didn't capitalise on the immense amount of work she did by seeking positions of power or wealth, and consistently refused to get into politics even though all parties approached her about this. She would say that “if you join a party you need to tow its line”. And she preferred to be independent. She was a fighter throughout her life. As a young girl during the German Occupation, she used to carry hand grenades for the Greek partisans hidden inside her basket under the fig leafs or messages written on cigarette paper inside her curls, and that's how she got past the German blocks. “I never felt fear”. She said the same about the cancer which struck her four times from 1974 onwards. “It can wait. I have three kids to raise ... I have a lot to do," she said.

When she eventually left us, she was in full possession of her faculties and up to date about the current political and social developments in Greece and abroad despite the unbearable pains she was in. With her smile, courtesy, large heart - and reading right up to the last minute - she left us a few parting words as her legacy, “I don't know how to give up".

Traduzione greca
Katerina Kapernarakou

Η φεμινίστρια νομικός, κοινωνιολόγος και συγγραφέας Καίτη Παπαρρήγα - Κωσταβάρα (1930 - 2015) υπήρξε κορυφαία προσωπικότητα για την ισότητα των δυο φύλων, την αξιοπρέπεια του ατόμου, την κοινωνική δικαιοσύνη και τα ανθρώπινα δικαιώματα. Συνδιαμόρφωσε τη σημερινή κοινωνική πραγματικότητα στην Ελλάδα και την Ευρώπη. Πολυσχιδής γυναίκα - πρότυπο με πλούσια κοινωνική και πολιτική δράση, μαχητική, πληθωρική, διανοούμενη, με ηθική ακεραιότητα, με υψηλή αίσθηση του καθήκοντος, στωϊκότητα και σθένος απέναντι στα δεινά και τις δοκιμασίες, έζησε μία ζωή παλλόμενη σε όλο της το εύρος. Δεκαεπτά ετών έφυγε από την πόλη του Βόλου στην Κεντρική Ελλάδα, όπου μεγάλωσε, και σπούδασε Νομικά στο Πανεπιστήμιο Αθηνών. Συνέχισε τα μεταπτυχιακά της στο Συγκριτικό και στο Ποινικό Δίκαιο στο Ινστιτούτο Ευρωπαϊκών Σπουδών στο Τορίνο και έλαβε το διδακτορικό της στην Κοινωνιολογία από το Πανεπιστήμιο Jussieu του Παρισιού. Εγκαταστάθηκε μόνιμα στην Αθήνα, όπου και εργάστηκε με τον επίσης δικηγόρο σύζυγό της Θεόδωρο Κωσταβάρα, ο οποίος ήταν ένθερμος υποστηρικτής του έργου της. Σε μία πολύ πρώϊμη για τα κοινωνικά δεδομένα εποχή, υπερέβη τα διχαστικά στερεότυπα και εφάρμοσε πιστά όσα πρέσβευε, συνδυάζοντας την επαγγελματική, πολιτική και κοινωνική της δράση με τη δημιουργία οικογένειας. Στις επάλξεις της μάχιμης δικηγορίας από το 1953 έως τα τέλη της δεκαετίας του 1990, ήταν στρατευμένη στον αγώνα του γυναικείου κινήματος, που τον θεωρούσε επαναστατικό. Ριζοσπάστρια και σκαπανέας διεθνούς εμβέλειας, υπήρξε πρωτοπόρος με σειρά διεκδικήσεων για την ισονομία των γυναικών και την κοινωνική δικαιοσύνη στην Ελλάδα και την Ευρώπη με έμφαση στην καταπολέμηση της έμφυλης βίας σε όλες τις εκδοχές της (βιασμός, σεξουαλική παρενόχληση, ενδοοικογενειακή βία, τράφικινγκ). Στο επίκεντρο του επιστημονικού φεμινισμού της Καίτης Παπαρρήγα - Κωσταβάρα τίθεται η συντροφικότητα και ο σεβασμός του ενός φύλου προς το άλλο. ΄Ελεγε χαρακτηριστικά: “Δεν είμαστε κατηγορία. Είμαστε το μισό...”. Μετά την πτώση της επτάχρονης Δικτατορίας των Συνταγματαρχών το 1974 στην Ελλάδα, συμμετείχε καταλυτικά στην ανάπτυξη του φεμινιστικού κινήματος, που είχε να αντιμετωπίσει πολλά διλήμματα ως προς τον ρόλο του στις κοινωνικές εξελίξεις, τη σχέση του με την Αριστερά και τα πολιτικά κόμματα. Κι ενώ το εν λόγω κίνημα, από τη μία, ανέδειξε την ενότητα πολιτικού και προσωπικού, συχνά, όξυνε τις αντιφάσεις μεταξύ θεωρίας και πράξης, όξυνε τις αντιφάσεις μεταξύ οικογενειακών επιλογών των φεμινιστριών και της συλλογικής δράσης και συνειδητοποίησης των γυναικών. Απέναντι σε αυτά, ως -επί σειρά ετών- πρόεδρος της αυτόνομης ΜΚΟ Κίνησης Δημοκρατικών Γυναικών, η Καίτη Παπαρρήγα – Κωσταβάρα, διατηρώντας την αυτονομία της σκέψης της, «υπερβαίνει τους διχασμούς, εισχωρεί στην ουσία του θέματος, αξιοποιεί όλες τις δυνατότητες των θεσμών, εθνικών και ευρωπαϊκών, προκρίνοντας συνθετικές λύσεις, που διαμορφώνουν φεμινιστικές στάσεις και προσωπικούς στόχους», όπως επισήμανε η πανεπιστημιακός, πρώην Γενική Γραμματέας Ισότητας και Αντιδήμαρχος Αθηνών, Μαρία Στρατηγάκη. Και προσθέτει: «Η επιλογή της έμφυλης βίας ως πρωταρχικού αντικειμένου της επιστημονικής, ερευνητικής και πολιτικής δουλειάς της Καίτης Παπαρρήγα – Κωσταβάρα οφείλεται στη σύνθεση των στόχων και των πρακτικών της, την οποία η ίδια έκανε με μεγάλη μαεστρία. Η έμφυλη βία...αποτελεί εμβληματική έκφραση της πατριαρχίας, αλλά και τομέα άσκησης πολιτικής, στον οποίο εκκρεμούσε επί δεκαετίες το κατάλληλο νομοθετικό πλαίσιο και η Ελλάδα βρισκόταν σε μεγάλη απόσταση από τις άλλες χώρες».

Γυναίκες και άνδρες ίσοι μέσα στην οικογένεια:

Η ρηξικέλευθη τροποποίηση του οικογενειακού δικαίου, που αποτυπώθηκε στο νόμο 1329 / 1983 και προβλέπει την ισότητα γυναικών και ανδρών εντός της οικογένειας, φέρει τη σφραγίδα της Καίτης Παπαρρήγα - Κωσταβάρα. Ως εμπειρογνώμονας συμμετείχε και στις νομοπαρασκευαστικές επιτροπές για την αντιμετώπιση της βίας κατά των γυναικών (2000-2004) και την έμφυλη βία (2010-2012). Συμμετείχε - ως μέλος - στην διϋπουργική επιτροπή μελέτης και επεξεργασίας σχεδίου νόμου για την αποποινικοποίηση των αμβλώσεων (1985-1986). Ό,τι λοιπόν σήμερα θεωρείται κεκτημένο δικαίωμα από τις νεότερες γενιές γυναικών χρειάστηκαν άνθρωποι, όπως η Καίτη Παπαρρήγα - Κωσταβάρα να το καταστήσουν αυτονόητο. Ενδεικτικά αναφέρεται ότι με τον 1329/1983, μεταξύ άλλων, παύει πλέον ο άνδρας να θεωρείται κεφαλή της οικογένειας, οι δυο σύζυγοι θεωρούνται ισότιμοι και ισόνομοι σε ζητήματα επιμερισμού οικογενειακών βαρών, γονικής μέριμνας, διευθέτησης περιουσίας, μοιχείας και διαζυγίου, καταργείται η προίκα, εξομοιώνονται τα τέκνα εντός και εκτός γάμου και η σύζυγος διατηρεί το επώνυμό της μετά το γάμο. Σε όλες τις σημαντικές δίκες βιασμών στην Ελλάδα από το 1975 έως το 1999 η κ. Καίτη Παπαρρήγα – Κωσταβάρα παρίσταται αμισθί ως δικηγόρος υπεράσπισης στο πλευρό των γυναικών θυμάτων. ΄Οταν κανένας δεν αναλαμβάνει την υπεράσπισή τους, εκείνη δηλώνει: «Μόνος στις δίκες των βιασμών το θύμα χρειάζεται υπεράσπιση για να μπορέσει να επιτύχει την καταδίκη του βιαστή της. Στις άλλες ποινικές δίκες υπεράσπιση χρειάζονται μόνο οι κατηγορούμενοι». Ήταν ιδρυτικό μέλος της Ένωσης Ελληνίδων Νομικών, μέλος του Συνδέσμου Ελληνίδων Επιστημόνων, ιδρυτικό μέλος του ελληνικού Δικτύου για την Καταπολέμηση της Ανδρικής Βίας κατά των Γυναικών. Επίσης, διετέλεσε επικεφαλής του Ελληνικού Εθνικού Παρατηρητηρίου για την αντιμετώπιση της βίας κατά των γυναικών και συντάκτρια της πρώτης εθνικής έκθεσης για το ίδιο θέμα. Εξίσου μείζονος σημασίας ήταν κι η ευρωπαϊκή δράση της. Υπήρξε ιδρυτικό μέλος του Ευρωπαϊκού Λόμπυ Γυναικών (EWL) με έδρα τις Βρυξέλλες, μέλος του Διοικητικού Συμβουλίου του (1990-2005) και πρόεδρος του Ελληνικού Τμήματος του (ΕΛΓ), καθώς και μέλος του ελληνικού τμήματος του Ευρωπαϊκού Φόρουμ Αριστερών Φεμινιστριών την δεκαετία του 1990. Διετέλεσε επί σειρά ετών εθνική εμπειρογνώμονας για θέματα βίας κατά των γυναικών στο Συμβούλιο της Ευρώπης, ενώ συμμετείχε στην Επιτροπή 'Ερευνας της Ευρωπαϊκής ΄Ενωσης για την σεξουαλική παρενόχληση στους χώρους εργασίας. Συμμετείχε με πλήθος άρθρων σε συλλογικούς τόμους, όπως, μεταξύ άλλων, «Πολιτικές Ισότητας των Φύλων (2008), «Η παγκοσμιοποίηση και οι επιπτώσεις της στις γυναίκες» (2002), «Βία κατά των γυναικών - Ανοχή Μηδέν» (1999) και σε περιοδικά, καθώς και στον ελληνικό και ξένο Τύπο για την ισότητα των γυναικών, αλλά και νομικά και κοινωνικά ζητήματα. Συνέγραψε το βιβλίο «Βιασμός. Το έγκλημα, η δίκη και οι κοινωνικές αντιλήψεις» (2007), αποτέλεσμα της αλληλοτροφοδοτούμενης δράσης της ως μαχόμενης δικηγόρου, φεμινίστριας και συγγραφέως. Όπως ανέφερε στην παρουσίαση του βιβλίου, η πανεπιστημιακός Νίκη Καλτσόγια – Τουρναβίτη, «το βιβλίο της Καίτης Παπαρρήγα - Κωσταβάρα αποτελεί μια σημαντική συμβολή στη φεμινιστική θεωρία για τη θέση της γυναίκας, γιατί σ΄ αυτό τονίζονται ιδιαίτερα εκείνες οι αξίες του πολιτισμού μας, οι οποίες διαιωνίζουν την επιθετική κυριαρχία του άνδρα πάνω στη γυναίκα, έκφραση των οποίων είναι και ο βιασμός, ο οποίος αποτελεί την πλέον ακραία και αποτρόπαιη μορφή βίας κατά των γυναικών. Μέσα από τη διεξοδική ανάλυση των συντελεστών τεσσάρων αντιπροσωπευτικών δικών βιασμών (που εκδικάστηκαν από τα ελληνικά δικαστήρια), …… καταρρίπτει τους μύθους, οι οποίοι εκφράζουν τις αξίες και τους θεσμούς του πολιτισμού μας, οι οποίοι βρίσκονται στην υπηρεσία της συντήρησης και αναπαραγωγής της κοινωνικής ιδεολογίας, που στηρίζει και την ιδεολογία του βιασμού. Αξίες όμως τις οποίες έχει εσωτερικεύσει η γυναίκα, μέσα από τους παράγοντες κοινωνικοποίησής της: οικογένεια, σχολείο αλλά και άλλους. Καταρρίπτει το μύθο του ανδρισμού, στον οποίο περιλαμβάνεται και η ανδρική βία, το μύθο της θηλυκότητας, που χρησιμεύει για να δικαιολογήσει και να διαιωνίσει το κοινωνικό και ψυχολογικό καθεστώς της υποδεέστερης θέσης της γυναίκας, (και) το μύθο της σεξουαλικότητας, η οποία έχει διαμορφώσει έναν κώδικα διπλής ηθικής, επιτρέποντας στους άνδρες ό,τι απαγορεύει στις γυναίκες».

Η Καίτη Παπαρρήγα – Κωσταβάρα πίστευε πως μέσω του εκπαιδευτικού μηχανισμού υπήρχε η δυνατότητα αλλαγής και μετασχηματισμού της κοινωνίας. Εξ ου και οργάνωσε πάμπολλα προγράμματα, στα οποία και συμμετείχε ως διδάσκουσα στην Εθνική Σχολή Δημόσιας Διοίκησης για την επιμόρφωση επαγγελματιών στην αντιμετώπιση θυμάτων βίας, όπως, μεταξύ άλλων, δικηγόρων και στελεχών Δημοσίου, δικαστών, εισαγγελέων, αστυνομικών, ψυχολόγων, ιατρών αλλά και μικρομεσαίων επιχειρηματιών αναφορικά με το ρόλο της πατρότητας στο πλαίσιο της «βελτίωσης της ποιότητας ζωής» μέσα από τη «συνεργασία των δύο φύλων στην οικογένεια και στην εργασία». ΄Ανθρωπος ιδιαίτερα σεμνός, εργάστηκε άοκνα με ιδιαίτερη ζωντάνια, μαχητικότητα και αποφασιστικότητα για την απελευθέρωση των γυναικών, η οποία ήταν και η μοναδική της φιλοδοξία. Δεν κεφαλαιοποίησε το μεγαλειώδες έργο της, διεκδικώντας θέσεις και πλούτο, ενώ αρνήθηκε σταθερά να πολιτευθεί, αν και την προσέγγισαν όλα τα κόμματα. 'Ελεγε, «πως αν μπεις σε ένα κόμμα, τότε θα πρέπει να ασπαστείς και τις γραμμές του» κι εκείνη προτιμούσε την ανεξαρτησία της. Υπήρξε μαχήτρια σε όλη της τη ζωή. Κορίτσι μικρό ακόμα, στην Κατοχή, μετέφερε σε ένα καλαθάκι, κρυμμένες κάτω από συκόφυλλα, χειροβομβίδες για τους αντάρτες και μηνύματα σε τσιγαρόχαρτα κρυμμένα μέσα στις μπούκλες της κι έτσι περνούσε τα γερμανικά μπλόκα. «Δεν ένιωσα ποτέ μου φόβο», έλεγε και το ίδιο είπε και στον καρκίνο, που την χτύπησε τέσσερις φορές από το 1974. «Ας περιμένει. Εχω τρία παιδιά να μεγαλώσω, έχω πράγματα να κάνω», ήταν τα λόγια της. Όταν μας αποχαιρέτισε είχε - παρά τους αφόρητους πόνους - πλήρη διαύγεια και παρέμενε ενήμερη για τις πολιτικές και κοινωνικές εξελίξεις εντός και εκτός Ελλάδας.

Με χαμόγελο, ευγένεια, μεγάλη καρδιά, διαβάζοντας έως την τελευταία στιγμή της, μας άφησε μία κουβέντα - παρακαταθήκη: «Δεν ξέρω πώς να παραιτούμαι».

Irena Sendler

Sara Balzerano


Monica Fabbri

Si tramanda. Si sa.

La ricetta per fare la confettura pare essere la stessa ovunque, nelle diverse generazioni, immobile – quasi – per tutti gli anni in cui essa si è fatta in casa. Serve della frutta, zucchero, una pentola, vasi e bottiglie per conservarla. Serve una persona che si metta ai fornelli, impugni il mestolo, e non tema le bruciature, che possono accadere, è ovvio, ma sembrano niente di fronte al sapore denso e profumato da spalmare e – magari – ricordare. Serve che questa confettura venga conservata nel miglior modo possibile, per non vanificare il lavoro, per poterne godere, per poterla regalare e far gioire. È una ricetta perfetta, quella della confettura. Bisogna indovinare le dosi, capire il momento giusto per raccogliere la frutta, scegliere i contenitori adatti e la credenza nella quale riporli. Pure questa ha la sua importanza. Poi, naturalmente, c’è chi fa il lavoro. Chi raccoglie, salva dal macero, cuoce, mescola, unisce, ripone. Ha sempre saputo di buono, chi fa la confettura. Sa di cose giuste, di rifugio, di casa, anche quando questa è lontana, nel tempo e nello spazio. È da ammirare, chi prepara la confettura. Perché tante cose possono andare storte. Ma lo stesso s’infila il grembiule, va nel giardino, sale sull’albero, raccoglie la frutta, versa lo zucchero, accende il fuoco, gira e mescola, versa e conserva. È una ricetta da non dimenticare, pur avendo il sapore di tempi andati. Può sempre essere rispolverata, nuovamente impugnata, ugualmente organizzata e preparata. Può servire. A volte deve. Anche quando pensiamo di non averne più bisogno. Il primo passo da fare è andare nel giardino, sotto l’albero, a cercare di salvare più frutti possibili. Sembra un passaggio facile, ma non tutti i giardini sono accessibili. Ci sono quelli lontani, ai quali si arriva dopo un lungo viaggio. Ci sono quelli stranieri, che danno frutti sconosciuti, ma sempre frutti sono, e sempre buoni per le confetture. Ci sono quelli chiusi, recintati. Dove è complicato entrare e quasi impossibile uscire. E questi, anche se vicino a casa, sono i più difficili da raggiungere. A Varsavia, il 2 ottobre del 1940 si decide la creazione di uno di questi giardini, con autorizzazione del governatore del distretto, Ludwig Fischer. Lo chiamano ghetto, una parola veneziana per una pratica che nel tempo e nella storia non ha conosciuto mai confini. E i frutti che stanno lì dentro hanno un nome preciso: ebrei. Si inizia con la costruzione di un muro, tre metri di altezza, mattoni rossi e filo spinato come sentinelle a decidere chi resta dentro e chi rimane fuori, chi è giusto e chi sbagliato, chi vive e chi muore. A finanziare questo progetto è la stessa comunità ebraica. A supervisionarlo, lo Judenrat, il consiglio giudaico voluto dai tedeschi: nella peggior follia umana, le serpi hanno voluto un consiglio di topi che fosse parte attiva nel proprio sterminio. Nel ghetto non si può entrare, se non si ha l’autorizzazione. Ma, soprattutto, dal ghetto non si può uscire, a meno che non si vada ai lavori forzati, e anche per questo bisogna avere un permesso. Lo spazio totale misura quattro chilometri in lunghezza e circa due e mezzo in larghezza, per una popolazione che è la metà di quella dell’intera città: 450.000 persone. La rete idrica e quella fognaria sono fatiscenti e ben presto collassano. E se il motivo ufficiale per la sua creazione è il timore di epidemie, le malattie iniziano realmente a svilupparsi e camminare. Uccidono. Facilitano il lavoro. Quell’albero a sei punte, nel giardino non lo vogliono. Prima è stato chiuso. Adesso va eliminato. I frutti sono lasciati marcire o mandati alla distruzione. Nel ghetto manca tutto: acqua potabile, luce elettrica, cibo. La popolazione viene nutrita con 180 calorie al giorno, 920 grammi di pane a settimana, 295 grammi di zucchero al mese. La fame morde gli intestini. Il freddo secca il sangue. Lo sporco ammazza il respiro. Il tifo miete vittime, stacca i frutti dagli alberi, recide i rami che non portano più alcuna traccia di ciò che un tempo sono stati. Le strade ne sono piene: noccioli rinsecchiti di un pomo senza polpa, scheletri di spazzatura caricati sui carri senza cura o riguardo per l’essere umano che in vita hanno rappresentato.

Prima della soluzione finale, il piano sta già prendendo forma, sta portando i risultati voluti. Il 16 ottobre del 1940 il muro è completato. Chi fugge è fucilato all’istante. Al resto della popolazione di Varsavia viene intimato di non aiutare gli ebrei: pena, la condanna a morte. L’ingranaggio è perfetto. Una cosa però è sfuggita. Un altro piano. Una ricetta. La ricetta. Quella per la confettura. Per fare una buona confettura lo zucchero è fondamentale. Esso aiuta a creare un ambiente sfavorevole allo sviluppo di muffe e batteri. A Varsavia la base dello zucchero, il suo quartier generale, è nel campus dell’Università libera di Polonia. A dirigere i lavori una professora, Helena Radlińska, ebrea convertita al cattolicesimo, che riforma e rivoluziona la pedagogia polacca. Quando, dopo la capitolazione di Varsavia il 28 settembre 1939, iniziano le persecuzioni della comunità ebraica e soprattutto degli e delle intellettuali, Helena Radlińska trova rifugio in un convento e da lì organizza un’università segreta e una rete di resistenza nella quale operano e militano suoi studenti e sue studente, suoi colleghi e sue colleghe, buona parte del Dipartimento dei servizi sociali di Varsavia. Tante, tantissime le donne. E tra queste, quattro ragazze, tutte impiegate nel Dipartimento, che decidono di offrire assistenza a chiunque ne abbia bisogno, chiunque, senza alcuna distinzione, nella convinzione folle e rivoluzionaria che ciascun frutto è degno di essere raccolto e salvato dal macero: Jadwiga Piotrowska, Irka Schultz, Jadwiga Deneka e Irena Stanisława Krzyżanowska Sendler. È quest’ultima che si reca da Radlińska per chiederle un consiglio su cosa poter fare per aiutare gli ebrei che nel ghetto stanno morendo, ed è a lei che la professora suggerisce di creare un servizio sociale sotterraneo per coloro che ormai sono esclusi da ogni forma di assistenza. Irena conosce la realtà giudaica di Varsavia. Sono stati gli ebrei della capitale a pagarle gli studi universitari dopo che suo padre, il medico Stanisław Henryk Krzyvanowski, era morto di tifo nel febbraio del 1917 mentre assisteva gli ebrei che molti suoi colleghi si erano rifiutati di curare. Egli, oltre a esperto in malattie infettive e ricercatore, era un attivista politico, uno dei primi iscritti al Partito Socialista Polacco che, per le sue convinzioni, era stato cacciato dalle università di Varsavia e di Cracovia. Riuscì a laurearsi nell’ateneo di Charkiv, un coacervo di idee radicali in una città che era anche un importante centro della vita intellettuale e culturale dell’ebraismo dell’Europa orientale. Stanisław Henryk Krzyvanowski trasmette alla figlia l’amore per la medicina, la voglia di giustizia, il coraggio di lottare per una solida uguaglianza sociale. È seguendo le sue orme che Irena si oppone alla segregazione degli studenti ebrei negli atenei e va a sedersi con loro, a sinistra dei banchi universitari. È seguendo le sue orme che entra nell’Associazione della Gioventù Polacca Democratica e nel Partito Socialista Polacco. È seguendo le sue orme che viene sospesa dal corso di studi per assistenti sociali per due anni, riuscendo a laurearsi soltanto nel 1939, a quasi trent’anni. È seguendo le orme di suo padre e gli insegnamenti della sua professora Helena Radlińska che Irena indossa il grembiule, va nel giardino, sale sull’albero, raccoglie la frutta e prepara la confettura. Appena dopo la laurea, va a lavorare come assistente sociale a Otwock – cittadina natale paterna – e a Tarczyn. Finché, sempre nel 1939, è di nuovo a Varsavia. Qui riceve l’incarico di monitorare la situazione igienico-sanitaria del ghetto affinché eventuali focolai di epidemia non si estendano anche al resto della città. È così che ottiene il permesso speciale che le consente una certa libertà di movimento da dentro a fuori. Irena e le sue compagne attraversano più volte al giorno i confini infernali del muro di mattoni rossi e filo spinato. Quando è al suo interno, indossa la stella di David: è un gesto di furbizia, per potersi meglio confondere. Ma, soprattutto, è l’ennesimo gesto di solidarietà di una giovane, piccola donna che, incurante delle bruciature, ha deciso di mettersi a cuocere la sua personale ricetta per la confettura. All’interno del ghetto, Irena inizia a far entrare cibo, vestiti, medicinali, vaccini. E, a partire dal 1942, dopo la decisione delle autorità tedesche di liquidare il ghetto e trasferire i suoi occupanti nel campo di sterminio di Treblinka, Irena inizia anche a far uscire. Bambini. Bambine. Migliaia di giovani vite. Con l’aiuto della rete di resistenza polacca, chiamata Żegota e formata da moltissimi giovani ebrei, e grazie anche all’intervento di tanti privati cittadini e di varie istituzioni ecclesiastiche, Irena inizia a raccogliere i frutti. Nome in codice: Jolanta.

Jolanta entra nel ghetto vestita da infermiera e nasconde i bambini e le bambine nelle ambulanze. Si traveste da tecnico della rete idraulica e li porta via in cassette di legno o sacchi di iuta. Li carica su un camion e per farli uscire si fa aiutare da Shepsi, un cane addestrato ad abbaiare all’arrivo dei tedeschi per coprire il loro pianto. Attraversa le fogne più e più volte, mano nella mano con le piccole anime che sta aiutando a evadere dall’inferno. Molti li nasconde nei cappotti di uomini e donne che, sul tram, si dirigono da una parte all’altra della città. Altri li seda e li fa uscire facendoli passare per cadaveri morti per tifo. Una volta fuori, il suo lavoro non si ferma. Inizia a fornire loro documenti falsi, li porta da sacerdoti che li battezzano così da regolarizzarli, in una qualche maniera. Li affida a famiglie che li adottano e a istituti – per lo più religiosi – che li nascondono: spesso ai nuovi arrivati vengono dati il nome e il cognome di bimbi cattolici deceduti e la cui morte non era stata comunicata alle autorità. Ai maschietti, quando di caratteri somatici chiaramente semiti, sono tinti i capelli o bendato parzialmente il volto così da evitare che venga controllata la presenza di un’eventuale circoncisione. C’è una rete di umanità bellissima che prosegue il lavoro di Irena: è stato calcolato che per salvare un solo bambino dal ghetto rischiano la vita ben dieci i cittadini di Varsavia. Irena “Jolanta” per oltre un anno fa da spola tra l’ombelico del male e la possibile, flebile speranza per il futuro. Ma tutto questo non basta. Non le può bastare. Nella sua personale ricetta della confettura, aggiunge un ingrediente segreto nella conserva. Su sottilissimi fogli di sigaretta, Irena annota tutti i nomi dei bambini e delle bambine che ha aiutato a scappare dal ghetto. Accanto, la loro nuova identità. Perché il suo sogno, il suo obiettivo, è quello di poter riportare quelle giovani vite alle loro famiglie di origine, quasi a voler mettere un ordine di umanità nel caos ignobile dell’odio e della follia. Quasi a dare una stretta di spalla a quelle madri che con difficoltà ha convinto affinché le affidassero i figli, a quelle madri che hanno preparato i loro bimbi e le loro bimbe al distacco, spiegando che un’altra mamma, quella vera, li aspetta di là da quel brutto muro rosso e dal filo spinato. I foglietti, Irena li nasconde nel giardino. Nessuno deve sapere della loro esistenza. Nessuno. Nemmeno i suoi aguzzini. Perché, prima o poi, se fai la confettura, la bruciatura arriva. “Jolanta” viene arrestata il 20 ottobre del 1943. La Gestapo la preleva dalla sua casa e la conduce nella caserma di viale Szucha. Sa cosa la aspetta. Viene tortura e interrogata. Le spezzano gambe, braccia e piedi a colpi di manganelli e barre di ferro. Le intimano di parlare, ma il silenzio sarà l’unica risposta che le guardie riceveranno. Ha troppo da perdere. La punizione per il reato di cui è accusata consiste nel veder sterminata la propria famiglia, persona dopo persona, partendo dai membri più piccoli. Irena vuole salvare sua madre, da tempo malata. Vuole salvare l’uomo che ama, Adam Celniker, anche lui partigiano e nascosto dalla sua stessa rete di contatti. Nella prigione di Pawiac rimane tre mesi, fino alla sua condanna a morte. Alla fine si salva. Lo Żegota riesce a corrompere un ufficiale incaricato della sua esecuzione. Scappa, ma Irena Stanisława Krzyżanowska Sendler è nell’elenco dei fucilati e Jolanta è costretta a vivere nella totale clandestinità con il nuovo nome di Klara Dabrowska. E Klara continuerà a preparare le sue confetture. Durante l’Insurrezione di Varsavia lavora come infermiera nel Punto Sanitario e dopo la guerra entra nel Centro di Aiuto Sociale della capitale, iscrivendosi, dal 1948 al 1968, al Partito Comunista Polacco, che peròabbandona per le campagne antisemite e per le politiche di repressione contro studenti e intellettuali. Contribuisce a creare orfanotrofi, un Centro di Assistenza per le Madri e i Bambini in difficoltà, alcune istituzioni a sostegno delle famiglie disoccupate. Il regime la arresta nel 1949 perché sospettata di nascondere membri dell’Esercito Partigiano Armia Krajova e in carcere perde un bambino nato prematuramente. Pur ricevendo nel 1965 la Medaglia di “ Giusto fra le Nazioni” dall’istituto Yad Vashem, l’ente nazionale per la Memoria della Shoah di Gerusalemme, e, nel 1991 la cittadinanza onoraria di Israele, la Polonia pare essersi dimenticata di lei. Bisogna aspettare il 1999 e alcune studente statunitensi che, spinte dal loro insegnante Norman Conard, le dedicano uno spettacolo teatrale dal titolo Life in a Jar, La vita in un barattolo, affinché il suo nome e il suo operato escano dall’ingiusto dimenticatoio nel quale sono stati reclusi. Irena Stanisława Krzyżanowska Sendler muore a Varsavia il 12 maggio del 2008, all’età di novantasette anni, un anno dopo che il governo della Polonia la dichiara “Eroe nazionale”, raccomandando il suo nome all’Accademia di Stoccolma per la candidatura al Premio Nobel per la Pace. Nella sua azione di resistenza, è riuscita a salvare circa 2500 giovani vite. La maggior parte di loro non ha più rivisto la propria famiglia di origine. Questa piccola, testarda, coraggiosa donna polacca è stata una partigiana di giustizia e libertà, una maglia larga nel nero muro del ghetto di Varsavia, attraverso la quale è apparso il volto buono dell’umanità. Irena, “Jolanta”, ha opposto all’orrore più buio il sapore dolce e avvolgente della confettura. Ha impugnato il mestolo, indossato il grembiule, preso lo zucchero e salvato tutti i frutti che le è stato possibile salvare, non fermandosi nemmeno davanti a un giardino chiuso.

«Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra e non un titolo di gloria. Ogni giorno è fatto per amare e l’amore trattenuto muore. Il mio amore è una goccia nel mare e laddove non c’è acqua la goccia è benvenuta. Noi siamo miliardi di gocce: uniamoci e saremo il mare».

 

Traduzione francese
Joelle Rampacci

On transmet. C’est connu.

La recette pour faire de la confiture semble être la même partout, dans les différentes générations, immobile - presque - pendant toutes ces années où elle a été faite à la maison. Vous avez besoin de fruits, de sucre, d’une casserole, de pots et de bouteilles pour le stocker. Vous avez besoin d'une personne qui se met aux fourneaux, qui tient la louche et qui n'a pas peur des brûlures, ce qui peut bien sûr arriver, mais ce n’est rien comparé à la saveur dense et parfumée à tartiner et - peut-être même - se souvenir. Cette confiture doit être conservée de la meilleure façon possible, pour ne pas annuler le travail, pour pouvoir en profiter, pour pouvoir en faire cadeau et rendre heureux. C'est une recette parfaite, celle de la confiture. Il faut deviner les doses, comprendre le bon moment pour cueillir les fruits, choisir les bons bocaux et l'armoire dans laquelle les ranger. Cela aussi a son importance. Ensuite, bien sûr, il y a ceux qui font le travail. Qui ramasse, sauve du pourrissement, cuisine, mélange, unit, range. Elle a bon goût la personne qui fait de la confiture. Elle a le goût des choses justes, de refuge, de maison, même si celle-ci est loin, dans le temps et dans l’espace. Il faut admirer qui prépare de la confiture. Parce que beaucoup de choses peuvent mal tourner. Mais tout de même elle enfile son tablier, entre dans le jardin, grimpe à l'arbre, ramasse les fruits, verse le sucre, allume le feu, tourne et mélange, verse et conserve. C'est une recette à ne pas oublier, malgré le goût du temps passé. Elle peut toujours être dépoussiérée, remise en question, organisée et préparée de la même manière. Elle peut aider. Parfois, il le faut. Même quand nous pensons que nous n'en avons plus besoin. La première étape est d'aller au jardin, sous l'arbre, pour essayer de sauver le plus de fruits possible. Cela semble être un passage facile, mais tous les jardins ne sont pas accessibles. Il y a ceux qui sont loin, auxquels on arrive après un long voyage. Il y en a des étrangers, qui donnent des fruits inconnus, mais ce sont toujours des fruits et toujours bons pour les confitures. Il y a ceux fermés, clôturés. Où il est difficile d'entrer et presque impossible de sortir. Et ceux-ci, bien que proches de la maison, sont les plus difficiles à atteindre. A Varsovie, le 2 octobre 1940, il fut décidé de créer l'un de ces jardins, avec l'autorisation du gouverneur du quartier, Ludwig Fischer. Ils l'appellent ghetto, un mot vénitien pour une pratique qui n'a jamais connu de frontières dans le temps et dans l'histoire. Et les fruits qui s'y trouvent ont un nom spécifique: les juifs. Cela commence par la construction d'un mur de trois mètres de haut, des briques rouges et des barbelés comme sentinelles pour décider qui reste à l'intérieur et qui reste à l'extérieur, qui a raison et qui a tort, qui vit et qui meurt. La communauté juive finance elle-même ce projet. Pour le superviseur, le Judenrat, le conseil juif voulu par les Allemands: dans la pire folie humaine, les serpents voulaient un conseil de souris qui participe activement à leur propre extermination. Vous ne pouvez pas entrer dans le ghetto sans autorisation. Mais, surtout, vous ne pouvez pas quitter le ghetto, sauf si vous allez aux travaux forcés, et pour cela vous avez également besoin d'un permis. L'espace total mesure quatre kilomètres de longueur et environ deux kilomètres et demi de largeur, pour une population qui représente la moitié de celle de la ville entière: 450 000 personnes. Les réseaux d'eau et d'égouts sont vétustes et s'effondrent de suite. Et si la raison officielle de sa création est la peur des épidémies, les maladies commencent vraiment à se développer et à véhiculer. Elles tuent. Elles facilitent le travail. Ils ne veulent pas de cet arbre à six pointes dans le jardin. Il a d'abord été fermé. Maintenant, il doit être éliminé. Les fruits sont laissés pourrir ou envoyés à la destruction. Le ghetto manque de tout: eau potable, électricité, nourriture. La population est nourrie de 180 calories par jour, 920 grammes de pain par semaine, 295 grammes de sucre par mois. La faim mord les intestins. Le froid sèche le sang. La saleté tue votre souffle. Le typhus fait des victimes, détache les fruits des arbres, coupe les branches qui ne portent plus aucune trace de ce qu'elles étaient autrefois. Les rues en sont pleines: noyaux flétris d'une pomme sans pulpe, squelettes d’ordures chargés sur des wagons sans souci ni égard pour l'être humain qu'ils représentaient dans la vie.

Avant la solution finale, le plan prend déjà forme, apportant les résultats escomptés. Le 16 octobre 1940, le mur est achevé. Ceux qui fuient sont fusillés instantanément. Le reste de la population de Varsovie a reçu l'ordre de ne pas aider les juifs: punition, condamnation à mort. L'engrenage est parfait. Cependant, une chose s'est échappée. Un autre plan. Une recette. La recette. Celle pour la confiture. Pour faire une bonne confiture, le sucre est indispensable. Il aide à créer un environnement défavorable à la croissance des moisissures et des bactéries. A Varsovie, la base sucrière, son siège social, se trouve sur le campus de l'Université libre de Pologne. Le travail est dirigé par une professeure, Helena Radlińska, juive convertie au catholicisme, qui réforme et révolutionne la pédagogie polonaise. Quand, après la capitulation de Varsovie le 28 septembre 1939, les persécutions de la communauté juive et surtout des intellectuels commencent, Helena Radlińska trouve refuge dans un couvent et de là elle organise une université secrète et un réseau de résistance dans lequel opèrent et militent ses étudiants et ses étudiantes, ses collègues, une bonne partie du Département des services sociaux de Varsovie. Nombreuses, beaucoup de femmes. Et parmi celles-ci, quatre filles, toutes employées au Département, qui décident de porter assistance à quiconque en a besoin, à quiconque, sans distinction, dans la folle et révolutionnaire conviction que chaque fruit est digne d'être récolté et sauvé de la destruction. Jadwiga Piotrowska , Irka Schultz, Jadwiga Deneka et Irena Stanisława Krzyżanowska Sendler. C'est cette dernière qui se rend à Radlińska pour lui demander des conseils sur ce qu'il faut faire pour aider les juifs qui meurent dans le ghetto, et c'est à elle que le professeur propose de créer un service social clandestin pour ceux qui sont désormais exclus de toute forme d’assistance. Irena connaît la réalité juive de Varsovie. Ce sont les Juifs de la capitale qui ont payé ses études universitaires après que son père, le médecin Stanisław Henryk Krzyvanowski, soit mort du typhus en février 1917 alors qu'il s'occupait de Juifs que nombre de ses collègues refusaient de soigner. Il était, outre un expert en maladies infectieuses et un chercheur, un militant politique, un des premiers membres du Parti socialiste polonais qui, pour ses convictions, avait été expulsé des universités de Varsovie et de Cracovie. Il a réussi à obtenir son diplôme de l'Université de Kharkiv, un grand nombre d'idées radicales dans une ville qui était également un centre important de la vie intellectuelle et culturelle du judaïsme d'Europe de l'Est. Stanisław Henryk Krzyvanowski transmet à sa fille l'amour de la médecine, le désir de justice, le courage de lutter pour une solide égalité sociale. C'est en suivant ses traces qu'Irena s'oppose à la ségrégation des étudiants juifs dans les universités et va s'asseoir avec eux, à gauche des bancs universitaires. C'est en suivant ses traces qu'elle entre dans l'Association polonaise de la jeunesse démocratique et le Parti socialiste polonais. C'est en suivant ses traces qu'elle a été suspendue des études de travailleurs sociaux pendant deux ans, ne parvenant à obtenir son diplôme qu'en 1939, à près de trente ans. C'est sur les traces de son père et les enseignements de son professeur Helena Radlińska qu'Irena porte un tablier, va au jardin, grimpe à l'arbre, ramasse des fruits et prépare de la confiture. Immédiatement après avoir obtenu son diplôme, elle va travailler comme assistante sociale à Otwock - la ville natale de son père - et à Tarczyn. Jusqu'à ce que, toujours en 1939, elle est de retour à Varsovie. Ici, elle reçoit la tâche de surveiller la situation sanitaire du ghetto afin que toute épidémie ne s'étende pas au reste de la ville. C'est ainsi qu'elle obtient une autorisation spéciale qui lui permet une certaine liberté de mouvement de l'intérieur vers l'extérieur. Irena et ses compagnons traversent les frontières infernales du mur de briques rouges et de barbelés plusieurs fois par jour. Lorsqu'elle est à l'intérieur, elle porte l'étoile de David: c'est un stratagème, pour ne pas se faire remarquer. Mais, surtout, c'est encore un autre geste de solidarité de la part d'une jeune, petite femme qui, indépendamment des brûlures, a décidé de cuisiner sa propre recette de confiture. À l'intérieur du ghetto, Irena commence à faire entrer de la nourriture, des vêtements, des médicaments, des vaccins. Et, à partir de 1942, après la décision des autorités allemandes de liquider le ghetto et de transférer ses occupants au camp d'extermination de Treblinka, Irena commence également à faire sortir. Enfants. Des milliers de jeunes vies. Avec l'aide du réseau de résistance polonais, appelé Żegota et composé de nombreux jeunes juifs, et grâce également à l'intervention de nombreux civils et de diverses institutions ecclésiastiques, Irena commence à en récolter les fruits. Nom de code: Jolanta.

Jolanta entre dans le ghetto habillée en infirmière et cache les garçons et les filles dans les ambulances. Elle se déguise en agent du réseau des eaux et les emporte dans des caisses en bois ou des sacs de jute. Elle les charge dans un camion et pour les faire sortir, elle se fait aider par Shepsi, un chien dressé à aboyer lorsque les Allemands arrivent pour couvrir leurs pleurs. Elle traverse les égouts encore et encore, main dans la main avec les petites âmes qu'elle aide à échapper à l'enfer. Beaucoup les cachent sous les manteaux d'hommes et de femmes qui, dans le tramway, vont d'un quartier à l'autre de la ville. D’autres, elle les endort et les fait sortir en les faisant passer pour des cadavres morts du typhus. Une fois sortis, son travail ne s'arrête pas. Elle commence à leur fournir de faux documents, les emmène chez les prêtres qui les baptisent pour les régulariser, en quelque sorte. Elle les confie à des familles qui les adoptent et à des institutions - pour la plupart religieuses - qui les cachent: les nouveaux arrivants reçoivent souvent le nom et le prénom d'enfants catholiques décédés dont le décès n’a pas été communiqué aux autorités. Chez les garçons, lorsque leurs caractères somatiques sont clairement sémitiques, leurs cheveux sont teints ou leur visage est partiellement bandé afin d'éviter de vérifier la présence d'une éventuelle circoncision. Il existe un bon réseau d'humanité qui poursuit le travail d'Irena: il a été calculé que dix citoyens de Varsovie risquent leur vie pour sauver un seul enfant du ghetto. Irena "Jolanta" depuis plus d'un an fait la navette entre le nombril du mal et le possible, faible espoir pour l’avenir. Mais tout cela ne suffit pas. Ça ne peut pas suffire. Dans sa recette de confiture personnelle, elle ajoute un ingrédient secret à la confiture. Sur des feuilles de cigarettes très fines, Irena écrit tous les noms des garçons et des filles qu'elle a aidés à s'échapper du ghetto. Ensuite, leur nouvelle identité. Car son rêve, son but, est de pouvoir ramener ces jeunes vies dans leurs familles d'origine, comme pour retrouver un ordre d'humanité dans l'ignoble chaos de la haine et de la folie. Comme pour serrer dans ses bras ces mères qu’elle a convaincues avec difficulté de lui confier leurs enfants, à ces mères qui ont préparé leurs garçons et leurs filles à la séparation, en expliquant qu'une autre mère, la vraie, les attendait au-delà de ce mur rouge laid et fil de fer barbelé. Les papiers, Irena les cache dans le jardin. Personne n'a besoin de connaître leur existence. Aucun. Pas même ses ravisseurs. Parce que, tôt ou tard, si vous faites de la confiture, la brûlure arrive. «Jolanta» est arrêtée le 20 octobre 1943. La Gestapo la prélève de chez elle et l'emmène à la caserne du Boulevard Szucha. Elle sait ce qui l'attend. Elle est torturée et interrogée. Ils lui cassent les jambes, les bras et les pieds à coups de matraques et de barres de fer. Ils lui intiment de parler, mais le silence sera la seule réponse que les gardes recevront. Elle a trop à perdre. La punition pour le crime dont elle est accusée consiste à voir sa famille exterminée, personne après personne, à commencer par les plus petits. Irena veut sauver sa mère, qui est malade depuis longtemps. Elle veut sauver l'homme qu'elle aime, Adam Celniker, qui est aussi un partisan et caché par son réseau de contacts. Elle reste à la prison de Pawiac pendant trois mois, jusqu'à sa condamnation à mort. À la fin, elle est sauve. L'Żegota parvient à soudoyer un officier chargé de son exécution. Elle s'enfuit, mais Irena Stanisława Krzyżanowska Sendler est sur la liste des fusillés et Jolanta est obligée de vivre complètement cachée sous le nouveau nom de Klara Dabrowska. Et Klara continuera à préparer ses confitures. Pendant le soulèvement de Varsovie, elle a travaillé comme infirmière au Point de Santé et après la guerre elle est entrée au Centre d'Aide Sociale de la capitale, rejoignant, de 1948 à 1968, le Parti Communiste Polonais, qu'elle a cependant abandonné à cause des campagnes antisémites et la répression des étudiants et des intellectuels. Elle contribue à la création d'orphelinats, d'un Centre d'Assistance aux Mères et aux Enfants en difficulté, à des institutions de soutien aux familles au chômage. Le régime l'arrête en 1949, soupçonnée d'avoir caché des membres de l'armée partisane d'Armia Krajova et perd en prison un enfant né prématurément. En recevant en 1965 la médaille de "Justes parmi les Nations "de l'institut Yad Vashem, l'organisme national pour la mémoire de l'Holocauste à Jérusalem et, en 1991, la citoyenneté honoraire d'Israël, la Pologne semble l'avoir oubliée. Il faut attendre 1999 et quelques étudiants américains qui, poussés par leur professeur Norman Conard, lui dédient une pièce intitulée Life in a Jar, la vie dans un bocal, pour que son nom et son travail sortent de l'oubli injuste dans lequel ils ont été emprisonnés. Irena Stanisława Krzyżanowska Sendler est décédée à Varsovie le 12 mai 2008, à l'âge de quatre-vingt-dix-sept ans, un an après que le gouvernement polonais la déclare "héros national", recommandant son nom à l'Académie de Stockholm pour la nomination au prix Nobel pour la paix . Dans son action de résistance, elle a réussi à sauver environ 2 500 jeunes vies. La plupart d'entre eux n'ont jamais revu leur famille d'origine. Cette petite Polonaise têtue et courageuse était une partisane de la justice et de la liberté, un grand maillon dans le mur noir du ghetto de Varsovie, à travers lequel apparaissait le bon visage de l'humanité. Irena, "Jolanta", oppose la saveur douce et enveloppante de la confiture à l'horreur la plus sombre. Elle prit la louche, enfila le tablier, prit le sucre et garda tous les fruits qu'elle pouvait conserver, sans s'arrêter devant un jardin fermé.

«Chaque enfant sauvé avec mon aide est la justification de mon existence sur cette terre et non un titre de gloire. Chaque jour est fait pour aimer et l'amour retenu meurt. Mon amour est une goutte dans la mer et là où il n'y a pas d'eau, la goutte est la bienvenue. Nous sommes des milliards de gouttes: unissons-nous et nous serons la mer ».

 

Traduzione inglese
Syd Stapleton

They’re handed down. Everyone knows.

Jam recipes seem to be the same everywhere, in different generations, motionless - nearly for all the years they have been made at home. You need some fruit, sugar, a saucepan, jars and bottles to preserve it. You need someone at the burners, holding a wooden spoon, who isn’t afraid of burns, which obviously may happen, but are nothing compared with the dense and fragrant taste. You need to preserve this jam in the best possible way, so as not to waste the work, to be able to enjoy it, to be able to give it to someone and make them happy. Jam is a perfect recipe. You have to guess the quantities of ingredients, understand the right time to pick the fruit, choose the right jars and the places to store them. All this has its importance. Then, of course, there are those who do the work. Who collect the fruit, do the pulping, cook, mix, blend, and preserve. Good people make jam. They smell of the right things, of refuge, of home, even when it is far away, in time and space. Those who prepares jam have to be admired, because so many things can go wrong. He or she slips on the apron, goes into the garden, climbs the tree, collects fruit, pours sugar, lights the fire, turns and mixes, pours and preserves. It is a recipe not to be forgotten, while having the flavour of old times. It can always be dusted off, reused, equally organized and prepared. It can help. Sometimes it has to. Even when we think we don't need it anymore. The first step is to go to the garden, under the tree, to try to save as much fruit as possible. It seems like an easy process, but not all gardens are accessible. There are far away trees, which you get to after a long journey. There are strange ones, which give unknown fruits, but they are still fruits that are always good for jams. There are closed, fenced trees in places where it is complicated to enter and almost impossible to get out. And these, although close to home, can be the hardest to reach. In Warsaw, on October 2, 1940, it was decided to create one of these gardens, with the permission of the governor of the district, Ludwig Fischer. They call it ghetto, a Venetian word for a practice that in time and history has never known boundaries. And the fruits in there have a precise name: Jews. It starts with the construction of a wall, three meters high, red bricks and barbed wire, and sentinels to decide who stays inside and who stays outside, who is right and who is wrong, who lives and who dies. The Jewish community itself is funding this project. To supervise it, the Judencraft, the Jewish council wanted by Germans: in the worst human madness, the serpents wanted a council of mice to take an active part in their extermination. You can't get into the ghetto if you don't have permission. But, above all, you cannot get out of the ghetto unless you go into forced labour, and that is also why you must have a permit. The total space measures four kilometers in length and about two and a half kilometers in width, for a population that is half that of the entire city: 450,000 people. The water supply and sewage systems are run down and soon collapse. And if the official reason for its creation is the fear of epidemics, diseases really begin to develop and spread. They kill. They make the job easier. They don’t want that six-pointed tree in the garden. It was closed first. Now it must be eliminated. The fruits are left to rot or sent to destruction. Everything is missing in the ghetto: drinking water, electric light, food. The population is fed 180 calories per day, 920 grams of bread per week, 295 grams of sugar per month. Hunger gnaws at their intestines. The cold dries their blood. Dirt kills their breath. The typhus reaps victims, detaches the fruit from the trees, severs the branches that no longer bear any trace of what they once were. The streets are full of them: grainy kernels of a fleshless pome, garbage skeletons loaded on to wagons without care or regard for the human being they have represented in life.

Before the final solution, the plan is already taking shape, it is bringing the desired results. On October 16, 1940, the wall was completed. Those who flee are shot instantly. The rest of Warsaw's population is being told not to help the Jews: as the penalty, the death sentence. The gear is perfect. One thing, however, has escaped. Another plan. A recipe. The recipe. The one for the jam. To make a good jam sugar is fundamental. It helps to create an environment unfavorable to the development of mold and bacteria. In Warsaw, the sugar base, its headquarters, was on the campus of the Free University of Poland. Directing the work there was a professor, Helena Radlińska, a Jew converted to Catholicism, who reformed and revolutionized Polish pedagogy. When, after the capitulation of Poland on 28 September 1939, the persecution of the Jewish community and especially of intellectuals began, Helena Radlińska found refuge in a convent and from there organized a secret university and a resistance network from which her students and colleagues, a large part of the Department of Social Services in Warsaw, operated. So many, so many women. And among them, four girls, all employed in the Department, who decided to offer assistance to anyone who needs it, anyone, without distinction, in the crazy and revolutionary belief that each fruit is worthy of being collected and saved. They were Jadwiga Piotrowska, Irka Schultz, Jadwiga Deneka and Irena Stanisława Krzyżanowska Sendler. It is the latter who went to Radlińska to ask her for advice on what to do to help the Jews who were dying in the ghetto. The professor suggested creating an underground social service for those who became excluded from all forms of assistance. Irena knew the conditions Jews faced in Warsaw because Jews in the capital had paid for her university studies after her father, Doctor Stanisław Henryk Krzyvanowski, died of typhus in February 1917 while assisting Jews whom many of her colleagues had refused to treat. He, apart being an infectious disease expert and researcher, was a political activist, one of the first members of the Polish Socialist Party who, for his beliefs, had been expelled from the universities of Warsaw and Kraków. She graduated from the University of Kharkiv, a centre of radical ideas in a city which was the meeting point of the intellectual and cultural life of Eastern European Judaism. Stanisław Henryk Krzyvanowski conveyed his love for medicine to his daughter, the desire for justice, and the courage to fight for solid social equality. Following in his footsteps, Irena opposed the segregation of Jewish students in universities and went to sit with them, on the left of the university benches. Following in his footsteps, she joined the Polish Democratic Youth Association and the Polish Socialist Party. Following in his footsteps, she was suspended from the course of study for social workers for two years, managing to graduate only in 1939, at almost thirty years old. Following her father's footsteps and the teachings of her professor Helena Radlińska, Irena wears an apron, goes to the garden, climbs the tree, collects fruit and prepares jam. Shortly after graduation, she went to work as a social worker in Otwock – her father's hometown – and Tarczyn. Until, also in 1939, she was back in Warsaw. Here she became in charge of monitoring the hygiene and health situation of the ghetto, so that any outbreaks of epidemic would not extend to the rest of the city. That was how she got special permission that allowed her some freedom of movement from inside to outside. Several times a day Irena and her companions crossed the infernal boundaries of the red brick wall and barbed wire. When inside, she wore a star of David. It was a cunning gesture, to confuse the authorities. But, above all, it was yet another gesture of solidarity from a young, small woman who, regardless of the burns, has decided to start cooking her own recipe for jam. Inside the ghetto, Irena began to bring in food, clothes, medicines, and vaccines. And, starting in 1942, after the decision of the German authorities to liquidate the ghetto and transfer its occupants to the Treblinka extermination camp, Irena also began to pull out. Children. Boys and girls. Thousands of young lives. With the help of the Polish resistance network, called Żegota and formed by many young Jews, and thanks also to the intervention of many private citizens and various ecclesiastical institutions, Irena began to reap the benefits. Code name: Jolanta.

Jolanta entered the ghetto dressed as a nurse and hid the boys and girls in ambulances. She disguised herself as a plumbing technician and took them away in wooden boxes or jute bags. She loaded them into a truck and to get them out she got help from Shepsi, a dog trained to bark when the Germans arrived, to cover their weeping. She crossed the sewers over and over again, hand in hand with the little souls she was helping to escape from hell. She hid many of them in the coats of men and women who, on the tram, headed from one part of the city to the other. She sewed some of them into shrouds and let them out by passing them off as the corpses of typhus victims. Once they were out, her job didn't stop. She began to provide girls and boys with false documents, she took them to priests who baptized them so as to regularize them, in some way. She entrusted them to families who adopt them and to institutions – mostly religious – that hid them. Often the new arrivals were given the name and surname of Catholic children who had died and whose deaths had not been communicated to the authorities. For boys, when they had clearly Semitic physical characteristics, their hair was dyed or their faces were partially hidden with bandages, so as to avoid the risk of being inspected for a circumcision. There is a beautiful network of humanity that continued Irena's work. It has been calculated that in order to save a single creature from the ghetto, as many as ten citizens of Warsaw had to risk their lives. Irena, "Jolanta" for over a year, served as a shuttle between the navel of evil and the possible, faint hope for the future. But that was not enough. That was not enough for her. In her personal jam recipe, she added a secret ingredient to the preserves. On very thin sheets of cigarette paper, Irena noted all the names of the boys and girls she helped escape from the ghetto. Next to their original names, their new identity. Because her dream, her goal, was to be able to bring those young lives back to their families of origin, as if to put an order of humanity in the ignoble chaos of hatred and madness. As if to give a shoulder squeeze to those mothers who with difficulty were convinced to entrust their offspring to others, to those mothers who prepared their babies and their girls for detachment, explaining that another mother, awaited them beyond that ugly red wall and barbed wire. Irena hid the papers in the garden. No one could know about their existence. Nobody. Not even her tormentors. Because, sooner or later, if you make the jam, the burn comes. "Jolanta" was arrested on October 20, 1943. The Gestapo picked her up from her home and took her to the barracks in Viale Szucha. She knew what was waiting for her. She was tortured and interrogated. They broke her legs, arms and feet with batons and iron bars. They demanded that she speak, but silence was be the only answer the guards received. She didn’t have much to lose.The punishment for the crime of which she was accused consisted of having her family exterminated, person after person, starting from the smallest members. Irena wanted to save her long-ill mother. She wanted to save the man she loved, Adam Celniker, who was also partisan and hidden within his own network of contacts. She remained in prison three months, until she was sentenced to death. In the end she was saved. The Żegota managed to bribe an officer in charge of the execution. She escaped, but Irena Stanisława Krzyżanowska Sendler was on a list of those who should be shot on sight. Jolanta is forced to live in total hiding under a new name, Klara Dabrowska. And Klara continued to prepare her jams. During the Warsaw Uprising she worked as a nurse in the Health Point and after the war entered the Social Aid Center of the capital, enrolling, from 1948 to 1968, in the Polish Communist Party, which she left because of its anti-Semitic campaigns and policies of repression against students and intellectuals. She helped to create orphanages, a care centre for mothers and children in difficulty, and some institutions to support unemployed families. The regime arrested her in 1949 on suspicion of hiding members of the Armia Krajova Partisan Army and in prison she lost a prematurely born child. Despite her having received the Medal of "Righteous among the Nations" in 1965 from the Yad Vashem Institute, the national body for the memory of the Holocaust in Jerusalem, and in 1991 also receiving an honorary citizenship of Israel, Poland seems to have forgotten about her. Recognition had to wait until 1999, when some American students, pushed by their teacher Norman Conard, dedicated a play to her entitled “Life in a Jar”. It brought her name and her work out of the unjust oblivion in which they had been imprisoned. Irena Stanisława Krzyżanowska Sendler died in Warsaw on May 12, 2008, at the age of ninety-seven, a year after the Polish government declared her a "National Hero", recommending her name to the Stockholm Academy for the Nobel Peace Prize nomination. She had managed to save about 2500 young lives through her resistance actions. Most of them, however, have never seen their family of origin again. This small, stubborn, brave Polish woman was a partisan of justice and freedom, a wide opening in the black wall of the Warsaw ghetto, through which the good face of humanity appeared. Irena, "Jolanta", contrasted the darkest horror with the sweet and enveloping flavor of the jam. She held the ladle, wore her apron, took the sugar and saved all the fruits she could save, not stopping even in in the face of a closed garden.

"Every child saved with my help is the justification of my existence on this earth and not a title of glory. Every day is made to love and restrained love dies. My love is a drop in the ocean and where there is no water the drop is welcome. We are billions of drops: let us unite and we will be a sea.”

 

Traduzione polacca
Agata

Wydaje się, że przepis na konfiturę jest wszędzie taki sam. Wśród różnych pokoleń – stały, przez wszystkie lata, gdy był przygotowywany w domu. Potrzebne są owoce, cukier, garnek, słoiczki do przechowywania. Potrzebna jest osoba, która stanie przy kuchni, weźmie do ręki warzechę nie obawiając się poparzeń, co oczywiście może się zdarzyć, ale to nic w obliczu gęstego, pachnącego wyrobu do rozsmarowywania i może do zapamietania. Musimy przechować te konfitury w jak najlepszy sposób, aby praca nie poszła na marne i by móc się nimi cieszyć, by móc nimi obdarowywać, sprawiając tym samym radość. Doskonały przepis, ten na konfitury, trzeba dopracować. Ustalić właściwe proporcje, moment zbioru owoców. Wybrać odpowiednie pojemniki oraz kredens, w którym będą przechowywane. On również jest istotny. Jest jeszcze Ktoś, kto wykonuje tę pracę. Ktoś, kto zbiera, pilnuje podczas smażenia, miesza, łączy, przelewa. Zna się na smakach – Ten, kto robi konfitury. Smakuje dobrze, jak schronienie, jak dom, także wówczas gdy ten jest oddalony w czasie oraz przestrzeni. Można podziwiać tego, kto robi konfitury, bo wiele rzeczy może pójść nie tak. Tego, kto zakłada fartuch, idzie do ogrodu, wspina się na drzewo by zebrać owoce. Tego, kto dosypuje właściwą porcję cukru, rozpala ogień, miesza z uwagą by nie przypalić, wlewa do słoi i przechowuje. O tym przepisie nie można zapomnieć, bo zawsze na dnie świadomości pozostaje ten smak...Dlatego przepis jest tak ważny, nawet jeśli uważamy, że nie jest nam już potrzebny, bo recepturę znamy doskonale na pamięć – bo po latach poprowadzi nas do zdawałoby się zapomnianych smaków, wrażeń, wspomnień. Pierwszym krokiem jest pójście do ogrodu, pod drzewo, starając się uratować jak najwięcej owoców. Wydaje się to dość proste, lecz nie wszystkie ogrody są dostępne. Są te odległe, do których dociera się po długiej podróży. Są te zagraniczne, dające nieznane lecz dobre,nadające się na konfitury owoce. Są ogrody zamknięte, ogrodzone, gdzie trudno jest wejść, a jeszcze trudniej czasem z nich wyjść. I to właśnie te, choć niedaleko domu są najtrudniej dostępne. W Warszawie 2 października 1940 z polecenia gubernatora okręgu, Ludwiga Fischera, niemieccy okupanci zadecydowali o stworzeniu jednego z takich ogrodów. Nazwano go Gettem, słowem pochodzenia weneckiego – dla procederu, który w historii świata nie miał precedensu. Owoce, które znajdują się wewnątrz, mają precyzyjną nazwę – Żydzi. Rozpoczęto od budowy muru wysokiego na trzy metry, czerwone cegły i drut kolczasty jako strażnicy, decydujący kto pozostaje wewnątrz, a kto na zewnątrz, kto ma rację, a kto się myli, kto będzie żył, a kto umrze. Sfinansowaniem tego projektu obarczono samą społeczność żydowską. Nadzorował budowę „Judenrat”,wybrana przez Niemców Rada Żydowska. W największym szaleństwie ludzkości, kot zapragnął aby rada myszy odgrywała aktywną rolę w ich własnej eksterminacji. Do getta nie można się dostać bez pozwolenia, lecz przede wszystkim z getta nie można wyjść, chyba że do przymusowej pracy lecz i do tego trzeba mieć przepustkę. Całkowita przestrzeń to 4 km długości i 2,5 km szerokości, na której stłoczono 450 tysięcy istot ludzkich. Sieć wodociągowa i kanalizacyjna jest bardzo zniszczona i przeciążona. Wkrótce się zawali. Choć oficjalnym motywem stworzenia getta był lęk przed chorobami i epidemią, wkrótce będzie to wylęgarnia chorób, które zabijają, ułatwiając pracę okupantom. Tego sześcioramiennego drzewa nie chcą oni w swoim ogrodzie. Najpierw został ogrodzony i zamknięty, teraz należy go zlikwidować. Owoce pozostawiono, by dopadła je zgnilizna lub zostały zniszczone. W gettcie brakuje wszystkiego: bieżącej wody, prądu, żywności, lekarstw. Przydział żywności na jednego mieszkańca wynosi: 180 kalorii na dobę, 920 gram chleba na tydzień, 295 gram cukru na miesiąc. Głód wgryza się w jelita, zimno wysusza krew, bród zabija oddech. Tyfus zabija, zrywa owoce z drzew, wycina gałęzie, na których od dawna nie ma już liści. Ulice są pełne wysuszonych nasion z obumarłych jabłek, wychudłych ciał, ładowanych na wózki jak śmieci, bez poszanowania godności istot ludzkich, którymi były za życia. Przed ostatecznym rozwiązaniem, plan zaczyna się klarować, przynosić zamierzone efekty.

16 października 1940 roku mur zostaje ukończony. Próbujący uciekać zostają rozstrzeliwani na miejscu. Mieszkańcy Warszawy zostają ostrzeżeni, aby nie pomagać Żydom – karą jest śmierć. Szantaż jest idealny. Jednak jedna rzecz umknęła. Plan alternatywny. Recepta. Przepis – ten na konfiturę. Bardzo ważnym składnikiem konfitury jest cukier. Pomaga on stworzyć środowisko utrudniające rozwój pleśni i bakterii. W Warszawie centralną bazą cukrową jest kampus Wolnej Wszechnicy Polskiej. Kierowniczką prac jest prof. Helena Radlińska, Żydówka, która przeszła na katolicyzm. Zreformowała ona i zrewolucjonizowała polską pedagogikę. Kiedy po kapitulacji polskiej stolicy, 28 września 1939 roku rozpoczęły się prześladowania Żydów oraz intelektualistów, Helena Radlińska znalazła schronienie w klasztorze sióstr Urszulanek, skąd zorganizowała tajny uniwersytet oraz sieć oporu, w której działają i walczą jej studenci i studentki, jej koledzy i koleżanki, duża część Wydziału Opieki Społecznej w Warszawie. Wiele, wiele kobiet. Wśród nich cztery dziewczyny zatrudnione w warszawskim ratuszu decyduje się na pomoc oraz wsparcie dla ludzi w potrzebie, bez żadnego rozróżnienia, w szalonym i rewolucyjnym przekonaniu, że każdy owoc jest godny bycia zebranym i ocalonym od zniszczenia: Jadwiga Piotrowska, Irka Schultz, Jadwiga Deneka i Irena Stanisława Krzyżanowska-Sendler. Sendler udaje się do Radlińskiej z prośbą o radę, co można uczynić aby pomóc Żydom umierającym w gettcie. Pani profesor sugeruje jej aby utworzyć podziemną pomoc społeczną dla osób wyłączonych z wszelakiej pomocy społecznej. Irena zna społeczność żydowską w Warszawie. To dzięki niej i jej wsparciu finansowym mogła ukończyć uniwersytet, po tym jak jej ojciec, lekarz Stanisław Henryk Krzyżanowski zmarł na tyfus w lutym 1917 roku, pomagając Żydom podczas gdy wielu jego kolegów odmówiło ich leczenia. Był on badaczem i specjalistą chorób zakaźnych, aktywistą politycznym, jednym z pierwszych członków Polskiej Partii Socjalistycznej. Za swoje przekonania został wyrzucony z Uniwersytetu w Warszawie i Krakowie. Udaje mu się ukończyć studia na Uniwersytecie w Charkowie, który był miejscem różnorodności radykalnych idei oraz centrum intelektualnego i kulturalnego życia społeczności żydowskiej Europy wschodniej. Stanisław Henryk Krzyżanowski przekazuje córce miłość do medycyny, pragnienie sprawiedliwości i odwagę w walce o równość społeczną. Naśladując ojca, Irena buntuje się przeciwko segregacji studentów oraz studentek pochodzenia żydowskiego na uczelni i zasiada wśród nich po prawej stronie ławek uniwersyteckich. Wstępuje do Polskiego Stowarzyszenia Młodzieży Demokratycznej oraz do Polskiej Partii Socjalistycznej. Bedąc na studiach dla asystentów socjalnych zostaje zawieszona na dwa lata, udaje jej się obronić dopiero w 1939 roku, w wieku prawie trzydziestu lat. Naśladując swojego ojca oraz wdrażając w życie nauki swojej mentorki, Heleny Radlińskiej, Irena zakłada fartuszek, udaje się do ogrodu, wspina na drzewo, zbiera owoce i przygotowuje konfitury. Zaraz po ukończeniu studiów podejmuje pracę jako asystent socjalny w Otwocku ( miasteczku pochodzenia swojego ojca) oraz w Tarczynie. Wkrótce jednak, jeszcze w 1939 roku wraca do Warszawy, gdzie otrzymuje zatrudnienie w nadzorze sytuacji higieniczno-sanitarnej w gettcie. Jej zadaniem jest dopilnowanie, aby ewentualne zalążki epidemii nie wydostały się poza jego teren. W związku z tym otrzymuje specjalne pozwolenie na przemieszczanie się pomiędzy miastem, a gettem. Irena i jej koleżanki przechodzą kilka razy dziennie przez piekielne granice muru z czerwonych cegieł i drutu kolczastego. Znajdując się na terenie getta zakłada gwiazdę Dawida. Ten sprytny gest pozwala jej wtopić się w tłum, lecz przede wszystkim jest to gest solidarności młodej, drobnej kobiety, która nie zważając na poparzenia, zdecydowała się na stworzenie swojego osobistego przepisu na konfiturę. Wkrótce dostarczano na teren getta pożywienie, odzież, leki oraz szczepionki. Gdy od 1942 roku władze niemieckie podjęły decyzję o likwidacji getta i przeniesieniu uwięzionych do obozu zagłady w Treblince, Irena rozpoczyna pomoc w ucieczce dzieci. Chłopców. Dziewczynek. Tysięcy młodych istnień. Z pomocą Rady Pomocy Żydom, polskiej humanitarnej organizacji podziemnej, utworzonej przy Delegaturze Rządu RP na Kraj przez Zofię Kossak i pułkownika Armii Krajowej, Henryka Wolińskiego, zwanej Żegotą oraz instytucji kościelnych Irena zaczyna zbierać owoce. Jej pseudonim - "Jolanta”.

Jolanta” wchodzi do getta w przebraniu pielęgniarki i ukrywa dzieci w karetkach pogotowia. Przebiera się za hydraulika wywożąc je w drewnianych skrzynkach lub jutowych workach, które wkłada do ciężarówek. Ma do pomocy wyszkolonego psa, który szczeka na zbliżających się Niemców, aby zniechęcić ich do przeprowadzenia kontroli. Wielokrotnie przechodzi kanałami sieci kanalizacyjnej, trzymając za rączki małe dusze, którym pomaga w ucieczce z piekła. Wiele z nich ukrywa pod płaszczami kobiet i mężczyzn poruszających się tramwajami. Inne dzieci usypia i wywozi z getta jako zmarłe na tyfus. Jednak jej pomoc po udanej ucieczce się nie kończy. Organizuje fałszywe dokumenty, zawozi do księży by zostały ochrzczone, co legalizuje ich fałszywą tożsamość. Powierza je rodzinom, które je adoptują oraz istytucjom, przede wszystkim kościelnym, które je ukrywają. Bardzo często wykorzystuje dane katolickich dzieci, które zmarły, a ich śmierć nie została zgłoszona w urzędach. Ze względu na charakterystyczny, semicki wygląd, chłopcom barwiono włosy lub bandażowano częściowo głowę, aby nie budzili podejrzeń i uniknęli sprawdzenia czy nie są obrzezani. Irena jest otoczona siatką wspaniałych ludzi, którzy wspierają i pomagają. Zostało obliczone, że aby uratować z getta jedno życie, narażano życie dziesięciu mieszkańców Warszawy. Irena „Jolanta” jest pośredniczką między otchłanią zła a słabą nadzieją na przeszłość. To wszystko to jednak dla niej zbyt mało. To jej nie wystarcza. Do swojej osobistej receptury na konfiturę postanawia dodać tajemniczy składnik. Irena zapisuje imiona wszyskich dzieci, które ratuje z getta obok ich nowych personaliów. Jej marzeniem i celem jest przekazanie dzieci ich rodzinom po zakończeniu koszmaru wojny. W ten sposób chciała zaprowadzić ludzki porządek w nikczemnym chaosie nienawiści i szaleństwa. Daje wsparcie matkom, które z wielkim trudem udaje się przekonać do przekazania swojego potomstwa. Rodzice przygotowując swe dzieci do rozstania i by uspokoić je, mówią że za murem czeka na nich inna matka, ta prawdziwa... Dane dzieci Irena ukrywa w słoikach w ogrodzie. Nikt nie może się dowiedzieć o ich istnieniu. Wcześniej czy później, przygotowując konfiturę można ją przypalić. Jolanta zostaje aresztowana 20 października 1943 roku. Gestapo zabiera ją z domu i przewozi do aresztu śledczego na ulicy Szucha. Irena wie, co z nią będzie. Jest przesłuchiwana i torturowana. Katują ją przy użyciu pałek i metalowych rurek, łamiąc jej nogi, ręce, miażdżąc palce u rąk i stóp. Zarzucają ją pytaniami lecz jedyną odpowiedzią z jaką się spotykają jest milczenie. Ma zbyt wiele do stracenia. Jej zeznania skazałyby na śmierć członków jej rodziny i współpracowników. Irena pragnie ocalić swoją matkę, chorującą od jakiegoś czasu. Pragnie uratować mężczyznę, którego kocha, Adama Celnikera, żołnierza podziemia. W więzieniu na Pawiaku przebywa trzy miesiące, po czym zostaje skazana na karę śmierci. Udaje się ją uratować. Żegota przekupuje urzędnika odpowiedzialnego za jej egzekucję. Ucieka, lecz Irena Stanisława Krzyżanowska-Sendler jest na liście rozstrzelanych, więc „Jolanta” jest zmuszona by żyć przybierając nową tożsamość. Jako Klara Dąbrowska przyrządza dalej swoje konfitury. W Powstaniu Warszawskim uczestniczy jako sanitariuszka, a po wojnie udziela się w Centrum Pomocy Społecznej w stolicy. Wstępuje do PZPR w 1948 roku, lecz w 1968 rezygnuje z członkostwa ze względu na antyżydowską działalność partii oraz represje wobec protestujących studentów i intelektualistów. Wspiera i współorganizuje zakładanie Domów Dziecka oraz Domów Pomocy Matkom z Dzieckiem, oraz niektórym rodzinom bezrobotnych. Komunistyczne władze aresztują ją w 1949 roku w związku z podejrzeniem o ukrywanie członków podziemnej Armii Krajowej. Przebywając w więzieniu traci dziecko, które urodziło się przedwcześnie. Chociaż otrzymała w 1965 roku medal „Sprawiedliwy wśród Narodów Świata” od Instytutu Yad Vashem w Jerozolimie– krajowego organu pamięci zagłady Żydów, oraz w 1991 roku obywatelstwo honorowe Izraela, to wydaje się, że Polska o niej zapomniała. Trzeba było poczekać aż do 1999 roku, kiedy to grupa amerykańskich studentów pod silnym wpływem wykładowcy Normana Conarda, dedykuje jej spektakl teatralny „Life in a Jar” (Życie w słoiku), aby jej imię oraz liczne zasługi ujrzały światło dzienne po niesłusznym czasie zapomnienia. Irena Stanisława Krzyżanowska-Sendler umiera w Warszawie 12 maja 2008 roku w wieku 97 lat, rok po tym, jak polski rząd ogłasza ją bohaterem narodowym, rekomendując jej nominację do pokojowej Nagrody Nobla. Przez swą działalność udaje jej się uratować 2500 młodych żyć, większość z nich nigdy nie zobaczyła swojej rodziny. Ta drobna, uparta i odważna Polka była bojownikiem o sprawiedliwość i wolność. Kierowała tajną siatką w Gettcie w Warszawie, ukazując sprawiedliwą i dobrą twarz ludzkości. Irena „Jolanta” przeciwstawiła najciemniejszemu horrorowi słodki smak konfitury. Wzięła do ręki warzechę, założyła fartuch, użyła cukru i uratowała wszystkie owoce, które była w stanie ocalić nie zrażając się zamkniętym ogrodem.

„Każde dziecko uratowane z moją pomocą jest wytłumaczeniem mojego istnienia na Ziemi, a nie powodem do chwały. Każdy dzień jest stworzony do miłości, a powściągliwa miłość umiera. Moja miłość jest kroplą w morzu, a tam gdzie nie ma wody, kropla jest mile widziana. My jesteśmy miliardami kropli, zjednoczmy się, a utworzymy morze”

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