Profili

 

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In molti casi dietro ai nomi delle vie e delle piazze non emerge alcun ricordo, non prende vita alcun racconto su ciò che sono state queste donne. Le nostre pagine biografiche intendono disegnare profili di donne celebrate nello spazio fisico delle città italiane e straniere, ma anche ricordare quelle che ancora non hanno trovato posto nella sfera simbolica dell’odonomastica locale.

Essere raccontate per tornare a esistere.


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Elisabetta (detta Bettina) Rampielli Fuso

(Bologna, 1898 - Perugia, 1985)
 
Figura di rilievo nella vita artistica e culturale perugina del Novecento, la città le ha reso omaggio  intitolandole  una via in aperta campagna, sopra, ma non vicinissima, al Fuseum, il parco museale voluto e realizzato dal marito Brajo Fuso. Sulla targa c’è scritto solamente via bettina (tutto minuscolo), poco più avanti un’altra targa con scritto via brajo. Ci auguriamo che quanto prima le due targhe vengano corrette.
Si sa che Giuseppe Verdi e Giuseppina Strepponi venivano chiamati da tutti gli amici Peppino e Peppina, ma non esiste nessuna via peppino  o via giuseppe riferita al maestro (per la Strepponi in quanto donna il problema, si sa, non si pone).
 
Bettina Fuso, una pittrice sopra i tetti
di Paola Spinelli

Elisabetta Rampielli nasce nel 1898 a Bologna, ma a quattro anni è già a Perugia. Giovanissima, senza aver fatto alcuna scuola, ma molto attratta da tutto quanto è arte,  si diverte a fare il  ritratto  agli amici. Nel 1929 sposa Brajo Fuso, che la convince a iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Perugia. Dopo due anni però lascia l’Accademia, vuole continuare da sola, senza essere imbrigliata da regole che non rispondono ai suoi bisogni, libera di fare come vuole e ciò che vuole, soprattutto ritratti e paesaggi, particolarmente poetica è la serie Tetti. Espone  in varie città d’Italia e a Parigi, dove entra in contatto con l’ambiente culturale e artistico e riceve consensi e attenzione da parte della critica francese. Ottiene anche in Italia numerosi  premi e riconoscimenti.
Durante il fascismo e fino agli anni Cinquanta, il salotto di Bettina e Brajo Fuso all’ultimo piano di palazzo Cesaroni, sopra i tetti di Perugia, è un centro culturale dei più vivi, dove si respira un’aria internazionale e non solo… Racconta Nini Menichetti: “In casa Fuso circolava l’odore di acqua ragia e dei colori che fino al 1943 avevano servito solo a Bettina e poi anche Brajo iniziò a usare, per una scommessa con se stesso, per una sfida a Bettina, per un bisogno autenticamente sentito che si concreterà nella esplosiva ricchissima produzione del suo iter artistico”. 
In quella casa è ospite il ventenne Renato Guttuso, che fa il ritratto a Bettina, e  il giovanissimo Alberto Moravia che a Perugia  scrive diverse pagine de Gli indifferenti. Qui passano Curzio Malaparte, Felice Casorati, Enrico Falqui, Cesare Zavattini, Giulio Carlo Argan, Mario Mafai, Aurelio De Felice, Alberto Burri, Gerardo Dottori, Giuseppe Ungaretti, Gianna Manzini con l’amatissimo gatto Felicino.

Verso la fine degli anni ’60 Bettina smette di dipingere, da allora in poi dedica le sue energie alla realizzazione del sogno di Brajo, il Fuseum, il cui nome deriva dalla fusione del suo cognome con il sostantivo museum. Un fitto bosco di lecci fa da collocazione ideale alle opere di  Brajo. Per riposare e ripararsi quando piove c’è una casetta di pochi metri quadri  la Brajta, dalla fusione di  Brajo e baita. Scrive Brajo: “Desidero ardentemente che il Fuseum resti aperto al pubblico come Centro di aggregazione artistica e culturale, come luogo d’incontro, di confronto, di discussione, di studio; come struttura pubblica, insomma, al servizio di tutti, dove organizzare convegni, dibattiti, mostre, premi di pittura, spettacoli, dove ospitare giovani artisti meritevoli, dove proiettare filmati e diapositive, dove consultare libri... Questa mia creatura, ora che l’ho messa al mondo, non deve morire...”
E gli ultimi anni della sua vita Bettina li consacra a questa “creatura”.

Fonti
Nini Menichetti, Dai Fuso a palazzo Cesaroni. Ricordi e suggestioni, in Bettina Fuso, brochure pubblicata in occasione nella mostra omonima tenuta a Perugia, palazzo Cesaroni, dal 16 al 23 dicembre 1981
Antonio Carlo Ponti, Vita culturale del Novecento in Storia illustrata delle città dell’Umbria, a cura di Raffaele Rossi, ed. Elio Sellino, Milano,  1993
http://www.fuseum.eu/index.php?page=bettina#
 

Madre Imelde Ranucci

(S.Stefano di Palagano (MO), 1904 - Palagano (MO), 1980)
 
La piazza intitolata a Suor Imelde Ranucci, nel Comune di Palagano, è un ampio piazzale asfaltato circondato di alberi ancora piccoli, che non bastano a schermare gli edifici intorno né a proteggere dal sole le macchine che qui parcheggiano. La memoria e la storia di Palagano si incontrano in questa piazza per ricordare una figura che appartiene interamente alla vita e ai ricordi di questa comunità.
 
Una donna di fede e di azione
di Roberta Pinelli

Imelde Ranucci, a nove anni, come tante ragazze del primo Novecento, per poter studiare entrò nel convento delle suore Francescane dell’Immacolata di Palagano, diplomandosi maestra a 18 anni.
Per alcuni anni insegnò a Campogalliano, in provincia di Modena, poi ottenne la cattedra nella scuola elementare di Palagano, dove prestò servizio per moltissimi anni.
Nel 1928 entrò come novizia nel convento delle suore Francescane dell’Immacolata e nel 1932 pronunciò i voti perpetui; nel 1949 venne eletta Superiora Generale dell'ordine. Donna forte, intelligente e dinamica, fu sempre al fianco della comunità palaganese, come dimostrano anche i passi del suo diario scritto durante il periodo dell’occupazione nazifascista. I brani trascritti sono la testimonianza del suo senso di appartenenza alla comunità e della sua affettuosa compartecipazione alle vicende dei più deboli.
Il 16 settembre 1943, a soli otto giorni dall’armistizio, Suor Imelde scrive: “Verso sera la sorella portinaia mi prega di scendere in parlatorio, ove è qualcuno che ha bisogno di me. Vado e, non senza sorpresa, vi trovo un Rev. Sacerdote e una Signorina. Con poche parole il primo si presenta e chiede se possiamo ospitare temporaneamente la signorina della quale dà buone informazioni. E’ una dottoressa polacca, la quale, come tutti gli israeliti, ha bisogno di ricoverarsi in un rifugio per aver salva la vita dall’ingiusta legge nazista che vuole sterminare la razza ebraica. Apro di cuore la porta a questa pellegrina tanto bisognosa di protezione e di conforto. Mi racconta brevemente le sue dolorose vicende di questi ultimi tempi di tirannia in campi di concentramento”. La giovane dottoressa  Federica (Frida) Hubschman aveva 37 anni.  Restò nascosta nel convento di Palagano dal 16 settembre 1943 al 28 maggio 1945; precedentemente era stata internata a Finale Emilia. Era giunta a Modena da Prato il 19 aprile 1942, come risulta dal Censimento ebrei della Prefettura. Il gesto di Suor Imelde non solo è generoso, ma anche coraggioso: durante l’occupazione nazifascista, la pena per chi nascondeva ebrei era l’arresto, ma si poteva arrivare anche alla fucilazione.

L’8 marzo 1944, in occasione di un rastrellamento ordinato su tutto l’arco dell’Appennino modenese occidentale, così descrive l’arrivo dei militi fascisti: “Si precipitano correndo per le strade, facendo alzare le braccia e puntando l’arma a quanti incontrano [… ]. La popolazione è terrorizzata, giacché i nuovi arrivati si dimostrano violenti e perquisiscono ogni angolo delle case per trovarvi, dicono, qualche ribelle[…].  Hanno una lunga lista di persone accusate di essere o favorire i ribelli, ed in prima linea figura il nome di don Sante Bartolai, segnalato per essere fucilato sul posto. Infatti è subito arrestato e minacciato”. Don Sante Bartolai fu arrestato e poi trasferito a Fossoli di Carpi e, in seguito, al campo di sterminio di Mauthausen.
L’11 marzo madre Imelde racconta come fece fuggire un uomo nascosto nel convento: “Mandiamo S.L. a rendergli nota la situazione, ormai insostenibile. Egli è intelligente, comprende, approva e decide di andarsene. Lo camuffiamo alla meglio; gli diamo in tasca 2 uova ed una boccetta di grappa. Io faccio un giro di esplorazione. Il momento è opportuno, forse l’unico. Egli se ne va, cauto, per la via più nascosta. Io lo seguo dalla finestra con ansiosa preoccupazione… Finalmente lo vedo in salvo, lontano, ormai al sicuro… Appena liberato l’uccello, una numerosa squadra di soldati entra in convento e vi piglia alloggio”.
Sempre nel marzo 1944, il 18, scrive: “Il comandante del presidio repubblicano di Montefiorino, visto che, nelle precedenti esplorazioni a Costrignano e a Monchio, i militi non sono riusciti a catturare nessun ribelle, pensa di far venire l’artiglieria tedesca da Bologna”. I tedeschi e i fascisti modenesi giunsero effettivamente nella zona di Palagano e, dal 18 al 20 marzo 1944, compirono una durissima rappresaglia contro i paesi di Monchio, Costrignano e Susano (frazioni del comune di Palagano), provocando 136 morti fra la popolazione civile (i partigiani infatti avevano già abbandonato la zona), distruggendo quasi 200 abitazioni, incendiando oltre 170 stalle e fienili e causando danni per un ammontare di alcuni milioni di lire.
3 aprile 1944: “Non sono ancora passati tre giorni che i soldati [nazifascisti] sono partiti da Palagano ed ecco che oggi vengono nuovamente i ribelli. Alle 13 un giovane su di un veloce cavallino bianco entra, non senza una certa cautela, in paese. Con sommessa voce, chiede se tutti i militi sono andati ed alla risposta affermativa, con un forte fischio ordina al resto della compagnia, ancora lontana e nascosta, di avanzare francamente. In un momento gruppi di 8 o 10 uomini armati si avanzano. Fanno pena al solo vederli: sparuti nei loro abiti a brandelli, con barbe che li rendono irriconoscibili, sguardo piuttosto torvo ed una fame senza l’eguale. Portano visibili i segni della loro vita randagia, disagiata, piena di sacrificio”.
Nel giugno 1944 i partigiani riuscirono a liberare una vasta zona dell’Appennino intorno al paese di Montefiorino, corrispondente al territorio dei comuni di Montefiorino, Frassinoro, Prignano sulla Secchia, Palagano, Polinago, in provincia di Modena, e Toano, Villa Minozzo, Ligonchio, della provincia di Reggio Emilia, dove costituirono la prima repubblica libera dall’occupazione nazi-fascista. Madre Imelde, sempre attenta a quanto avviene ai “suoi” montanari, il 21 giugno 1944 scrive: “Grande comizio a Montefiorino, ove il commissario Davide [commissario politico della formazione partigiana “Modena Armando”] nomina il sindaco del Comune nella persona di un segnalato antifascista. Anche i partigiani di Palagano vi sono andati quasi al completo. Montefiorino è il 1° Comune libero di tutta Italia1.
I nazifascisti non potevano accettare la presenza di un territorio libero controllato dai partigiani proprio a ridosso della Linea Gotica; attaccarono quindi in massa la zona libera, che cadde dopo 45 giorni di furiosi combattimenti. La rocca di Montefiorino venne incendiata, le case depredate e distrutte, gli uomini deportati in Germania. Madre Imelde il 6 agosto1944 scrive: “Non sono ancora le 5 quando scendendo dal letto ed affacciandomi alla finestra, sono colpita da una scena indescrivibile che mi resterà impressa per tutta la vita. Montefiorino è in fiamme! Sembra un roveto ardente… Immagino, anzi, sento vivamente in me, lo strazio delle poche, povere donne rimaste sole in mezzo a tanto disastro. Quanta rovina! In breve ora, si trasforma in cenere il frutto di centinaia di anni di lavoro e di sudore!”.
Il 31 luglio 1944 descrive così il ritorno dei nazifascisti a Palagano: “Voci concitate raccomandano di fuggire subito tutti, perché un’intera divisione di SS punta su Palagano da quattro direzioni. Vengono a compiere un rastrellamento tremendo, porteranno via gli uomini e distruggeranno tutto il paese, perché zona partigiana e sede di Comando… Ormai il paese è quasi completamente disabitato… E’ una desolazione: ovunque è il deserto”.
E fra il 9 e il 14 settembre 1944: “Continuo passaggio e via vai di tedeschi da Palagano. Chiedono pane e altri viveri, ma non fanno alcun male qui. Sono stati attaccati sui monti di Susano e Costrignano, ove erano i partigiani ad attenderli. Per rappresaglia hanno colà bruciato qualche casa e portati via indumenti e biancheria da altre. Timore e paura in tutti”.
Il 12 gennaio 1945 scrive: “Alle 8 tutti i soldati sono in partenza verso Lama… Ancora una volta la Protezione divina è stata favorevole al nostro paese. Nessuna vittima, nessun incendio, mentre altrove questo rastrellamento è stato terrorizzante. Da Gazzano sono stati deportati trenta uomini dai 16 ai 66 anni. Da Roteglia, per un tedesco mancato, sono stati presi donne e bambini, poiché gli uomini erano fuggiti tutti”.
Quando finalmente l’occupazione tedesca e la guerra finirono, Madre Imelde riprese la sua attività di suora, di insegnante, di superiora del convento, raggiungendo in tutte queste attività insperati successi.

Nel 1950 ottenne l'apertura in paese della scuola media, che evitò ai ragazzi di Palagano di doversi spostare per disagevoli strade di montagna fino a Montefiorino e, negli stessi anni, portò a compimento la costruzione del nuovo grande convento a fianco del vecchio edificio.
Nel 1959 fondò a Palagano l'Istituto Magistrale, tuttora esistente come Liceo paritario delle Scienze Umane e Liceo Linguistico, l’unica scuola superiore funzionante, ora come allora, nella valle del Dragone.
Aprì poi a Modena una scuola dell’infanzia (tuttora funzionante, anche se dal 2005 appartiene ad un’altra congregazione religiosa), che negli anni ’60-’70 del secolo corso funzionò anche come Collegio Universitario. Una seconda scuola dell’infanzia fondata da Madre Imelde e gestita dalle suore Francescane di Palagano è ancor oggi attiva nel quartiere Madonnina di Modena.
E’ del 1970 l'apertura da lei fortemente voluta della missione delle suore Francescane di Palagano in Madagascar.
L'8 dicembre 1979, pochi mesi prima della sua scomparsa, il Consiglio Comunale di Palagano l’ha decorata con la medaglia d'oro per:  "l'altissimo determinante contributo recato allo sviluppo della comunità palaganese con una vita interamente spesa al consolidamento dei valori morali, sociali e religiosi fra la nostra gente".
Oltre alla piazza principale, sono intitolate a Madre Imelde Ranucci la scuola elementare di Palagano e il Cinema-Teatro del paese.

1) Si trattava di Teofilo Fontana, agricoltore di Gusciola di Montefiorino, che sarà poi eletto sindaco di Montefiorino alle prime elezioni dopo la Liberazione.

Fonti
Imelde Ranucci, Lacrime e sangue. 8 settembre 1943-30 maggio 1945, TEIC, Modena, 1970
Sante Bartolai, Da Fossoli a Mauthausen. Memorie di un sacerdote nei campi di concentramento nazisti, Modena, Quaderni dell’Istituto Storico della Resistenza di Modena e provincia, 1966
Walter Bellisi, Braccati. La persecuzione antiebraica nel Modenese e nell’Alta Valle del Reno (Bologna) 1943-1945, Ed. Il Fiorino, Modena, 2008
E. Gorrieri, La Repubblica di Montefiorino. Per una storia della Resistenza in Emilia, Il Mulino, Bologna 1966
K. Voigt, Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese, in G. Procacci - L. Bertuccelli, Deportazione e internamento militare in Germania, La provincia di Modena, Unicopli, Milano 2001
Le suore e la Resistenza, Atti del Convegno del 22 aprile 2009 promosso dalla Fondazione culturale Ambrosianeum di Milano e dall’Azione Cattolica di Milano
Elisabetta Salvini, Ada e le altre. Donne cattoliche tra fascismo e democrazia, Franco Angeli, Milano, 2013

Giulia Rinieri de' Rocchi

(Siena 1801 - Monsummano Terme 1881)
 
Di Giulia Rinieri de' Rocchi non si hanno tracce nella toponomastica locale, nonostante abbia vissuto gli ultimi anni della vita nella villa oggi divenuta sede del Palazzo Comunale; è sepolta in una chiesetta campestre, fuori Monsummano, insieme al celebre nipote Ferdinando Martini e ad altri membri della famiglia Martini.
Giulia è altresì assente dalle strade di Siena, che pur le ha dato i natali.
Una rua intitolata a Giulia Rinieri la troviamo a San Paulo del Brasile, ma si tratta con grande probabilità di omonimia.
 
Ritratto di Giulia, l'unica donna che Stendhal volle veramente sposare
di Laura Candiani
 
Le biografie di Stendhal (Henri Beyle-1783-1842) forniscono molte notizie sulle tante donne amate dal celebre scrittore ma danno pochissimo spazio a questa figura che ebbe invece un posto di straordinario rilievo nel suo cuore e nella sua vita. Giulia doveva essere una ragazza speciale, coraggiosa e intraprendente; figlia di Anna, una poetessa che animava un salotto letterario a Siena, a venticinque anni non aveva ancora marito, quindi il suo tutore la portò con sé a Parigi. Qui frequentò alcuni salotti e proprio in casa Cuvier, nel gennaio del 1827, incontrò per la prima volta Stendhal che stava attraversando un periodo di crisi e delusioni. Dopo un biennio su cui si hanno scarse notizie, sappiamo con certezza invece - dalle carte dello scrittore - che Giulia fece qualcosa di impensabile all'epoca: prese l'iniziativa e dichiarò  a Stendhal il suo amore. Lo scrittore fu incerto, ma anche emozionato e felice: voleva in qualche modo “resistere” alla bella e giovane senese; alla fine Giulia ottenne la sua vittoria e i due divennero amanti. La relazione andò avanti dalla primavera all'autunno del 1830 quando Stendhal fece il grande passo e la chiese in moglie al suo tutore, Daniello Berlinghieri, che rifiutò. Non si sa il motivo; forse la notevole differenza d'età, forse la fama di amatore inquieto, forse il pregiudizio verso un mestiere assai vago ... Certo è che i due continuarono a incontrarsi sporadicamente, visto che Stendhal era console a Civitavecchia. Il destino portò poi sul cammino di Giulia il cugino Giulio Martini, monsummanese, e il matrimonio si celebrò il 24 giugno 1833. Nonostante gli spostamenti della famiglia e la nascita di due figli, Giulia e Henri si ritrovarono nel '36 per non lasciarsi più, rimanendo amanti fino alla morte di Stendhal. 
La vita di Giulia in seguito fu senz'altro vivace e piena, data la carriera diplomatica del marito che portò la coppia a frequentazioni altolocate, ma quando Giulio divenne quasi cieco la situazione si fece malinconica e solitaria; si trasferirono nella bella villa di Monsummano, ma dovettero affrontare molti lutti dolorosi: primo fra tutti la morte della figlia Annina. Giulia morì a ottanta anni, dopo aver dedicato l'ultima parte della sua vita alla preghiera e ai più sfortunati.
La straordinaria scoperta di questo amore avvenne in modo del tutto casuale per opera del nipote di Giulia, Ferdinando Martini, scrittore, deputato del Regno per ben quarantatré anni, infine senatore e fra i fondatori dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Nel 1896, rovistando nei bauli e fra le carte appartenute alla zia, che aveva a lungo frequentato, vivendole a due passi, nella villa oggi detta “Renatico Martini”, Ferdinando scoprì lettere scottanti e persino la domanda ufficiale di matrimonio di Stendhal: di tutto questo la zia aveva sempre taciuto perché evidentemente, all'epoca, erano situazioni assai delicate e imbarazzanti. Il Martini cominciò a riordinare i documenti e a pubblicarne alcuni, ma poi prevalse il pudore della famiglia, tanto che oggi di queste preziose carte ne sopravvivono ben poche (presso la Biblioteca Forteguerriana di Pistoia).
Molto interessante in tutta questa vicenda non è soltanto conoscere il legame affettivo fra un uomo e una donna, ma comprendere - come hanno fatto attenti studiosi - quali tracce di Giulia compaiono nelle opere immortali di Stendhal e fino a che punto la giovane brillante toscana ne influenzò l'arte. Sembra certo che varie figure femminili in qualche modo le somigliano, ma in particolare nella Certosa di Parma, la scena della “prima volta” fra Clelia e Fabrizio dovrebbe ricordare molto il simile emozionante episodio riguardante la coppia. Nel Rosso e il Nero il protagonista - come Henri - cerca di resistere all'amore, ma poi Matilde (in cui è facile leggere il carattere di Giulia), con la sua maturità e saggezza, pare indicare a Julien la necessità (come per lo scrittore stesso) di liberarsi definitivamente dalla opprimente figura materna, per emanciparsi.
Nel confondersi fra letteratura e vita, possiamo affermare che fu solo lei - Giulia- la donna che seppe guidarlo verso la maturazione, umana e artistica, la donna cui Henri poté dire (come Julien): ”Sappi che ti ho sempre amata, che non amo che te.”
 
Fonti:
G. GIAMPIERI, Giulia Rinieri de' Rocchi, la musa toscana di Stendhal, in “Donne di penna”, 2003, Istituto Storico Lucchese- sezione Storia e Storie al femminile-Buggiano Castello (nelle note viene più volte citata la tesi di  laurea di F. BECHINI).
 

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Anna Gaggio

(Milano, 1935 - Roma, 1993)

La sua vita di donna e di libraia è legata in modo indissolubile alla città di Roma. La libreria Uscita, in Via dei Banchi Vecchi, è stata, per moltissimi giovani vissuti tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, un importante punto di riferimento culturale. Per questo motivo nell’estate del 2013 il gruppo Toponomastica femminile e la Casa Editrice Bibliosofica hanno proposto al Comune di Roma l’intitolazione di un’area pubblica.

Anna Gaggio, libraia militante
di Giovanni Feliciani


Annamaria Gaggio nasce in una famiglia di artisti: il nonno Luigi era nella sua epoca un noto scultore veneziano, il padre Riccardo e la madre Erica Vetter erano entrambi cantanti lirici. Con lo scoppio della guerra e l’inizio dei bombardamenti, Riccardo trasferisce la famiglia in un paesino del veronese. Quando l’armata tedesca inizia la ritirata verso il Brennero, e i bombardamenti degli Alleati raggiungono il paesino, la cantina dei Gaggio diventa il rifugio quasi quotidiano per le famiglie contadine del vicinato. Anna ha 9 anni e viene fortemente impressionata non solo dagli scoppi delle bombe che cadono: la paura, i pianti, le preghiere delle donne rimarranno per sempre indelebili nel cuore e nella memoria.
Con la Liberazione dal nazifascismo la famiglia ritorna a Milano. Dopo un matrimonio sfortunato e di breve durata, Anna vive per un paio di anni tra Ginevra e Losanna. Rientrata a Milano in seguito a una grave malattia del padre, lavora al primo Informatutto di Selezione dal Reader's Digest.
Nel 1968 conosce Gianni Peg, grafico e impaginatore per la Feltrinelli. Insieme decidono di accettare la proposta di Nanni Balestrini di creare a Roma una piccola libreria di avanguardia: “… l’idea è quella di aprire un punto di presentazione al pubblico dei prodotti (letterari, audiovisivi, audiomusicali, etc.) della letteratura d’avanguardia, sotto tutela del Gruppo ’63, nel momento in cui sia il Gruppo che la rivista Quindici aprono al movimento studentesco”1 .
Il progetto prende vita in un piccolo locale affittato in via dei Banchi Vecchi al n° 59. Nel manifesto di presentazione si legge: “… attendiamo la collaborazione di autori operatori editori musicisti artisti aperti all’analisi del linguaggio in tutte le sue dimensioni. In questo senso la nostra iniziativa si propone come laboratorio di “uscita”, luogo esterno di reperimento di tutti i rintracciabili documenti di lavoro di lotta e penetrazione oltre le maglie di potere e controllo sulla cultura, dove la fruizione passiva di prodotti caduti dall’alto è per essere negata dall’intervento e dalla partecipazione di base”. Il logo della libreria USCITA è, con la freccia accanto, quello delle uscite dai rifugi antiaerei dell’ultima guerra.
Quando la rivista Quindici chiude e viene a mancare l’appoggio del Gruppo ’63, Anna e Gianni non si perdono d’animo e proseguono incontri e attività nella loro libreria-laboratorio. E’ la prima svolta dell’Uscita, che inizia la collaborazione con varie associazioni e ambasciate e con Arci-Uisp per film e documentari che provengono dall’Africa e dall’America latina. Trasloca, la libreria, in un locale più ampio al n° 45 che ha il vantaggio di una sala sotterranea adatta a proiezioni, dove prenderà vita il circolo del cinema.
Alla fine del 1974, quando Gianni Peg decide di riprendere la sua attività di illustratore a Milano e lasciare la libreria, “Anna rimane l’anima della libreria. Sempre alle prese con il certosino lavoro di catalogazione dei testi per argomento, con l’obiettivo di realizzare un negozio biblioteca dove poter leggere i libri anche senza acquistarli ”2. Infatti la libreria Uscita è una delle prime ad esporre i volumi raggruppati per argomento, anziché seguire l’abitudine dell’ordine alfabetico per autore o l’ordine delle novità imposte dal mercato. Le testimonianze parlano di “un luogo speciale, pieno di occasioni di crescita”. Nonostante le difficoltà (il locale subisce due attentati, una prima volta viene completamente bruciato, e rimane allagato durante una piena del Tevere); nonostante i mutamenti nel commercio librario e l’apertura dei primi “supermercati” del libro, Anna continua a mantenere il carattere “di servizio” della libreria e a procurare, a chi gliene fa richiesta, testi rari o di difficile reperibilità, mantenendo rapporti con le piccole case editrici e con altre librerie, sia in Italia che in Francia, Svizzera, Austria.
Un giorno, ritornando da una consegna, Anna ha un malore; lascia l’auto ed entra a piedi al Pronto Soccorso del Santo Spirito; poche ore più tardi è già in coma. Muore dopo due settimane, il 9 aprile 1993.

1 da: La cultura brucia, Anna e la libreria Uscita nella Roma degli anni ’70, a cura di Giovanni Feliciani, Catia Gabrielli, Gianni Peg , Ed. Bibliosofica, Roma,2010
2 da: Anna Gaggio, la libraia militante in Paola Staccioli , 101 donne che hanno fatto grande Roma, Newton Compton Editori, Roma, 2011.

Fonti:
Giovanni Feliciani, Catia Gabrielli, Gianni Peg (a cura di),  La cultura brucia. Anna e la libreria Uscita nella Roma degli anni ’70, Ed. Bibliosofica, Roma, 2010.
Paola Staccioli, Anna Gaggio, la libraia militante, in  101 donne che hanno fatto grande Roma, Newton Compton Editori, Roma, 2011.

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Giovanna Garzoni

(Ascoli Piceno, 1600 - Roma, 1670)

Nel 1967 Roma ha intitolato una strada alla figura di Giovanna Garzoni, miniatrice del XVII secolo. Per un semplice errore di trascrizione nel cognome – una “z” al posto della “r”– il suo ricordo è rimasto  celato per oltre quarant’anni; solo nel 2012, corretta la svista, si è ricomposta la memoria. Oltre alla via a ridosso del Grande Raccordo Anulare, una stretta “rua” del centro storico di Ascoli Piceno testimonia il valore della pittrice. Né Torino, né Firenze, né Napoli, città in cui Giovanna Garzoni visse ed operò con molto successo, le hanno concesso questo riconoscimento.
 
Giovanna Garzoni,"miniatora" ascolana
di Barbara Belotti


Nella Pinacoteca civica di Ascoli Piceno si trova un quadro raffigurante Giovanna Garzoni, la cui attribuzione fa ancora discutere gli storici e le storiche dell’arte. La donna, chiusa in un severo abito nero, mostra  un piccolo ritratto femminile a testimonianza della sua attività pittorica; la pittrice è molto avanti con l’età, i tratti del volto appaiono appesantiti,  gli occhi non nascondono i segni del tempo. Un altro ritratto della pittrice, molto simile al dipinto ascolano, si conserva nell’Accademia di San Luca a Roma e testimonia la sua appartenenza alla prestigiosa associazione di artisti fondata da Federico Zuccari alla fine del XVI secolo. Un terzo ritratto, di forma ovale, era collocato sulla sua tomba nella Chiesa dei SS. Martina e Luca a Roma. Il valore della pittrice, ampiamente riconosciuto dai contemporanei, si è nel tempo sbiadito e, solo a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo , si è risvegliato l’interesse verso la sua produzione.

L’anno di nascita di Giovanna Garzoni – il 1600 - non appare in alcun documento,  ma viene desunto da un dipinto datato 1616 in cui la giovane pittrice scrive <<IONA DE GARZONIBUS. FA. ANO SUAE AETATIS XVI 1616>>; il luogo di nascita non è confermato dai documenti, anche se più volte l’artista si definisce “ascolana”.
Appartiene ad una famiglia di origine veneziana, tra i cui membri “scorrono” interessi artistici: il nonno materno era orafo e lo zio, Pietro Gaia, pittore. La formazione di Giovanna, come spesso accade alle donne artiste, avviene probabilmente all’interno delle mura domestiche visto il divieto di frequentare come apprendiste le botteghe di un maestro pittore. Il legame con la città natale è soprattutto di natura affettiva, perché l’esistenza e la vita professionale di Giovanna si svolgono lontano dalle Marche.
Fino al 1630 le notizie sono frammentarie: prima di questo anno è documentato il soggiorno a Venezia durante il quale realizza un’opera di soggetto religioso raffigurante Sant’Andrea, attualmente conservato nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Nella città lagunare si dedica anche alla miniatura e alla calligrafia, come prova il Libro de’ caratteri cancellereschi corsivi conservato nella Biblioteca Sarti dell’Accademia di San Luca a Roma. Nel volume sono riunite lettere e aneddoti redatti dalla miniatrice la quale, più che dare indicazioni di metodo, indugia in “perfetti esercizi di stile”e in puri virtuosismi di penna. Durante la permanenza a Venezia Giovanna si sposa ma il matrimonio è di breve durata, sciolto legalmente perché la pittrice ha precedentemente fatto voto di castità.
Con un documento di buona condotta rilasciato dal parroco della chiesa di San Salvatore, accompagnata dal fratello Matteo, Giovanna si allontana da Venezia per recarsi a Napoli dove entra in contatto con il Viceré, il Duca di Alcalà, che la protegge. Del soggiorno napoletano rimangono poche notizie e nessuna opera, anche se la pittrice esegue numerosi ritratti e soggetti religiosi di piccole dimensioni.
In questo stesso periodo comincia un rapporto epistolare con Cassiano Dal Pozzo, ricco collezionista e mecenate dell’epoca, torinese di nascita ma romano di adozione, forse conosciuto a Roma in un breve soggiorno durante il trasferimento a Napoli. È interessante sottolineare che, contemporaneamente alle lettere di Giovanna Garzoni, arrivano a Cassiano Dal Pozzo anche quelle di Artemisia Gentileschi, in quello stesso periodo pure lei a Napoli.
Nel 1631, al momento del trasferimento del Duca di Alcalà in Spagna, Giovanna capisce di dover trovare un’altra protezione e si rivolge a Cassiano Dal Pozzo per poter far ritorno a Roma.  Il grande collezionista e amante dell’arte antica e contemporanea possedeva una vasta raccolta di opere, accanto alle quali non disdegnava di inserire oggetti di interesse scientifico e antropologico. Questi oggetti erano le note caratteristiche di molte collezioni seicentesche in cui tutto, dall’arte alla scienza, poteva essere incluso secondo la logica della “rarità” e della “novità”. È probabile che anche le piccole opere miniate di Giovanna Garzoni rientrassero fra questi oggetti “curiosi”, particolari non solo per le dimensioni contenute e per la precisione dell’esecuzione, ma anche perché l’opera artistica realizzata da una donna suscitava ammirazione e appariva un oggetto inconsueto.
Il desiderio espresso da Giovanna  di tornare a Roma viene esaudito solo in parte perché nel 1632 la pittrice si sposta a Torino, presso la corte dei Savoia, su richiesta esplicita della Duchessa Cristina che desidera “sommamente haver qua al servizio nostro Giovanna Garzoni miniatrice”. Non è da escludere a questo proposito anche l’interessamento di Cassiano Dal Pozzo.
Giovanna Garzoni è ormai famosa, richiesta per le sue tempere su pergamena che esegue in piccolo formato. Il  linguaggio artistico mostra già le sue caratteristiche peculiari. Le miniature sono  realizzate con un’attenzione lenticolare che rivela un’arte e un’abilità eccezionali e la messa a punto di uno stile particolarissimo, una sorta di “pointillisme antico”, realizzato accostando il colore con delicati tocchi di pennello che rendono vibrante la superficie cromatica. Sono soprattutto i ritratti, per i quali è celebre, ad essere richiesti dalla corte sabauda, ma alla pittrice cominciano ad essere commissionate anche nature morte, genere che negli anni a venire farà la sua fortuna. Le piccole scene di natura morta hanno impianti compositivi unitari, con gli oggetti riprodotti in maniera particolareggiata e riuniti in un unico contenitore (spesso un piatto di ceramica) al centro della composizione, secondo le influenze della pittura lombarda e delle opere di un’altra artista famosa, Fede Galizia.
Nel 1637, alla morte di Vittorio Amedeo di Savoia, Giovanna Garzoni lascia Torino; fino al 1641 le notizie biografiche si fanno più incerte, mancando di riferimenti materiali; viene proposto in questo periodo un soggiorno all’estero, in Francia e in Inghilterra probabilmente, che, se pur non documentato, spiegherebbe i riferimenti alla pittura d’Oltralpe.
Nel 1642 rientra a Roma dove può contare su importanti contatti come quelli con Cassiano Dal Pozzo e con Anna Colonna, moglie di Taddeo Barberini e nipote di Urbano VIII, per la quale aveva già eseguito durante il soggiorno napoletano una Madonna col Cristarello e San Giuseppe. Il soggiorno però è ancora una volta di breve durata, perché la pittrice comincia un felice rapporto di collaborazione con la corte medicea. Per gli importanti committenti copia opere celebri, esegue ritratti e prosegue la sua produzione di piccole nature morte, miniature su pergamena nelle quali la lettura particolareggiata degli elementi naturali si unisce a spiccati intenti estetici e decorativi. Le sue pergamene riscuotono il favore della corte, la considerazione nei suoi confronti è alta, visto che le è garantita una retribuzione mensile fino al 1662, anche dopo il rientro a Roma, dove risiede stabilmente a partire dagli anni ‘50 del secolo. Il suo nome è ricordato in alcuni documenti redatti per l’Accademia di San Luca, alla quale dovrebbe essere ammessa verso la metà del decennio. All’Accademia la pittrice lascia, secondo il testamento redatto nel 1666, tutti i suoi averi e le sue opere chiedendo di poter essere sepolta nella Chiesa romana dei SS. Martina e Luca. La data della morte, pur non confermata da documenti ufficiali, viene fissata al 1670, tra il 10 febbraio, giorno in cui gli Accademici si recano in visita nella sua abitazione, e il 15 febbraio, quando si compila l’inventario dei beni e si dà lettura del testamento.

Fonti:
L. Pascoli, Vite de’ Pittori, Scultori, ed Architetti moderni, Roma, I, 1730; II, 1736 (ed. critica 1992);
B. Orsini, Descrizione delle pitture Sculture Architetture e  altre cose della insigne città di Ascoli nella Marca, Perugia, 1790
G. Cantalamessa Carboni, Memorie intorno i letterati e gli Artisti della città di Ascoli nel Piceno, Ascoli, 1830
A. Ricci, Memorie storiche delle arti e degli artisti della marca di Ancona, Macerata, 1834
G. Cantalamessa, Ritratto della miniatrice Garzoni dipinto da Carlo Maratti, “Roma”, I, 1923,6, pp.245-247
R. Gabrielli, Artiste ascolane. Giovanna Garzoni, “Vita Picena”, XXXV, 1934, 14
M.Gregori, schede firmate in La natura morta italiana, Catalogo della mostra, Milano, 1964
A. Cipriani, Giovanna Garzoni miniatrice, “Ricerche di Storia dell’Arte", I, 1976,1-2, pp.241-254
S. Meloni Trkulja, Le miniature degli Uffizi, in Gli Uffizi. Catalogo generale, Firenze, 1979
A. Sutherland Harris, L. Nochlin, Le grandi pittrici 1550-1950, Milano, 1979 (1° ed. New York 1976)
M. Rosci, La Natura morta, in Storia dell’arte italiana. Forme e modelli, XI, Torino, 1982, pp. 83-113
B. Belotti, Giovanna Garzoni, “Piceno”, VI-VII, 1983, pp. 79-90
S. Meloni, Giovanna Garzoni miniatora medicea, “FMR”, 1983, 15, pp. 77-96
A. Morgan, A Fete of Flowers: women Artists Contribution to botanical Illustration, “Apollo”, CXIX, 1984, 266, pp. 264-267
M. Rosci, Giovanna Garzoni dal Palazzo Reale di Torino a Superga, in Scritti di Storia dell’arte in onore di Federico Zeri, II, Milano, 1984, pp. 565-567
L. Salerno, La natura morta italiana 1560- 1805, Roma, 1984
A. Griseri, Ritratti Sabaudi di Giovanna Garzoni, “Studi Piemontesi”, XIV, 1985, 2, pp. 355-357
S. Meloni Trkulja, schede firmate in Natura viva in casa Medici, Catalogo della mostra, Firenze, 1985
M. Gregori, Linee della Natura morta fiorentina, in Seicento Fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Catalogo della mostra, I Firenze, 1986
M. Gregori, E Fumagalli, schede firmate, in Seicento Fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Catalogo della mostra, I Firenze, 1986
S. Meloni Trkulja, Giovanna Garzoni, in Seicento Fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Catalogo della mostra, I Firenze, 1986
M. Gregori, La natura morta in Toscana, in La natura morta in Italia, Milano 1989, pp. 513-523
A. Griseri, La natura morta in Piemonte, in La natura morta in Italia, Milano 1989, pp. 146-195
C. Piglione, Giovanna Garzoni, in La pittura in Italia. Il Seicento, Milano 1989, pp. 754-755
G. Casale, Giovanna Garzoni “Insigne miniatrice” 1660-1870, Milano-Roma, 1991
P. Zampetti, La pittura nelle Marche. Dal barocco all’età moderna, IV, Firenze, 1991
G. Casale, Sul rapporto “Arte-Scienza” nel sec. XVII: Giovanna Garzoni Pittrice Ascolana (1660-1670), in Il Seicento nelle Marche. Profilo di una civiltà, Ancona, 1994, pp. 234-256
G. Casale (a cura di) Gli incanti dell’iride. Giovanna Garzoni pittrice del Seicento, Catalogo della mostra, San Severino Marche, 1996
S. Meloni Trkulja, E. Fumagalli (a cura di) Giovanna Garzoni. Nature morte, Parigi, 2000
M.Gabriella Mazzocchi, Ritratto di una vecchia signora: il dipinto della Pinacoteca di Ascoli Piceno raffigurante Giovanna Garzoni, in “Proposte e Ricerche”, anno XXVIII, n°54, 2005

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Bianca Garufi

(Roma, 1918 - Roma, 2006)

Non esiste nella toponomastica di Roma alcuna traccia di Bianca. Il Comune di Letojanni (Me), cittàdina siciliana di cui era  originaria la famiglia e dove lei trascorreva lunghe vacanze estive, le ha intitolato la biblioteca civica e recentemente ha posto una targa nel palazzetto nobiliare di famiglia.  Si propone l’intitolazione a lei di uno spazio pubblico a Roma, città di nascita e di morte.

Una interprete dell'universo femminile
di Marinella Fiume

La conobbi ottantenne, ma gli anni non riuscivano a scalfire il suo fascino sottile, il suo portamento elegante, la sua bellezza mediterranea a tratti egizia. Era alta, affusolata, lieve nei movimenti come una ragazzina e come una ragazzina amava parlare più del futuro che del passato. Mi ricevette nella sua casa romana, un attico di un palazzo antico a Trastevere con una terrazza assolata piena di vasi di fichidindia, aranci, limoni e melograni, mentre un po' al riparo stavano i bonsai. Anche il grande soggiorno nel quale mi fece accomodare era arredato con mobili antichi siciliani e pezzi orientali laccati: una specie di sintesi della sua vicenda biografica. Non facemmo in tempo a fare il viaggio in Sicilia sulla scorta del libro dell’archeologo Emanuele Ciaceri, Culti e miti nella storia dell'antica Sicilia, che ci eravamo ripromesse di fare insieme.
Nacque a Roma il 21 luglio 1918 da una madre ribelle, «potente», donna-Domina, l’unica superstite di una numerosa famiglia aristocratica siciliana sopravvissuta al  terremoto di Messina del 1908. Del conflitto con la figura materna, Bianca scrive nel 1943, quando aveva venticinque anni, in Romanzo postumo: «Più mi ribellavo, più le somigliavo». A quante di noi non è capitato?....
A Letojanni trascorre la giovinezza fino alla laurea in Lettere e Filosofia conseguita a Messina nel 1951, discutendo una tesi di laurea, la prima in Italia, su Carl Gustav, "Struttura e dinamica della personalità nella psicologia di C. G. Jung" con il professor Galvano della Volpe. Ma qui si reca molte volte anche in seguito a trovare l'amata sorella Renata, virtuosa del pianoforte, della cui amicizia ho avuto il bene di godere. L'attaccamento alla terra madre è visibile anche nei suoi romanzi Fuoco Grande (1959) e Il Fossile (1962).
Il lavoro del marito, il parigino Pierre Denivelle, impiegato all'Olivetti, e l'attività di traduttrice la porteranno a continui spostamenti in giro per il mondo: Parigi, New York, Estremo Oriente, e nel 1970 per tre anni si trasferisce a Hong Kong, dove istituisce il lettorato di lingua e cultura italiana presso l'Università cinese.
Nella Roma occupata dai nazisti, la Garufi partecipa alla Resistenza accanto a Fabrizio Onofri, figura carismatica del Partito comunista , ma è nella sede romana dell'Einaudi, dove nel 1945 lavora come segretaria, che incontra Cesare Pavese. Ne nasce un sodalizio spinto soprattutto dalla curiosità di Pavese sia per la psicoanalisi, che la Garufi aveva iniziato a coltivare, sia per il comune interesse per i miti greci, cari alla psicologia junghiana. L'amore non corrisposto porterà Pavese alla scrittura dei Dialoghi con Leucò, grecizzazione del nome di Bianca, "donna forte fatta di terra e di mare", che vanamente aveva sempre cercato, il cui sguardo "di salmastro e di terra" ritorna ancora nel ciclo di poesie La terra e la morte a lei dedicate. Nasce dal loro sodalizio anche il romanzo a quattro mani Fuoco grande, pubblicato nove anni dopo la morte dello scrittore, mentre Romanzo postumo  è del 1943. Nel romanzo Il fossile  (1962) conclude la vicenda dei protagonisti di Fuoco grande e nel 1968 la Longanesi pubblica Rosa Cardinale, altro romanzo a forte connotazione psicologica.
La corrispondenza Garufi-Pavese pubblicata nel volume Una bellissima coppia discorde a cura di Mariarosa Masoero per l’editore Olschki  si estende dall' estate '45 al ' 50, infittendosi soprattutto nel '46, dopo le dimissioni di Bianca dall' incarico einaudiano (dicembre '45): qui Cesare esprime perfino la vana speranza di sposarla, dopo il fallimento sentimentale della storia con Fernanda Pivano.
Pur continuando il lavoro di traduttrice (tra gli altri Claude Levi-Strauss e Simone Beauvoir), dagli anni Settanta si dedica all'attività di psicoterapeuta junghiana, diventa vice presidente dell'Associazione Internazionale di Psicologia Analitica e membro dell'Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA), fondata nel 1961 da Ernst Bernhard, con l'intento di diffondere in Italia la conoscenza del pensiero di Carl Gustav Jung, il grande antagonista di Freud. E la Garufi ebbe la fortuna di entrare in analisi con lo stesso Bernhard.
In seguito, tra gli allievi prediletti di Bianca, vi fu Concetto Gullotta,  mio compagno delle stagioni estive nella Marina di Fiumefreddo sulla costa ionico-etnea, dov’è nato, poi divenuto presidente dell'AIPA.
Ma, più che la prosa, le è cara la poesia, attività a cui si era dedicata sin dai suoi vent'anni: molte poesie sono raccolte in Se non la vita. Poesie anni 1938-1991 (Scheiwiller, 1992). La Garufi  assegna infatti alla poesia il ruolo di fondamentale forma espressiva. L'incontro con James Hillman, che Bianca contribuì a far conoscere in Italia negli anni Ottanta tra la generale diffidenza di quegli anni per la psicologia archetipica, rafforza il suo interesse per la funzione immaginativa. Il suo percorso è la dimostrazione esemplare del fatto che il terapeuta, più vicino al modello ideale di “terapeuta dell’anima”, della psiche, non possa non essere un artista.
Insomma Bianca Garufi non è stata soltanto la Leucò di Cesare Pavese, un’ingiustizia che spesso avviene alle donne dei mostri sacri, è stata la più importante psicoanalista junghiana nell’Italia dell’ultimo scorcio del Novecento e l'interprete di un intreccio fecondo tra psicologia analitica e letteratura.
Nel 1974, a Roma, scrive una pièce sulla condizione della donna e sulla sua emancipazione, intitolata Femminazione, presentata alla Rai. In un articolo pubblicato nel 1977 sulla "Rivista di Psicologia Analitica" dal titolo Sul preconcetto dell'inferiorità della donna, affronta ancora il tema a lei molto caro: l'interpretazione dell'universo femminile dal punto di vista della psicanalisi e della psicologia analitica. Nel 1980 partecipa a un congresso sulla moda e il rapporto con la psiche umana a San Francisco, esponendo il tema del senso d'affetto per il corpo, perché "abbiamo solo questo per esistere e rappresentarci quindi deve essere per forza, attraverso la moda, lo specchio del nostro io".
Nell'ultimo periodo della sua vita, continua a scrivere di psicologia del profondo per le più prestigiose riviste specialistiche: la "Rivista di Psicologia Analitica", il "Jounal of Analytical Psycology", "Spring" e "Anima".
Muore a Roma il 26 maggio 2006. L’indomani della sua morte, l’estremo saluto di “Psicologia Dinamica” tocca a Luciano Perez, che scrive tra l’altro: “La avvolgeva una sorta di universalità femminile, di ewig Weibliches, di “eterno femminino”, il che si ritrova nelle sue poesie, pubblicate da Scheiwiller: “Sono stata cavalla/mucca farfalla/Sono stata una cagna/una vipera un’oca/Sono stata tutte le cose mansuete/e ampie della terra...una certezza quadrata...sono stata anche tigre/cima e voragine/strega/sacra e terribile bocca dentata. Il cielo è stato benigno con questa mia grande amica nel farla spegnere senza sofferenze e nel donarle, il giorno della cerimonia commemorativa l’indomani della morte, una giornata radiosa quali quelle che, nella sua profonda mediterraneità, amava".

Bibliografia:
Romanzo postumo, inedito, 1943
La spirale e la sfera, poema
Fuoco grande, di Cesare Pavese, Bianca Garufi, Einaudi, Torino, 1959 (2003)
Se non la vita. Poesie 1938-1991, Milano, All'Insegna del Pesce d'Oro
Il fossile, Einaudi, Torino, 1962
La fune, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1965
Rosa Cardinale, Longanesi, Milano, 1968

Traduzioni
Monique Lange, Les poissons-chats : traduzione italiana I pescigatto, Einaudi, Torino, 1960
Simone De Beauvoir, La force des choses, Gallimard, Paris 1962 : traduzione italiana La Forza Delle Cose, Einaudi, Torino, 1966
Claude Lévi-Strauss, Tristes Tropiques, Libraire Plon, Paris 1955 : traduzione italiana Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 1996

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Ines Giganti Curella

(Licata, 1914 - 1982)

A lei sono intitolati una via a Licata e l'Istituto tecnico per Geometri della città.
 
Comandati da una donna
di Ester Rizzo

Ines Giganti Curella nasce a Licata il 6 ottobre 1914 da Enrico e Marianna Lo Monaco.

Studia a Roma e si laurea a pieni voti in Filologia Classica all’Università di Firenze a ventidue anni.

Insegna per pochi mesi nella città fiorentina e poi rientra a Licata iniziando, nel 1938, ad insegnare al Liceo Classico V. Linares. Proprio in questo periodo incontra Angelo Curella, podestà di Licata, letterato e al contempo uomo d’affari. Il 31 ottobre 1940 i due si sposano. Angelo Curella era più grande di lei di ben quindici anni, vedovo e con figli.

Dopo la guerra, Ines decide di intraprendere la carriera politica e il 20 aprile 1947 viene eletta all’ARS nelle liste della DC. Inizia così un percorso che la porterà ad ascoltare la gente, a coglierne le istanze, a cercare di dare sollievo e conforto alle donne più bisognose; per questo suo agire viene soprannominata “democristiana del PCI”.

Dopo i quattro anni passati a Palermo con questo incarico, nel 1952 viene eletta al Consiglio Comunale di Licata, diventandone in seguito la Sindaca: per la prima volta, e rimarrà l’unica, Licata aveva una sindaca.

Nonostante questi impegni era diventata nel frattempo madre di ben sette tra figli e figlie.

Nel 1955 viene chiamata a presiedere la Banca Popolare Sant’Angelo, diventando così la prima donna in Italia a ricoprire tale incarico. Come presidente indirizza l’attività dell’istituto di credito verso una “funzione cooperativistica e popolare” espandendo le attività della banca anche ad altri centri della provincia di Agrigento. Negli anni della sua direzione, dal 1955 al 1961, Ines seppe imprimere una svolta decisiva a questo piccolo istituto di credito locale con un processo di espansione aziendale che successivamente portò la banca ad una dimensione regionale.

Il 2 giugno 1954 viene insignita dell’onorificenza di Commendatore della Repubblica Italiana per meriti sociali. Dal 1960 al 1961 è componente della Consulta Provinciale di Agrigento e, negli stessi anni, ricopre la carica di Assessora alla Pubblica Istruzione della stessa Provincia. Era stata scelta per diventare Presidente ma, come ci riferisce la figlia Gabriella, molti fecero ostruzionismo a questa scelta, dichiarando che non gradivano “essere comandati da una donna”.

Muore il 25 giugno 1982 a Licata all’età di sessantasei anni.

La figlia Gabriella così dichiara in un’intervista: “Credo che mia madre sia stata la capostipite del femminismo, se intendiamo per femminismo l’uguaglianza, il rispetto e non la prevaricazione; grazie alle battaglie di mia madre, sono convinta che siano stati superati molti pregiudizi e molte donne siano riuscite ad inserirsi nella vita politica e sociale della provincia di Agrigento. Lei credeva in ciò che faceva e, quando i politici uomini le gridavano di starsene a casa a fare la calzetta, lei rispondeva che la lotta per il bene comune viene al di sopra di ogni cosa”.

Fonti
Giusi Carreca, Ines Giganti Curella,  in Siciliane, a cura di Marinella Fiume, Emanuele Romeo Editore, 2006, pp. 630-631
Francesco Bilotta, I viaggi della memoria, in “Giornale di Sicilia” 11 novembre 1983
Lorenzo Rosso, Ines Giganti, una femminista <<ante litteram>>, in “La Sicilia” 19 settembre 2004
Intervista di Ester Rizzo alla figlia Daniela Curella

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Teresa Giovannucci

(Fratte Rosa, PU, 1912 - Riano Flaminio, RM, 1997)

Il coraggio dimostrato da Teresa Giovannucci è stato onorato a Gerusalemme con un albero piantato nel Giardino dei Giusti. Il suo esempio di forza, decisione e determinazione ancora non ha trovato un adeguato riconoscimento fra le intitolazioni delle vie di Riano Flaminio, scenario della sua  “piccola” storia che si intreccia con la “grande” storia degli eventi.
 
Non li avrei mai abbandonati
di Barbara Belotti


Rileggere la Storia, quella dei grandi episodi e dei grandi personaggi, attraverso la lente speciale delle vicende biografiche di persone comuni, trasforma gli avvenimenti in qualcosa di riconoscibile e comprensibile, con cui è possibile immedesimarsi e identificarsi. La vita di Teresa Giovannucci sembra essere scritta proprio per porsi la domanda: “E se fosse capitato a me, come avrei agito?”.
Questo racconto sulla “banalità del bene” si svolge a Riano Flaminio, in provincia di Roma, fra l’ottobre del  1943 e il giugno 1944, durante il terribile periodo dell’occupazione nazista.
Teresa Giovannucci vive nella cittadina laziale dalla fine del 1942, dopo essersi sposata con Pietro Antonini, un onesto muratore conosciuto a Roma; ma la sua storia comincia anni prima, a Fratte Rosa, in provincia di Pesaro-Urbino, dove nasce il 29 luglio 1912. La sua è una famiglia semplice e con pochi mezzi: già a 13 anni Teresa parte per Roma per lavorare come domestica nell’abitazione di una famiglia piemontese. Quando i suoi datori di lavoro lasciano la capitale per far rientro in Piemonte, la ragazza decide di non tornare nel paese di origine ma di cercarsi un’altra occupazione.
Si trasferisce, quindi, nella casa del rabbino Marco Vivanti che vive, con la moglie Silvia Terracina e le figlie Emma ed Enrica, in una casa vicino alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Entrata “a servizio” nell’abitazione del rabbino, ben presto Teresa diventa la terza figlia. Accolta con tenerezza e calore, trascorre in quella casa tredici anni, imparando a conoscere le tradizioni e gli usi di una religione diversa dalla sua, condividendo le giornate e gli impegni, partecipando alla vita della famiglia come una di loro.
Nel 1938, con l’emanazione dei “Provvedimenti per la difesa della razza ariana”, le vicende hanno una svolta dolorosa : alla famiglia Vivanti non è più consentito avere alle proprie dipendenze una persona “di razza ariana” e Teresa è costretta a lasciare la casa in cui è cresciuta ed è diventata una donna.
La separazione è lacerante e incomprensibile per lei che, insieme ai legami affettivi, perde anche la sicurezza economica. Il rabbino vuole aiutarla ancora una volta e riesce, grazie ad alcune conoscenze, a trovarle un impiego in una ditta che distribuisce i pasti agli operai che lavorano nel cantiere del Palazzo del Littorio . Sarà qui che conoscerà Pietro, suo futuro marito, compagno di vita, di storia e di coraggio.
Una volta sposata e trasferita a Riano Flaminio, Teresa mantiene saldi i suoi legami con la famiglia Vivanti che va a trovare ogni volta che può, portando loro in dono qualche prodotto della campagna, aiuto prezioso nelle difficoltà economiche. Il 30 settembre del 1943 Teresa è in città per sottoporsi a una visita ginecologica di controllo, dato che aspetta la sua prima figlia. Come di consueto va a trovare Marco e Silvia Vivanti nella loro abitazione, ma inutilmente bussa alla porta. Nessuno risponde, la casa è vuota. Teresa riesce a sapere che si sono tutti trasferiti non lontano, nel retrobottega di un negozio. Per gli ebrei di Roma la situazione è molto difficile. Dopo la raccolta dei 50 chili di oro da versare ai tedeschi, le loro esistenze sono sempre più precarie e in pericolo. La famiglia Vivanti ha saputo da una conoscente che in Polonia, allo stesso ricatto imposto da Kappler alla comunità ebraica di Roma, non sono seguite libertà e tranquillità, ma arresti e deportazioni.
La famiglia adottiva di Teresa si è ora allargata: Emma, la figlia più grande, si è sposata con Alessandro Dell’Ariccia ed è nata una bambina, Miriam, detta Memme Bevilatte; la seconda figlia Emma è fidanzata con il fratello di Alessandro e con loro ora vive anche la piccola Sandra Bassan, figlia di una sorella del rabbino. Sono in otto nel retrobottega, che non appare un nascondiglio sicuro, troppo vicino alla strada e in una zona centrale della città. Il profondo confine fra indifferenza e solidarietà è immediatamente superato da Teresa che capisce il precipitare degli eventi: li prega, li esorta per il loro bene a trasferirsi con lei a Riano. Pochi attimi e i membri della famiglia Vivanti – Dell’Ariccia sono in strada, con le poche cose che possono trasportare senza dare nell’occhio, seguono Teresa e partono per Riano. Per loro è la salvezza: pochi giorni dopo, il 16 ottobre ’43, nel Ghetto di Roma e in altri quartieri della città, si scatena la caccia agli ebrei. Sono oltre 1000 le persone deportate, solo 16 faranno ritorno.
La casa di Teresa e Pietro a Riano non è grande ed è disposta su due livelli; un ambiente, al piano inferiore, è collegato con l’appartamento e funge da forno per tutta la comunità del paese. In questo modo Teresa può controllare i movimenti all’esterno, tenersi pronta nel caso si avvicinino soldati tedeschi e, senza dare troppo nell’occhio, proteggere i nuovi “inquilini” alloggiati al piano superiore. Lei e il marito si sono trasferiti al piano di sotto, in un giaciglio di fortuna.
Per tutti i paesani, i nuovi arrivati sono degli sfollati giunti dal Sud, ma forse qualcuno sa o capisce. Gli otto “clandestini”diventano delle invisibili presenze: escono pochissimo, la sera o all’alba, quando non c’è molta luce; percorrono sentieri di campagna e non i vicoli di Riano; le bambine imparano a non farsi notare, a non piangere, a non ridere, a non giocare, a non parlare. Così per mesi, fino al 6 giugno 1944 quando gli Alleati arrivano in paese. La libertà riconquistata da tutti i cittadini è doppia per Teresa, Pietro, la loro figlioletta Felice e tutta la famiglia Vivanti – Dell’Ariccia. Scoprono, infatti, che per loro era pronto un mandato di cattura, con conseguente fucilazione, in data 10 giugno. Qualcuno aveva probabilmente denunciato la presenza sospetta di otto persone nella casa dei coniugi Antonini e il comando militare fascista aveva preparato la lista dei nomi di tre italiani e otto ebrei da punire.
Tutti i protagonisti della storia tornano alla vita. Le loro vicende, straordinarie, sono state vissute da Teresa come un gesto normale e scontato: “Ma insomma, cosa avrei dovuto fare, abbandonare il rabbino Vivanti e i Dell’Ariccia al loro destino di morte? Avrei forse dovuto rinnegare la famiglia che mi aveva accolto in casa come una figlia? No, non lo avrei mai fatto. Piuttosto avrei preferito morire io. Non li avrei mai abbandonati”.
Nel 1993 Teresa Giovannucci e Pietro Antonini sono definiti Giusti tra le Nazioni, un riconoscimento assegnato ai non ebrei che, a rischio della propria vita, hanno salvato l’esistenza anche a una sola persona ebrea durante lo sterminio nazista.  Ogni Giusto tra le Nazioni riceve un certificato d’onore, la cittadinanza onoraria dello Stato di Israele, viene insignito di una medaglia speciale e il suo nome inciso sul Muro d’Onore eretto nel Giardino dei Giusti, nel museo Yad Vashem. Per ricordare il coraggio dei due coniugi di Riano viene messo a dimora un albero, simbolo di vita e di rinascita.
Il 30 giugno dello stesso anno, nella Sala della Protomoteca del Campidoglio a Roma, l’ambasciatore di Israele proclama ufficialmente Teresa e Pietro Giusti tra le Nazioni. Pietro è morto tre anni prima, Teresa morirà nel novembre 1997.

Fonti
Italo Arcuri, Memme Bevilacqua salvata da Teresa, Suraci editore, Fiano Romano, 2014
http://www.jfr.org/pages/rescuer-support/stories/italy-/-teresa--pietro-giovannucci
http://www.agenparl.it/articoli/news/cronaca/20140122-giorno-memoria-a-riano-rm-due-giusti-salvarono-8-ebrei-nascondendoli-per-9-mesi
http://www.yadvashem.org/yv/en/righteous/statistics.asp
http://archiviostorico.corriere.it/1994/ottobre/24/quei_romani_che_salvarono_loro_co_10_9410245178.shtml
http://www.reteindra.org/BN0299/03.htm

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Louisa Grace Bartolini

(Bristol, 1818 - Pistoia, 1865)

Nessun ricordo a Pistoia, se non una stele nel giardino interno del palazzo dove visse, nel pieno centro cittadino; nel convento di Giaccherino (sulle colline appena fuori città) è visibile il suo monumento funebre.

La "pellegrina d'oltremare" che volle farsi italiana
di Laura Candiani

Louisa  Grace era nata a Bristol nel 1818 da una nobile famiglia irlandese che vantava antiche origini italiane di cui era molto fiera e che coltivava con viaggi e lo studio della lingua. Dicevano addirittura che l’antenato fosse giunto da Firenze - attraverso la Normandia - nel 1016 e che da un pronipote, un certo “Gros o Gras” - viceré d’Irlanda - derivasse il cognome “Grace”. Nel ’28 si trasferì con la madre a Sorèze, in Francia, per curare la salute malferma; lì studiò arti figurative, pianoforte, lingue straniere, in particolare l’italiano. Compì vari viaggi in Italia e visitò Siena, dove conobbe il patriota padre cappuccino pistoiese Angelico Marini, seguace di Gioberti, che fu suo istitutore e guida spirituale per tutta la vita. Nel ’40 visse a Siena e poi a Pisa e pubblicò una canzone dedicata alla regina Vittoria.  Nel ’41 scelse Pistoia come sua dimora, abitando nel palazzo della famiglia Puccini; gradualmente, ma con determinazione, si inserì nella vita culturale cittadina e iniziò a partecipare a cenacoli letterari, feste, celebrazioni, rallentando fino a sospendere i rapporti con la madrepatria, dove si recò raramente. Dal ’47 si trasferì in una abitazione più ampia, in via della Madonna, e aprì il suo salotto agli intellettuali, come Fucini, Vannucci, Fedi, Martini e a pittori come Fattori e Signorini. Fra questi ospiti abituali vi fu il Carducci - all’epoca giovane ed esuberante - che insegnò nel 1860 presso il Liceo classico “Forteguerri”; con lui sviluppò un bel sentimento reciproco di stima e vera amicizia destinato a durare nel tempo, anche quando il poeta si trasferì a Bologna. E’ proprio Carducci a lasciarci un ritratto fisico di Louisa, descritta nei suoi Ricordi molto pallida, «quasi di perla», con «una folta capigliatura castagna», gli occhi neri, la fronte spaziosa. Nell’omaggio la ricorda anche come abile traduttrice dall’inglese in italiano e maestra nell’uso dei versi sciolti, capace di cogliere l’essenziale. Sappiamo poi che, grazie ai suoi eclettici interessi, si dilettava nel suono del pianoforte e nella composizione di delicate romanze e amava dipingere, magari nel piccolo grazioso giardino, utilizzando svariate tecniche e scegliendo i soggetti più diversi: dal paesaggio alla natura, fino al ritratto. Fra le sue frequentazioni vanno citate anche due donne importanti nella Toscana dell’epoca: Erminia Fuà Fusinato, poetessa e patriota veneta, moglie dell’ autore della nota poesia “L’ultima ora di Venezia”, e la celebre improvvisatrice Giannina  Milli con cui «condivide l’amore delle lettere e della patria» (Flego).                                                                                                                                                                              
Come molti anglosassoni fu vicina alla causa italiana e scrisse poesie di argomento patriottico, per esempio un sonetto al Gioberti (’48), i versi Alla sacra memoria de’ martiri italiani (’47), la canzone All’Italia, il canto A Garibaldi.  Non trascurò altre tematiche, come gli affetti familiari (versi in ricordo dell’amato padre sir William) e la fede (canzone A S. Caterina de’ Ricci); intanto collaborava alla “Rivista di Firenze” di Atto Vannucci, a riviste femminili con novelle e prose, a periodici con articoli sulle arti figurative. Nel 1860 lesse all’Accademia letteraria di Firenze e poi pubblicò la canzone Roma; lo stesso anno sposò il brillante ingegnere e architetto pistoiese Francesco Bartolini (più giovane di lei di 13 anni) che si era intanto occupato della ristrutturazione della casa, in vista delle nozze imminenti. Nel ’63 partecipò all’ultima edizione delle “Feste parentali” pistoiesi, istituite nel ’24 per celebrare i grandi d’Italia; a lei l’onore di ricordare con delle terzine la figura di Machiavelli. I due sposi trasformarono il loro salotto in una «fucina politica di nuove idee liberali e patriottiche, un cenacolo letterario e artistico, ma anche musicale» (Flego). Tuttavia la felicità matrimoniale di questa «buona e amabile donna» (I. del Lungo) fu breve perché non riuscì a condurre a termine una gravidanza e la cronica malattia di petto la portò alla morte a soli 47 anni. Morì a Pistoia nel 1865 e fu sepolta con un bellissimo monumento funebre nel chiostro maggiore del convento francescano di Giaccherino; sulla sua tomba un medaglione di Giovanni  Duprè, una epigrafe dettata dal marito e dei versi tratti da una sua poesia. Dotata di naturale finezza, di profonda fede politico-religiosa, «nata a ogni cosa gentile/amò i fiori/ coltivò le arti belle e la letteratura»: l’amico Giuseppe Chiarini così la ricorda sulla stele marmorea nel giardino di via della Madonna.
A differenza di molti stranieri che avevano scelto nel XIX secolo di vivere in Italia, chiusi nel loro mondo, nei loro giardini, in un sogno che idealizzava le bellezze artistiche e la cultura italiana in maniera prettamente romantica e “sentimentale”, Louisa cercò invece di diventare pienamente una «patriota italiana» (come la definì lo zio George Brooke), anzi volle sentirsi pistoiese, abbandonando totalmente la lingua e le tradizioni inglesi, leggendo e scrivendo in italiano, circondandosi con molta semplicità e gentilezza dei cari amici italiani. La sua biblioteca ne è preziosa testimonianza: i classici inglesi (da Shakespeare a Scott, da Byron a Sterne), ma anche francesi e tedeschi, sono sì presenti, ma quasi tutti in traduzione italiana; poi troviamo i grandi della cultura latina e greca, ma soprattutto gli italiani: Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Alfieri, Manzoni, Leopardi, e molti altri. Un vero peccato, però, che l’intera abitazione - con tutto ciò che ancora contiene - riconosciuta “bene culturale” e sottoposta a vincolo dalla Soprintendenza, non sia visitabile e non sia ormai in buone condizioni.  Ancora una dimenticanza, una colpevole indifferenza verso una figura affascinante, coinvolta attivamente nel dibattito politico e culturale di Pistoia a metà Ottocento, come altri, un tempo illustri, caduta nell’oblio.
Il marito raccolse negli anni con grande cura tutti gli innumerevoli materiali lasciati da Louisa - per lo più inediti (circa 16.565 reperti tra carte, lettere, disegni, dipinti, traduzioni, ecc.)- e li donò alla Biblioteca Marucelliana di Firenze nel 1913, un anno prima della morte, dove costituiscono un apposito fondo.

Fonti:
Fabio Flego, Documenti per le nozze di Louisa Grace, in “Storia locale”, n. 17, 2011
Fabio Flego, Louisa Grace Bartolini: un’artista amica di Carducci, in “Anglistica Pisana”, X, 1-2, 2013
Fabio Flego, Louisa Grace -Bartolini «coltivò le arti belle e la letteratura», Brigata del Leoncino, Pistoia, 2006.

Ringrazio il prof. Flego che gentilmente mi ha fatto avere copia delle sue opere, utili anche per la mia ricerca sulle donne attive nel Risorgimento, specialmente in Toscana, e nel periodo di Firenze capitale.

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Emilia Gubitosi

(Napoli, 1887- 1972)

A lei non è intitolata alcuna via, neanche nella sua città natale.
Solo un’aula del Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli porta il suo nome.

La prima compositrice italiana
di Ester Rizzo


Nacque a Napoli il 3 marzo 1887 da Samuele e Filomena Abbamonte.
E' stata una eccellente pianista, direttrice di coro e compositrice italiana: una persona importantissima della Napoli musicale del 900. La sua carriera concertistica si è sviluppata nell'intero continente europeo.
Emilia era piccola di statura, indossava sempre tacchi altissimi ma aveva uno sguardo che tutti definivano “fiammeggiante”.
Era molto religiosa e superstiziosa e non disdegnava di fare spesso “segni di scongiuro”.
La sua dimora napoletana era sempre aperta ai musicisti, soprattutto quelli più giovani. Insieme al marito, Franco Michele Napolitano, organista e compositore, era pronta ad accoglierli e nella loro abitazione venivano eseguiti vari concerti per dilettare con la musica lo spirito.
In quella casa si trova oggi la “Fondazione Napolitano Gubitosi” costituita nel 1961, ancora luogo prezioso di consultazione, ricerca e promozione musicale per la città di Napoli.
Emilia è stata la prima donna in Italia, nel 1906, a conseguire il Diploma di Composizione a soli diciotto anni. Fu addirittura necessario chiedere al Ministro un permesso speciale perché a quei tempi era precluso alle donne di frequentare quel corso, che era il più alto e completo degli studi accademici di Musica.
Lei era già diplomata in Pianoforte e, in entrambi gli esami finali, Composizione e Pianoforte, aveva ottenuto il massimo dei voti, la lode e la menzione speciale.
Aveva studiato musica nel Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli e lì successivamente, per oltre quaranta anni, dal 1914 al 1957, fu docente titolare di Teoria e Solfeggio. Oggi, in questo Conservatorio, che è il più antico del mondo, è a lei intitolata un’aula.
Nel 1918 fu cofondatrice con Maria De Sanna  ed il poeta Salvatore di Giacomo dell' "Associazione Musicale Alessandro Scarlatti", sostenuta anche da molti intellettuali dell’epoca tra i quali Matilde Serao.
Nel ricordo dei suoi allievi fu una maestra rigorosa ed esigente. Possedeva un fiuto speciale per riconoscere i giovani talenti con “le carte in regola” per diventare ottimi musicisti.
Era integerrima: si narra che bocciò un candidato che era stato raccomandato da Mussolini in persona.
È morta a Napoli il 17 gennaio 1972 ed è sepolta ad Anacapri accanto al marito, in una sorta di mausoleo decorato con canne d’organo ed una chiave di violino di bronzo.

Fonti
Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia (a cura di), Italiane, volume II, Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Pari Opportunità
http://www.treccani.it/enciclopedia/emilia-gubitosi
http://www.organcompendium.info/personaggi/comp41.html

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Luisa Guidotti Mistrali

(Parma, 1932- Zimbabwe, 1979)

Fra i pochi toponimi dedicati alle donne nella città di Modena (39 in tutto, su oltre 1500 toponimi complessivi) spicca il nome della dottoressa Luisa Guidotti Mistrali, a cui sono state intitolate una bella strada in un nuovo quartiere residenziale e una scuola media. Le sarebbero piaciute, la strada e la scuola, per la loro semplicità, la pulizia, l’essenzialità, proprio come chi l’ha conosciuta descrive essere stata questa donna che, partita dalla provincia emiliana, visse e lavorò per 13 anni in Africa fino a trovarvi la morte

Una ragazza "non adatta"
di Roberta Pinelli
 

Luisa Guidotti Mistrali nacque a Parma il 17 maggio 1932, da Camillo, ingegnere capo dell’Ufficio Erariale, e dalla baronessa Anna Mistrali. Di famiglia nobile, visse per un periodo a Fabbrico (Reggio E.), dove la famiglia paterna era da secoli proprietaria del castello, e nei dintorni di Fidenza (PR).
Disordinata, esuberante, mai puntuale, anticonformista, sempre un po’ sopra le righe, era una brava studentessa, ma solo per le discipline che le piacevano: nessuno l’avrebbe mai giudicata capace di dedicarsi al prossimo né avrebbe mai scommesso sulla sua capacità di sottostare alle regole. Eppure, la sua scelta di rinunciare al titolo nobiliare e all’ingente patrimonio di famiglia avrebbe dovuto far riflettere…
Nel 1947 perse la madre, stroncata da un male incurabile, e si trasferì definitivamente a Modena, dove la zia materna Maria si prese cura della famiglia (Luisa aveva numerosi fratelli).
Entrata nell’Azione Cattolica modenese presso la parrocchia cittadina di S.Domenico, in nove anni ne scalò tutti i gradini associativi, fino a diventare consigliere diocesano, dimostrando innegabili doti di carattere e carisma di leader
.Dopo la maturità si iscrisse alla Facoltà di Medicina della locale Università, dove si laureò nel 1960, acquisendo poi nel 1962 la specializzazione in Radiologia.
Motivò fin da subito queste sue scelte con il desiderio di mettersi al servizio dei più poveri tra i poveri, anche se fu da molti considerata, per carattere, inadatta alla vita missionaria. Nel 1957 aveva conosciuto l’Associazione Femminile Medico-Missionaria, fondata tre anni prima a Roma da Adele Pignatelli (del Movimento Laureati Cattolici) sotto l’egida dell’allora cardinale Montini (futuro Papa Paolo VI). Entrata nell’Associazione, ma da laica quale sempre volle rimanere, dopo un periodo di tirocinio religioso fra Modena e Roma, nel 1966 venne destinata alle missioni nella Rhodesia (l’attuale Zimbabwe). Fu inizialmente destinata all’ospedale di Chirundu, nella Rhodesia Settentrionale, oggi Zambia, successivamente all’ospedale di Salisbury, capitale della Rhodesia, e poi in quello di Inyanga. Nel 1969 fu assegnata definitivamente all’ospedale “All Souls” di Mutoko nella provincia del Mashonaland Orientale.
A Mutoko in realtà l’ospedale consisteva in alcune capanne di paglia e fango che in pochi anni, sollecitando la generosità degli amici italiani, Luisa riuscì a trasformare in edifici in muratura, aprendo anche una scuola per infermiere e un orfanatrofio. Già nel 1971 l’ospedale era in grado di accogliere annualmente oltre 5.000 ammalati e contava più di 400 nascite all’anno.
Oltre al lavoro nell’ospedale, si recava periodicamente al lebbrosario di Mutema, dove i pazienti erano pressoché abbandonati, e nei villaggi vicini per assisterne i malati.
Luisa viveva e respirava il clima di segregazione razziale in cui il regime aveva fatto precipitare il paese, avvertendo i contraccolpi del conflitto armato che contrapponeva l’esercito regolare ai locali gruppi marxisti, rivendicando però costantemente il suo dovere di medico di prestare le cure a chi ne avesse bisogno. Nel 1976 venne arrestata dalla polizia con l’accusa di aver curato un ragazzo, presunto guerrigliero, rischiando la condanna a morte per impiccagione. Rilasciata dopo quattro giorni, fu tenuta per due mesi in libertà provvisoria vicino a Salisbury. Venne poi assolta per le forti pressioni esercitate dalla Santa Sede e dal governo italiano, ma intanto la sua vicenda aveva assunto rilevanza internazionale, anche perché il suo ospedale era rimasto per due mesi senza medico, affidato solo ad una consorella di Luisa, Caterina Savini, infermiera. Tornò quindi al lavoro come se nulla fosse, incurante dei pericoli e rifiutando di prendere ogni precauzione.
 “Mi godo questa vita missionaria per cui il Signore mi ha fatto”, scriveva in Italia, “In missione la vita è semplice e piena di gioia. Il lavoro è molto e qualche volta sono stanca, ma non cambierei questa vita con nessun'altra”. La situazione a seguito della guerra divenne sempre più pericolosa e molti missionari furono costretti ad andarsene dalla Rhodesia. Luisa Guidotti subì delle minacce, ma non volle abbandonare l’ospedale “All Souls” e rimase, unica occidentale, insieme alle “sue” infermiere africane. “Ormai sei proprio una di noi, ti manca solo il colore della pelle" le dicevano con gratitudine gli abitanti.
Il 6 luglio 1979 Luisa con l'ambulanza dovette accompagnare una partoriente a rischio all’ospedale di Nyadiri; in quel periodo i viaggi erano sempre pericolosi e così andò da sola, per non mettere a repentaglio la vita di altri. Sulla via del ritorno venne fermata ad un posto di blocco dall'esercito governativo. All'improvviso, partirono due raffiche di mitra da entrambi i lati della strada e un proiettile colpì la dottoressa, recidendole l'arteria femorale e provocandone la morte per dissanguamento. Aveva da poco compiuto 47 anni.
I funerali videro la partecipazione di una folla numerosa di bianchi e di neri. Al rientro in Italia Luisa Guidotti venne sepolta nel cimitero di Fabbrico (Reggio E.).
Nel 1983 le fu intitolato l’ospedale “All Souls” di Mutoko; nel 1988 il vescovo di Modena fece traslare i suoi resti nella cattedrale cittadina e nel 2006 subentrò nella causa di canonizzazione su richiesta della diocesi di Harare (attuale nome di Salisbury). In occasione dell’apertura della causa di canonizzazione a Modena, a Luisa Guidotti Mistrali venne riconosciuto il titolo di “serva di Dio”
Dice oggi la sua amica di sempre, Lucia Orsetti, anima instancabile del processo di canonizzazione, che a 84 anni ancor oggi per un mese all’anno presta servizio nell’ospedale di Luisa Guidotti in Zimbabwe: “Per il forte temperamento, per la condizione sociale della famiglia, per la vivace intelligenza, per lo spirito libero, Luisa non era di per sé umile”.
In effetti, una ragazza “non adatta”.

Fonti
Associazione Femminile medico-missionaria (a cura di), Luisa Guidotti Mistrali. Una vita per gli altri, senza editore, senza data
Maria Cavazzuti Guerzoni (a cura di), Shona con gli shona. Lettere dall’Africa di Luisa Guidotti Mistrali, Ed. SEI, 1990
Maria Cavazzuti Guerzoni, Luisa Guidotti: una martire senza popolo e un popolo senza pace, in “Il Regno” n. 16, 1979, p.380
John Thurston Dove, Luisa Guidotti Mistrali. Un medico per l'Africa, Ed. Città Nuova 1989 (Prefazione di Oscar Luigi Scalfaro)
http://digilander.libero.it/davide.arpe/CausaCanonizzazioneGuidotti.htm
http://www.santiebeati.it/
http://www.modenaonline.info/notizie/2013/11/23/modena-luisa-guidotti-mistrali-verso-la-beatificazione
http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/emilia_romagna/modena___nonantola/00040523_Luisa_Guidotti__si_chiude_la_fase_diocesana_del_processo.html
http://www.fondazionesantiac.org/it/testimoni/servididio/mondo/guidottimistrali
http://ricerca.gelocal.it/gazzettadireggio/archivio/gazzettadireggio/2005
http://www.centroculturaleilfaro.it/guidotti-mistrali-luisa.html
http://20thcenturymartyrs.blogspot.it/2006/06/missionary-from-modena-luisa-guidotti.html
http://fondazionemarilenapesaresi.org/luisa-guidotti-hospital/ospedale-di-motoku/chi-era-luisa-guidotti/
http://www.jescom.co.zw/
http://www.nostrotempo.it/

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Maria Luisa Palandri Reali

(Pistoia 1916 - 2011)

A seguito di un concorso nelle scuole superiori della provincia di Pistoia le è stata dedicata una sala all’interno del  palazzo della Provincia, in piazza San Leone (9-6-2014). Da più parti, in particolare dalla Diocesi, sono emerse  proposte pubbliche e veri e propri appelli (su stampa o nel corso di incontri, convegni, dibattiti) per l’intitolazione di una  via.

Una vita per gli altri
di Laura Candiani

Pistoiese, Maria Luisa Palandri rimase vedova con il figlio Umberto a soli 23 anni: aveva infatti perso il marito Giuseppe Reali, disperso in Africa nei combattimenti della Seconda  Guerra Mondiale. Dopo la Liberazione fu fra le prime donne ad impegnarsi nella politica attiva e venne eletta consigliera comunale 4 volte, dal 1951 al 1965, nelle file della DC. Intanto cresceva il figlio e proseguiva la carriera di insegnante - portata avanti con passione ed energia per circa 40 anni. Gli ex studenti della scuola elementare “Attilio Frosini” la ricordano con stima e affetto: era  piccola e minuta, con i capelli brizzolati un po’ mossi  raccolti in uno chignon, le mani espressive e in continuo movimento, vivace e decisa nell’andatura; vestiva  in modo sobrio e rigoroso, con colori scuri; era disponibile verso tutti - genitori e allievi - e praticava una didattica all’epoca assai moderna: utilizzava i lavori di gruppo, stimolava la creatività, incoraggiava alla collaborazione in classe e a casa. Portava sempre con sé  delle gustose caramelle dure ricoperte di zucchero con cui ricompensava i piccoli che ricambiavano le sue premure con mazzolini di fiori. Aveva una fede profonda  e ogni mattina iniziava le lezioni leggendo la vita del santo del giorno. Dedicava anche molte energie alla centralissima parrocchia della chiesa di San Giovanni Fuorcivitas  e  si adoperò in particolare a favore degli orfani e delle vedove di guerra tanto da fondare e presiedere  la sezione  pistoiese dell’Associazione Nazionale Famiglie caduti e dispersi in guerra; negli anni Sessanta è stata  fra le persone promotrici del pietoso compito di rimpatrio delle salme dei militari brasiliani caduti per la liberazione italiana che a Pistoia avevano il loro cimitero. Si è impegnata a favore delle donne, dei loro diritti e del loro ruolo sociale; ha fondato la sezione pistoiese del Moica (Movimento Italiano Casalinghe). Nel  2000, per le molteplici attività in tanti campi della società civile, fu ricevuta dal presidente Ciampi; nel corso delle celebrazioni per l’80° anniversario dell’istituzione della provincia di Pistoia - nel 2007 - ha ricevuto l’onorificenza di Grand’Ufficiale al merito della Repubblica. Nello stesso anno  - il 13 dicembre - nel Palazzo Comunale  ha presentato il suo libro La cappella Fioravanti in San Francesco e il Sacrario del Cimitero comunale di Pistoia, promosso dall’Associazione  Nazionale Famiglie caduti e dispersi in guerra - sezione di PT- e dal Comitato Unitario  per la difesa delle istituzioni repubblicane di Pistoia.
La commissione Pari Opportunità della Provincia ha lanciato, nel marzo 2014, di concerto con la Consulta  degli Studenti, l’iniziativa “Nome singolare femminile. Pistoia ieri e oggi: una sala nel ricordo, un ricordo nella sala” per  attribuire ad una sala del palazzo un nome di donna  esemplare e significativo a livello locale, che fosse anche modello di altruismo, di valori etici e civili, di dedizione a una causa. Gli studenti e le studenti delle scuole superiori, dopo ricerche e studi guidati dal corpo docente, proposero molte figure ma, fra tutte le biografie, fu scelta dalla Consulta - in totale autonomia - proprio quella di Maria Luisa, donna energica e coraggiosa, dall’esistenza non facile segnata, nell’ultimo anno di vita, anche dalla morte dell’amatissimo figlio, noto e apprezzato chirurgo. La cerimonia della scopertura della targa si è svolta il 9 giugno 2014 alla presenza delle autorità e dei familiari.

Fonti
Maria Luisa Palandri Reali, La cappella Fioravanti in San Francesco e il Sacrario del Cimitero comunale di Pistoia (a cura dell’Associazione Nazionale Famiglie caduti e dispersi in guerra  e del Comitato Unitario  per la difesa delle istituzioni repubblicane),Pistoia, dicembre 2007                                                                                        
s.f., Presentazione del libro di M.L.P.R., www.comunepistoia, 11.12.2007                                                                   
s.f., Il funerale di M.L.P.R., www.diocesi pistoia, 17.10.2011                                                                                              
s.f.,Il consiglio ha ricordato M.L.P.R., Il Tirreno, 19.10.2011                                                                                                    
s.f., Toponomastica rosa: non dimenticare M.L.P.R., www.quarratanews,  21.4.2013                                                     

s.f., Due sale del palazzo della provincia saranno intitolate…, www.lavocedipistoia, 6.6.2014                                   
Laura Candiani, La Provincia di Pistoia ricorda tre figure femminili,  www.il carrettino delle idee, 15.9.2014

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Luisa Palma Mansi

(Lucca 1760 - 1823)

Non esiste nella toponomastica alcuna traccia di Luisa. I suoi diari (scritti in un francese piuttosto approssimativo) sono depositati presso il fondo Arnolfini, Archivio di Stato di Lucca. Si propone la sua intitolazione a Lucca, città di nascita e di morte.

Memorie di Luisa, dama di corte lucchese
di Laura Candiani

Figlia di Girolamo Palma e Caterina Burlamacchi, Luisa Palma Mansi nacque  a Lucca il 23 febbraio 1760 in una famiglia aristocratica proveniente da Parma. Non si sa nulla dei suoi studi, ma dai diari (scritti in francese) si deduce una discreta istruzione; doveva essere anche una buona lettrice.
Nel 1783 sposò Lelio Francesco Mansi, più anziano di  18 anni, appartenente ad una famiglia prestigiosa; fu uomo politico e importante giureconsulto nel difficile periodo di transizione (dalla Repubblica alla dominazione napoleonica). Il 14 luglio 1805 a Lucca si insediarono ufficialmente i principi Baciocchi e Luisa divenne –come le altre nobildonne- dama di corte. Nel 1807 morì il marito Lelio e Luisa per cinque anni non scrisse il suo diario,  consistente in quattro piccoli quaderni scritti fittamente e rilegati in pergamena , per un totale di quasi mille pagine .                             
Assai interessanti i riferimenti alle piccole e grandi vicende dell’epoca: la principessa Elisa Bonaparte Baciocchi (sorella di Napoleone) acquista la villa di Marlia, Napoleone entra a Mosca e poi fugge dalla Russia, due rovinose piene del fiume Serchio, scontri fra navi inglesi e francesi nelle acque di  Viareggio, fino al 1814 quando i Baciocchi vengono costretti dagli Inglesi a lasciare Lucca. Luisa e i suoi concittadini sperano di riacquistare a breve l’indipendenza. I fatti si susseguono velocemente: Napoleone riorganizza le truppe, dopo la fuga dall’isola d’Elba, finché viene sconfitto definitivamente. Con il Congresso di Vienna si decide che Lucca sia governata da Maria Luisa di Borbone, mentre Luisa -avanti con gli anni- dirada le sue note di diario.
Le informazioni “private” che derivano dal diario si possono suddividere (come indica la studiosa Isabella Pera) secondo i principali temi trattati: la vita quotidiana (fidanzamenti, matrimoni, nascite, morti, monacazioni, malattie); la moda, gli abiti, i regali, il denaro; ”Trasformare la vita nel più elegante dei giochi”(salotti, spettacoli, intrattenimenti dell’aristocrazia lucchese); la religiosità ed i riti. Da queste pagine si evidenzia l’amore per i propri cagnolini (che in parte forse  sostituiscono i figli che Luisa non ha), la passione per la musica e il melodramma accompagnata da un certo gusto personale (assiste -ad esempio- ad esibizioni di Paganini e Kreutzer), il rifiuto per la figura del “cavalier servente” che reputa ridicola e superata, il gusto condiviso per le belle feste durante  il Carnevale, il rilievo dato alle celebrazioni della festa di Santa Croce, tanto cara ai Lucchesi.
“Ma oltre il contenuto, il diario della Mansi rappresenta una rara e interessante fonte di scrittura femminile autobiografica; è significativo il fatto -afferma Isabella Pera (pp.88- 89)- che una donna di fine Settecento abbia avuto il desiderio di conservare memoria di fatti pubblici e privati (anche se  la sfera dell’intimità e gli affetti rimangono solo in parte percepibili) con una lingua diversa dalla sua - il francese dei modelli culturali e sociali dominanti, ma anche degli invasori e dei tiranni che pongono fine alla secolare indipendenza lucchese - utilizzando la scrittura come uno spazio di auto legittimazione, per segnare in qualche modo le tappe più significative del proprio percorso esistenziale.”

Fonti
Isabella Pera, Scrivere per sé: Luisa Palma Mansi e la dimensione del diario, in Donne di penna, 2003, Istituto Storico Lucchese-sezione Storia e Storie al femminile-Buggiano Castello

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Paltadore

La Piazzetta “dal Paltadori”, esclusivamente pedonale, è lunga 78 metri e si trova sul lato destro di via della Manifattura Tabacchi. E’ stata aperta e intitolata nel 2013, al termine dei lavori di riqualificazione di una vasta area ai margini del centro storico di Modena, dove aveva sede il grande edificio della Manifattura Tabacchi, magnifico esempio di architettura industriale otto-novecentesca. Al centro della piazza sorge ancora la vecchia ciminiera, che però non erutta più il fumo dolciastro della lavorazione del tabacco, che impregnava i dintorni di giorno e di notte, ma il vapore acqueo del sistema di cogenerazione per la produzione di acqua calda per le eleganti residenze appena terminate.

Le "Paltadore" di Modena
di Roberta Pinelli

Paltadora è, in dialetto modenese, l’equivalente di appaltatrice, colei che era occupata nell’appalto, e identifica le operaie che lavoravano il tabacco. Fin dal Seicento la lavorazione del tabacco veniva infatti data in appalto a privati, e tale rimase fino al 1850, quando la fabbricazione di sigari e sigarette fu avocata dallo Stato. Molti vecchi modenesi chiamano ancora la ex Manifattura Tabacchi con l’espressione la pelta e il tabaccaio paltein, derivanti ambedue dalla traduzione in dialetto modenese del sostantivo “appalto” .
Le prime notizie della lavorazione del tabacco a Modena risalgono al Seicento, ma questa attività assunse importanza strategica nell’economia modenese a partire dal Settecento, quando dal primo piccolo stabilimento la fabbrica fu spostata in un ampio edificio, già sede di un soppresso monastero cappuccino. Un secondo trasferimento si ebbe nel 1850, con il passaggio allo Stato e lo spostamento nell’ex convento di S.Marco, che rimase sede della manifattura fino alla chiusura delle attività nel 2002. Nel 1898 la Manifattura Tabacchi di Modena era diventata la più grande realtà industriale modenese, con quasi mille persone impiegate, di cui il 90% erano donne; nel 1921 arrivò addirittura a superare le 1500 persone dipendenti.
L’ingresso nel mondo del lavoro consentì alle donne modenesi di rendersi conto dei propri diritti come lavoratrici, con una conseguente politicizzazione femminile più unica che rara in quel tempo. Le paltadore si avvicinarono al sindacato per combattere lo sfruttamento, in particolare la prassi (abituale allora come oggi) di riconoscere alle donne, a parità di mansioni, salari molto inferiori a quelli dei colleghi maschi, nonostante le dita femminili, più sottili, fossero le più adatte ad arrotolare sigari. Inoltre, poiché la lavorazione del tabacco avveniva a cottimo, modalità salariale che prevede una retribuzione commisurata alla quantità di prodotto lavorato, era indispensabile per le paltadore essere tutelate nella corretta applicazione di un contratto così iniquo e alienante.
Numerosi sono gli esempi della forza contrattuale delle paltadore: fu anche grazie alle loro battaglie che nella fabbrica modenese furono installati migliori impianti di illuminazione, riscaldamento e areazione, vennero aperti l’infermeria e il refettorio e fu istituito un vero e proprio “asilo aziendale” ante litteram. Nel 1905 fu anche approvata la legge che prevedeva l’assunzione di ragazze di età non inferiore ai 15 anni compiuti, anche se la presenza fra le paltadore modenesi di bambine di 10 e 11 anni è documentata fino al 1913 dal ricco archivio rinvenuto durante la ristrutturazione dell’edificio.
Le paltadore furono anche un esempio di emancipazione femminile perché, contribuendo per la prima volta con il loro salario all’economia famigliare, le donne assunsero un ruolo più attivo all’interno della famiglia patriarcale.
Note in città come “rivoluzionarie” e antifasciste, difficilmente riconducibili allo stereotipo delle donne del tempo “tutte casa e chiesa”, le paltadore parteciparono attivamente alla Resistenza modenese. Scioperi e proteste (contro gli eccidi, contro la fame, contro la guerra, contro i bombardamenti) in cui le “tabacchine” furono parte attiva sono documentati nell’agosto 1943, nell’aprile 1944, nel marzo e nell’aprile 1945.
Per amor di verità, va però detto che paltadora a Modena è anche sinonimo di pettegola, poiché durante le ore di lavoro, mentre le dita instancabilmente confezionavano sigari e sigarette, le “tabacchine” chiacchieravano e spettegolavano su tutto e su tutti.
Che quella delle paltadore sia stata una realtà molto significativa nella società modenese è testimoniato anche dal fatto che la sirena, che segnava la fine del turno mattutino alla Manifattura, indicava il mezzogiorno a tutta la città e veniva chiamata al s-cefel dla pelta (il fischio dell’appalto).
Una curiosità: presso la Manifattura Tabacchi di Modena lavorarono nello stesso periodo la madre del grande tenore Luciano Pavarotti e quella della celebre soprano Mirella Freni, che frequentarono insieme l’asilo interno della fabbrica.

Fonti
A.O.Guerrazzi-C.Silingardi, Storia del sindacato a Modena 1880-1980, Roma 2002
Ministero delle Finanze. Direzione generale delle Privative, Il Monopolio del Tabacco in Italia. Cenni storico-statistici di Tommaso Pasetti, Portici, 1906
G. Muzzioli, L'economia e la società modenese fra le due guerre (1919-1939), Modena, 1979
P. Nava, La fabbrica dell'emancipazione. Operaie della Manifattura Tabacchi di Modena. Storie di vita e di lavoro, Roma, 1986.

D.Poltronieri, Manifattura Tabacchi Modena, Modena 2009
C.Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e resistenza a Modena 1940-1945, Milano 1998
http://www.saero.archivi.beniculturali.it/fileadmin/template/allegati/pubblicazioni/inventari/ManifatturaTabacchiModena.pdf

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Sorelle Paoletti

(Petrignano d'Assisi, seconda metà del XIX sec. - Perugia, prima metà XX sec.)

A Perugia le sorelle Paoletti sono state un’istituzione, hanno  formato intere  generazioni di ricamatrici, hanno creato i corredi più belli, hanno ricamato veli nuziali di nozze principesche,  hanno contribuito a far conoscere anche all’estero il nome di Perugia e hanno istituito  un’opera  pia  per fornire  una formazione professionale e un alloggio alle ragazze più povere. Per tutti questi motivi speriamo che prima o poi la città si ricordi di loro con un’intitolazione che le faccia conoscere  alle generazioni più giovani.

Carmela e Marianna Paoletti, le "sorelle Materassi di Perugia"
di Paola Spinelli

Mia nonna faceva la ricamatrice e come tante altre ragazze dell’epoca aveva imparato a ricamare dalle Paoletti.
Sono i primi anni del Novecento: ogni mattina quattro ragazze (mia nonna e le sue tre sorelle) salgono a piedi  chiacchierando per via della Sposa e su su per via dei Priori, poi imboccano a destra via della Cupa finchè arrivano al laboratorio delle sorelle Paoletti. La zia Carmela, la  più grande delle quattro, è già maestra, cioè insegna il ricamo alle più piccole, e proprio davanti al portone delle Paoletti ha ricevuto la dichiarazione d’amore del suo futuro sposo. Ma chi sono le Paoletti, anzi le signorine Paoletti?
Le sorelle Marianna e Carmela Paoletti di Petrignano d’Assisi, si trasferiscono a Perugia proprio all’inizio del secolo scorso per mettere a frutto la sola ricchezza che possiedono: una straordinaria abilità nel ricamo. Mettono su un laboratorio che in breve tempo  procura loro la migliore clientela della città e dei dintorni. Le Paoletti sono bravissime anche nel disegno e creano esse stesse i motivi da trasferire su  tessuti leggeri e preziosi per i corredi più belli. Al loro atelier arrivano ragazze da tutte le parti della città per apprendere il mestiere e lavorare per loro.
La fama delle sorelle Paoletti cresce e i loro lavori escono dai confini dell’Umbria e anche dell’Italia. Arrivano ancora più ragazze dai paesi vicini. Intanto Carmela muore nel 1922 dopo aver disposto in testamento che parte delle sue sostanze vadano all’Opera pia Marzolini, una Colonia agricola femminile alla periferia di Perugia, o alla locale Congregazione di carità, ma né l’Opera pia né la congregazione accettano il legato. Marianna decide allora di fondare un dormitorio  - laboratorio per impartire l'insegnamento del ricamo e dei lavori femminili e di "offrire lavoro e asilo nei limiti consentiti dalla disponibilità dei locali alle ragazze povere residenti nel comune di Perugia" o eccezionalmente a quelle residenti nella Diocesi, ne  affida la presidenza all’arcivescovo e la gestione alle suore , come usava allora.
Per anni uno dei più bei negozi di corso Vannucci fu quello delle Paoletti, gestito dopo la morte delle signorine dalla nipote Bruna e poi da suo figlio Francesco. Il laboratorio-dormitorio non esisteva più, era stato trasformato in centro d’accoglienza per la gioventù, ma la produzione dei preziosi  lavori fatti a mano continuava per opera di lavoratrici a domicilio, ricamatrici che si erano formate a quella scuola. In questo negozio sono passate Maria Callas, che si fece confezionare una serie di splendide camicie da notte e un servizio da tavola in stile impero, Rossella Falk, Monica Guerritore e tante altre. Ora anche nella  biancheria la moda impone le firme, la qualità passa in secondo piano,  poche sono le persone che sanno apprezzare l’eccellenza del lavoro artigianale e della vetrina del negozio Paoletti in corso Vannucci rimane solo il ricordo dei perugini più agée.

Fonti:
Settimia Ricci, Franco Venanti, Quelle Paoletti dalle mani d’oro, in Giancarlo Scoccia, Franco Venanti, Dinastie perugine. Arte, patria, scienza, lavoro, imprenditoria, Edizioni Guerra, 1999
http://www.san.beniculturali.it/web/san/dettaglio-soggetto-produttore?id=11748 Laboratorio dormitorio Marianna Paoletti di Perugia

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Maria Teresa Parpagliolo

(Roma, 1903 - 1974)

La storia di Maria Teresa Parpagliolo, architetta del Novecento, è emblematica della scarsa attenzione che il mondo culturale e accademico nazionale rivolge alle donne di valore.
Figura importante dell’architettura di paesaggio e del garden design internazionale, in Italia è pressochè dimenticata e a suo nome non esistono intitolazioni di vie e di piazze, neanche a Roma in cui si è svolta una parte significativa della sua vita umana e professionale.

Una pioniera del paesaggio
di Barbara Belotti

In uno dei suoi tanti interventi sulle donne Mussolini affermava che la natura femminile, di per sé analitica e non sintetica, le escludeva di fatto dal campo dell’architettura. «Ha forse mai fatto dell’architettura in questi secoli? Le dica di costruirmi una capanna, non dico un tempio! Non lo può. Essa è estranea all’architettura, che è la sintesi di tutte le arti, e ciò è un simbolo del suo destino.» Quasi nello stesso periodo, nel 1928, Maria Teresa Parpagliolo cominciava ad affacciarsi nel mondo dell’architettura, in particolare in quella del paesaggio, una categoria particolare della progettazione che in Italia non aveva scuole né corsi universitari, pur avendo una antichissima tradizione di realizzazione di giardini per ville e dimore storiche.
Mancando nel nostro Paese un percorso di studi ben definito, la figura di Maria Teresa Parpagliolo appare quella di una pioniera dell’architettura di paesaggio e del garden design, discipline poco sviluppate e seguite in Italia, almeno in anni non recenti. E nonostante il suo valore, riconosciuto a livello europeo soprattutto in ambito anglosassone, da noi è pressoché sconosciuta.
Lo sguardo verso un panorama internazionale è un’ambizione che Maria Teresa ha fin dall’inizio e che la porta a studiare in Inghilterra; corrobora gli studi teorici approfondendo da sola la conoscenza di piante e specie botaniche che costituiscono gli strumenti fondamentali delle sue realizzazioni. I suoi primi lavori sono progettazioni per spazi verdi destinati a case private, perché l’organizzazione del verde pubblico si rivela prevalentemente  in mano a professionisti uomini, si dedica anche alla stesura di articoli sulla progettazione dei giardini e tiene per Domus, tra il 1930 e il 1938, una rubrica fissa dal titolo Giardino fiorito.
Nel 1939 ha l’opportunità di seguire, insieme agli architetti Raffaele De Vico e Pietro Porcinai, l’organizzazione dell’intero sistema di parchi e giardini della nuova zona di Roma destinata ad ospitare l’Esposizione Universale del 1942, l’EUR. La progettazione delle aree verdi dell’EUR voleva essere, cosa inusuale ancora oggi nel nostro Paese, di ampio respiro, non solo vista come completamento della parte urbanistica e architettonica. Come si legge nel volume Una grande casa, cui sia di tetto il cielo. Giardino nell'Italia del Novecento di Anna Maria Conforti Calcagni, il grande parco pensato per l’EUR doveva «avvolgere l’opera nella sua totalità e […] restare in stretto rapporto col “magnifico panorama della campagna romana” […], stabilire un armonioso rapporto tra le linee rigide dell’architettura e quelle più addolcite disegnate nel verde […] qualificare in modo sempre diverso il complesso intersecarsi delle strade, di cui esaltava funzioni e prerogative».
Dirige, dal 1940 al 1942, l’Ufficio Parchi e Giardini del Comune di Roma e la carriera di Maria Teresa Parpagliolo appare avviata verso traguardi di sicuro successo nell’ambito della progettazione del verde pubblico, campo che sembra riservare alle donne (non solo in Italia) ruoli di maggiore indipendenza e libertà rispetto all’architettura tradizionale.
Nell’immediato dopoguerra sposa il militare inglese Ronald Shephard e comincia ad alternare lavori e incarichi di prestigio tra l’Inghilterra e l’Italia. In una interessante fotografia del 1948 viene ritratta sul palco d’onore all’inaugurazione a Londra della prima "International Conference of Landscape Architects", accanto ai/alle maggiori architetti/e del paesaggio dell’epoca.
I nuovi contatti con la scuola anglosassone di progettazione e di garden design (entra a far parte del "British Institute of Landscape Architects"), la partecipazione al Festival of Britain del 1951, i disegni per il Regatta Restaurant Garden (1950), la risistemazione a giardino della fascia costiera di Mablethorpe nel Lincolnshire, un’area trasformata in modo sensibile durante gli anni della guerra, la lanciano in un panorama decisamente internazionale senza però recidere il legame con l’Italia.
A Roma si aggiudica, insieme all’architetta Elena Luzzatto, il concorso per la realizzazione del cimitero militare francese di Monte Mario; progetta il parco dell’Albergo Cavalieri Hilton (1963), la sistemazione di piazza Jacini a Vigna Stelluti, l’atrio e il giardino interno della sede RAI in viale Mazzini (1966), in cui propone una felice sintesi fra il giardino italiano e il giardino giapponese, ispirato da un viaggio in terra nipponica, la sistemazione dei giardini e degli spazi esterni del complesso residenziale Prato della Signora e di quello in via Nomentana 373.
Agli anni Sessanta risale anche un altro importante piano architettonico, quello relativo alla sistemazione degli spazi verdi pubblici e privati del comprensorio di Casal Palocco, affidatole dalla Società Generale Immobiliare. Si vuole ricreare, lungo la direttrice che da Roma conduce verso il litorale, non distante dalla vasta tenuta presidenziale di Castel Porziano, un nuovo complesso residenziale immerso nel verde. Il paesaggio cui si ispira l’architetta è quello della macchia mediterranea della vicina costa tirrenica, fatta di arbusti e piante che hanno il compito di creare omogeneità con l’ambiente circostante, contenere l’inquinamento acustico, valorizzare la salubrità dell’aria, caratterizzare la viabilità della zona garantendo al tempo stesso privacy e tranquillità ai proprietari delle abitazioni. Un vero esempio di integrazione fra paesaggio urbano e paesaggio naturale.
Il valore della progettazione ambientale, la valorizzazione del verde pubblico in sinergia con quello privato, la funzione estetica e ecologica dell’architettura del paesaggio e del garden design accompagnarono l’intera esperienza professionale di Maria Teresa Parpagliolo che è stata una prolifica scrittrice di articoli per riviste specializzate nazionali e internazionali.
Il ritardo italiano nel comprendere il valore dell’architettura paesaggistica la portò, insieme a Porcinai e altri colleghi, a dar vita all’AIAPP (Associazione Italiana degli Architetti del Giardino e del Paesaggio) certa che fosse necessario formare una coscienza e una specificità professionale anche in questo campo. Nonostante la ricca e antica tradizione dei giardini all’italiana, infatti, il mondo accademico nazionale ha faticato a riconoscere un valore significativo e autonomo all’architettura di paesaggio e solo alla fine degli anni Settanta è stata istituito il primo corso di specializzazione in Architettura del Paesaggio presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Genova.
Negli ultimi anni Maria Teresa Parpagliolo studia e progetta la ricostruzione del giardino storico cinquecentesco Bagh-e Babur a Kabul, voluto dall’imperatore Moghul Babur come luogo di svago e successivamente scelto per accogliere la propria tomba. L’incarico, condotto per conto dell’ISMEO (Istituto per il Medio ed Estremo Oriente), dimostra la capacità costante di Maria Teresa Parpagliolo ad aprirsi verso culture diverse, mai venuta meno nel corso di un’intera carriera.
Muore nel 1974

Fonti:
Sonja Dümpelmann, Maria Teresa Parpagliolo Shephard (1903 – 1974). Her development as a landscape architect between tradition and Modernism, in "Garden History", vol 30. N.1, 2002, pp.49-73
Paesaggi didattica, ricerche e progetti (a cura di Guido Ferrone, Giulio G. Rizzo e Mariella Zoppi), Firenze University Press, 2007
Dorothée Imbert, Between Garden and city: Jean Caneel –Claes and landscape Modernism, Pittsburg, PA, 2009
Sonja Dümpelmann, The landscape architect Maria Teresa Parpagliolo Shephard in Britain: her international career 1946-1974, in Studies in the History of gardens and design landscapes, 30, n1, 2010, pp. 94-113
Anna Maria Conforti Calcagni, Una grande casa, cui sia di tetto il cielo. Giardino nell’Italia del Novecento, Milano, Il Saggiatore, 2011
Sonja Dümpelmann, Creating new landscapes for old Europe, in Women, modernity and lanscape Architecture, a cura di  Sonja Dümpelmann e John Beardley, 2015, Oxon-New York, pp.15-37
Jennifer Bennet, Gardens and gardening, in The Oxford Encyclopedia of women in World History, vol. 4, p. 348
http://paesaggiocritico.com/2012/10/31/maria-teresa-parpagliolo-shephard-le-citta-giardinocasal-palocco-di-mauro-masullo/
http://www.itacatabloid.it/index.php?option=com_content&view=article&id=52:un-innamorato-della-bella-italia&catid=15&Itemid=106#
www.verdeepaesaggio.it
http://oxfordindex.oup.com/view/10.1093/oi/authority.20110803100307673
http://www.vivaitorsanlorenzo.it/agosto2005/agosto05.pdf
http://www.artapartofculture.net/new/wp-content/uploads/2012/03/marzo_2012.pdf
http://www.ordinearchitettivarese.it/files/EVENTI/MariaTeresa%20Parpagliolo%20Profilo.pdf

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Lia Pasqualino Noto

(Palermo, 1909 - 1998)

A Palermo, nel rione Brancaccio-Ciaculli,  le è stata intitolata una via

L'arte è una passione
di Ester Rizzo

Lia Noto nasce a Palermo nel 1909 da Antonio e Attilia Tellera.
Il suo primo approccio con la pittura risale a quando, a soli undici anni, inizia a dipingere sotto la guida del maestro e pittore Onofrio Tomaselli. Come lei stessa dichiarò, la sua passione per le matite colorate non l’abbandonò mai e crescendo, invece di dedicarsi a nuovi giochi, continuava a disegnare sui ricettari del padre medico. Quando le regalarono i primi colori ad acquarello iniziò a dipingere “con una costanza quasi maniacale”.
A vent'anni frequentava già lo studio di Pippo Rizzo, dove incontrerà Renato Guttuso. Iniziò ad esporre ed i suoi quadri rivelarono chiaramente che Lia era una "delle massime espressioni della pittura del Novecento in Sicilia". Insieme al marito, il medico Guglielmo Pasqualino, anche lui amante della pittura, accoglieva nella sua casa le personalità di spicco della cultura siciliana dell'epoca, creando così una sorta di cenacolo culturale in cui si dibattevano le nuove tendenze artistiche.
Lia mise sempre in evidenza la carenza e l’inadeguatezza in Sicilia di spazi culturali ed artistici idonei e lottò per modificare tale situazione.
E’ stata la prima donna e la prima persona ad aprire a Palazzo De Seta a Palermo la prima galleria d'arte privata della Sicilia, che dirigerà fino al 1940.
Il suo famoso dipinto "L'Attesa" riassume lo spirito e la filosofia del cosiddetto "gruppo dei quattro" (la stessa Lia, Guttuso, Franchini e Barbera) che rinnega i canoni classici del Novecento imposti dal regime e vira verso "una rappresentazione onirica e metaforica della realtà".
Il campo privilegiato della sua ricerca pittorica fu la ritrattistica.
Nel 1935, come componente della deputazione della Civica Galleria d'Arte Moderna di Palermo, fece acquistare quadri di Carrà, di Sironi, di Guttuso, di Marini, che oggi sono un vanto prezioso del Museo ma che ai tempi comportarono violente critiche a Lia.
Fa riflettere la sua testimonianza quando, divertita, raccontava che per un certo periodo alcuni critici d'arte lodarono i suoi lavori credendo però che lei fosse un uomo di nome Pasqualino e di cognome Noto. Per un po' giocò a nascondere la sua vera identità, convinta che gli apprezzamenti fossero stati palesati proprio perché ritenuti frutto di un talento maschile. Infatti  in una dichiarazione del 1937 affermò che "ad una donna è impossibile venir presa sul serio: una prevenzione razziale relega la femmina al ruolo di dilettante".
Quando negli anni ’50 e ’60 nacquero i nuovi canoni dell’arte contemporanea, iniziarono per Lia quelli che lei stessa definì “gli anni del silenzio”: le nuove strade artistiche non si addicevano alla sua ricerca figurativa. Continuò comunque a dipingere lasciandoci in eredità un notevole numero di opere.
Morì a Palermo il 25 febbraio 1998.

Fonti
Anna Maria Ruta, Siciliane (a cura di Marinella Fiume),  Emanuele Romeo Editore, 2006
Rosa Mastrandrea, Italiane, volume II, Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Pari Opportunità
“Artedonna” Cento anni di arte femminile in Sicilia 1850-1950, (a cura di Anna Maria Ruta),  Edizioni di passaggio, 2012
Ester Rizzo,  Storie di donne siciliane – Lia Pasqualino Noto, articolo di "La Vedetta", gennaio 2015
http://www.galleriaroma.it/Bonaiuto/4/Noto.htm

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Ottavia Penna Buscemi

(Caltagirone, 1907 - 1986)

A Caltagirone c'è una lapide che la ricorda ma nessuna via è a lei intitolata

http://toponomasticafemminile.com/index.php?option=com_content&view=article&id=9221&Itemid=9328

 

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Bice Piacentini Rinaldi

(San Benedetto del Tronto (AP), 1856 - 1942)

A Bice (Beatrice) Piacentini Rinaldi sono intitolate una piazza e una scuola primaria nel Comune di San Benedetto del Tronto. In Palazzo Piacentini, dimora della famiglia nel borgo antico della cittadina marchigiana, è aperto al pubblico lo studiolo della poeta dialettale che ospita, oltre a mobili d’epoca, i libri che le appartennero, i suoi appunti e il suo piccolo archivio.

Una poeta dialettale
di Barbara Belotti
 

Beatrice, detta Bice, Piacentini Rinaldi nasce poco dopo la metà del XIX secolo a San Benedetto del Tronto, allora piccolo centro della costa meridionale adriatica dello Stato Pontificio. La sua è una famiglia in vista della società sambenedettese che alterna ai soggiorni marchigiani lunghi periodi a Roma, dove Alfredo Piacentini Rinaldi, il padre di Bice, segue gli affari del suo studio legale.
Bice cresce, quindi, fra il mondo romano e quello della provincia: San Benedetto, che rimase sempre nel cuore, e Collevecchio, in provincia di Rieti, paese da cui proviene la sua famiglia e dove conosce e frequenta Carlo, il fratello minore del padre che diventa nel 1877, non senza duri contrasti familiari, suo marito.
L’amore per San Benedetto del Tronto è profondamente radicato nell’animo di Bice che si dedica alla scrittura in lingua dialettale fin dai primi anni del Novecento, nello stesso periodo in cui Benedetto Croce, nel saggio dedicato alla poesia napoletana di Salvatore Di Giacomo (1903), libera i versi dialettali dal vincolo di essere una manifestazione letteraria minore priva di forza lirica e li innalza a espressione di “ingegno poetico e fantastico”.
A Bice Piacentini il dialetto sambenedettese consente di rimarcare il tono di autenticità e di vicinanza con il mondo che si propone di descrivere, un’apertura alla vita quotidiana del territorio che ama e che intende elevare a dignità poetica e artistica.
I suoi primi lavori sono i Sonetti in vernacolo sambenedettese del 1904, seguiti due anni dopo da una nuova edizione più ampia; del 1910 i sonetti Lu curtille e Stè Segnore; del 1915 il dramma teatrale Ballo del sospiro (1915) e, successivamente, il testo teatrale in dialetto sambenedettese Ttenella.
Nel 1926 a Roma è pubblicata un’antologia di poesie, curata dalla stessa Bice e dedicata alla madre Marianna Fiorani, dal titolo Sonetti marchigiani. Nell’introduzione all’opera Bice Piacentini si dichiara “testimone di liete e tristi scene nella famiglia e nella strada”. Attraverso i versi dialettali intende “ritrarre aspetti, sentimenti, abitudini raccogliendo dalla viva voce e, a preferenza, da labbra femminili, qualcuna tra le più schiette manifestazioni dell’anima popolare […]”.
“Raccolsi, soprattutto, ― è sempre la poeta a parlare nell’introduzione ― avidamente il linguaggio pittoresco e vezzoso delle nostre fanciulle popolane”, resoconti di vita ripetuti “alla lettera”.
L’antologia si apre con il sonetto Sammenedette, omaggio alla cittadina marchigiana, vero “luogo del cuore” di Bice Piacentini che lei stessa definisce nell’introduzionepaese che a me pare il più bello”: “Quiste jè nu paèse 'ffatturate;/ se lu sci viste 'n te lu pù scurdà/ e lu frastìre che cca capetate/ ce revè, preste u tarde, 'n ce penzà!/[…] Sammenedètte, care bbille mì,/ lu mare, tune jè lu ppiù lucènte,/ lu cìle tùne jè lu ppiu ttrecchì!
Attraverso il linguaggio dialettale “che ad altri può sembrare barbaro” Bice recupera la “suggestiva nostalgica dolcezza di ricordi” soffermandosi su differenti temi: il mare e il paese, la donna come madre e come moglie, le ragazze del luogo, i temi dell’amore, della gelosia, della morte.  
I sonetti sono schizzi veloci, brevi annotazioni sulla vita del borgo sambenedettese, sugli umori e le grida che era possibile ascoltare nelle strade o che uscivano dai portoni e dalle finestre aperte durante la bella stagione.
I suoi versi testimoniano un mondo che non esiste più, un mondo vissuto nei vicoli e agli angoli di povere abitazioni.
Nel sonetto “La megara”, per esempio, si racconta l’antica sapienza magica e misteriosa delle donne che toglievano il malocchio e le fatture; in altri la fatica e il dolore quotidiano, come quello di una madre di fronte alla morte del figlio ancora in fasce. I versi parlano anche dei mille piccoli espedienti per sopravvivere, i tanti volti di un’economia locale semplice, quella marinara, che vede nella “muccigna” la parte minima e di minor pregio che spetta alle famiglie dei marinai imbarcati e che costituisce spesso l’unica fonte di sostentamento (“Revà' le mòje de ji marenare,/ 'nche la muccigna p' ammanì la cène/ e ji frechì 'ttaccat'a lesettàne”.
Sono i pescatori a partire per la pesca, ma sono le donne a tenere in mano la trama della vita familiare, a svolgere ogni fatica casalinga cui si sommano i carichi di lavoro in appoggio alle attività di pesca maschili. Le donne, che si svegliano all’alba, rubano ore al riposo notturno per svolgere mille mansioni: sono loro a curarsi della casa, degli anziani e dell’educazione dei figli, per i quali rappresentano un centro saldo rispetto alla figura paterna spesso lontana e assente. A loro si richiedono molte attività collaterali alla pesca, quali per esempio la produzione di reti, la confezione e il rammendo di vele, la ricerca e la preparazione delle esche. Instancabili lavoratrici raccolgono la legna lungo la battigia, praticano la sciabica assieme agli uomini o girano l’argano per trarre in secco le barche.
Le vecchie fotografie d’epoca le mostrano sulla spiaggia in attesa delle barche, mentre scrutano il mare, immobili come statue di pietra, alla ricerca dei colori familiari delle vele (Stave le donne ritte pè mmarine/ parì de pietre, e reguardì llà fòre/ 'na vele e 'na lancette. Ma vecine/ zerlì j frechì, chiamì, facì rremòre.)
Negli anni in cui si dedica alla poesia dialettale, Bice Piacentini comincia a prendersi cura di Pia Ceccarelli, figlia di un marinaio, che abitava in una modesta casa non lontana dal palazzo. La compagnia di Pia la distoglie dai molti lutti familiari: la morte dei genitori, del marito Carlo nel 1911, dei due fratelli Gualtiero e Ernesto e, dolore fra i dolori, quella prematura del suo unico figlio Giuseppe.
Bice Piacentini Rinaldi muore nel 1942

Fonti

Cinzia Carboni, L’arco di Bice, 2010, in http://www.fluidbook.it/book/iluoghidellascrittura/larco_di_bice/

http://www.museodelmaresbt.it/Engine/RAServeFile.php/f//intero-ilovepdf-compressed_(2)-ilovepdf-compressed.pdf

https://it.wikipedia.org/wiki/Bice_Piacentini

http://www.edueda.net/index.php?title=Piacentini_Rinaldi_Bice

https://www.comunesbt.it/Engine/RAServeFile.php/f/a_casa_di_bice.pdf

https://bibliotecalesca.wordpress.com/page/13/

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Edmea Pirami

(Ascoli Piceno, 1889 - Bologna, 1978)

La città di Bologna ricorda con un giardino la figura di Edmea Pirami, pediatra e animatrice di attività filantropiche. Al contrario l’amministrazione di Ascoli Piceno, sua città natale, ancora non le intitolato alcuno spazio.

Matris animo curant
di Barbara Belotti

Edmea Pirami nasce ad Ascoli Piceno nel 1889 in una famiglia che crede nel valore delle sue figlie, in un’epoca in cui per le donne non era facile iscriversi all’università e seguire le proprie inclinazioni e le proprie passioni. Sia lei che le sorelle Ester e Lea intraprendono gli studi scientifici con brillanti risultati; Edmea in particolare si laurea in medicina a Bologna e diventa successivamente assistente nell’Istituto di pediatria. Si specializza in due campi fra loro vicini, in pediatria nel 1927 e in puericultura nel 1933.
La sua carriera accademica e ospedaliera si interrompe dopo il matrimonio e la nascita della figlia, ma la passione di Edmea per la medicina e per il mondo dell’infanzia è così forte che prosegue il lavoro nella pratica privata. Si prende cura dei bambini e delle bambine del brefotrofio, di tutte le mamme indigenti e delle ragazze madri che non possono accedere alle cure sanitarie per le loro creature. Dà vita a due ambulatori gratuiti nei quali assicura le terapie necessarie ai bambini spastici. Ancora più intenso è il suo impegno durante gli anni del secondo conflitto mondiale, cura le persone ferite dai bombardamenti, trova rifugio e nasconde bambini e bambine di religione ebraica.
Se la carriera medica femminile comincia a trovare sempre minori ostacoli nel corso del Novecento, meno scontato è, invece,  l’ingresso delle donne nei centri del potere. Edmea Pirami diventa la prima donna ad essere eletta nel Consiglio dell’Ordine dei Medici di Bologna.
Numerose sono le cariche che assume nel corso della sua vita. Dal 1961 diviene socia della Società e scuola medica chirurgica del capoluogo emiliano; diviene presidente dell’AIDM (Associazione italiana donne medico) di Bologna, in seguito presidente nazionale della stessa associazione; è nominata vice presidente del MWIA (Medical women’s international association) per l’Europa meridionale nel 1964. Alcuni anni prima la stessa associazione internazionale aveva adottato lo stemma con la figura di Igea e il motto Matris animo curant ideato e creato in casa di Edmea Pirami.
Il suo nome viene ricordato fra le fondatrici del Soroptimist Club di Bologna, del quale è stata presidente per due mandati.  Edmea Pirami muore a Bologna nel 1978. In suo  onore è stato istituito un premio, promosso dall’Associazione donne medico laureate e altri gruppi.

Fonti:
https://scienzaa2voci.unibo.it/biografie/106-pirami-emiliani-edmea
http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=7011

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Ester Pirami

(Urbino, 1890 - Bologna, 1967)

Non si hanno tracce toponomastiche di Ester Pirami. Si propongono intitolazioni nella sua città natale (Urbino), nei luoghi ove visse (Pescia, Livorno, Pesaro), studiò e morì (Bologna).

Una vita spesa fra bisturi e penna
di Laura Candiani

Ester nacque a Urbino nel 1890, figlia di un pesciatino illustre e colto (Alberto) e di una romagnola amante delle arti (Virginia Amidei), primogenita di quattro figlie femmine. Successivamente la famiglia si trasferì a Livorno e poi a Pescia (oggi provincia di Pistoia); nel 1906 un nuovo trasferimento condusse i Pirami a Bologna dove le ragazze studiarono. Nel 1914 Ester si laureò brillantemente in Medicina e Chirurgia (1) e decise di  intraprendere   la carriera ospedaliera, in un’epoca in cui le poche mediche si occupavano esclusivamente di pediatria e di ginecologia;  già a settembre era a Pescia e a dicembre vinse il concorso come assistente in chirurgia.
Ottenne anche l’incarico di medica militare durante la Grande Guerra e non esitò ad andare come volontaria a curare i feriti nel terribile terremoto di Avezzano (1915), dimostrando coraggio, altruismo, determinazione.
Nel frattempo si dedicava alla scrittura con racconti e poesie, spesso ospitati su riviste a carattere locale, ma pubblicava anche opere scientifiche che  le valsero riconoscimenti dall’Università di Bologna. Era una brava medica, una chirurga attenta che non si assentava mai, le vennero addirittura attribuite guarigioni quasi miracolose e la sua dedizione al lavoro divenne proverbiale a Pescia e dintorni. Non si contano i ringraziamenti che ricevette.
A partire dal 1915 Ester si dedicò con più continuità alla narrativa e iniziò il romanzo L’estrema offerta, pubblicato nel ’24. Un punto essenziale della sua produzione è la condizione della donna che Ester non vede legata esclusivamente alla realizzazione attraverso la famiglia: anzi, crede fermamente nel ruolo del lavoro, nell’emancipazione, nell’importanza dello studio, tutti aspetti che la riguardano in prima persona, di cui è essa stessa testimonianza. Il romanzo è la storia di un amore travagliato ed ostacolato a cui fa da sfondo la situazione sociale dell’epoca con la sua ipocrisia, con le differenze sociali, con i pregiudizi, con la paura dei sovversivi e del socialismo, argomento che la Pirami non evita di trattare. Il finale del romanzo, quando la bella e infelice Grazia sceglie il suicidio al disonore,  potrebbe apparire una rinuncia e una contraddizione ma si deve comprendere il clima italiano degli  anni Venti. Una ragazza che spende i suoi soldi e si “concede" (pensiamo alla Tosca pucciniana) a fin di bene per salvare il proprio innamorato, sarebbe stata destinata all’isolamento, alla critica, al rifiuto dei suoi stessi familiari. E’ dunque una fine coerente, non certo con i principi della scrittrice, ma con quanto la società si attendeva.
Nel ’26 la Pirami si specializzò in Patologia coloniale e nel ’32 si trasferì - a seguito di concorso - a Pesaro, lavorando ancora con dedizione per parecchi anni, assistendo i feriti durante la II Guerra Mondiale e praticando la libera professione fino al 1967,  quando le precarie condizioni di salute la portarono a dimettersi dall’Ordine dei Medici. Morì il 19 settembre dello stesso anno a Bologna  dopo una vita dedicata al lavoro in un ambito ancora poco femminile, che poteva sembrare  inconciliabile con la vita familiare di moglie e madre.

1) La prima donna laureata al MONDO fu l’italiana Elena Lucrezia Corner  Piscopia (1678); negli USA la prima fu (1849) Elizabeth Blackwell, in Europa la prima fu (1867) Nadeschda Suslowa, in Italia -dopo l’Unità-  la prima laureata (proprio in medicina) fu, nel 1877, Ernestina Paper a Firenze; la celebre Maria Montessori si laureò nel 1896.

Fonti:
Francesca Giurlani, Scrivere per il pubblico: l’esperienza di Ester Pirami(1890-1967), in Donne di penna, 2003, Istituto Storico Lucchese-sezione Storia e Storie al femminile-Buggiano Castello

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Lidia Poët

(Traverse, 1885 - Diano Marina, 1949)

A lei sono dedicate la Biblioteca di Porte (TO) ed una Scuola Media Statale di Pinerolo (TO). Non è stata intitolata alcuna strada.

La prima avvocata italiana
di Loretta Junck

Sono venuta qui a Porte, un piccolo e grazioso centro a pochi chilometri dalla cittadina di Pinerolo, in provincia di Torino, a cercare la biblioteca Lidia Poët. E penso che vorrei averla sotto casa una biblioteca di genere così gradevole e ben fornita. Ma mi viene anche da riflettere che, anche quando siamo brave (e questa amministrazione femminile così attenta e presente lo è), anzi forse soprattutto allora, facciamo ancora fatica ad autolegittimarci.
Il fatto è che non la trovavo la biblioteca, perché non c’è insegna, né tanto meno un’indicazione segnaletica. Solo quando ci sei arrivata hai modo di sapere che accedi alla prima Biblioteca nazionale delle donne - http://www.comune.porte.to.it/index.php/biblioteca-donna.html - fortemente voluta dalla Sindaca e dall’ex Assessora alla cultura diventata mamma da poco, ma oggi qui a fare ”gli onori di casa”.
La scelta del nome è un altro tocco di intelligenza e sensibilità.
La biblioteca è stata dedicata a Lidia Poët, valdese della Val Germanasca (nacque a Traverse, una frazione di Perrero), prima donna a laurearsi in giurisprudenza e prima avvocata.
Quando Lidia vide la luce, nel 1855, non erano trascorsi molti anni da che l’editto di Carlo Alberto aveva liberato i valdesi dal ghetto alpino dove erano stati confinati due secoli prima, dopo la fase cruenta delle persecuzioni.
La personale persecuzione di Lidia Poët, come donna di legge, sarebbe iniziata invece un quarto di secolo dopo, quando, dopo aver discusso la tesi di laurea sulla condizione femminile nella società, superato brillantemente l’esame di abilitazione e svolto il prescritto periodo di praticantato nello studio di un collega a Pinerolo, ebbe l’ardire di chiedere l’iscrizione all’Albo degli avvocati di Torino. La storia di questa donna coraggiosa e volitiva è abbastanza nota: tra le eccellenze femminili pubblicate sul sito FIDAPA, esiste un’approfondita scheda che ne analizza il curriculum.
Maria Grazia Pellerino, assessora all’istruzione al Comune di Torino e avvocata, ci ragguaglia sull’iter legale della vicenda, che all’epoca suscitò scalpore e la stampa  diede molto spazio alla contesa tra innovatori e tradizionalisti.
«L’Ordine di Torino con decisione presa a maggioranza accolse la sua domanda. – scrive Pellerino -  I due consiglieri che si opposero appartenevano uno, Spantigati, alla sinistra, e l’altro, Chiaves, alla destra … Il provvedimento dell’Ordine di Torino destò molte censure e i due consiglieri citati si dimisero … Il Procuratore Generale del Re impugnò l’iscrizione della Poët avanti la Corte d’Appello richiamando, della donna, “l’indivisibiità della sua persona dall’eventuale portato delle sue viscere e la deficienza delle forze intellettuali e morali, fermezza, costanza e serietà”.»
In appello l’iscrizione all’Ordine fu annullata e la Corte di Cassazione confermò la sentenza di secondo grado.

Questo non impedì a Poët di seguire quella che era evidentemente una vocazione, perché «decise di dedicarsi alla difesa dei diritti non solo delle donne ma anche degli emarginati, dei minori e dei carcerati» (dal sito della Società di Studi Valdesi). Entrò a far parte stabilmente del Segretariato del Congresso Penitenziario Internazionale e nel 1922 presiedette il Comitato pro voto donne, fondato a Torino nel 1906.
Soltanto nel 1920, a sessantacinque anni, Lidia poté iscriversi all’Ordine degli Avvocati, grazie ad una legge del 1919 che aveva permesso alle donne di accedere a tutte le carriere professionali, esclusa la Magistratura.
Oltre alla biblioteca di Porte, finora nella provincia di Torino soltanto una scuola l’ha ricordata, la Scuola Media Statale Lidia Poët di Pinerolo, e nessun Comune ha ritenuto opportuno dedicarle una targa.

Credo che le amministrazioni dei luoghi dove nacque, visse e operò (Perrero, Torino e Pinerolo)  e dove avrebbe voluto poter esercitare la sua professione, dovrebbero deliberare una intitolazione stradale: un risarcimento simbolico alla memoria, una presa di coscienza istituzionale di un trascorso radicalmente discriminatorio, l’espressione concreta della  volontà di voltare veramente pagina.

Fonti:
Marino Raichich, Liceo, università, professioni: un percorso difficile, in Simonetta Soldani, ed., L'educazione delle donne: Scuole e modelli di vita femminile nell'Italia dell'Ottocento, Milano, 1989, 151-53
Clara Bounous, La toga negata. Da Lidia Poët all’attuale realtà torinese, Pinerolo, 1997
http://www.fidapa.com/index.php?option=com_content&view=article&id=387:lidia-poet&catid=904:distretto-nord-ovest&Itemid=46
http://www.senonoraquando-torino.it/2012/04/17/lidia-poet-prima-donna-iscritta-ad-un-ordine-degli-avvocati/
http://www.mariagraziapellerino.it/public/file/Foro-di-Torino-le-prime-avvocate.pdf

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Silvia Pons

(Torre Pellice 1919 - Torino 1958)

Né a Torino né a Torre Pellice esistono aree di circolazione dedicate alla memoria di Silvia Pons,  nonostante l’impegno da lei profuso durante la Resistenza e nel primo dopoguerra,  soprattutto nell’ambito dell’associazionismo femminile. La sua figura è riemersa solo recentemente dall’oblio, grazie a studi condotti su documenti dell’archivio famigliare messo a disposizione dal figlio Vittorio Diena.

Una vita incompiuta
di Loretta Junck

Di famiglia valdese, Silvia Pons discendeva per parte di madre da una dinastia di matematici, i Bernoulli. Il nonno materno Karl Emanuel Bernoulli, nativo di Basilea, si era prima radicato a Torino poi, ritiratosi dall’attività imprenditoriale di cui era stato iniziatore, si era costruito una casa a Torre Pellice, cuore del valdismo italiano, e vi si era trasferito.
Nata a Torre Pellice, in provincia di Torino, nella casa degli avi materni, Silvia passa l’infanzia prima a Ivrea, dove la famiglia si era trasferita per il lavoro del padre, e dal 1929 ad Aosta dove Enrico Pons era stato nominato direttore della filiale locale della Banca Commerciale Italiana.
Ma il ménage familiare non è dei più sereni: la vita coniugale dei genitori, a lungo attesa durante il fidanzamento negli anni della guerra, quando Enrico era al fronte,  iniziata sotto i migliori auspici, diventa presto difficile. I caratteri di Lilly Bernoulli e del marito non si amalgamano e questo segna in modo negativo l’infanzia della piccola Silvia, intelligente e sensibile. La serenità torna durante le estati a Torre Pellice, nella bella villa dei nonni Bernoulli, dove Silvia stringe una duratura amicizia con Frida Malan, che diventa la sua migliore amica, e i suoi due fratelli Roberto e Gustavo.
Alla fine degli anni ’30 tra i fratelli Malan, Silvia Pons e Giorgio Spini, che viveva a Firenze ma passava le estati a Torre Pellice, si crea un sodalizio intellettuale in cui la giovane Silvia matura una coscienza politica improntata all’antifascismo.
Nell’autunno del 1937 si iscrive all’Università a Torino scegliendo, coraggiosamente, la facoltà di Medicina e Chirurgia. La percentuale di donne che vi si iscrivono è molto bassa (341 su 9960 uomini), ma lei ostenta una grande fiducia in sé e va diritta per la sua strada.
A Torino, dove si trasferisce nel primo anno di Università, Silvia incontra Giorgio Diena e se ne innamora; la loro relazione non può sfociare nel matrimonio perché Giorgio è ebreo e le leggi razziali impediscono le unioni “miste”. Così, quando si accorge di essere incinta, nell’autunno del ’39, Silvia prende un’altra decisione coraggiosa, quella di far nascere comunque suo figlio resistendo alle pressioni della famiglia che vorrebbe convincerla a rinunciare a questa difficile maternità. Vittorio nasce nel luglio del ’40, nel piccolo appartamento nella periferia di Torino dove la giovane coppia è andata a vivere.
Intanto è iniziata la guerra e la città conosce i primi bombardamenti. Nell’agosto dello stesso anno la madre Lilly, la cui crisi matrimoniale è giunta a un punto di non ritorno, scompare durante una passeggiata in montagna lasciando una lettera inquietante. I suoi resti verranno trovati solo due anni più tardi.
Per Silvia, ovviamente provata dal dramma famigliare, inizia un periodo difficile, tra gli esami all’Università, il bambino da crescere, il compagno spesso assente per il lavoro e gli impegni politici. Dal 1940 la coppia inizia a collaborare con il gruppo torinese di Giustizia e Libertà, da cui nel ’42 nascerà il Partito d’Azione. Silvia e Giorgio vi aderiscono.
Nel 1942 si intensificano i bombardamenti su Torino e la famiglia si trasferisce a Torre Pellice, insieme ai genitori di Giorgio, che si prendono cura del bambino perché Silvia e il suo compagno sono spesso a Torino per la loro attività politica.
Nel febbraio del ‘43 Giorgio, trovato in possesso di documenti compromettenti, viene arrestato e resta in carcere per qualche mese. Intanto Silvia, nel luglio del ’43, nonostante la guerra, l’attività politica e le drammatiche vicende personali, seguendo  regolarmente i corsi di studio, riesce a laurearsi in medicina con un’ottima votazione; l’anno seguente sostiene l’esame di stato, insieme ad altre cinque donne contro 97 candidati maschi.
Dopo l’armistizio inizia per Silvia e Giorgio, uscito dal carcere nell’agosto, un periodo di intensa attività politica clandestina tra Torino e Torre Pellice, dove si è trasferito l’esecutivo del Partito d’Azione piemontese. Giorgio Diena ne fa parte insieme a Mario Andreis, Giorgio Agosti, Vittorio Foa, Franco Momigliano, Franco Venturi. Le riunioni avvengono spesso nella casa di Mario Alberto Rollier. È lì che si tiene, a fine ottobre, la riunione storica in cui si inizia a parlare della formazione di gruppi armati di GL.
Sulla partecipazione di Silvia alla Resistenza sono rimaste poche tracce: sono per lo più testimonianze indirette che documentano il suo impegno come staffetta e nell’Organizzazione Sanitaria interpartitica del CLN piemontese, in rappresentanza del PdA; l’organizzazione aveva lo scopo di curare i partigiani feriti e malati e di preparare le strutture sanitarie in vista dell’insurrezione.
Più documentato il contributo di Silvia Pons sul piano delle idee: è attiva nel Movimento femminile di GL e diventa redattrice della Nuova Realtà, il giornale del Movimento, dove collabora strettamente con Ada Gobetti Marchesini, che ne stima  la brillante intelligenza; inoltre partecipa ai Gruppi di Difesa della Donna sorti nel novembre del ’43. Il suo impegno nel PdA e nell’associazionismo femminile per la conquista delle libertà civili e politiche per le donne continua anche dopo la Liberazione. Nel partito, però, i rapporti con il gruppo dirigente non sono facili e Silvia, sul finire del 1945, viene espulsa senza che siano chiari i motivi di un provvedimento così grave che ha a che fare, forse, con la sua vita privata.
 L’attività di Silvia Pons continua però nella professione, in cui lei si impegna con la stessa energia e le stesse idee di giustizia sociale che ne hanno guidato l’azione politica. Nel ’44 le è affidato un incarico come medico scolastico; lavora poi per l’ENPI (Ente Nazionale Prevenzione Infortuni). È eletta nel Consiglio dell’Ordine dei Medici della Provincia di Torino e fa parte del gruppo delle dottoresse che si costituisce all’interno dell’Ordine per combattere la discriminazione sessuale, politica e ideologica. Lavora all’Ospedale Mauriziano, entra a far parte di uno studio medico e viene assunta con un incarico temporaneo di supplenza come medico condotto presso il Comune di Torino. Nel 1946 diventa presidente della sezione torinese della Fidapa, associazione femminile che, in contatto con l’organizzazione americana, riceve dagli USA pacchi di medicinali, vestiario ecc.
Accanto ai successi professionali, tuttavia, gli anni tra il ’46 e il ’48 registrano non solo il fallimento politico (il PdA si scioglie nel ’47, anche se sia Silvia che Giorgio se ne sono già allontanati) ma anche quello privato del rapporto di coppia. Mentre si manifesta in Silvia quella dipendenza dalla morfina che forse era iniziata subito dopo la Liberazione, parallelamente Giorgio, assunto all’Olivetti di Ivrea nel ‘49 dopo il fallimento di un progetto imprenditoriale, è costretto a lasciare il lavoro per il forte disagio psichico che esplode in deliri persecutori e che lo condanna infine al ricovero permanente in casa di cura.
Nel ’50 Silvia si innamora di Guido Loventhal, un ebreo torinese emigrato in America e tornato in Europa nel dopoguerra;  la separazione definitiva con Giorgio avviene nel ’51. Come già in precedenza è avvenuto nei momenti di crisi, il figlio della coppia, Vittorio, trova ospitalità a Torre Pellice presso una famiglia amica. Per poter essere più vicina a Guido Loventhal, dal ’51  in Francia in forze presso l’esercito americano, Silvia  intensifica la collaborazione con la rivista Minerva Medica, già iniziata nel ’48, e si propone come corrispondente da Parigi ottenendo parecchie soddisfazioni nel nuovo ruolo, tra cui un apprezzamento da parte di Padre Gemelli.
Ma un’altra delusione l’attende, la fine del rapporto con Guido, nel ’54, cui si aggiunge una nuova tribolazione per un problema giudiziario: nell’ottobre del 1955 le arriva un mandato di comparizione del tribunale di Torino per il reato di falsificazione di ricette per prescrizione di sostanze stupefacenti. È un dramma per Silvia, costretta a fare i conti con una realtà gelosamente tenuta nascosta a tutti e che ora rischia di diventare pubblica.
Nonostante tutto ora vuole ricongiungersi con il figlio, con il quale non vive da anni, dedicarsi a lui e accompagnarlo nell’adolescenza: un modo di dare senso alla sua vita, dopo tante delusioni subite. Vittorio si trasferisce a Torino e si iscrive al liceo Alfieri. La vita di Silvia, che sembrava riservare tante promesse, ora si impoverisce, segnata a fondo dalla dolorosa dipendenza che la costringe all’umiliante ricerca di denaro e a peregrinare da una farmacia all’altra, con la paura del processo e della risonanza mediatica per la vicenda giudiziaria.
La fine giunge improvvisamente il 14 aprile del 1958. L’autopsia certifica, come causa della morte, un aneurisma cerebrale, cancellando ogni dubbio su un gesto autodistruttivo. Silvia ha appena compiuto trentanove anni.

Fonti:
Maria Rosa Fabbrini, Bonsoir Madame la Lune. La vita incompiuta di Silvia Pons, Antigone.
Marta Bonsanti, Giorgio e Silvia. Due vite a Torino tra antifascismo e Resistenza, Sansoni.

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Elda Pucci

(Trapani, 1928 - Palermo, 2005)

Ad Elda Pucci non risulta intitolata alcuna via.

La forza delle idee e delle azioni
di Annarita Alescio

Nacque a Trapani il 2 febbraio 1928.  Il padre, Stefano, era avvocato ed esponente di primo piano del fascismo trapanese. Elda si laureò a Palermo in Medicina e si specializzò in Chimica Pediatrica.
Si definì la vincitrice di due grandi battaglie, nel lavoro e in politica. Come medica pediatra si fece accettare nella sua Sicilia, nonostante tanti pregiudizi; come docente e primaria si affermò nell'università e in ospedale, quando ancora le donne venivano chiamate indistintamente “signora” e mai “professoressa” o “dottoressa”. I suoi interventi nel Consiglio Nazionale della Federazione dell'Ordine dei Medici furono sempre improntati ad una rigorosa aderenza ai principi deontologici della professione.
L'altra vittoria la conseguì in politica, pur non entrando mai in sintonia con le donne di Palermo e schierandosi contro il divorzio e contro l'aborto. Si ricorda però la sua determinazione nella lotta contro la mafia degli appalti che gestiva il Comune, determinazione che le fece acquisire il soprannome di “Lady di ferro”.
Esponente della DC, fu la prima sindaca di Palermo nel 1983, incarico avuto in un momento drammatico per la città, insanguinata dagli omicidi mafiosi. Durante la sua candidatura, per la prima volta, il comune di Palermo si costituì “parte civile” in un processo di mafia.
Fu rimproverata di aver parlato bene dei più discussi protagonisti della DC, dimenticando però che Elda, accortasi del suo errore, pian piano si ricredette, arrivando a comprendere che l'avevano eletta pensando fosse solo un’ingenua da manovrare. Dichiarò: "Nessuno, quando sono stata eletta, pensava che fossi capace di scelte autonome, ispirate solo dall'interesse della città".
Lavorando in solitudine, resistette nel difendere l'utilizzo del denaro pubblico per la città e per l'interesse generale, non per i partiti o loschi individui. Non fidandosi, studiava con pignoleria le delibere portate in Giunta dai vari assessori, bloccandole appena capiva che erano state "confezionate" per elargire soldi pubblici a parenti e clientele.
Tutto ciò le costò l'aggressione del mondo mafioso e l'allontanamento dal mondo politico. Ad un certo punto la DC, comprendendo che Elda non era più disposta a sottostare "alla disciplina di partito",  la mise definitivamente da parte. Restò sindaca solo un anno, poi fu sfiduciata dal partito e da coloro che l'avevano eletta. Combatté uno scontro durissimo su un appalto di manutenzione, istituendo una gara pubblica dopo aver scoperto che i prezzi fissati fino ad allora erano dieci volte superiori a quelli di mercato. La risposta della mafia non si fece attendere e la sua villa a Piana degli Albanesi fu fatta saltare. Parecchi anni prima della battaglia contro il crimine che costò la vita a Giovanni Falcone, Elda Pucci, testimone dei mali della sua Sicilia, rimasta viva forse perché donna e forse perché pediatra dei figli di famiglie mafiose, aveva anticipato la necessità di internazionalizzare, con mezzi moderni e informatici, la lotta al crimine e a tutte le mafie. E per questo fu definita una “mina vagante”.
Fu in seguito eletta al Parlamento Europeo con il Partito Repubblicano.
Elda Pucci si è spenta a Palermo il 4 ottobre 2005.
“Ho un grande rimpianto – dichiarò negli ultimi anni della sua vita – la scarsa presenza delle donne nelle istituzioni, una presenza che col tempo diminuisce invece che aumentare. E ciò rende più povera la politica perché più donne in politica ne migliorerebbero la qualità”.
Coerente con i principi di libertà in cui visse, Elda si permise di dare giudizi taglienti non solo sui partiti ma anche sulla cosiddetta società civile: “Da persona che vive a Palermo assisto ad una scarsa capacità di dare il meglio da parte della classe politica; che però viene scelta dalla società civile più per interessi opportunistici, per motivi affaristici o privati che in base a forti valori condivisi. È quindi colpa anche della società civile se si hanno i politici che oggi abbiamo”.
Ad Elda Pucci, che è stata Presidente Nazionale del Soroptimist International, fra gli altri è andato il Premio “Coraggio” dell'Ande (Associazione nazionale donne elettrici) la cui prima edizione si svolse nel 1983.

Fonti:
Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia (a cura di), Italiane, volume II,  Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Pari Opportunità
Amelia Crisantino, Siciliane, (a cura di Marinella Fiume) , Emanuele Romeo Editore, 2006
http://www.150anni.it/webi/index.php?s=60&wid=2012
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/10/15/la-scomparsa-di-elda-pucci.html
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2000/09/17/elda-pucci-orfana-di-politica.html
http://www.larisaccamensiletrapanese.it/wp/?p=1236

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Tabacchine di Ponte Buggianese

di Laura Candiani

Riferimenti toponomastici: via delle Tabacchine si trova a Perugia, Bastia Umbra (PG), a Sannicola (LE), a Soleto (LE).
La memoria popolare a Lanciano (CH) ricorda una epica rivolta delle oltre 1000 lavoranti della Azienda Tabacchi avvenuta nel 1968, per la salvaguardia del posto di lavoro. In Valdinievole e aree vicine al Padule viene ricordata la strage nazifascista del 23 agosto 1944: piazza Martiri del Padule (Ponte Buggianese - local. Anchione - con monumento), via Martiri del Padule a Pieve a Nievole, a Lamporecchio, a Larciano (local. Castelmartini- con monumento), a Fucecchio(FI); a Monsummano si ricorda la data (via 23 agosto); altrove si trovano intestazioni più generiche come via dei Martiri (Montecatini, Monsummano - local. Cintolese) e via Martiri della Libertà (Casalguidi).

Le sigaraie, tre grandi edifici in mattoni ancora oggi visibili ai margini del Padule di Fucecchio, nel Comune di Ponte Buggianese (PT), costituiscono esempi di vera e propria archeologia industriale, ma due di essi purtroppo sono in grave stato di abbandono. Per chi vive in questa zona, sono anche un continuo monito contro la barbarie: nella tranquilla campagna circostante si perpetrò infatti una delle più gravi stragi nazifasciste della Toscana in cui persero la vita 175 persone fra vecchi, donne e bambini, il 23 agosto 1944, come testimoniano una lapide e i numerosi cippi sparsi fra fossi e prati. La coltivazione del tabacco fu incoraggiata dallo Stato, a partire dal 1917, perchè i 4/5 del fabbisogno venivano importati dagli Stati Uniti. Il ministro dell’Agricoltura Angelo Maiorana emanò una serie di provvedimenti sia per la costruzione di edifici idonei (con successivo rimborso degli 8/10 della spesa) sia per la fornitura di semi e di assistenza tecnica; il tabacco (di qualità Kentucky per i pregiati sigari “toscani” e Bright per le sigarette) sarebbe poi stato acquistato e lavorato regolarmente dallo Stato, nelle manifatture tabacchi gestite dal Monopolio. Alcuni imprenditori cominciarono l’impresa e in breve furono costruiti in questa zona (come altrove in Italia) tre imponenti edifici, di mattoni scempi “a faccia vista”: le sigaraie del Piaggione, dei Settepassi e del Pratogrande. L’unico vincolo era costituito dall’ampiezza del territorio inizialmente coltivato: non meno di un ettaro, non più di tre. Gradualmente le coltivazioni si ampliarono e raggiunsero considerevoli risultati, fino agli anni Sessanta, quando l’attività cessò. Piantare, curare, tenere pulite le piantine era un lavoro complesso e accurato, tenuto sotto controllo dalla Finanza che impediva truffe ed eventuali furti. Dovevano essere estirpate le erbacce e dalle piante dovevano essere eliminate le foglie vicino al terreno, che potevano marcire; quando arrivava il momento, sempre sotto controllo della Finanza, si poteva procedere alla raccolta, dopo la conta delle piante. Le foglie, raccolte dal basso verso l’alto, molto grandi e vellutate come il camoscio, erano portate all’essiccatoio con i carri; poi si raccoglievano anche le piante, tagliandole alla base. Le donne creavano dei mazzetti di foglie (una trentina per volta), infilzandole con un ago lunghissimo e uno spago, una a diritto e una a rovescio, da mettere poi “a cavalcioni” su delle assi. Naturalmente ci volevano anche prontezza e un occhio esperto perché i mazzi dovevano essere omogenei per lunghezza e qualità; si procedeva poi alla “cura” nelle apposite celle, ovvero le varie fasi dell’essiccazione che potevano durare circa 14 giorni. Di nuovo toccava alle donne fare la “cèrnita”: si doveva controllare l’integrità delle foglie, se c’erano buchi o strappi, se tutte le operazioni erano andate bene, e si creavano 6 o 7 diverse qualità di prodotto.   Si doveva poi umidificare tutto il ricavato e infine le grosse botti piene di tabacco venivano trasportate con i carri trainati da buoi fino alla stazione di Borgo a Buggiano, da dove partivano i treni merci per Lucca, destinati alla manifattura. Il lavoro, prevalentemente femminile, stagionale e poco qualificato, non era regolato da contratto e non era continuativo; si trattava di un accordo temporaneo fra proprietari e contadini e il numero delle lavoranti era mutevole. Costituiva comunque una fonte di reddito preziosa in una situazione economica difficile, prevalentemente agricola e mezzadrile. In certe testimonianze si parla di quaranta donne e tre uomini, in altre di numeri oscillanti fra venti e cinquanta donne, impiegate giornalmente e scelte da un caporale, a sua volta responsabile del lavoro e scelto dal fattore. Ancora oggi abbiamo precise testimonianze con gli elenchi delle ore di lavoro (7/8 giornaliere), delle giornate (da maggio ad agosto), del ricavato e delle occupate: Luisa, Dina, Lina, Zelina, Vittoria, Umbertina, Elena, Giulia… Le donne raccontano che entravano al lavoro alle 8, a mezzogiorno facevano una pausa di circa due ore per mangiare (qualcuna riusciva a rientrare a casa) e riprendevano fino alle 18. Il lavoro sporcava le mani perché le foglie erano nere e appiccicose; l’abbigliamento ovviamente era molto modesto (parlano di “abiti miseri”) e talvolta di foggia maschile, spesso indossavano grembiuli e le maniche erano sempre corte o rimboccate perché la stoffa si impregnava di odore e di colore scuro. Fra di loro c’erano anche delle bambine: qualcuna racconta di aver iniziato a 12 anni, ma il lavoro non era particolarmente faticoso - nonostante il caldo e l’umidità - e l’atmosfera  era piuttosto piacevole, improntata a rapporti amichevoli fra le ragazze ma anche con dirigenti e operai. Potevano nascere momenti di svago e di divertimento con semplici giochi all’aria aperta o mentre in gruppo, in bicicletta, si andava allo stabilimento; un po’ sgradevole risultava invece la presenza dei Finanzieri (che arrivavano a controllare nelle tasche e  nelle borse) e di donne dette “fruatrici” con il compito di frugare i vestiti delle lavoranti per verificare che non ci fossero furti. A metà estate di solito c’era una bella festa con balli e canti organizzata dai padroni a cui partecipavano ospiti di riguardo, rappresentanti del Comune e la banda musicale. Verso il 1964-65 la coltivazione del tabacco in questa zona cessò per vari motivi: chi dice che le piante si ammalarono, qualcuno afferma che non era più una attività redditizia e che era rimasta una organizzazione superata dai tempi, chi spiega che il Comune di Ponte Buggianese fu riconosciuto “area depressa” (22 ottobre 1958) e ciò incentivò altri tipi di attività nell’artigianato e nella piccola industria. Ancora una volta un cambiamento, un mondo perduto per sempre che molte donne tuttavia rimpiangono per le belle amicizie che si creavano sul luogo di lavoro, per il ricordo della loro spensierata gioventù e per la conquista di una pur minima autonomia, non sempre mantenuta negli anni successivi.

Approfondimento: Il fatturato della manifattura tabacchi toscana (MST) nel 2014 è stato di 91 milioni di euro; gode di ottima salute tanto che si appresta  a festeggiare due secoli di vita e a comprare la azienda americana  Parodi Holdings. Produzione prevista nel 2015 : 200 milioni di sigari.
Ernesto Ferrara, Il sigaro dopo Cuba, Album- Viaggio nel territorio, (allegato a)  “ la Repubblica”, 30.9.2015 e.f., Tutto ebbe inizio col  tabacco infradiciato nella fabbrica fiorentina, ibidem    

Fonti
AA.VV., Ponte Buggianese. Un secolo di storia (1883-1983), Firenze, Centro Ed. Toscano, 1995 
AA.VV., La vita nella Valdinievole rurale, Pisa, Pacini editore, 1988 
Borghini-Cecchi-Chiavacci-Zanchi, Le sigaraie del Padule di Fucecchio, Pisa, Pacini editore, 2001                 

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Bruna Talluri

(Siena, 1923 – 2006)


Nel 2016 il Centro culturale “Mara Meoni” ha richiesto all’amministrazione comunale di Siena l’intitolazione di uno spazio pubblico alla memoria di Bruna Talluri. Il 20 gennaio 2017, concluso l’iter necessario, è stata inaugurata a suo nome un’area verde.

 

La passione inquieta della libertà

di Teresa Lucente

 

Bruna Talluri nacque il 12 giugno 1923 a Siena, città in cui è morta il 21 novembre 2006.
Tutta la sua vita si svolse in questa città da lei profondamente amata. Aderì giovanissima agli ideali dell’antifascismo seguendo, prima ancora che le motivazioni ideologiche, una scelta di libertà nata dal suo temperamento ribelle e dal rigore intellettuale.
Lei stessa racconta in un’intervista: “Io mi ricordo che fin da bambina sono stata, come suol dirsi, un po' ribelle. Tant'è vero che ho dovuto la­sciare le scuole ele­men­tari. Ma non perché fossi cat­tiva: non ero af­fatto cattiva. Ero inquieta, ero ribelle insomma. Nelle scuole elemen­tari ci facevano impa­rare una poesia che diceva: "Vuoi sapere cos'è il Duce? / Pensa un poco a un buon papà / che per mano ci conduce / e i bi­sogni nostri sa". E io volevo fare la spiritosa e un bel giorno cambiai le parole di questa po­esia e, mentre la classe, cantava io cantavo "Vuoi sapere chi sia il Duce? / pensa un poco a un buon pascià/ che mangia beve e si fa truce / e i bisogni nostri non sa". Era una cosa infantile, ma la maestra si impensierì insomma, e certo incominciò a desiderare che me ne andassi. E così fui co­stretta a abbandonare le scuole ele­mentari e mi man­darono all'istituto di Santa Caterina (…)”.

La ribellione infantile inizia a farsi coscienza politica negli anni del liceo in cui lo studio della filosofia e della storia la portano a riflettere su “questa sproporzione tra quello che ci offriva, diciamo, il mondo esterno e quello che sentivamo dentro di noi man mano che affi­navamo la nostra cultura”. Annota nel suo diario nel 1940: “Vogliamo la libertà di stampa e la libertà di pensiero. Non am­mettiamo nessun assoluti­smo per­ché la volontà di uno solo non può uni­versalizzare la volontà della massa. Non prevalebunt! La no­stra civiltà è culla della follia più be­stiale. La Germania apre la via a dei principi così assurdi che non solo ne­gano la nostra dignità di uomini, non solo dimenticano la nostra co­scienza, ma sprofondano nella bestialità più temibile le nostre persona­lità tormen­tate”.

Bruna studia con passione e interesse e si avvicina alla vita politica delle associazioni studentesche fino al ’41, anno in cui il padre, impiegato del Monte dei Paschi, fu mandato al confino per aver detto in pubblico - riferendosi al duce – “questo mascalzone rovina 42 milioni di italiani”.  Maggiore di 5 figli, fu costretta a lasciare la scuola e trovarsi un impiego. Andò a lavorare al Monte dei Paschi e, con l’aiuto dei suoi professori, riuscì comunque a superare l’anno.

Nel ’42 è con la famiglia a Napoli dove il padre, rientrato dal confino, era stato trasferito; qui visse, come lei stessa racconta, l’esperienza dei bombardamenti e della fame. Dopo alcuni mesi, però, il padre trasferisce nuovamente la famiglia a Siena ma Bruna ha ormai fatto la sua scelta di campo: parte con l’amica Ida Levi per Torino dove incontra un gruppo di attivisti antifascisti e inizia la sua partecipazione attiva alla Resistenza. “Qui ebbi un appuntamento con l'avvocato Fortini, mi dette un pacco di manifestini, di giornali ecce­tera. Io non sapevo nem­meno di che partito fosse. A me interessavano tre cose: mi interessava la lotta contro i tedeschi, la repubblica, perché condannavo l'atteg­giamento di Sua Maestà Vittorio Emanuele III, e mi interessava la democrazia. E l'avvocato Fortini mi dette que­sto pacco di propaganda e poi mi disse: «quando arrivi a Siena cerca: qualche cosa troverai». «Ma che troverò a Siena?» non riu­scivo a ca­pire. E allora partii in treno, la notte…”

I valori della libertà e della giustizia sociale sui quali si sarebbe dovuta fondare la nuova Italia la portarono a militare nel partito d’Azione. In qualità di sua rappresentante fondò a Siena nell’ottobre 1944, insieme a Tina Meucci, Anna Gradi e Alba Pieri, l'Unione Donne Italiane. Allo scioglimento del Partito d'Azione, aderì al movimento di Unità popolare prima e al Partito Socialista poi. Ma la sua intransigenza, il rifiuto di ogni compromesso, a cui anche la miglior politica deve sottostare, portarono ben presto Bruna “a far parte per se stessa”. Ciò non significò comunque isolamento.

Riprese gli studi e si laureò in Lettere e Filosofia e nel ’69 accettò la candidatura al Consiglio Comunale di Siena come indipendente nella lista del P.C.I., l’unico partito che riteneva ancora fedele agli ideali della Resistenza in lei sempre vivi. Svolse il compito di assessora all’istruzione e ai servizi sociali con generosa sollecitudine: si deve a lei l'intitolazione delle scuole materne comunali a Baldovina Vestri e ad Anna Maria Enriquez Agnoletti. Il movimento per la pace e la non violenza la vide impegnata a fianco di Aldo Capitini di cui ebbe sempre l'amicizia e la stima. Diresse a lungo l’Istituto Storico della Resistenza senese che aveva contribuito a fondare. Questi impegni non tolsero tempo ed energie a quello che per oltre quarant’anni fu il suo lavoro amatissimo, l’insegnamento. Come docente di storia e filosofia ha parlato a generazioni di giovani senesi trasmettendo loro, attraverso le parole e le opere delle grandi figure del passato, un messaggio di amore per la libertà e la democrazia.

Socia ordinaria dell’Accademia senese degli Intronati, è stata autrice di numerosi saggi e volumi, specie d’argomento storico-filosofico e di storia del giornalismo. I suoi lavori sul giornalismo senese in particolare, raccolti in 4 volumi dall’editrice La Pietra nel 1995, offrono una paziente analisi di tutte le testate cittadine dalla metà dell’800 alla prima guerra mondiale. Un’operazione che può sembrare a prima vista frutto di curiosità erudita, ma che in realtà si svolge coerentemente con una concezione della cultura e della storia, anche locale, finalizzata alla costruzione della coscienza critica di una comunità.

Il suo giudizio su uomini e cose rimase per tutta la vita ancorato alla condanna della violenza cialtrona che del fascismo era stata carattere dominante. Bruna Talluri fu una delle più significative figure di donne senesi di una generazione forgiatasi nella durezza della lotta contro il fascismo, in nome di quei valori di libertà e democrazia che ancora oggi hanno bisogno di essere testimoniati.

 

Scritti di Bruna Talluri

 

I riflessi della cultura europea del XVIII secolo nei saggi filosofici di Francesco Algarotti, in “Miscellanea di studi in onore del prof. Eugenio Di Carlo”, Trapani 1959.

Giovanni Nicola Bandiera e il Dictionnaire di Pierre Bayle, «Studi senesi», LXXII (1960), pp. 494-499.

Il conteso territorio di Comacchio e l’intervento del Sant’Uffizio contro Uberto Benvoglienti, erudito senese (1709-1712), «Studi senesi», LXXIII (1961), pp. 147-172.

Pierre Bayle, Milano 1963;
L’anti-Machiavelli e Voltaire politico, «Studi senesi», LXXV (1963), pp. 336-358.

La Civiltà cattolica e il fascismo. 1922-1924, «Studi senesi», LXXVII (1965), pp. 285-330.

La Civiltà cattolica e il fascismo. 1925-1929, «Studi senesi», LXXVIII (1966), pp. 258-298.

Benedetto Croce e la Civiltà cattolica, «Studi senesi», LXXIX (1967), pp. 236-252.

Il giornalismo democratico senese da Aspromonte a Mentana, «Studi senesi», LXXX (1968), pp. 337-371.

Il Nuovo Paese, giornale socialista diretto da Francesco Cellesi, «Studi senesi», LXXXIV (1972), pp. 487-514.

La Martinella e il giornalismo senese radicale e socialista (1880-1894), Montepulciano 1983.

Il giornalismo senese liberale e democratico (1860-1880), Montepulciano 1983.

Il giornalismo senese tra democrazia e socialismo: 1860-1900, in “Studi per Mario Delle Piane”, Napoli 1986, pp. 183-238.

La ‘svolta’ del Novecento e il giornalismo senese, «Bullettino senese di storia patria», XCIV (1987), pp. 176-277, XCV (1988), pp. 225-332 e XCVI (1989), pp. 210-302.

La politica italiana nei giornali senesi (1861-1862), Milano 1993.

La politica italiana nei giornali senesi (1882-1900), Milano 1993.

La ‘svolta’ del Novecento e il giornalismo senese, Milano 1994.

Le origini del fascismo e il giornalismo senese (1919-1922), Milano 1994.

Il Partito d’azione a Siena: la sua origine e la sua conclusione nei ricordi di una partigiana 'azionista', in “La nascita della democrazia nel Senese. Dalla liberazione agli anni ‘50, atti del convegno (Colle Val d’Elsa, 9-10 febbraio 1996)”, a cura di A. Orlandini, Firenze 1997, pp. 179-194.

 

Fonti

S. Folchi, Intervista con Bruna Talluri, 2003 – Archivio Istituto Storico della Resistenza senese.

B. Talluri, Diari dal 1939 al 1954, inediti.

Testimonianze orali della sorella Maria, di amiche e amici e di ex studenti.

 

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Arcangela (ElenaCassandra) Tarabotti

(Venezia, 1604 – 1652)

 

Non risultano intitolazione a suo nome.

Una voce dal chiostro in favore delle donne
di Silvia S.G. Palandri

Nella Venezia del XVII secolo, in cui le lotte con i Turchi erano ormai meri screzi dopo la vittoria di Lepanto, la Serenissima godeva di un periodo di pace e prosperità, fiorenti erano infatti i suoi commerci nel Levante e nel Mar Nero, era padrona dell’ingresso dell’Egeo.
La Repubblica di San Marco rappresentava l’emblema del benessere, della cultura, del divertimento, dello sfarzo, della moda e del costume e le sue istituzioni ne ricavavano a loro volta lustro e prestigio; era il risultato delle sue politiche e del suo governo:  era stimata, riconosciuta e riverita.
C’era a Venezia nel 1600 però anche qualche voce dissonante, le voci delle donne. Così, al fianco di quella colta di Lucrezia Marinelli e di quella letterata di Moderata Fonte, se ne  alzò una anche dal chiuso di un convento, che riuscì tuttavia a far sentire quale fosse la realtà sociale di molte donne veneziane. 
Le numerose guerre da cui usciva Venezia avevano causato alterne crisi economiche, per cui era stato necessario innalzare la dote maritale per salvaguardare la classe nobiliare. Questa strategia politica rese più vantaggiose le meno esose doti dei Conventi e incoraggiò le famiglie veneziane a far monacare a forza le proprie figlie per proteggere il patrimonio familiare o per trovare una sistemazione a quelle meno piacenti o con qualche difetto fisico. Tale fu la sorte di Elena Cassandra Tarabotti che nel 1620 venne fatta monaca, con il nome di Suor Arcangela, nel convento di Sant’Anna da cui non uscirà più.
Il suo destino fu l’emblema delle monacazioni forzate, ma questo aspetto è solo un lato di una questione più complessa. Arcangela Tarabotti, infatti, riflettendo sulla sua condizione di monaca senza vocazione, riesce a trovare le motivazioni sociali della subordinazione femminile che è una condizione socialmente ereditata. Questa sua presa di coscienza diventa la base per ricercare una rivalsa della condizione femminile: da vittima diventa combattente e la sua cultura, vasta ma non accademica, diventa la sua arma. Nelle sue opere Suor Arcangela individua, partendo dalla sua situazione personale, una condizione comune alle altre veneziane, il cui mezzo di riscatto è l’istruzione. Infatti tramite la cultura, che deve diventare appannaggio anche delle donne, sogna una rivincita del genere femminile.
In tutti i suoi scritti denuncia quella che lei stessa definirà la “tirannia paterna”, emblema del più ampio potere dell’uomo sulla donna. Ricorda nelle sue opere quanto la situazione femminile dipenda non da un’inferiorità insita nella natura delle donne, come gli intellettuali dell’epoca sostenevano ma da costruzioni sociali che condizionavano la vita femminile. L’inferiorità femminile era sancita da una condizione giuridica, economica, patrimoniale e sociale che non permetteva, in maniera sostanziale, alle donne di essere libere.
Accusa nei suoi scritti l’istituzione familiare, il padre traditore che, mistificando anche le Sacre Scritture, inganna la propria prole per rinchiuderla in convento; ma critica anche lo Stato veneziano perché antepone la Ragion di Stato alla salvezza delle anime delle sue cittadine, sacrificando la vita di queste donne per meri scopi economici. Infine, però, incolpa anche l’autorità religiosa che vede inerme quando non collusa: “[…] l’interesse di Stato, padre di tutti gli errori, contamina anche questi supremi ministri i quali per tal causa permettono che si facciano monache delle fanciulle che hanno ben altre aspirazioni”.
Suor Arcangela era poi particolarmente risentita dal disprezzo che gli uomini usavano nei riguardi delle donne, riteneva vigliacco da parte loro prendersi gioco delle donne in quanto ignoranti e allo stesso tempo però negare loro un’istruzione.
Individua in questa mancanza la base della fragilità femminile; l’incapacità di interpretare la realtà e di gestirla dipendeva dal fatto che esse non erano ritenute idonee ad avere un’educazione.

Nell’ambito della così detta “querelle des femmes” che nel Seicento riguarda proprio il tema dell’istruzione femminile, concepita solo come mezzo per placare e contenere la natura malvagia e falsa della donna, anche per coloro, pochi, che sostenevano la necessità di un’educazione femminile, era necessario limitarne l’applicazione alla realizzazione personale, necessariamente legata ai lavori domestici e alla cura della prole.
Arcangela Tarabotti invece vede in questa lacuna un problema reale, capace di condizionare l’intera società, poiché senza un’istruzione le donne sarebbero state ancora escluse dalle cariche pubbliche, dalle professioni, dalla società. Suor Arcangela, nel XVII secolo, individua nella mancanza di rappresentatività femminile un perno sociale essenziale senza il quale la società non funziona, perché alle donne non sono garantite le stesse opportunità. Quindi istruzione anche come sinonimo di possibilità, che vanno date realmente al genere femminile altrimenti, come sosteneva, “non resta che perdere, a chi ha perduto la libertà”.
Pretende quindi un’istruzione fino ai massimi livelli finalizzata ad un valore sociale che le donne dovevano acquisire: il lavoro e la possibilità di occupare anche cariche pubbliche per contribuire così attivamente alla società da attrici significanti: “Permettete alla donna di frequentare la scuola, ammettetela nelle vostre università e vedrete s’ella non saprà professare quanto voi la magistratura, la medicina, la giurisprudenza e il resto”.
Sostenitrice della libertà personale  vede nella eterogeneità della natura una chiara manifestazione del libero arbitrio e quindi anche delle inclinazioni personali che alle donne sono negate, perché troppo condizionate da schemi estranei fino al punto di impiegare le loro vite a ricercare la conformità con modelli sociali imposti ma che in realtà non rappresentavano la vasta gamma delle sensibilità femminili che rimanevano inespresse e che esse stesse si convincevano di non avere, ritrovandosi così a sprecare la loro vita nella ricerca di un modello che non apparteneva loro.
Arcangela Tarabotti, che si definiva “sfornita di scienza”, capisce che l’istruzione rende liberi e permette la consapevolezza di se stessi, delle proprie capacità e volontà; un mezzo per capire la realtà, fonte di libertà di scelta ma anche di libertà economica. Il suo pensiero, straordinariamente complesso e moderno, appare un messaggio valido ancora per la nostra società, un messaggio attuale che, attraverso i secoli, raggiunge un traguardo insperato e inimmaginabile per lei che non poteva essere “una stella errante, ma più tosto una stella fissa, condannata nel cielo di un chiostro per sempre”.

Fonti
Zanette E., “Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano”, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione Culturale, 1960
Conti Odorisio G., “Donna e società nel Seicento”, Roma, Bulzoni Editore, 1979
Medioli  F. (a cura di), “L'Inferno monacale di Arcangela Tarabotti”, Torino, Rosenberg&Sellier, 1990.
Weaver  E. (a cura di), “Satira e Antisatira, Francesco Buoninsegni, Suor Arcangela Tarabotti”, Roma, Salerno editrice, 1998.
Panizza  L. ( a cura di), “Paternal Tyranny”, Chicago, University of Chicago Press, 2004.
Bortot  S. (a cura di), “La Semplicità ingannata”, Padova, Il Poligrafo, 2008.

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Maria Barbara Tosatti

Una via si trova nel suo comune di nascita e una via a Roma, luogo della sua vita e della sua morte. Anche il Comune di San Benedetto del Tronto ha proceduto a intitolarle una strada.

 

Come una giornata di marzo fredda e ardente   
di Roberta Pinelli

 

Della sua passione per la vita, che lei stessa ha descritto con il verso che dà il titolo a questo ritratto, nulla resta.

Maria Barbara Tosatti nacque a S.Felice sul Panaro, in provincia di Modena, il 4 settembre 1891 da Arturo e Pia Paltrinieri. Così uno dei figli descrisse i genitori: “Lei era una bellissima ragazza, colta, distinta, statuaria; lui un giovane avvocato e notaio di bell’aspetto, dolce, intelligente. Una bella coppia, come si suol dire”. Per le esigenze lavorative del padre notaio, nel 1904 la famiglia si trasferì a Roma. Qui Maria Barbara Tosatti frequentò la scuola con ottimi risultati, acquisendo sia la maturità classica sia l’abilitazione magistrale. Studiò prevalentemente da sola, in particolare sui classici italiani e francesi, e apprese così bene il latino e il greco da poter leggere Virgilio e Saffo nel testo originale. Il fratello Quinto così la tratteggiò: “di indole lieta, anzi giuliva, che spesso si esprimeva cantando”. Già durante gli studi iniziò a collaborare con il padre nella sua attività professionale, ma nel 1915 si manifestarono i primi sintomi di una grave malattia ai polmoni. Fu quindi costretta forzata ad abbandonare il lavoro e a mettere da parte ogni velleità di insegnamento, professione a cui tanto avrebbe desiderato dedicarsi. Furono necessari, per tutta la sua breve esistenza, continui pellegrinaggi da una stazione climatica all’altra, fino al 17 aprile 1934 quando nel sanatorio dell’ospedale Umberto I di Roma, a causa di una pleurite e dell’asma, la malattia ebbe la meglio sulla sua tempra lungamente provata.

Un piccolo numero di sue liriche fu pubblicato nel 1928 sulla rivista Nuova Antologia, ma solo due anni prima della morte uscì il suo libro di poesie Canti e preghiere, che segnalò Maria Barbara Tosatti come una “donna padana di talento”, come scrisse il critico Pietro Pancrazi sul “Corriere della Sera”. Fu lui a indicare anche la “viva coscienza religiosa” della giovane scrittrice e a denotare nel suo linguaggio “quel sentimento che accusa la presenza non confondibile di un poeta”.

Come spesso accade alle donne, il cui talento stenta a essere apprezzato come espressione autentica e autonoma e che molte volte trova maggiore legittimazione se affiancato ad un nome maschile di prestigio, al suo tempo fu considerata una “Leopardi in gonnella”, poiché al Leopardi si rifece come modello di stile. Simile fu ritenuta la sua capacità di sublimare il dolore, come appare scritto nel suo diario: “Contentarci… e di che? di una miserabile vita dove il male e il dolore imperano, dove anche l’amore, anche il bene tralignano, e falliscono, e fuggono! Contentarci non del mistero, ma dell’incomprensibile, dell’assurdo, contentarci della morte, del nulla, dopo aver intuito Dio, il bene assoluto, la giustizia, la verità, la pace, l’amore la bellezza. No, Mai!”. Permeata da una fortissima religiosità, scrisse anche: “La vera preghiera è poesia, e forse ogni vera poesia è preghiera”.
Una sua poesia, intitolata “Vultum tuum Domine requiram” (Il tuo volto, Signore, cercherò), recita:Quando verrà, Signore, quel beato giorno che d’ogni vana cosa su me l’oblio disceso alfine, soli resteremo Signore, Voi ed io?”. Facendo della propria esperienza di sacrificio e di dolore il lievito della propria fede, riuscì a trovare una serena accettazione del suo tragico destino: non tanto serena, tuttavia, da non essere a momenti turbata dal pensiero della giovinezza sfiorente o dal rimpianto della vita non potuta godere, della felicità appena intravista.

Oltre ai diari, furono pubblicate liriche, preghiere, canti e pensieri, i cui temi salienti riguardano la famiglia, lo spettacolo della natura e, soprattutto, la morte quando la malattia le rese chiaro che avrebbe avuto una vita breve.

Abitò sempre con la madre e con il fratello Quinto, con il quale ebbe un rapporto affettuosissimo. Quinto Tosatti, senatore ed erudito, che dopo un tentativo di farsi prete aveva abbandonato il seminario e, per un periodo, anche la fede, confidò a un amico: “Sono convinto che la verginità e l’offerta totale di sé come vittima a Dio siano state il prezzo per il mio ritorno a Dio. Ho fatto quanto ho potuto per lei, ma non pagherò mai il mio debito”.

Fu proprio Quinto Tosatti a curare con passione le edizioni postume degli scritti della sorella Maria Barbara, tutti incentrati sull’acuto desiderio di non rinnegare le grandi domande del cuore.

 

Opere di Maria Barbara Tosatti

Canti e preghiere. Liriche, pensieri, lettere (a cura di Quinto Tosatti), Brescia, Morcelliana, 1939

 

Fonti

Bassoli Vincenzo, La poesia di Maria Barbara Tosatti, Milano, Gastaldi 1950

Colognesi P., M.Barbara Tosatti. Senza rinunciare al desiderio in L’umana avventura, Bari, Edizioni di Pagina, 2008

http://www.treccani.it/biografie/

 

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Elisa Trapani

 

(Marsala, 1906 - Milano, 1989)

 

La sua città natale le ha dedicato una via nell’ambito delle iniziative promosse da Toponomastica Femminile.
In occasione del centenario della nascita, la figlia Anna De Simone ha voluto ricordarla dando alle stampe un delicato volume in edizione privata dal titolo Caro Michele. Fiabe e racconti della tua bisnonna e Davide Torrecchia, giovane studioso della Facoltà di Lettere di Palermo, ha pubblicato sulla rivista Michelangiolo un bellissimo saggio sulla sua opera.

 

La Liala della Sicilia

 

di Corrada Fatale e Cristina Marescalco

 

Parlava spesso di quella stagione, mia madre (…)
Quanto vorrei ascoltarla adesso! Non immagini cosa darei per incontrarla sulla strada di casa, e ripercorrere con lei la storia della sua vita, che ha lasciato filtrare qua e là nei romanzi e nelle novelle, dove si intravedono frammenti della

sua infanzia... Caro Michele, noi siamo fatti in gran parte di memorie del passato…

                                                                                     Anna De Simone, Caro Michele. Fiabe e racconti della tua bisnonna

 

Così Anna De Simone parla al nipotino della madre Elisa Trapani, scrittrice prolifica di romanzi rosa, di cui inspiegabilmente non c’è traccia nei manuali di storia letteraria e neppure nelle antologie, pur avendo pubblicato in vita settantuno romanzi e più di duemila testi brevi, tra novelle, racconti e fiabe.

Come hanno affermato Anna Arslan e Maria Pia Pozzato “Sgombrato il campo da un pregiudizio di ordine antropologico che impedisce l’approccio non solo alle società diverse, all’altro da sé, ma anche a quelle manifestazioni sotterranee, a quei codici minori, che reggono le nostre stesse società, va chiarito che in sostanza il rosa, come fatto letterario è un prodotto tipico dell’organizzazione novecentesca della civiltà letteraria nazionale, collocato all’interno del moderno mercato delle lettere e destinato a definire il perimetro di una scrittura femminile che serva l’universo totale e separato della letteratura femminile”.

Suddiviso in vari filoni “l’infinito pulviscolo delle instancabili romanzatrici”, come ebbe a definirle Benedetto Croce, uno antecedente alla prima guerra mondiale, uno fra le due guerre e uno postbellico, va sottolineato come, a partire dagli anni ’30 del Novecento, la letteratura rosa subisca una svolta in rapporto allo sviluppo, anche in Italia, di una editoria moderna che individua precisi settori di mercato e diverse fasce di lettori  attuando collane specializzate:  i polizieschi con la copertina in giallo  e i romanzi rosa, come hanno scritto Antonia Arslan e Maria Pia Pozzato.

In questo contesto si colloca la scrittrice marsalese trapiantata a Milano.

Elisa nasce a Marsala il 2 maggio 1906, frequenta la scuola elementare e l’istituto tecnico diplomandosi a 14 anni. Pur manifestando attitudine e interesse per la letteratura, le viene negata la possibilità di frequentare il ginnasio poiché all’epoca le donne, soprattutto in Sicilia, non andavano oltre i primi anni dell’istruzione; nonostante ciò riuscirà a conseguire il diploma di maestra. Nel 1915 il padre viene richiamato in guerra e in questo periodo Elisa comincia a tenere un diario, pratica che testimonia la sua consuetudine giornaliera con la scrittura quale esercizio di sopravvivenza. Il suo è un desiderio intenso e autentico che non l’abbandonerà mai: dare forma a idee, pensieri, emozioni, sentimenti.

Vita e scrittura s’intrecciano: “Ha riempito così la sua solitudine, i tempi duri dell’assenza del padre…ma Elisa, giovanissima non si è mai persa d’animo e ha continuato a studiare da sola, a leggere, a scrivere…” come testimonia la figlia Anna.

Nel 1925 la famiglia Trapani si trasferisce al Nord, a Trento prima, dove il padre di Elisa lavora come impiegato di prefettura, poi a Livorno e infine a Milano, dove l’autrice, che intanto si è fidanzata ufficialmente con Giuseppe De Simone, vivrà dal novembre 1927 fino alla morte.

Nel 1927 inizia a scrivere, su giornali per ragazzi, settimanali e riviste femminili, novelle, racconti, fiabe e romanzi a puntate; firma racconti e puntate di romanzi sul “Corriere dei piccoli”, il “Monello”, il “Balilla”, successivamente su “Grazia”, “Annabella”,” Gioia”, “Marie Claire”, “Intimità”, “Grandi firme”. Elisa Trapani diventerà, pian piano, una delle firme “rosa” più note assieme a Liala, Luciana Peverelli, Annamaria Tedeschi, molto apprezzata dal musicologo Eugenio Gara e da Giorgio Scerbanenco, futuro autore di gialli ambientati a Milano, dai direttori di “Novella” e “Annabella” e da una delle figure più importanti del mondo editoriale, la bolognese Emilia Salvioni.

Il tratto della sua scrittura è delicatissimo nelle narrazioni brevi, pertinente il tono, soprattutto nelle pagine umoristiche scritte per ragazze e ragazzi dove l’intento pedagogico non soffoca la narrazione: basti citare le Sette favole di animali, Le Fate hanno messo il telefono e Matematica e poesia.

Numerosi i suoi romanzi: il primo volume vede la luce nel 1936 col titolo, poco ortodosso per i canoni della letteratura rosa, di Denaro batte amore 3 a 0 (casa editrice Abc Torino); a questo seguono, tra gli altri, Come l’acqua (Mondadori, 1945), Delirio (Rizzoli, 1946), Terza liceo (Cappelli, 1952), Un uomo bussa alla porta (Mursia, 1969), Quella notte (1972), Quasi una fiaba (1973), Il segreto di Viola (1974), entrambi editi da Mondadori, e Adorata dagli uomini (Salani, 1976).
L’anno successivo pubblica sempre, con Salani, uno dei romanzi più riusciti La sposa del sud, che “può essere considerato una vera e propria cartina di tornasole, una sorta di fil rose che lega l’autrice al genere in questione e agli archetipi o topoi del suo immaginario…” come scrive Davide Torrecchia.

Nello stesso anno Elisa Trapani riceve da Sandro Pertini la medaglia d’oro per i quarant’anni di giornalismo. La sua vita trascorre tranquilla, circondata dall’affetto del marito e dei due figli, Anna e Giorgio. Fino all’età di ottanta anni continua a scrivere e pubblicare: nel 1982 vede la luce il suo ultimo romanzo, Bionda straniera.

Muore nel 1989 in una clinica di Milano. Scrive ancora la figlia Anna: “Questa tua bisnonna coltivava anche il sogno di scrivere per se stessa e di raccontare un giorno la storia della sua famiglia sullo sfondo della campagna siciliana, dove era stata bambina con i nonni e della quale sono rimaste soltanto alcune vecchie fotografie: due bambine sotto un albero immenso alla Pispisìa; una casa misteriosa…una Sicilia mai dimenticata nella quale erano avvenute le sue prime scoperte della vita, degli altri, dell’amicizia, dell’amore…”.

 
Fonti

Anna De Simone, Caro Michele. Fiabe e racconti della tua bisnonna, 2006

Anna Arslan e Maria Pia Pozzato, Il rosa, in Letteratura italiana. Storia e geografia. L’età contemporanea, diretta da Asor Rosa, Einaudi, Torino, 1989, vol.III

Davide Torrecchia, Una storia rosa antico, in “Caffè Michelangiolo”, a. XIII n. 3

La Repubblica, Archivio 04/07/2009

Corriere della Sera, Cultura 20 agosto 2009        

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Carolina Invernizio

(Voghera, 1851 – Cuneo, 1916)

La scrittrice che seppe portare al successo il romanzo d'appendice italiano tra XIX e XX secolo è presente nella toponomastica di diverse città come Voghera, che le diede i natali, Milano, Torino e Cuneo dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, ma manca incredibilmente a Firenze, a lungo sede della sua attività letteraria. Nel 2014, il gruppo di Toponomastica femminile ha proposto il suo nome per l'intitolazione di una scuola in risposta a un bando del 1° Circolo didattico di Cuneo.

La signora del romanzo popolare
di Saveria Rito


Nacque il 28 marzo 1851 a Voghera, all'epoca città piemontese, da Anna Tettoni e Ferdinando Invernizio, funzionario del Regno di Sardegna, e nel 1865 si trasferì con la famiglia a Firenze dove frequentò l'Istituto Magistrale. Sin da giovanissima dimostrò un notevole interesse per la scrittura, una passione che le fece rischiare l'espulsione da scuola per aver divulgato un racconto audace su un principe senza cuore che aveva sedotto la lavandaia del castello.
Il lavoro d'esordio ufficiale fu Un autore drammatico, pubblicato da Carlo Barbini nel 1876, e l'anno dopo uscì Rina o l'angelo delle Alpi, inizio di una duratura collaborazione con l'editore fiorentino Adriano Salani, che continuò a corrisponderle sempe la modesta cifra di 600 lire a romanzo.
Si può affermare che Invernizio portò a una rapida diffusione e al successo il romanzo popolare italiano, ispirato a modelli francesi già collaudati; lunghissima è la lista delle sue opere, scrisse ininterrottamente fino alla morte e pubblicò anche più volte l'anno per un totale di circa 130 titoli. Molti suoi racconti uscirono a puntate sulla Gazzetta di Torino o l'Opinione Nazionale di Firenze, poi raccolti in volumi, attesi da un pubblico sempre più numeroso, principalmente proletario o della piccola borghesia. Al favore del pubblico, tuttavia, non corrispondeva quello della critica che ne ebbe scarsa considerazione e giudizi spesso poco lusinghieri ("onesta gallina della letteratura popolare" la definì Antonio Gramsci, pur consapevole del fatto che un pubblico insaziabile si gettasse "avidamente nei suoi gialli" e che fosse stata tra i pochissimi romanzieri a far trionfare la letteratura popolare nel nostro paese), ma lei non sembrava curarsene e rispondeva così in un'intervista del 1904:  "Io dei critici ho un'allegra vendetta. Ché le mie appassionate lettrici ed amiche sono appunto le loro mogli, le loro sorelle". Solo recentemente Carolina Invernizio è stata riscoperta e studiata proprio per l'ampio fenomeno di consumo sviluppatosi attorno ai suoi libri caratterizzati da emozionanti colpi di scena: protagoniste erano quasi sempre delle eroine femminili che vestivano i panni di seduttrici fatali, nobildonne o avventuriere, operaie, sigaraie e guantaie (riprendendo alcuni titoli), donne che riuscivano a sciogliere con abilità trame intricate giallo-noir, talvolta ispirate a fatti di cronaca dell'epoca. La suspence era assicurata e Invernizio puntava su aspetti della vita intima e personale, su frustrazioni e desideri; la famiglia, tra intrighi, misteri e tradimenti, delitti e morte, ritrovamenti e rivelazioni sensazionali, era il luogo di ambientazione ideale. Invernizio scrisse anche un romanzo in piemontese, Ij delit d'na bela fia, uscito a puntate in appendice a ‘L Birichin, giornale dialettale torinese, tra il 1889 e il 1890 e alcune storie per l'infanzia (La fata turchina, Cuori di bimbi, I sette capelli d'oro della fata Gusmara); molti suoi lavori furono tradotti in spagnolo e portoghese già ai primi del Novecento e ispirarono registi del cinema muto e sonoro. Sempre nel 1890 fu pubblicato ne La donna italiana un breve testo di una conferenza, Le operaie italiane, in cui denunciava le condizioni di povertà e lo sfruttamento di madri impiegate nelle fabbriche e sottolineava l'importanza del lavoro delle donne per l'economia familiare: "Se entraste, signore mie, in certi quartieri di operaie, nei nostri centri principali, vi sentireste stringere il cuore di ribrezzo, di pietà, vi chiedereste se siamo davvero in un secolo civile e se possiamo veramente chiamarci cittadine di una grande Nazione".
Si trasferì con la famiglia a Torino nel 1896 e infine a Cuneo dove in via Barbaroux 3, come recita una targa commemorativa, aprì un salotto letterario: tra le personalità che lo frequentavano c'era la poetessa Alice Galimberti. Morì a Cuneo di polmonite il 27 novembre 1916 ed è sepolta nel cimitero di Torino. Sulla sua tomba fu deposta dall'editore Salani una corona di bronzo che reca inciso: "Il suo nome non sarà dimenticato".

Fonti:
Giuseppe Zaccaria, Invernizio Carolina in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2004, vol. LII, pp. 535-538.
Eugenia Roccella, Carolina Invernizio in Italiane. Dall'unità d'Italia alla prima guerra mondiale, a cura di Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Pari opportunità,  2004, vol. 1, pp. 109-110.
Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1991.
Riccardo Reim, Introduzione: candide nefandezze e timorate perversioni in Carolina Invernizio, Nero per signora, Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. XXI-XXXVIII.
Carolina Invernizio: il romanzo d'appendice. Atti del convegno "Omaggio a Carolina Invernizio", Cuneo 25-26 febbraio 1983,  a cura di Guido Davico Bonino, Torino, Gruppo editoriale Forma, 1983   
http://it.wikipedia.org/wiki/Carolina_Invernizio

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