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(Milano, 1935 - Roma, 1993)
La sua vita di donna e di libraia è legata in modo indissolubile alla città di Roma. La libreria Uscita, in Via dei Banchi Vecchi, è stata, per moltissimi giovani vissuti tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, un importante punto di riferimento culturale. Per questo motivo nell’estate del 2013 il gruppo Toponomastica femminile e la Casa Editrice Bibliosofica hanno proposto al Comune di Roma l’intitolazione di un’area pubblica.
Anna Gaggio, libraia militante
di Giovanni Feliciani
Annamaria Gaggio nasce in una famiglia di artisti: il nonno Luigi era nella sua epoca un noto scultore veneziano, il padre Riccardo e la madre Erica Vetter erano entrambi cantanti lirici. Con lo scoppio della guerra e l’inizio dei bombardamenti, Riccardo trasferisce la famiglia in un paesino del veronese. Quando l’armata tedesca inizia la ritirata verso il Brennero, e i bombardamenti degli Alleati raggiungono il paesino, la cantina dei Gaggio diventa il rifugio quasi quotidiano per le famiglie contadine del vicinato. Anna ha 9 anni e viene fortemente impressionata non solo dagli scoppi delle bombe che cadono: la paura, i pianti, le preghiere delle donne rimarranno per sempre indelebili nel cuore e nella memoria.
Con la Liberazione dal nazifascismo la famiglia ritorna a Milano. Dopo un matrimonio sfortunato e di breve durata, Anna vive per un paio di anni tra Ginevra e Losanna. Rientrata a Milano in seguito a una grave malattia del padre, lavora al primo Informatutto di Selezione dal Reader's Digest.
Nel 1968 conosce Gianni Peg, grafico e impaginatore per la Feltrinelli. Insieme decidono di accettare la proposta di Nanni Balestrini di creare a Roma una piccola libreria di avanguardia: “… l’idea è quella di aprire un punto di presentazione al pubblico dei prodotti (letterari, audiovisivi, audiomusicali, etc.) della letteratura d’avanguardia, sotto tutela del Gruppo ’63, nel momento in cui sia il Gruppo che la rivista Quindici aprono al movimento studentesco”1 .
Il progetto prende vita in un piccolo locale affittato in via dei Banchi Vecchi al n° 59. Nel manifesto di presentazione si legge: “… attendiamo la collaborazione di autori operatori editori musicisti artisti aperti all’analisi del linguaggio in tutte le sue dimensioni. In questo senso la nostra iniziativa si propone come laboratorio di “uscita”, luogo esterno di reperimento di tutti i rintracciabili documenti di lavoro di lotta e penetrazione oltre le maglie di potere e controllo sulla cultura, dove la fruizione passiva di prodotti caduti dall’alto è per essere negata dall’intervento e dalla partecipazione di base”. Il logo della libreria USCITA è, con la freccia accanto, quello delle uscite dai rifugi antiaerei dell’ultima guerra.
Quando la rivista Quindici chiude e viene a mancare l’appoggio del Gruppo ’63, Anna e Gianni non si perdono d’animo e proseguono incontri e attività nella loro libreria-laboratorio. E’ la prima svolta dell’Uscita, che inizia la collaborazione con varie associazioni e ambasciate e con Arci-Uisp per film e documentari che provengono dall’Africa e dall’America latina. Trasloca, la libreria, in un locale più ampio al n° 45 che ha il vantaggio di una sala sotterranea adatta a proiezioni, dove prenderà vita il circolo del cinema.
Alla fine del 1974, quando Gianni Peg decide di riprendere la sua attività di illustratore a Milano e lasciare la libreria, “Anna rimane l’anima della libreria. Sempre alle prese con il certosino lavoro di catalogazione dei testi per argomento, con l’obiettivo di realizzare un negozio biblioteca dove poter leggere i libri anche senza acquistarli ”2. Infatti la libreria Uscita è una delle prime ad esporre i volumi raggruppati per argomento, anziché seguire l’abitudine dell’ordine alfabetico per autore o l’ordine delle novità imposte dal mercato. Le testimonianze parlano di “un luogo speciale, pieno di occasioni di crescita”. Nonostante le difficoltà (il locale subisce due attentati, una prima volta viene completamente bruciato, e rimane allagato durante una piena del Tevere); nonostante i mutamenti nel commercio librario e l’apertura dei primi “supermercati” del libro, Anna continua a mantenere il carattere “di servizio” della libreria e a procurare, a chi gliene fa richiesta, testi rari o di difficile reperibilità, mantenendo rapporti con le piccole case editrici e con altre librerie, sia in Italia che in Francia, Svizzera, Austria.
Un giorno, ritornando da una consegna, Anna ha un malore; lascia l’auto ed entra a piedi al Pronto Soccorso del Santo Spirito; poche ore più tardi è già in coma. Muore dopo due settimane, il 9 aprile 1993.
1 da: La cultura brucia, Anna e la libreria Uscita nella Roma degli anni ’70, a cura di Giovanni Feliciani, Catia Gabrielli, Gianni Peg , Ed. Bibliosofica, Roma,2010
2 da: Anna Gaggio, la libraia militante in Paola Staccioli , 101 donne che hanno fatto grande Roma, Newton Compton Editori, Roma, 2011.
Fonti:
Giovanni Feliciani, Catia Gabrielli, Gianni Peg (a cura di), La cultura brucia. Anna e la libreria Uscita nella Roma degli anni ’70, Ed. Bibliosofica, Roma, 2010.
Paola Staccioli, Anna Gaggio, la libraia militante, in 101 donne che hanno fatto grande Roma, Newton Compton Editori, Roma, 2011.
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(Ascoli Piceno, 1600 - Roma, 1670)
Nel 1967 Roma ha intitolato una strada alla figura di Giovanna Garzoni, miniatrice del XVII secolo. Per un semplice errore di trascrizione nel cognome – una “z” al posto della “r”– il suo ricordo è rimasto celato per oltre quarant’anni; solo nel 2012, corretta la svista, si è ricomposta la memoria. Oltre alla via a ridosso del Grande Raccordo Anulare, una stretta “rua” del centro storico di Ascoli Piceno testimonia il valore della pittrice. Né Torino, né Firenze, né Napoli, città in cui Giovanna Garzoni visse ed operò con molto successo, le hanno concesso questo riconoscimento.
Giovanna Garzoni,"miniatora" ascolana
di Barbara Belotti
Nella Pinacoteca civica di Ascoli Piceno si trova un quadro raffigurante Giovanna Garzoni, la cui attribuzione fa ancora discutere gli storici e le storiche dell’arte. La donna, chiusa in un severo abito nero, mostra un piccolo ritratto femminile a testimonianza della sua attività pittorica; la pittrice è molto avanti con l’età, i tratti del volto appaiono appesantiti, gli occhi non nascondono i segni del tempo. Un altro ritratto della pittrice, molto simile al dipinto ascolano, si conserva nell’Accademia di San Luca a Roma e testimonia la sua appartenenza alla prestigiosa associazione di artisti fondata da Federico Zuccari alla fine del XVI secolo. Un terzo ritratto, di forma ovale, era collocato sulla sua tomba nella Chiesa dei SS. Martina e Luca a Roma. Il valore della pittrice, ampiamente riconosciuto dai contemporanei, si è nel tempo sbiadito e, solo a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo , si è risvegliato l’interesse verso la sua produzione.
L’anno di nascita di Giovanna Garzoni – il 1600 - non appare in alcun documento, ma viene desunto da un dipinto datato 1616 in cui la giovane pittrice scrive <<IONA DE GARZONIBUS. FA. ANO SUAE AETATIS XVI 1616>>; il luogo di nascita non è confermato dai documenti, anche se più volte l’artista si definisce “ascolana”.
Appartiene ad una famiglia di origine veneziana, tra i cui membri “scorrono” interessi artistici: il nonno materno era orafo e lo zio, Pietro Gaia, pittore. La formazione di Giovanna, come spesso accade alle donne artiste, avviene probabilmente all’interno delle mura domestiche visto il divieto di frequentare come apprendiste le botteghe di un maestro pittore. Il legame con la città natale è soprattutto di natura affettiva, perché l’esistenza e la vita professionale di Giovanna si svolgono lontano dalle Marche.
Fino al 1630 le notizie sono frammentarie: prima di questo anno è documentato il soggiorno a Venezia durante il quale realizza un’opera di soggetto religioso raffigurante Sant’Andrea, attualmente conservato nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Nella città lagunare si dedica anche alla miniatura e alla calligrafia, come prova il Libro de’ caratteri cancellereschi corsivi conservato nella Biblioteca Sarti dell’Accademia di San Luca a Roma. Nel volume sono riunite lettere e aneddoti redatti dalla miniatrice la quale, più che dare indicazioni di metodo, indugia in “perfetti esercizi di stile”e in puri virtuosismi di penna. Durante la permanenza a Venezia Giovanna si sposa ma il matrimonio è di breve durata, sciolto legalmente perché la pittrice ha precedentemente fatto voto di castità.
Con un documento di buona condotta rilasciato dal parroco della chiesa di San Salvatore, accompagnata dal fratello Matteo, Giovanna si allontana da Venezia per recarsi a Napoli dove entra in contatto con il Viceré, il Duca di Alcalà, che la protegge. Del soggiorno napoletano rimangono poche notizie e nessuna opera, anche se la pittrice esegue numerosi ritratti e soggetti religiosi di piccole dimensioni.
In questo stesso periodo comincia un rapporto epistolare con Cassiano Dal Pozzo, ricco collezionista e mecenate dell’epoca, torinese di nascita ma romano di adozione, forse conosciuto a Roma in un breve soggiorno durante il trasferimento a Napoli. È interessante sottolineare che, contemporaneamente alle lettere di Giovanna Garzoni, arrivano a Cassiano Dal Pozzo anche quelle di Artemisia Gentileschi, in quello stesso periodo pure lei a Napoli.
Nel 1631, al momento del trasferimento del Duca di Alcalà in Spagna, Giovanna capisce di dover trovare un’altra protezione e si rivolge a Cassiano Dal Pozzo per poter far ritorno a Roma. Il grande collezionista e amante dell’arte antica e contemporanea possedeva una vasta raccolta di opere, accanto alle quali non disdegnava di inserire oggetti di interesse scientifico e antropologico. Questi oggetti erano le note caratteristiche di molte collezioni seicentesche in cui tutto, dall’arte alla scienza, poteva essere incluso secondo la logica della “rarità” e della “novità”. È probabile che anche le piccole opere miniate di Giovanna Garzoni rientrassero fra questi oggetti “curiosi”, particolari non solo per le dimensioni contenute e per la precisione dell’esecuzione, ma anche perché l’opera artistica realizzata da una donna suscitava ammirazione e appariva un oggetto inconsueto.
Il desiderio espresso da Giovanna di tornare a Roma viene esaudito solo in parte perché nel 1632 la pittrice si sposta a Torino, presso la corte dei Savoia, su richiesta esplicita della Duchessa Cristina che desidera “sommamente haver qua al servizio nostro Giovanna Garzoni miniatrice”. Non è da escludere a questo proposito anche l’interessamento di Cassiano Dal Pozzo.
Giovanna Garzoni è ormai famosa, richiesta per le sue tempere su pergamena che esegue in piccolo formato. Il linguaggio artistico mostra già le sue caratteristiche peculiari. Le miniature sono realizzate con un’attenzione lenticolare che rivela un’arte e un’abilità eccezionali e la messa a punto di uno stile particolarissimo, una sorta di “pointillisme antico”, realizzato accostando il colore con delicati tocchi di pennello che rendono vibrante la superficie cromatica. Sono soprattutto i ritratti, per i quali è celebre, ad essere richiesti dalla corte sabauda, ma alla pittrice cominciano ad essere commissionate anche nature morte, genere che negli anni a venire farà la sua fortuna. Le piccole scene di natura morta hanno impianti compositivi unitari, con gli oggetti riprodotti in maniera particolareggiata e riuniti in un unico contenitore (spesso un piatto di ceramica) al centro della composizione, secondo le influenze della pittura lombarda e delle opere di un’altra artista famosa, Fede Galizia.
Nel 1637, alla morte di Vittorio Amedeo di Savoia, Giovanna Garzoni lascia Torino; fino al 1641 le notizie biografiche si fanno più incerte, mancando di riferimenti materiali; viene proposto in questo periodo un soggiorno all’estero, in Francia e in Inghilterra probabilmente, che, se pur non documentato, spiegherebbe i riferimenti alla pittura d’Oltralpe.
Nel 1642 rientra a Roma dove può contare su importanti contatti come quelli con Cassiano Dal Pozzo e con Anna Colonna, moglie di Taddeo Barberini e nipote di Urbano VIII, per la quale aveva già eseguito durante il soggiorno napoletano una Madonna col Cristarello e San Giuseppe. Il soggiorno però è ancora una volta di breve durata, perché la pittrice comincia un felice rapporto di collaborazione con la corte medicea. Per gli importanti committenti copia opere celebri, esegue ritratti e prosegue la sua produzione di piccole nature morte, miniature su pergamena nelle quali la lettura particolareggiata degli elementi naturali si unisce a spiccati intenti estetici e decorativi. Le sue pergamene riscuotono il favore della corte, la considerazione nei suoi confronti è alta, visto che le è garantita una retribuzione mensile fino al 1662, anche dopo il rientro a Roma, dove risiede stabilmente a partire dagli anni ‘50 del secolo. Il suo nome è ricordato in alcuni documenti redatti per l’Accademia di San Luca, alla quale dovrebbe essere ammessa verso la metà del decennio. All’Accademia la pittrice lascia, secondo il testamento redatto nel 1666, tutti i suoi averi e le sue opere chiedendo di poter essere sepolta nella Chiesa romana dei SS. Martina e Luca. La data della morte, pur non confermata da documenti ufficiali, viene fissata al 1670, tra il 10 febbraio, giorno in cui gli Accademici si recano in visita nella sua abitazione, e il 15 febbraio, quando si compila l’inventario dei beni e si dà lettura del testamento.
Fonti:
L. Pascoli, Vite de’ Pittori, Scultori, ed Architetti moderni, Roma, I, 1730; II, 1736 (ed. critica 1992);
B. Orsini, Descrizione delle pitture Sculture Architetture e altre cose della insigne città di Ascoli nella Marca, Perugia, 1790
G. Cantalamessa Carboni, Memorie intorno i letterati e gli Artisti della città di Ascoli nel Piceno, Ascoli, 1830
A. Ricci, Memorie storiche delle arti e degli artisti della marca di Ancona, Macerata, 1834
G. Cantalamessa, Ritratto della miniatrice Garzoni dipinto da Carlo Maratti, “Roma”, I, 1923,6, pp.245-247
R. Gabrielli, Artiste ascolane. Giovanna Garzoni, “Vita Picena”, XXXV, 1934, 14
M.Gregori, schede firmate in La natura morta italiana, Catalogo della mostra, Milano, 1964
A. Cipriani, Giovanna Garzoni miniatrice, “Ricerche di Storia dell’Arte", I, 1976,1-2, pp.241-254
S. Meloni Trkulja, Le miniature degli Uffizi, in Gli Uffizi. Catalogo generale, Firenze, 1979
A. Sutherland Harris, L. Nochlin, Le grandi pittrici 1550-1950, Milano, 1979 (1° ed. New York 1976)
M. Rosci, La Natura morta, in Storia dell’arte italiana. Forme e modelli, XI, Torino, 1982, pp. 83-113
B. Belotti, Giovanna Garzoni, “Piceno”, VI-VII, 1983, pp. 79-90
S. Meloni, Giovanna Garzoni miniatora medicea, “FMR”, 1983, 15, pp. 77-96
A. Morgan, A Fete of Flowers: women Artists Contribution to botanical Illustration, “Apollo”, CXIX, 1984, 266, pp. 264-267
M. Rosci, Giovanna Garzoni dal Palazzo Reale di Torino a Superga, in Scritti di Storia dell’arte in onore di Federico Zeri, II, Milano, 1984, pp. 565-567
L. Salerno, La natura morta italiana 1560- 1805, Roma, 1984
A. Griseri, Ritratti Sabaudi di Giovanna Garzoni, “Studi Piemontesi”, XIV, 1985, 2, pp. 355-357
S. Meloni Trkulja, schede firmate in Natura viva in casa Medici, Catalogo della mostra, Firenze, 1985
M. Gregori, Linee della Natura morta fiorentina, in Seicento Fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Catalogo della mostra, I Firenze, 1986
M. Gregori, E Fumagalli, schede firmate, in Seicento Fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Catalogo della mostra, I Firenze, 1986
S. Meloni Trkulja, Giovanna Garzoni, in Seicento Fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, Catalogo della mostra, I Firenze, 1986
M. Gregori, La natura morta in Toscana, in La natura morta in Italia, Milano 1989, pp. 513-523
A. Griseri, La natura morta in Piemonte, in La natura morta in Italia, Milano 1989, pp. 146-195
C. Piglione, Giovanna Garzoni, in La pittura in Italia. Il Seicento, Milano 1989, pp. 754-755
G. Casale, Giovanna Garzoni “Insigne miniatrice” 1660-1870, Milano-Roma, 1991
P. Zampetti, La pittura nelle Marche. Dal barocco all’età moderna, IV, Firenze, 1991
G. Casale, Sul rapporto “Arte-Scienza” nel sec. XVII: Giovanna Garzoni Pittrice Ascolana (1660-1670), in Il Seicento nelle Marche. Profilo di una civiltà, Ancona, 1994, pp. 234-256
G. Casale (a cura di) Gli incanti dell’iride. Giovanna Garzoni pittrice del Seicento, Catalogo della mostra, San Severino Marche, 1996
S. Meloni Trkulja, E. Fumagalli (a cura di) Giovanna Garzoni. Nature morte, Parigi, 2000
M.Gabriella Mazzocchi, Ritratto di una vecchia signora: il dipinto della Pinacoteca di Ascoli Piceno raffigurante Giovanna Garzoni, in “Proposte e Ricerche”, anno XXVIII, n°54, 2005
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(Roma, 1918 - Roma, 2006)
Non esiste nella toponomastica di Roma alcuna traccia di Bianca. Il Comune di Letojanni (Me), cittàdina siciliana di cui era originaria la famiglia e dove lei trascorreva lunghe vacanze estive, le ha intitolato la biblioteca civica e recentemente ha posto una targa nel palazzetto nobiliare di famiglia. Si propone l’intitolazione a lei di uno spazio pubblico a Roma, città di nascita e di morte.
Una interprete dell'universo femminile
di Marinella Fiume
La conobbi ottantenne, ma gli anni non riuscivano a scalfire il suo fascino sottile, il suo portamento elegante, la sua bellezza mediterranea a tratti egizia. Era alta, affusolata, lieve nei movimenti come una ragazzina e come una ragazzina amava parlare più del futuro che del passato. Mi ricevette nella sua casa romana, un attico di un palazzo antico a Trastevere con una terrazza assolata piena di vasi di fichidindia, aranci, limoni e melograni, mentre un po' al riparo stavano i bonsai. Anche il grande soggiorno nel quale mi fece accomodare era arredato con mobili antichi siciliani e pezzi orientali laccati: una specie di sintesi della sua vicenda biografica. Non facemmo in tempo a fare il viaggio in Sicilia sulla scorta del libro dell’archeologo Emanuele Ciaceri, Culti e miti nella storia dell'antica Sicilia, che ci eravamo ripromesse di fare insieme.
Nacque a Roma il 21 luglio 1918 da una madre ribelle, «potente», donna-Domina, l’unica superstite di una numerosa famiglia aristocratica siciliana sopravvissuta al terremoto di Messina del 1908. Del conflitto con la figura materna, Bianca scrive nel 1943, quando aveva venticinque anni, in Romanzo postumo: «Più mi ribellavo, più le somigliavo». A quante di noi non è capitato?....
A Letojanni trascorre la giovinezza fino alla laurea in Lettere e Filosofia conseguita a Messina nel 1951, discutendo una tesi di laurea, la prima in Italia, su Carl Gustav, "Struttura e dinamica della personalità nella psicologia di C. G. Jung" con il professor Galvano della Volpe. Ma qui si reca molte volte anche in seguito a trovare l'amata sorella Renata, virtuosa del pianoforte, della cui amicizia ho avuto il bene di godere. L'attaccamento alla terra madre è visibile anche nei suoi romanzi Fuoco Grande (1959) e Il Fossile (1962).
Il lavoro del marito, il parigino Pierre Denivelle, impiegato all'Olivetti, e l'attività di traduttrice la porteranno a continui spostamenti in giro per il mondo: Parigi, New York, Estremo Oriente, e nel 1970 per tre anni si trasferisce a Hong Kong, dove istituisce il lettorato di lingua e cultura italiana presso l'Università cinese.
Nella Roma occupata dai nazisti, la Garufi partecipa alla Resistenza accanto a Fabrizio Onofri, figura carismatica del Partito comunista , ma è nella sede romana dell'Einaudi, dove nel 1945 lavora come segretaria, che incontra Cesare Pavese. Ne nasce un sodalizio spinto soprattutto dalla curiosità di Pavese sia per la psicoanalisi, che la Garufi aveva iniziato a coltivare, sia per il comune interesse per i miti greci, cari alla psicologia junghiana. L'amore non corrisposto porterà Pavese alla scrittura dei Dialoghi con Leucò, grecizzazione del nome di Bianca, "donna forte fatta di terra e di mare", che vanamente aveva sempre cercato, il cui sguardo "di salmastro e di terra" ritorna ancora nel ciclo di poesie La terra e la morte a lei dedicate. Nasce dal loro sodalizio anche il romanzo a quattro mani Fuoco grande, pubblicato nove anni dopo la morte dello scrittore, mentre Romanzo postumo è del 1943. Nel romanzo Il fossile (1962) conclude la vicenda dei protagonisti di Fuoco grande e nel 1968 la Longanesi pubblica Rosa Cardinale, altro romanzo a forte connotazione psicologica.
La corrispondenza Garufi-Pavese pubblicata nel volume Una bellissima coppia discorde a cura di Mariarosa Masoero per l’editore Olschki si estende dall' estate '45 al ' 50, infittendosi soprattutto nel '46, dopo le dimissioni di Bianca dall' incarico einaudiano (dicembre '45): qui Cesare esprime perfino la vana speranza di sposarla, dopo il fallimento sentimentale della storia con Fernanda Pivano.
Pur continuando il lavoro di traduttrice (tra gli altri Claude Levi-Strauss e Simone Beauvoir), dagli anni Settanta si dedica all'attività di psicoterapeuta junghiana, diventa vice presidente dell'Associazione Internazionale di Psicologia Analitica e membro dell'Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA), fondata nel 1961 da Ernst Bernhard, con l'intento di diffondere in Italia la conoscenza del pensiero di Carl Gustav Jung, il grande antagonista di Freud. E la Garufi ebbe la fortuna di entrare in analisi con lo stesso Bernhard.
In seguito, tra gli allievi prediletti di Bianca, vi fu Concetto Gullotta, mio compagno delle stagioni estive nella Marina di Fiumefreddo sulla costa ionico-etnea, dov’è nato, poi divenuto presidente dell'AIPA.
Ma, più che la prosa, le è cara la poesia, attività a cui si era dedicata sin dai suoi vent'anni: molte poesie sono raccolte in Se non la vita. Poesie anni 1938-1991 (Scheiwiller, 1992). La Garufi assegna infatti alla poesia il ruolo di fondamentale forma espressiva. L'incontro con James Hillman, che Bianca contribuì a far conoscere in Italia negli anni Ottanta tra la generale diffidenza di quegli anni per la psicologia archetipica, rafforza il suo interesse per la funzione immaginativa. Il suo percorso è la dimostrazione esemplare del fatto che il terapeuta, più vicino al modello ideale di “terapeuta dell’anima”, della psiche, non possa non essere un artista.
Insomma Bianca Garufi non è stata soltanto la Leucò di Cesare Pavese, un’ingiustizia che spesso avviene alle donne dei mostri sacri, è stata la più importante psicoanalista junghiana nell’Italia dell’ultimo scorcio del Novecento e l'interprete di un intreccio fecondo tra psicologia analitica e letteratura.
Nel 1974, a Roma, scrive una pièce sulla condizione della donna e sulla sua emancipazione, intitolata Femminazione, presentata alla Rai. In un articolo pubblicato nel 1977 sulla "Rivista di Psicologia Analitica" dal titolo Sul preconcetto dell'inferiorità della donna, affronta ancora il tema a lei molto caro: l'interpretazione dell'universo femminile dal punto di vista della psicanalisi e della psicologia analitica. Nel 1980 partecipa a un congresso sulla moda e il rapporto con la psiche umana a San Francisco, esponendo il tema del senso d'affetto per il corpo, perché "abbiamo solo questo per esistere e rappresentarci quindi deve essere per forza, attraverso la moda, lo specchio del nostro io".
Nell'ultimo periodo della sua vita, continua a scrivere di psicologia del profondo per le più prestigiose riviste specialistiche: la "Rivista di Psicologia Analitica", il "Jounal of Analytical Psycology", "Spring" e "Anima".
Muore a Roma il 26 maggio 2006. L’indomani della sua morte, l’estremo saluto di “Psicologia Dinamica” tocca a Luciano Perez, che scrive tra l’altro: “La avvolgeva una sorta di universalità femminile, di ewig Weibliches, di “eterno femminino”, il che si ritrova nelle sue poesie, pubblicate da Scheiwiller: “Sono stata cavalla/mucca farfalla/Sono stata una cagna/una vipera un’oca/Sono stata tutte le cose mansuete/e ampie della terra...una certezza quadrata...sono stata anche tigre/cima e voragine/strega/sacra e terribile bocca dentata. Il cielo è stato benigno con questa mia grande amica nel farla spegnere senza sofferenze e nel donarle, il giorno della cerimonia commemorativa l’indomani della morte, una giornata radiosa quali quelle che, nella sua profonda mediterraneità, amava".
Bibliografia:
Romanzo postumo, inedito, 1943
La spirale e la sfera, poema
Fuoco grande, di Cesare Pavese, Bianca Garufi, Einaudi, Torino, 1959 (2003)
Se non la vita. Poesie 1938-1991, Milano, All'Insegna del Pesce d'Oro
Il fossile, Einaudi, Torino, 1962
La fune, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1965
Rosa Cardinale, Longanesi, Milano, 1968
Traduzioni
Monique Lange, Les poissons-chats : traduzione italiana I pescigatto, Einaudi, Torino, 1960
Simone De Beauvoir, La force des choses, Gallimard, Paris 1962 : traduzione italiana La Forza Delle Cose, Einaudi, Torino, 1966
Claude Lévi-Strauss, Tristes Tropiques, Libraire Plon, Paris 1955 : traduzione italiana Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 1996
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(Licata, 1914 - 1982)
A lei sono intitolati una via a Licata e l'Istituto tecnico per Geometri della città.
Comandati da una donna
di Ester Rizzo
Ines Giganti Curella nasce a Licata il 6 ottobre 1914 da Enrico e Marianna Lo Monaco.
Studia a Roma e si laurea a pieni voti in Filologia Classica all’Università di Firenze a ventidue anni.
Insegna per pochi mesi nella città fiorentina e poi rientra a Licata iniziando, nel 1938, ad insegnare al Liceo Classico V. Linares. Proprio in questo periodo incontra Angelo Curella, podestà di Licata, letterato e al contempo uomo d’affari. Il 31 ottobre 1940 i due si sposano. Angelo Curella era più grande di lei di ben quindici anni, vedovo e con figli.
Dopo la guerra, Ines decide di intraprendere la carriera politica e il 20 aprile 1947 viene eletta all’ARS nelle liste della DC. Inizia così un percorso che la porterà ad ascoltare la gente, a coglierne le istanze, a cercare di dare sollievo e conforto alle donne più bisognose; per questo suo agire viene soprannominata “democristiana del PCI”.
Dopo i quattro anni passati a Palermo con questo incarico, nel 1952 viene eletta al Consiglio Comunale di Licata, diventandone in seguito la Sindaca: per la prima volta, e rimarrà l’unica, Licata aveva una sindaca.
Nonostante questi impegni era diventata nel frattempo madre di ben sette tra figli e figlie.
Nel 1955 viene chiamata a presiedere la Banca Popolare Sant’Angelo, diventando così la prima donna in Italia a ricoprire tale incarico. Come presidente indirizza l’attività dell’istituto di credito verso una “funzione cooperativistica e popolare” espandendo le attività della banca anche ad altri centri della provincia di Agrigento. Negli anni della sua direzione, dal 1955 al 1961, Ines seppe imprimere una svolta decisiva a questo piccolo istituto di credito locale con un processo di espansione aziendale che successivamente portò la banca ad una dimensione regionale.
Il 2 giugno 1954 viene insignita dell’onorificenza di Commendatore della Repubblica Italiana per meriti sociali. Dal 1960 al 1961 è componente della Consulta Provinciale di Agrigento e, negli stessi anni, ricopre la carica di Assessora alla Pubblica Istruzione della stessa Provincia. Era stata scelta per diventare Presidente ma, come ci riferisce la figlia Gabriella, molti fecero ostruzionismo a questa scelta, dichiarando che non gradivano “essere comandati da una donna”.
Muore il 25 giugno 1982 a Licata all’età di sessantasei anni.
La figlia Gabriella così dichiara in un’intervista: “Credo che mia madre sia stata la capostipite del femminismo, se intendiamo per femminismo l’uguaglianza, il rispetto e non la prevaricazione; grazie alle battaglie di mia madre, sono convinta che siano stati superati molti pregiudizi e molte donne siano riuscite ad inserirsi nella vita politica e sociale della provincia di Agrigento. Lei credeva in ciò che faceva e, quando i politici uomini le gridavano di starsene a casa a fare la calzetta, lei rispondeva che la lotta per il bene comune viene al di sopra di ogni cosa”.
Fonti
Giusi Carreca, Ines Giganti Curella, in Siciliane, a cura di Marinella Fiume, Emanuele Romeo Editore, 2006, pp. 630-631
Francesco Bilotta, I viaggi della memoria, in “Giornale di Sicilia” 11 novembre 1983
Lorenzo Rosso, Ines Giganti, una femminista <<ante litteram>>, in “La Sicilia” 19 settembre 2004
Intervista di Ester Rizzo alla figlia Daniela Curella
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(Fratte Rosa, PU, 1912 - Riano Flaminio, RM, 1997)
Il coraggio dimostrato da Teresa Giovannucci è stato onorato a Gerusalemme con un albero piantato nel Giardino dei Giusti. Il suo esempio di forza, decisione e determinazione ancora non ha trovato un adeguato riconoscimento fra le intitolazioni delle vie di Riano Flaminio, scenario della sua “piccola” storia che si intreccia con la “grande” storia degli eventi.
Non li avrei mai abbandonati
di Barbara Belotti
Rileggere la Storia, quella dei grandi episodi e dei grandi personaggi, attraverso la lente speciale delle vicende biografiche di persone comuni, trasforma gli avvenimenti in qualcosa di riconoscibile e comprensibile, con cui è possibile immedesimarsi e identificarsi. La vita di Teresa Giovannucci sembra essere scritta proprio per porsi la domanda: “E se fosse capitato a me, come avrei agito?”.
Questo racconto sulla “banalità del bene” si svolge a Riano Flaminio, in provincia di Roma, fra l’ottobre del 1943 e il giugno 1944, durante il terribile periodo dell’occupazione nazista.
Teresa Giovannucci vive nella cittadina laziale dalla fine del 1942, dopo essersi sposata con Pietro Antonini, un onesto muratore conosciuto a Roma; ma la sua storia comincia anni prima, a Fratte Rosa, in provincia di Pesaro-Urbino, dove nasce il 29 luglio 1912. La sua è una famiglia semplice e con pochi mezzi: già a 13 anni Teresa parte per Roma per lavorare come domestica nell’abitazione di una famiglia piemontese. Quando i suoi datori di lavoro lasciano la capitale per far rientro in Piemonte, la ragazza decide di non tornare nel paese di origine ma di cercarsi un’altra occupazione.
Si trasferisce, quindi, nella casa del rabbino Marco Vivanti che vive, con la moglie Silvia Terracina e le figlie Emma ed Enrica, in una casa vicino alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Entrata “a servizio” nell’abitazione del rabbino, ben presto Teresa diventa la terza figlia. Accolta con tenerezza e calore, trascorre in quella casa tredici anni, imparando a conoscere le tradizioni e gli usi di una religione diversa dalla sua, condividendo le giornate e gli impegni, partecipando alla vita della famiglia come una di loro.
Nel 1938, con l’emanazione dei “Provvedimenti per la difesa della razza ariana”, le vicende hanno una svolta dolorosa : alla famiglia Vivanti non è più consentito avere alle proprie dipendenze una persona “di razza ariana” e Teresa è costretta a lasciare la casa in cui è cresciuta ed è diventata una donna.
La separazione è lacerante e incomprensibile per lei che, insieme ai legami affettivi, perde anche la sicurezza economica. Il rabbino vuole aiutarla ancora una volta e riesce, grazie ad alcune conoscenze, a trovarle un impiego in una ditta che distribuisce i pasti agli operai che lavorano nel cantiere del Palazzo del Littorio . Sarà qui che conoscerà Pietro, suo futuro marito, compagno di vita, di storia e di coraggio.
Una volta sposata e trasferita a Riano Flaminio, Teresa mantiene saldi i suoi legami con la famiglia Vivanti che va a trovare ogni volta che può, portando loro in dono qualche prodotto della campagna, aiuto prezioso nelle difficoltà economiche. Il 30 settembre del 1943 Teresa è in città per sottoporsi a una visita ginecologica di controllo, dato che aspetta la sua prima figlia. Come di consueto va a trovare Marco e Silvia Vivanti nella loro abitazione, ma inutilmente bussa alla porta. Nessuno risponde, la casa è vuota. Teresa riesce a sapere che si sono tutti trasferiti non lontano, nel retrobottega di un negozio. Per gli ebrei di Roma la situazione è molto difficile. Dopo la raccolta dei 50 chili di oro da versare ai tedeschi, le loro esistenze sono sempre più precarie e in pericolo. La famiglia Vivanti ha saputo da una conoscente che in Polonia, allo stesso ricatto imposto da Kappler alla comunità ebraica di Roma, non sono seguite libertà e tranquillità, ma arresti e deportazioni.
La famiglia adottiva di Teresa si è ora allargata: Emma, la figlia più grande, si è sposata con Alessandro Dell’Ariccia ed è nata una bambina, Miriam, detta Memme Bevilatte; la seconda figlia Emma è fidanzata con il fratello di Alessandro e con loro ora vive anche la piccola Sandra Bassan, figlia di una sorella del rabbino. Sono in otto nel retrobottega, che non appare un nascondiglio sicuro, troppo vicino alla strada e in una zona centrale della città. Il profondo confine fra indifferenza e solidarietà è immediatamente superato da Teresa che capisce il precipitare degli eventi: li prega, li esorta per il loro bene a trasferirsi con lei a Riano. Pochi attimi e i membri della famiglia Vivanti – Dell’Ariccia sono in strada, con le poche cose che possono trasportare senza dare nell’occhio, seguono Teresa e partono per Riano. Per loro è la salvezza: pochi giorni dopo, il 16 ottobre ’43, nel Ghetto di Roma e in altri quartieri della città, si scatena la caccia agli ebrei. Sono oltre 1000 le persone deportate, solo 16 faranno ritorno.
La casa di Teresa e Pietro a Riano non è grande ed è disposta su due livelli; un ambiente, al piano inferiore, è collegato con l’appartamento e funge da forno per tutta la comunità del paese. In questo modo Teresa può controllare i movimenti all’esterno, tenersi pronta nel caso si avvicinino soldati tedeschi e, senza dare troppo nell’occhio, proteggere i nuovi “inquilini” alloggiati al piano superiore. Lei e il marito si sono trasferiti al piano di sotto, in un giaciglio di fortuna.
Per tutti i paesani, i nuovi arrivati sono degli sfollati giunti dal Sud, ma forse qualcuno sa o capisce. Gli otto “clandestini”diventano delle invisibili presenze: escono pochissimo, la sera o all’alba, quando non c’è molta luce; percorrono sentieri di campagna e non i vicoli di Riano; le bambine imparano a non farsi notare, a non piangere, a non ridere, a non giocare, a non parlare. Così per mesi, fino al 6 giugno 1944 quando gli Alleati arrivano in paese. La libertà riconquistata da tutti i cittadini è doppia per Teresa, Pietro, la loro figlioletta Felice e tutta la famiglia Vivanti – Dell’Ariccia. Scoprono, infatti, che per loro era pronto un mandato di cattura, con conseguente fucilazione, in data 10 giugno. Qualcuno aveva probabilmente denunciato la presenza sospetta di otto persone nella casa dei coniugi Antonini e il comando militare fascista aveva preparato la lista dei nomi di tre italiani e otto ebrei da punire.
Tutti i protagonisti della storia tornano alla vita. Le loro vicende, straordinarie, sono state vissute da Teresa come un gesto normale e scontato: “Ma insomma, cosa avrei dovuto fare, abbandonare il rabbino Vivanti e i Dell’Ariccia al loro destino di morte? Avrei forse dovuto rinnegare la famiglia che mi aveva accolto in casa come una figlia? No, non lo avrei mai fatto. Piuttosto avrei preferito morire io. Non li avrei mai abbandonati”.
Nel 1993 Teresa Giovannucci e Pietro Antonini sono definiti Giusti tra le Nazioni, un riconoscimento assegnato ai non ebrei che, a rischio della propria vita, hanno salvato l’esistenza anche a una sola persona ebrea durante lo sterminio nazista. Ogni Giusto tra le Nazioni riceve un certificato d’onore, la cittadinanza onoraria dello Stato di Israele, viene insignito di una medaglia speciale e il suo nome inciso sul Muro d’Onore eretto nel Giardino dei Giusti, nel museo Yad Vashem. Per ricordare il coraggio dei due coniugi di Riano viene messo a dimora un albero, simbolo di vita e di rinascita.
Il 30 giugno dello stesso anno, nella Sala della Protomoteca del Campidoglio a Roma, l’ambasciatore di Israele proclama ufficialmente Teresa e Pietro Giusti tra le Nazioni. Pietro è morto tre anni prima, Teresa morirà nel novembre 1997.
Fonti
Italo Arcuri, Memme Bevilacqua salvata da Teresa, Suraci editore, Fiano Romano, 2014
http://www.jfr.org/pages/rescuer-support/stories/italy-/-teresa--pietro-giovannucci
http://www.agenparl.it/articoli/news/cronaca/20140122-giorno-memoria-a-riano-rm-due-giusti-salvarono-8-ebrei-nascondendoli-per-9-mesi
http://www.yadvashem.org/yv/en/righteous/statistics.asp
http://archiviostorico.corriere.it/1994/ottobre/24/quei_romani_che_salvarono_loro_co_10_9410245178.shtml
http://www.reteindra.org/BN0299/03.htm
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(Bristol, 1818 - Pistoia, 1865)
Nessun ricordo a Pistoia, se non una stele nel giardino interno del palazzo dove visse, nel pieno centro cittadino; nel convento di Giaccherino (sulle colline appena fuori città) è visibile il suo monumento funebre.
La "pellegrina d'oltremare" che volle farsi italiana
di Laura Candiani
Louisa Grace era nata a Bristol nel 1818 da una nobile famiglia irlandese che vantava antiche origini italiane di cui era molto fiera e che coltivava con viaggi e lo studio della lingua. Dicevano addirittura che l’antenato fosse giunto da Firenze - attraverso la Normandia - nel 1016 e che da un pronipote, un certo “Gros o Gras” - viceré d’Irlanda - derivasse il cognome “Grace”. Nel ’28 si trasferì con la madre a Sorèze, in Francia, per curare la salute malferma; lì studiò arti figurative, pianoforte, lingue straniere, in particolare l’italiano. Compì vari viaggi in Italia e visitò Siena, dove conobbe il patriota padre cappuccino pistoiese Angelico Marini, seguace di Gioberti, che fu suo istitutore e guida spirituale per tutta la vita. Nel ’40 visse a Siena e poi a Pisa e pubblicò una canzone dedicata alla regina Vittoria. Nel ’41 scelse Pistoia come sua dimora, abitando nel palazzo della famiglia Puccini; gradualmente, ma con determinazione, si inserì nella vita culturale cittadina e iniziò a partecipare a cenacoli letterari, feste, celebrazioni, rallentando fino a sospendere i rapporti con la madrepatria, dove si recò raramente. Dal ’47 si trasferì in una abitazione più ampia, in via della Madonna, e aprì il suo salotto agli intellettuali, come Fucini, Vannucci, Fedi, Martini e a pittori come Fattori e Signorini. Fra questi ospiti abituali vi fu il Carducci - all’epoca giovane ed esuberante - che insegnò nel 1860 presso il Liceo classico “Forteguerri”; con lui sviluppò un bel sentimento reciproco di stima e vera amicizia destinato a durare nel tempo, anche quando il poeta si trasferì a Bologna. E’ proprio Carducci a lasciarci un ritratto fisico di Louisa, descritta nei suoi Ricordi molto pallida, «quasi di perla», con «una folta capigliatura castagna», gli occhi neri, la fronte spaziosa. Nell’omaggio la ricorda anche come abile traduttrice dall’inglese in italiano e maestra nell’uso dei versi sciolti, capace di cogliere l’essenziale. Sappiamo poi che, grazie ai suoi eclettici interessi, si dilettava nel suono del pianoforte e nella composizione di delicate romanze e amava dipingere, magari nel piccolo grazioso giardino, utilizzando svariate tecniche e scegliendo i soggetti più diversi: dal paesaggio alla natura, fino al ritratto. Fra le sue frequentazioni vanno citate anche due donne importanti nella Toscana dell’epoca: Erminia Fuà Fusinato, poetessa e patriota veneta, moglie dell’ autore della nota poesia “L’ultima ora di Venezia”, e la celebre improvvisatrice Giannina Milli con cui «condivide l’amore delle lettere e della patria» (Flego).
Come molti anglosassoni fu vicina alla causa italiana e scrisse poesie di argomento patriottico, per esempio un sonetto al Gioberti (’48), i versi Alla sacra memoria de’ martiri italiani (’47), la canzone All’Italia, il canto A Garibaldi. Non trascurò altre tematiche, come gli affetti familiari (versi in ricordo dell’amato padre sir William) e la fede (canzone A S. Caterina de’ Ricci); intanto collaborava alla “Rivista di Firenze” di Atto Vannucci, a riviste femminili con novelle e prose, a periodici con articoli sulle arti figurative. Nel 1860 lesse all’Accademia letteraria di Firenze e poi pubblicò la canzone Roma; lo stesso anno sposò il brillante ingegnere e architetto pistoiese Francesco Bartolini (più giovane di lei di 13 anni) che si era intanto occupato della ristrutturazione della casa, in vista delle nozze imminenti. Nel ’63 partecipò all’ultima edizione delle “Feste parentali” pistoiesi, istituite nel ’24 per celebrare i grandi d’Italia; a lei l’onore di ricordare con delle terzine la figura di Machiavelli. I due sposi trasformarono il loro salotto in una «fucina politica di nuove idee liberali e patriottiche, un cenacolo letterario e artistico, ma anche musicale» (Flego). Tuttavia la felicità matrimoniale di questa «buona e amabile donna» (I. del Lungo) fu breve perché non riuscì a condurre a termine una gravidanza e la cronica malattia di petto la portò alla morte a soli 47 anni. Morì a Pistoia nel 1865 e fu sepolta con un bellissimo monumento funebre nel chiostro maggiore del convento francescano di Giaccherino; sulla sua tomba un medaglione di Giovanni Duprè, una epigrafe dettata dal marito e dei versi tratti da una sua poesia. Dotata di naturale finezza, di profonda fede politico-religiosa, «nata a ogni cosa gentile/amò i fiori/ coltivò le arti belle e la letteratura»: l’amico Giuseppe Chiarini così la ricorda sulla stele marmorea nel giardino di via della Madonna.
A differenza di molti stranieri che avevano scelto nel XIX secolo di vivere in Italia, chiusi nel loro mondo, nei loro giardini, in un sogno che idealizzava le bellezze artistiche e la cultura italiana in maniera prettamente romantica e “sentimentale”, Louisa cercò invece di diventare pienamente una «patriota italiana» (come la definì lo zio George Brooke), anzi volle sentirsi pistoiese, abbandonando totalmente la lingua e le tradizioni inglesi, leggendo e scrivendo in italiano, circondandosi con molta semplicità e gentilezza dei cari amici italiani. La sua biblioteca ne è preziosa testimonianza: i classici inglesi (da Shakespeare a Scott, da Byron a Sterne), ma anche francesi e tedeschi, sono sì presenti, ma quasi tutti in traduzione italiana; poi troviamo i grandi della cultura latina e greca, ma soprattutto gli italiani: Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Alfieri, Manzoni, Leopardi, e molti altri. Un vero peccato, però, che l’intera abitazione - con tutto ciò che ancora contiene - riconosciuta “bene culturale” e sottoposta a vincolo dalla Soprintendenza, non sia visitabile e non sia ormai in buone condizioni. Ancora una dimenticanza, una colpevole indifferenza verso una figura affascinante, coinvolta attivamente nel dibattito politico e culturale di Pistoia a metà Ottocento, come altri, un tempo illustri, caduta nell’oblio.
Il marito raccolse negli anni con grande cura tutti gli innumerevoli materiali lasciati da Louisa - per lo più inediti (circa 16.565 reperti tra carte, lettere, disegni, dipinti, traduzioni, ecc.)- e li donò alla Biblioteca Marucelliana di Firenze nel 1913, un anno prima della morte, dove costituiscono un apposito fondo.
Fonti:
Fabio Flego, Documenti per le nozze di Louisa Grace, in “Storia locale”, n. 17, 2011
Fabio Flego, Louisa Grace Bartolini: un’artista amica di Carducci, in “Anglistica Pisana”, X, 1-2, 2013
Fabio Flego, Louisa Grace -Bartolini «coltivò le arti belle e la letteratura», Brigata del Leoncino, Pistoia, 2006.
Ringrazio il prof. Flego che gentilmente mi ha fatto avere copia delle sue opere, utili anche per la mia ricerca sulle donne attive nel Risorgimento, specialmente in Toscana, e nel periodo di Firenze capitale.
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(Napoli, 1887- 1972)
A lei non è intitolata alcuna via, neanche nella sua città natale.
Solo un’aula del Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli porta il suo nome.
La prima compositrice italiana
di Ester Rizzo
Nacque a Napoli il 3 marzo 1887 da Samuele e Filomena Abbamonte.
E' stata una eccellente pianista, direttrice di coro e compositrice italiana: una persona importantissima della Napoli musicale del 900. La sua carriera concertistica si è sviluppata nell'intero continente europeo.
Emilia era piccola di statura, indossava sempre tacchi altissimi ma aveva uno sguardo che tutti definivano “fiammeggiante”.
Era molto religiosa e superstiziosa e non disdegnava di fare spesso “segni di scongiuro”.
La sua dimora napoletana era sempre aperta ai musicisti, soprattutto quelli più giovani. Insieme al marito, Franco Michele Napolitano, organista e compositore, era pronta ad accoglierli e nella loro abitazione venivano eseguiti vari concerti per dilettare con la musica lo spirito.
In quella casa si trova oggi la “Fondazione Napolitano Gubitosi” costituita nel 1961, ancora luogo prezioso di consultazione, ricerca e promozione musicale per la città di Napoli.
Emilia è stata la prima donna in Italia, nel 1906, a conseguire il Diploma di Composizione a soli diciotto anni. Fu addirittura necessario chiedere al Ministro un permesso speciale perché a quei tempi era precluso alle donne di frequentare quel corso, che era il più alto e completo degli studi accademici di Musica.
Lei era già diplomata in Pianoforte e, in entrambi gli esami finali, Composizione e Pianoforte, aveva ottenuto il massimo dei voti, la lode e la menzione speciale.
Aveva studiato musica nel Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli e lì successivamente, per oltre quaranta anni, dal 1914 al 1957, fu docente titolare di Teoria e Solfeggio. Oggi, in questo Conservatorio, che è il più antico del mondo, è a lei intitolata un’aula.
Nel 1918 fu cofondatrice con Maria De Sanna ed il poeta Salvatore di Giacomo dell' "Associazione Musicale Alessandro Scarlatti", sostenuta anche da molti intellettuali dell’epoca tra i quali Matilde Serao.
Nel ricordo dei suoi allievi fu una maestra rigorosa ed esigente. Possedeva un fiuto speciale per riconoscere i giovani talenti con “le carte in regola” per diventare ottimi musicisti.
Era integerrima: si narra che bocciò un candidato che era stato raccomandato da Mussolini in persona.
È morta a Napoli il 17 gennaio 1972 ed è sepolta ad Anacapri accanto al marito, in una sorta di mausoleo decorato con canne d’organo ed una chiave di violino di bronzo.
Fonti
Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia (a cura di), Italiane, volume II, Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Pari Opportunità
http://www.treccani.it/enciclopedia/emilia-gubitosi
http://www.organcompendium.info/personaggi/comp41.html
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(Parma, 1932- Zimbabwe, 1979)
Fra i pochi toponimi dedicati alle donne nella città di Modena (39 in tutto, su oltre 1500 toponimi complessivi) spicca il nome della dottoressa Luisa Guidotti Mistrali, a cui sono state intitolate una bella strada in un nuovo quartiere residenziale e una scuola media. Le sarebbero piaciute, la strada e la scuola, per la loro semplicità, la pulizia, l’essenzialità, proprio come chi l’ha conosciuta descrive essere stata questa donna che, partita dalla provincia emiliana, visse e lavorò per 13 anni in Africa fino a trovarvi la morte
Una ragazza "non adatta"
di Roberta Pinelli
Luisa Guidotti Mistrali nacque a Parma il 17 maggio 1932, da Camillo, ingegnere capo dell’Ufficio Erariale, e dalla baronessa Anna Mistrali. Di famiglia nobile, visse per un periodo a Fabbrico (Reggio E.), dove la famiglia paterna era da secoli proprietaria del castello, e nei dintorni di Fidenza (PR).
Disordinata, esuberante, mai puntuale, anticonformista, sempre un po’ sopra le righe, era una brava studentessa, ma solo per le discipline che le piacevano: nessuno l’avrebbe mai giudicata capace di dedicarsi al prossimo né avrebbe mai scommesso sulla sua capacità di sottostare alle regole. Eppure, la sua scelta di rinunciare al titolo nobiliare e all’ingente patrimonio di famiglia avrebbe dovuto far riflettere…
Nel 1947 perse la madre, stroncata da un male incurabile, e si trasferì definitivamente a Modena, dove la zia materna Maria si prese cura della famiglia (Luisa aveva numerosi fratelli).
Entrata nell’Azione Cattolica modenese presso la parrocchia cittadina di S.Domenico, in nove anni ne scalò tutti i gradini associativi, fino a diventare consigliere diocesano, dimostrando innegabili doti di carattere e carisma di leader
.Dopo la maturità si iscrisse alla Facoltà di Medicina della locale Università, dove si laureò nel 1960, acquisendo poi nel 1962 la specializzazione in Radiologia.
Motivò fin da subito queste sue scelte con il desiderio di mettersi al servizio dei più poveri tra i poveri, anche se fu da molti considerata, per carattere, inadatta alla vita missionaria. Nel 1957 aveva conosciuto l’Associazione Femminile Medico-Missionaria, fondata tre anni prima a Roma da Adele Pignatelli (del Movimento Laureati Cattolici) sotto l’egida dell’allora cardinale Montini (futuro Papa Paolo VI). Entrata nell’Associazione, ma da laica quale sempre volle rimanere, dopo un periodo di tirocinio religioso fra Modena e Roma, nel 1966 venne destinata alle missioni nella Rhodesia (l’attuale Zimbabwe). Fu inizialmente destinata all’ospedale di Chirundu, nella Rhodesia Settentrionale, oggi Zambia, successivamente all’ospedale di Salisbury, capitale della Rhodesia, e poi in quello di Inyanga. Nel 1969 fu assegnata definitivamente all’ospedale “All Souls” di Mutoko nella provincia del Mashonaland Orientale.
A Mutoko in realtà l’ospedale consisteva in alcune capanne di paglia e fango che in pochi anni, sollecitando la generosità degli amici italiani, Luisa riuscì a trasformare in edifici in muratura, aprendo anche una scuola per infermiere e un orfanatrofio. Già nel 1971 l’ospedale era in grado di accogliere annualmente oltre 5.000 ammalati e contava più di 400 nascite all’anno.
Oltre al lavoro nell’ospedale, si recava periodicamente al lebbrosario di Mutema, dove i pazienti erano pressoché abbandonati, e nei villaggi vicini per assisterne i malati.
Luisa viveva e respirava il clima di segregazione razziale in cui il regime aveva fatto precipitare il paese, avvertendo i contraccolpi del conflitto armato che contrapponeva l’esercito regolare ai locali gruppi marxisti, rivendicando però costantemente il suo dovere di medico di prestare le cure a chi ne avesse bisogno. Nel 1976 venne arrestata dalla polizia con l’accusa di aver curato un ragazzo, presunto guerrigliero, rischiando la condanna a morte per impiccagione. Rilasciata dopo quattro giorni, fu tenuta per due mesi in libertà provvisoria vicino a Salisbury. Venne poi assolta per le forti pressioni esercitate dalla Santa Sede e dal governo italiano, ma intanto la sua vicenda aveva assunto rilevanza internazionale, anche perché il suo ospedale era rimasto per due mesi senza medico, affidato solo ad una consorella di Luisa, Caterina Savini, infermiera. Tornò quindi al lavoro come se nulla fosse, incurante dei pericoli e rifiutando di prendere ogni precauzione.
“Mi godo questa vita missionaria per cui il Signore mi ha fatto”, scriveva in Italia, “In missione la vita è semplice e piena di gioia. Il lavoro è molto e qualche volta sono stanca, ma non cambierei questa vita con nessun'altra”. La situazione a seguito della guerra divenne sempre più pericolosa e molti missionari furono costretti ad andarsene dalla Rhodesia. Luisa Guidotti subì delle minacce, ma non volle abbandonare l’ospedale “All Souls” e rimase, unica occidentale, insieme alle “sue” infermiere africane. “Ormai sei proprio una di noi, ti manca solo il colore della pelle" le dicevano con gratitudine gli abitanti.
Il 6 luglio 1979 Luisa con l'ambulanza dovette accompagnare una partoriente a rischio all’ospedale di Nyadiri; in quel periodo i viaggi erano sempre pericolosi e così andò da sola, per non mettere a repentaglio la vita di altri. Sulla via del ritorno venne fermata ad un posto di blocco dall'esercito governativo. All'improvviso, partirono due raffiche di mitra da entrambi i lati della strada e un proiettile colpì la dottoressa, recidendole l'arteria femorale e provocandone la morte per dissanguamento. Aveva da poco compiuto 47 anni.
I funerali videro la partecipazione di una folla numerosa di bianchi e di neri. Al rientro in Italia Luisa Guidotti venne sepolta nel cimitero di Fabbrico (Reggio E.).
Nel 1983 le fu intitolato l’ospedale “All Souls” di Mutoko; nel 1988 il vescovo di Modena fece traslare i suoi resti nella cattedrale cittadina e nel 2006 subentrò nella causa di canonizzazione su richiesta della diocesi di Harare (attuale nome di Salisbury). In occasione dell’apertura della causa di canonizzazione a Modena, a Luisa Guidotti Mistrali venne riconosciuto il titolo di “serva di Dio”
Dice oggi la sua amica di sempre, Lucia Orsetti, anima instancabile del processo di canonizzazione, che a 84 anni ancor oggi per un mese all’anno presta servizio nell’ospedale di Luisa Guidotti in Zimbabwe: “Per il forte temperamento, per la condizione sociale della famiglia, per la vivace intelligenza, per lo spirito libero, Luisa non era di per sé umile”.
In effetti, una ragazza “non adatta”.
Fonti
Associazione Femminile medico-missionaria (a cura di), Luisa Guidotti Mistrali. Una vita per gli altri, senza editore, senza data
Maria Cavazzuti Guerzoni (a cura di), Shona con gli shona. Lettere dall’Africa di Luisa Guidotti Mistrali, Ed. SEI, 1990
Maria Cavazzuti Guerzoni, Luisa Guidotti: una martire senza popolo e un popolo senza pace, in “Il Regno” n. 16, 1979, p.380
John Thurston Dove, Luisa Guidotti Mistrali. Un medico per l'Africa, Ed. Città Nuova 1989 (Prefazione di Oscar Luigi Scalfaro)
http://digilander.libero.it/davide.arpe/CausaCanonizzazioneGuidotti.htm
http://www.santiebeati.it/
http://www.modenaonline.info/notizie/2013/11/23/modena-luisa-guidotti-mistrali-verso-la-beatificazione
http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/emilia_romagna/modena___nonantola/00040523_Luisa_Guidotti__si_chiude_la_fase_diocesana_del_processo.html
http://www.fondazionesantiac.org/it/testimoni/servididio/mondo/guidottimistrali
http://ricerca.gelocal.it/gazzettadireggio/archivio/gazzettadireggio/2005
http://www.centroculturaleilfaro.it/guidotti-mistrali-luisa.html
http://20thcenturymartyrs.blogspot.it/2006/06/missionary-from-modena-luisa-guidotti.html
http://fondazionemarilenapesaresi.org/luisa-guidotti-hospital/ospedale-di-motoku/chi-era-luisa-guidotti/
http://www.jescom.co.zw/
http://www.nostrotempo.it/
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